Archive pour juin, 2010

San Cesario di Arles: « Va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100610

Giovedì della X settimana delle ferie delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 5,20-26
Meditazione del giorno
San Cesario di Arles (470-543), monaco e vescovo

« Va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello »

        Sapete quello che diremo a Dio nella preghiera prima di giungere al momento della comunione : « Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. » Preparatevi dunque dentro di voi a pardonare, poiché state per incontrare queste parole nella preghiera. Come le direte ? Forse non le direte ? In definitiva, questa è proprio la mia domanda : Direte queste parole, sì o no ? Detesti tuo fratello e pronunci : « rimetti a noi come noi rimettiamo. » Evito queste parole, dici. Però, allora, stai veramente pregando ?  State ben attenti, fratelli. Fra poco, pregherete : perdonate con tutto il cuore !

        Vuoi fare, tu, un processo al tuo nemico ? Fa’ prima il processo del tuo cuore. Di’ a questo tuo cuore : smetti di odiare. Ora, siccome non vuoi perdonare, la tua anima si rattrista quando le dici : « smetti di odiare ». Ebbene, rispondile :  « perché ti rattristi, anima mia ? perché su di me gemi ? Spera in Dio » (Sal 41,6). Sei a disagio, sospiri, il tuo male ti ferisce, non riusci a disfarti dell’odio. Spera in Dio, è lui il medico. E’ stato appeso alla croce per te, senza tuttavia arrivare alla vendetta. E tu, stai cercando proprio la tua vendetta, poiché è questo il senso del tuo rancore. Guarda il tuo Dio sulla croce. Soffre per te, affinché il suo sangue diventi il tuo rimedio. Vuoi vendicarti ? Guarda il Cristo crocifisso, ascoltalo pregare : « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23, 34).   
 

La Vergine cuce assisitita da tre angeli

La Vergine cuce assisitita da tre angeli dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 9 juin, 2010 |Pas de commentaires »

A.J. Heschel: Siamo testimoni della meraviglia

dal sito:

http://oratoriotirano.files.wordpress.com/2008/11/siamo_testimoni_della_meraviglia_-_aj_heschel.doc

Siamo testimoni della meraviglia
A.J. Heschel

  Pregare è accorgersi della meraviglia, riguadagnare il senso del mistero che anima tutti gli esseri, il margine divino in ciò che conseguiamo.
  La preghiera è l’umile risposta che diamo all’inconcepibile sorpresa del vivere. È tutto quel che sappiamo contraccambiare di fronte al mistero grazie al quale viviamo.
  Chi è degno di assistere al costante dispiegarsi del tempo? In mezzo al meditare delle montagne, all’umiltà dei fiori (più eloquenti di qualsiasi alfabeto), a nubi che costantemente si dissolvono per amore della Sua gloria, noi continuiamo a odiare, a perseguitare, a ferire.
  Tutt’a un tratto proviamo vergogna per il nostro disamore e i nostri reiterati lamenti, al cospetto della tacita gloria che dimora nella natura. E così imbarazzante vivere!
  Come siamo strani nel mondo, e quanto presumiamo nelle nostre azioni! C’è una sola risposta che può mantenerci in vita: la gratitudine. Siamo testimoni della meraviglia, per un dono che ci è stato fatto senza che da parte nostra lo si sia meritato, cioè il diritto di servire, di render culto, di portare a compimento. E la gratitudine che rende grande l’ anima.

A.J. Heschel
L’uomo alla ricerca di Dio
Qiqajon, Bose

(www.monasterodibose.it)

Publié dans:ebraismo, preghiera (sulla) |on 9 juin, 2010 |Pas de commentaires »

Padre Estéphan Nehmé, il “discepolo della terra”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22780?l=italian

Padre Estéphan Nehmé, il “discepolo della terra”

Verrà beatificato il 27 giugno a Kfifan, in Libano

ROMA, martedì, 8 giugno 2010 (ZENIT.org).- Il venerabile Estéphan (al secolo Youssef) Nehmé, religioso professo dell’Ordine Libanese dei Maroniti, era un uomo di preghiera e un “discepolo della terra”, per il quale era una scuola di santità e una fonte di spiritualità.

Domenica 27 giugno, a Kfifan, in Libano, sarà dichiarato beato durante un rito presieduto dall’Arcivescovo Angelo Amato, S.D.B., prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e rappresentante del Santo Padre.

Il nuovo beato nacque nel marzo 1889 nel villaggio di Léhféd-Jbeil, ultimogenito di una famiglia di sette figli. Frequentò la scuola di Notre-Dame des Grâces retta dall’Ordine Libanese Maronita, dove apprese a leggere e a scrivere.

