Archive pour le 19 juin, 2010

Mat-16,13_Peters_Confession_Fondation_Eglise

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Omelia (20-06-2010) : Per trovare bisogna perdere

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/18723.html

Omelia (20-06-2010) 
don Marco Pedron

Per trovare bisogna perdere

Questo brano segue quello di domenica scorsa della moltiplicazione dei pani. Siamo nel vangelo di Lc e gli apostoli sono alla scuola di Gesù. Un po’ lo seguono, lo ascoltano e imparano; un po’ fanno anche loro le prime esperienze tra la gente (9,1-6). Gesù è il maestro, ma lo scopo di Gesù è di fare degli apostoli degli altri maestri. Lo scopo di Gesù non è di fare seguaci, proseliti, fedeli dipendenti dalle sue labbra: Gesù vuole che le persone siano adulte, autonome, loro stesse dei maestri.
Gli apostoli hanno ricevuto un apprendistato di circa tre anni. C’è un periodo nella vita dove si impara, dove bisogna crescere e divenire, ma non può essere eterno. Lo scopo di questo periodo è che una persona diventi radicata in sé, in ciò che crede, in ciò che vive, in modo da rispondere personalmente delle proprie scelte e della propria vita, in modo da incanalare e da decidere autonomamente come vivere, in modo da non delegare a nessuno le responsabilità sul proprio cammino.
L’amore vero rende liberi. L’amore di un genitore per il proprio figlio è renderlo adulto, è renderlo a sua