Secondo un aneddotto un giorno, mentre Youssef era nei campi intento al pascolo degli animali della fattoria paterna, vide un piccolo tasso entrare in una grotta scavata nel terreno. Notata la presenza di tracce d’acqua, iniziò a scavare e vide l’acqua zampillare dal fondo della grotta, fino a divenire una sorgente. Oggi la sorgente è conosciuta da tutti come la “fonte del tasso”.

Nel 1905, due anni dopo la morte del padre, entrò nel noviziato dell’Ordine Libanese Maronita, presso il monastero dei Santi Cipriano e Giustina di Kfifan; il 23 agosto 1907 pronunciò i voti monastici con il nome di Estephan, il santo patrono del suo villaggio natale.

Da religioso converso, fra Estephan trascorse la sua vita in diversi monasteri dell’Ordine, lavorando nei campi e nei giardini e dedicandosi ad opere di falegnameria e di costruzione. Sempre ed ovunque sapeva trasmettere ai suoi confratelli la Buona Novella, grazie ad un’intensa vita di preghiera, nella fedeltà alle costituzioni e alla spiritualità dell’Ordine.

Inoltre, con la generosità del suo animo, la prudenza del giudizio, la compassione per le difficoltà altrui, seppe guadagnarsi il rispetto e l’amore dei suoi collaboratori.

Nella spiritualità di fra Estephan emerge la consapevolezza della presenza costante del Signore in ogni attimo della sua vita, riassunta dalle parole spesso ripetute: “Dio mi vede”.

Nelle avversità della prima guerra mondiale, seppe portare la croce, rinunciando a se stesso nella sequela fiduciosa e coraggiosa del Maestro; tutta la sua vita può definirsi un grande atto d’amore, un dono totale dell’intero suo essere a Dio ed un pellegrinaggio ininterrotto verso il cielo.

Morì il 30 agosto 1938, all’età di 49 anni e fu sepolto nel monastero di Kfifan, dove il suo corpo si conserva incorrotto.

Il Papa Benedetto XVI ne ha riconosciuto le virtù eroiche il 17 dicembre 2007.

Dopo i santi Charbel, Rafqa e Nimatullah, è il quarto figlio dell’Ordine Libanese Maronita ad essere proclamato beato.

Publié dans:S - BEATI |on 9 juin, 2010 |Pas de commentaires »

L’AMORE, FRUTTO DELLO SPIRITO, E’ FONTE DI MITEZZA

dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/2002-2003/L%27amore_frutto_dello_Spirito_%E8_fonte_di_mitezza.html

L’AMORE, FRUTTO DELLO SPIRITO, E’ FONTE DI MITEZZA
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Una cosa sorprendente appare subito appena si inizia a indagare la storia dei termini “mitezza” (in greco: praútes) e “mite” (praús). Già nella letteratura greca i termini, riferiti alle persone, non indicano un comportamento passivo, bensì l’accettazione tranquilla e volontaria di un particolare destino o dell’ingiustizia umana. Per questo, i primi traduttori della Bibbia, quelli che ci hanno dato la versione dei LXX, si sono trovati subito a loro agio per rendere il significato del termine ebraico ’anaw, plurale: ’anawim. Inizialmente questo termine indicava colui che si trovava in una condizione bassa, subordinata, colui che doveva guadagnarsi il pane al servizio di altri e tante volte era costretto a sopportare con pazienza un destino di ingiustizia e di soprusi.
Più tardi però divennero “i poveri di Dio” i depositari per eccellenza della promessa divina. Essi erano ben consapevoli di godere del favore divino per il semplice motivo che erano umiliati dai potenti. Così che la loro sopportazione muta, paziente e serena del duro fatto dell’esilio, accettato senza mormorazioni o ribellioni o scoppi d’ira, divenne il segno della pietà, un segno fino allora sconosciuto. Di qui anche la netta distinzione dei termini “mitezza” e “mite” dall’uso linguistico del greco profano. La pacatezza, la mansuetudine, la mitezza dell’Antico Testamento sono radicate in Dio. Il mite infatti gode di un’incrollabile speranza. Un giorno, Dio darà il paese agli umili, ai sottomessi, cioè a coloro che godono l’attesa della salvezza.
C’è un salmo, il 37 (36), che su questo tema ha fatto fortuna e solo per una frase del v. 11: “Gli ’anawim erediteranno la terra”. Essa viene citata, seguendo la traduzione dei LXX, da Mt 5,5: “I praeîs = miti erediteranno la terra”. Questo testo ci è di grande aiuto per riflettere sul tema della mitezza nell’Antico e Nuovo Testamento e per fissare allo stesso tempo lo sguardo su Gesù. Nell’Antico Testamento il “mite” per eccellenza è Mosè (Nm 12,3); nel Nuovo è Gesù.

I miti erediteranno la terra

Gesù ha fatto precedere questa frase da un “beati”. Non si tratta di un semplice augurio, ma di una realtà. Per Gesù, infatti, i destinatari dell’augurio sono già “beati”, perché sono nella situazione giusta, nella corretta apertura a Dio. L’abbiamo già detto chi sono gli ’anawim. Ripetiamolo con altre parole: sono coloro che sanno conservare intatto il loro robusto ottimismo della fede anche in mezzo alle apparenti contraddizioni della storia e agli apparenti scacchi temporanei subiti dalla giustizia di Dio. Essi sono coloro che sperano in Dio; hanno un atteggiamento di speranza e di fiducia totale in Dio, perché sono certi che Dio non può deludere. Anche quando l’oscurità copre tutto il cielo della propria esistenza, essi ripetono: “Spera nel Signore”. E per questa loro situazione che sono “beati”.
Ma torniamo alle beatitudini evangeliche secondo Matteo. La prima è “Beati i poveri in spirito”, la seconda è “Beati i miti”. Nei LXX sia la parola “poveri”, sia il termine “miti”, traducono la stessa parola ebraica: ’anawim. È logico che Gesù abbia usato questo termine della sua lingua, o quello corrispondente in aramaico, e che lo abbia usato una volta sola e nel suo più alto senso religioso. È probabile che Gesù abbia semplicemente detto: “Beati gli ’anawim…”.
Ora, come rendere bene in greco la ricchezza religiosa della parola ’anawim usata da Gesù? Questo il problema di Matteo. E lo ha risolto perfettamente scrivendo: “Beati i poveri in spirito (personalmente tradurrei: i poveri di fronte a Dio)… Beati i miti…”. Le espressioni “in spirito” o “di fronte a Dio” dicono che non si tratta solo di “poveri”, di ’anawim considerati unicamente nella loro situazione di povertà, ma precisano il “come” essi vivono questa loro situazione: la vivono in Dio, affidandosi a lui. Questo era già un po’ espresso nel senso religioso della parola ’anawim = povero. Ma per precisarne ancor meglio il significato, Matteo ha trovato nei LXX la parola greca “praeîs = miti”, che possiamo anche rendere con “non violenti”. Questo non significa che rimangano un “proletariato” passivo di fronte alle ingiustizie umane; essi sono altamente attivi e, uniti nel Signore, vivono il “Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia”, cioè coloro che desiderano ardentemente che si compia la volontà di Dio, il difensore dei poveri, contro coloro che li opprimono.
Scegliendo di vivere la loro situazione di povertà nella “non violenza” essi imitano Gesù che ha detto loro: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Con queste parole Gesù rivela la sua sollecitudine nei riguardi di quanti sono scoraggiati a causa del peso eccessivo (“giogo”) delle osservanze legali e ritualistiche imposte loro dai detentori del potere per ottenere la salvezza e dice loro: “Prendete il mio giogo…”. Per Gesù il “giogo” è fare la volontà del Padre, e il viverlo nella luce del Padre, cioè come figli, nella non violenza e nell’umiltà, è un giogo soave, dolce, sopportabile.
Ma come in concreto lo vive Gesù? Gesù sente attorno a sé il rifiuto delle guide del popolo, anzi sa che hanno già deciso di farlo morire (Mt 12,14). Ebbene, egli sceglie liberamente di continuare la sua missione nella mitezza e nell’umiltà: non discute, “non grida”, “non spezza la canna incrinata, né spegne il lucignolo fumigante” (Mt 12,19-20) e, pieno di compassione per i diseredati, ricorda volentieri che Dio “vuole la misericordia e non il sacrificio” (Mt 9,13; 12,7). La sua mitezza appare come espressione del suo amore, della sua pazienza, delicatamente attenta nei riguardi altrui. Anche quando entra trionfalmente a Gerusalemme, egli compie la profezia di Zc 9,9: “Ecco il tuo re, viene a te mite…”. Come re salvatore si presenta a Gerusalemme in atteggiamento libero da ogni idea di guerra o prepotenza. E nella sua passione ci lascerà l’esempio più espressivo della sua mitezza, vissuta nella non violenza: per libera scelta lascia che camminino sul suo sangue, ma non camminerà sul sangue degli altri; rifiuterà l’uso della spada; “oltraggiato non risponde con oltraggi; soffrendo non minaccia vendetta, ma rimette la sua causa a colui che giudica con giustizia”, cioè si affida totalmente al Padre (1 Pt 2,23). Egli è il vero ’anaw; nessuno come lui ha vissuto la mitezza, e l’ha vissuta sempre nella certezza che alla fine avrebbe trionfato la giustizia, cioè la volontà di Dio (Mt 12,20). E ha vinto! Ora, dopo quanto abbiamo detto, siamo in grado di comprendere tutte le esortazioni alla mitezza che risuonano nelle lettere degli Apostoli. L’invito è di non perdere mai di vista Gesù.

Scegliere di essere “miti”

Paolo è in ciò un autorevole modello. C’era tensione tra lui e i cristiani di Corinto che si erano lasciati ingannare dai “superapostoli”, colmi e gonfi di sapienza, una dote assai stimata dai Corinzi. Paolo, invece, si era sempre presentato loro come un “debole”, come uno che non voleva fare sfoggio di saggezza umana; il suo linguaggio non era quello di un dotto maestro, e i Corinzi stavano perdendo, o avevano perso, la loro stima per Paolo. A Paolo non interessa questo; a lui interessa vivere il Vangelo in modo genuino. Ma come riguadagnarsi i cristiani di Corinto? Sa che forse dovrà difendersi usando parole dure e autorevoli, non solo nella lettera (nella quale a volte lo fa), ma anche quando sarà con loro. È una cosa che gli ripugna. Per questo inizia il suo discorso dicendo: “Vi esorto per la mitezza e clemenza di Cristo…”. Questo riferimento a Cristo è significativo: accusato di debolezza, fa appello a Gesù che ha scelto di vivere la sua missione nella mitezza, che ha voluto essere “servo”. Ora l’apostolo dev’essere a immagine di Gesù. Il potere dell’apostolo non si può quindi esercitare con dispotismo e altezzosità: deve ispirarsi all’umanità di Gesù di Nazaret. Questo vuole Paolo. Per questo chiede ai Corinzi di non obbligarlo a essere “duro” quando sarà con loro, perché egli ha deciso di continuare a vivere nella mitezza, di continuare a essere mite, dolce, gentile, affettuoso con i Corinzi; anzi giunge a dire: “Consumerò me stesso per le vostre anime… Davanti a voi voglio parlare in Cristo e tutto, carissimi, per la vostra edificazione” (2 Cor 12,15.19). Il “carissimi” dice che egli continua ad amarli in Cristo e vuole essere sempre davanti a loro come uno che imita il Signore. Egli vuole vivere pienamente quanto ha insegnato ai cristiani della Galazia: “Camminate secondo lo Spirito”, il cui frutto è l’Amore, fonte di “mitezza”. Ora, chi vive secondo lo Spirito, di fronte a un fratello nella fede, sorpreso in qualche colpa, sentirà certamente il dovere della correzione fraterna che deve però farsi con dolcezza; letteralmente: “con spirito di mitezza”. La mitezza si manifesta nel tratto gentile, dolce, pacato, che si oppone in modo radicale al tratto rude, rozzo, irritabile, irascibile e aspro. Paolo sa che non è facile e indica a chi deve correggere altri nella comunità un mezzo per riuscirvi: “Vigila su te stesso per non cadere anche tu in tentazione” (Gal 6,1). L’esistenza secondo lo Spirito non è all’insegna della sicurezza altezzosa della salvezza, ma del timore e del tremore (vedi Fil 2,12).

Testimoniare la mitezza

È bello quanto scrive a Timoteo, un suo collaboratore nel ministero. Lo chiama: “Uomo di Dio”, e gli dice: “Cerca sempre la giustizia, la pietà, la fedeltà, l’amore, la pazienza, la mitezza (altre traduzioni invece di «mitezza» hanno bontà, dolcezza, delicatezza, che sono espressioni della mitezza)”. Così in 1 Tm 6,11, mentre in 2 Tm 2,24 dice: “Un servo del Signore non dev’essere litigioso, ma gentile con tutti, capace di insegnare e tollerante. Deve saper riprendere con mitezza (o: “dolcezza”) quelli che si oppongono, nella speranza che Dio voglia loro concedere di convertirsi e riconoscano la verità e sfuggano al laccio del diavolo”. Scegliere la “mitezza” come mezzo per convertire altri. Di fronte alla “dolcezza” del tratto, alla gentilezza, chi resiste? È con la mitezza che si guadagnano altri alla fede.
Quanto Paolo dice a Timoteo vale per ogni cristiano come appare dal fatto che per Paolo la “mitezza” è legata alla vocazione (Ef 4,12) ed elezione divina (Col 3,12). Ora, per vivere la propria vocazione bisogna comportarsi con umiltà, mitezza, pazienza; bisogna avere sentimenti di misericordia, di bontà, sopportandosi e perdonandosi a vicenda e questo per conservare l’unità dello Spirito nel vincolo della pace.
Bellissimo è pure quanto si legge in 1 Pt 3,13-17. Pietro esorta i cristiani a rispondere sempre, anche quando potrebbero essere irritati e indisposti per l’ingiustizia subita, con mitezza e gentilezza sia alle autorità sia a chiunque chieda loro conto della loro fede.

Questi testi sono interessanti per tre motivi.

I – la parola “mitezza” è accompagnata da tanti altri termini che la esprimono sotto altre forme; tutte, però, sono espressioni dell’amore.
II – la mitezza è una libera scelta, è rinuncia volontaria a usare parole rudi e gesti violenti contro chi ci tratta male. Solo così, infatti, la si può vivere nella speranza della propria salvezza e della salvezza di tutti, anche di coloro che ci ostacolano. Così è vissuto Gesù.
III – Nel cristiano ha la capacità di vivere quanto si è detto perché “l’amore di Dio è stato effuso nel suo cuore mediante lo Spirito Santo che gli è stato dato… e perché l’amore è frutto dell’agire dello Spirito” (Rm 5,5; Gal 5,22). Quindi l’esortazione fondamentale è: “Camminate secondo lo Spirito” e l’amore di Dio che è stato effuso nei nostri cuori irraggerà tutti i suoi raggi e poco alla volta apparirà in tutta la sua bellezza, la vera fisionomia del cristiano.

Il cammino da compiere non è facile, ma è bello perché ci rende costruttori di comunità, costruttori di un mondo nuovo, colmo di fraternità. Questo mondo sarà certamente un dono di Dio, ma Dio ci chiama a collaborare con Lui imitando il Figlio suo, Cristo Gesù. Chi vive la mitezza è un testimone vero del Signore e con Lui cammina sicuro verso la vittoria, perché un giorno la volontà salvifica di Dio si manifesterà in tutta la sua bellezza.

Preghiamo

Signore Gesù, mite e umile di cuore, non hai mai voluto importi nella tua vita; ti sei limitato ad avvicinarti agli oppressi e li hai sostenuti nella loro speranza di giustizia, hai indicato loro come vivere il rifiuto totale di ogni violenza per cercare la giustizia, affidandosi unicamente a Dio. Ci hai insegnato che la strada della violenza non paga, che la spada non risolve nulla, anzi peggiora tutto e scava fossati immensi tra le persone, rendendo impossibile la via della concordia. Signore, fa’ che la tua mite immagine si imprima nel nostro cuore e donaci la forza di rinunciare sempre e volontariamente a ogni gesto rude, irascibile, ostile verso gli altri. Fa’ che, fissando lo sguardo su di Te, riusciamo nello sforzo quotidiano, ad assumere la vera fisionomia di ogni tuo discepolo. Insegnaci la dolcezza, la gentilezza, l’amabilità, la soavità nei gesti e nelle parole. Allora, riusciremo ad essere veri testimoni tuoi, perché saremo in sintonia con i tuoi sentimenti. Grazie, Signore, del tuo esempio. Amen!

 Mario Galizzi SDB

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buona notte

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Catechismo della Chiesa Cattolica : L’adempimento della Legge

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100609

Mercoledì della X settimana delle ferie delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 5,17-19
Meditazione del giorno
Catechismo della Chiesa Cattolica – Copyright © Libreria Editrice Vaticana
§ 577-581

L’adempimento della Legge

        Gesù ha fatto una solenne precisazione all’inizio del discorso della montagna, quando ha presentato, alla luce della grazia della Nuova Alleanza, la Legge data da Dio sul Sinai al momento della prima Alleanza: « Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento»…

        Gesù, il Messia d’Israele, il più grande quindi nel regno dei cieli, aveva il dovere di osservare la Legge, praticandola nella sua integralità fin nei minimi precetti, secondo le sue stesse parole. Ed è anche il solo che l’abbia potuto fare perfettamente… L’adempimento perfetto della Legge poteva essere soltanto opera del divino Legislatore nato sotto la Legge (Gal 4,4) nella Persona del Figlio. Con Gesù, la Legge non appare più incisa su tavole di pietra ma scritta « nell’animo » e nel « cuore » (Ger 31,33) del Servo che, proclamando « il diritto con fermezza » (Is 42,3), diventa l’« alleanza del popolo » (Is 42,6). Gesù compie la Legge fino a prendere su di sé « la maledizione della Legge » (Gal 3,13), in cui erano incorsi coloro che non erano rimasti fedeli « a tutte le cose scritte nel libro della Legge »(Gal 3,13); infatti la morte di Cristo intervenne « per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima Alleanza » (Eb 9,15).

        Gesù « insegnava come uno che ha autorità e non come i loro scribi » (Mt 7,29). In lui, è la Parola stessa di Dio, risuonata sul Sinai per dare a Mosè la Legge scritta, a farsi di nuovo sentire sul monte delle beatitudini. Questa Parola non abolisce la Legge, ma la porta a compimento dandone in maniera divina l’interpretazione definitiva : «Avete inteso che fu detto agli antichi …; ma io vi dico » (Mt 5,33-34). Con questa stessa autorità divina, Gesù sconfessa certe « tradizioni degli uomini » ai farisei i quali « annullano la parola di Dio» (Mc 7,8.13).

Sant’Efem, 9 giugno (mf)

Sant'Efem, 9 giugno (mf) dans immagini sacre

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9 giugno 2010 : Sant’ Efrem – memoria facoltativa

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/206.html

9 giugno 2010

Sant’ Efrem – memoria facoltativa

Diacono e Dottore della Chiesa

BIOGRAFIA
Nisibi, attuale Nizip in Turchia, (c.306), diacono della Chiesa siriaca e creatore di nuovi inni liturgici, ebbe tanta fama nell’Oriente cristiano che fu chiamato cantore di Cristo e della Vergine. Attinse dall’esperienza mistica la sua straordinaria sensibilità di scrittore e di poeta. Fu anche chiamato “cetra dello Spirito Santo”. Secondo il “Chronicon Edessenum” (540) morì a Edessa, Siria (attualmente Turchia), il 9 giugno 373. Il Martirologio Romano lo presenta così: “Ad Edessa, in Mesopotamia, sant’Efrem, diacono edesseno e confessore, il quale, dopo molte fatiche sostenute per la fede di Cristo, illustre per dottrina e santità, sotto l’Imperatore Valente, si riposò in Dio, e dal Papa Benedetto decimoquinto fu proclamato Dottore della Chiesa universale.

DAGLI SCRITTI…
Dai «Discorsi» di sant’Efrem, diacono
Fà risplendere, o Signore, il giorno luminoso della tua scienza e scaccia la notte tenebrosa dalla nostra mente, perché sia illuminata e ti serva nella novità della purezza. Il sorgere del sole segna l’inizio dell’attività dei mortali. Fà, o Signore, che perduri nelle nostre menti il giorno che non conosce la fine. Donaci di vedere in noi stessi la vita della risurrezione e fà che nulla distolga il nostro spirito dalle tue gioie. Imprimi in noi, o Signore, il segno di questo giorno che non trae inizio dal sole, infondendoci una costante ricerca di te.
Ogni giorno noi ti accogliamo nei tuoi sacramenti e ti riceviamo nel nostro cuore. Facci degni di sperimentare nella nostra persona la risurrezione che speriamo. Con la grazia del battesimo abbiamo nascosto nel nostro essere il tuo tesoro, quel tesoro che si accresce alla mensa dei tuoi sacramenti. Concedici di gioire della tua grazia. Noi possediamo in noi stessi il tuo memoriale che attingiamo alla tua mensa spirituale. Fà che lo realizziamo pienamente nella rinascita eterna.
Quella bellezza spirituale, che la tua immortale volontà suscita anche nella condizione umana, ci faccia comprendere quanto sia grande la nostra dignità.
La tua crocifissione, o nostro Salvatore, pose fine alla vita del corpo. Concedici di crocifiggere spiritualmente la nostra anima. La tua risurrezione, o Gesù, faccia crescere in noi l’uomo spirituale. Il contatto con i tuoi misteri sia per noi come uno specchio che ce lo faccia conoscere.
Nel tuo piano divino, o nostro Salvatore, é configurato tutto il mondo della nostra salvezza. Concedici di seguirlo come uomini spirituali. Non privare, o Signore, la nostra mente della tua rivelazione divina e non togliere alle nostre membra il calore della tua comprensione. La natura mortale del nostro corpo ci conduce alla morte. Riversa su di noi il tuo amore divino, che cancelli dal nostro cuore gli effetti della mortalità. Concedici, o Signore, di affrettarci verso la nostra patria celeste e, come Mosé sul Sinai, fà che la possediamo per mezzo della tua rivelazione.

MARTIN BUBER: RITORNO A SE STESSI

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/

MARTIN BUBER

RITORNO A SE STESSI

Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest’uomo si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: « Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». « Credete voi – rispose il Rav – che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui? ». « Sì, lo credo », disse. « Ebbene – riprese lo zaddik – in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’ ».

All’udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: « Bravo! »; ma il cuore gli tremava.

Qual è il senso di questa storia?

A prima vista ci ricorda quei racconti talmudici in cui un romano o un altro pagano consulta un saggio ebreo a proposito di un passo della Bibbia per mettere in luce una pretesa contraddizione nell’insegnamento di Israele, e riceve una risposta che dimostra l’assenza di contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con l’aggiunta a volte di un ammonimento a carattere personale.

Ma non tardiamo a notare una differenza significativa tra i racconti del Talmud e questo chassidico, anche se questa differenza appare all’inizio più importante di quanto sia in realtà. La risposta infatti viene data su un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda.

Il comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nelle credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli ebrei vedono l’Essere onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla. Dio cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e chiede dov’è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi da lui: dunque Dio non è l’onnisciente.

Ma, invece di spiegare il passo biblico e risolvere l’apparente contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di partenza, utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un rimprovero per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua mancanza di serietà, la sua superficialità e l’assenza di senso di responsabilità nella sua anima. La domanda oggettiva – che, in fondo, per quanto qui sia posta senza secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma di controversia – riceve una risposta personale; anzi, invece di una risposta, ne risulta un ammonimento a carattere personale. Di queste repliche talmudiche non è rimasto apparentemente altro che l’ammonimento che a volte le accompagnava.

Ciò nonostante, esaminiamo il racconto più da vicino. Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: « Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’ ». Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata dell’interrogativo posto da Dio: « Dove sei? », sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell’uomo una reazione suscitabile per l’appunto solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l’uomo e che l’uomo da essa si lasci colpire al cuore.

Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento « davanti al volto di Dio », l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. È una situazione caratterizzabile con estrema precisione: l’uomo non può sfuggire all’occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l’uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori.

A questo punto tutto dipende dal fatto che l’uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all’orecchio, a chiunque « il cuore tremerà », proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell’uomo; è « la voce di un silenzio simile a un soffio », ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell’uomo non può diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: « Mi sono nascosto ». Qui inizia il cammino dell’uomo.

Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole. Quando il Rabbi di Gher arrivò, nell’interpretazione della Scrittura, alle parole rivolte da Giacobbe al suo servo – « Quando ti incontrerà Esaù, mio fratello, e ti domanderà: ‘Tu, di chi sei? Dove vai? Di chi è il gregge che ti precede?’ » – disse ai suoi discepoli: « Osservate come le domande di Esaù assomiglino a questa massima dei nostri saggi: ‘Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto’. Prestate molta attenzione, perché chi considera queste tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame: che in lui non sia Esaù a porre le domande. Anche Esaù infatti può porre domande su queste tre cose, sprofondando l’uomo nell’afflizione ».

Esiste una domanda demoniaca, una falsa domanda che scimmiotta la domanda di Dio, la domanda della verità. La si riconosce dal fatto che non si ferma al « Dove sei? » ma prosegue: « Nessun cammino può farti uscire dal vicolo cieco in cui ti sei smarrito ». Esiste un ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l’uomo al ravvedimento e metterlo sul cammino, gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui l’uomo riesce a continuare a vivere solo in virtù dell’orgoglio demoniaco, dell’orgoglio della perversione.

RITORNO A SE STESSI

Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest’uomo si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: « Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». « Credete voi – rispose il Rav – che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui? ». « Sì, lo credo », disse. « Ebbene – riprese lo zaddik – in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’ ».

All’udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: « Bravo! »; ma il cuore gli tremava.

Qual è il senso di questa storia?

A prima vista ci ricorda quei racconti talmudici in cui un romano o un altro pagano consulta un saggio ebreo a proposito di un passo della Bibbia per mettere in luce una pretesa contraddizione nell’insegnamento di Israele, e riceve una risposta che dimostra l’assenza di contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con l’aggiunta a volte di un ammonimento a carattere personale.

Ma non tardiamo a notare una differenza significativa tra i racconti del Talmud e questo chassidico, anche se questa differenza appare all’inizio più importante di quanto sia in realtà. La risposta infatti viene data su un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda.

Il comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nelle credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli ebrei vedono l’Essere onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla. Dio cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e chiede dov’è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi da lui: dunque Dio non è l’onnisciente.

Ma, invece di spiegare il passo biblico e risolvere l’apparente contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di partenza, utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un rimprovero per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua mancanza di serietà, la sua superficialità e l’assenza di senso di responsabilità nella sua anima. La domanda oggettiva – che, in fondo, per quanto qui sia posta senza secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma di controversia – riceve una risposta personale; anzi, invece di una risposta, ne risulta un ammonimento a carattere personale. Di queste repliche talmudiche non è rimasto apparentemente altro che l’ammonimento che a volte le accompagnava.

Ciò nonostante, esaminiamo il racconto più da vicino. Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: « Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’ ». Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata dell’interrogativo posto da Dio: « Dove sei? », sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell’uomo una reazione suscitabile per l’appunto solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l’uomo e che l’uomo da essa si lasci colpire al cuore.

Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento « davanti al volto di Dio », l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. È una situazione caratterizzabile con estrema precisione: l’uomo non può sfuggire all’occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l’uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori.

A questo punto tutto dipende dal fatto che l’uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all’orecchio, a chiunque « il cuore tremerà », proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell’uomo; è « la voce di un silenzio simile a un soffio », ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell’uomo non può diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: « Mi sono nascosto ». Qui inizia il cammino dell’uomo.

Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole. Quando il Rabbi di Gher arrivò, nell’interpretazione della Scrittura, alle parole rivolte da Giacobbe al suo servo – « Quando ti incontrerà Esaù, mio fratello, e ti domanderà: ‘Tu, di chi sei? Dove vai? Di chi è il gregge che ti precede?’ » – disse ai suoi discepoli: « Osservate come le domande di Esaù assomiglino a questa massima dei nostri saggi: ‘Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto’. Prestate molta attenzione, perché chi considera queste tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame: che in lui non sia Esaù a porre le domande. Anche Esaù infatti può porre domande su queste tre cose, sprofondando l’uomo nell’afflizione ».

Esiste una domanda demoniaca, una falsa domanda che scimmiotta la domanda di Dio, la domanda della verità. La si riconosce dal fatto che non si ferma al « Dove sei? » ma prosegue: « Nessun cammino può farti uscire dal vicolo cieco in cui ti sei smarrito ». Esiste un ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l’uomo al ravvedimento e metterlo sul cammino, gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui l’uomo riesce a continuare a vivere solo in virtù dell’orgoglio demoniaco, dell’orgoglio della perversione.

MARTIN BUBER

RITORNO A SE STESSI

Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest’uomo si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: « Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». « Credete voi – rispose il Rav – che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui? ». « Sì, lo credo », disse. « Ebbene – riprese lo zaddik – in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’ ».

All’udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: « Bravo! »; ma il cuore gli tremava.

Qual è il senso di questa storia?

A prima vista ci ricorda quei racconti talmudici in cui un romano o un altro pagano consulta un saggio ebreo a proposito di un passo della Bibbia per mettere in luce una pretesa contraddizione nell’insegnamento di Israele, e riceve una risposta che dimostra l’assenza di contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con l’aggiunta a volte di un ammonimento a carattere personale.

Ma non tardiamo a notare una differenza significativa tra i racconti del Talmud e questo chassidico, anche se questa differenza appare all’inizio più importante di quanto sia in realtà. La risposta infatti viene data su un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda.

Il comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nelle credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli ebrei vedono l’Essere onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla. Dio cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e chiede dov’è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi da lui: dunque Dio non è l’onnisciente.

Ma, invece di spiegare il passo biblico e risolvere l’apparente contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di partenza, utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un rimprovero per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua mancanza di serietà, la sua superficialità e l’assenza di senso di responsabilità nella sua anima. La domanda oggettiva – che, in fondo, per quanto qui sia posta senza secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma di controversia – riceve una risposta personale; anzi, invece di una risposta, ne risulta un ammonimento a carattere personale. Di queste repliche talmudiche non è rimasto apparentemente altro che l’ammonimento che a volte le accompagnava.

Ciò nonostante, esaminiamo il racconto più da vicino. Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: « Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’ ». Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata dell’interrogativo posto da Dio: « Dove sei? », sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell’uomo una reazione suscitabile per l’appunto solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l’uomo e che l’uomo da essa si lasci colpire al cuore.

Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento « davanti al volto di Dio », l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. È una situazione caratterizzabile con estrema precisione: l’uomo non può sfuggire all’occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l’uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori.

A questo punto tutto dipende dal fatto che l’uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all’orecchio, a chiunque « il cuore tremerà », proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell’uomo; è « la voce di un silenzio simile a un soffio », ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell’uomo non può diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: « Mi sono nascosto ». Qui inizia il cammino dell’uomo.

Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole. Quando il Rabbi di Gher arrivò, nell’interpretazione della Scrittura, alle parole rivolte da Giacobbe al suo servo – « Quando ti incontrerà Esaù, mio fratello, e ti domanderà: ‘Tu, di chi sei? Dove vai? Di chi è il gregge che ti precede?’ » – disse ai suoi discepoli: « Osservate come le domande di Esaù assomiglino a questa massima dei nostri saggi: ‘Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto’. Prestate molta attenzione, perché chi considera queste tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame: che in lui non sia Esaù a porre le domande. Anche Esaù infatti può porre domande su queste tre cose, sprofondando l’uomo nell’afflizione ».

Esiste una domanda demoniaca, una falsa domanda che scimmiotta la domanda di Dio, la domanda della verità. La si riconosce dal fatto che non si ferma al « Dove sei? » ma prosegue: « Nessun cammino può farti uscire dal vicolo cieco in cui ti sei smarrito ». Esiste un ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l’uomo al ravvedimento e metterlo sul cammino, gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui l’uomo riesce a continuare a vivere solo in virtù dell’orgoglio demoniaco, dell’orgoglio della perversione.

Publié dans:ebraismo |on 8 juin, 2010 |Pas de commentaires »
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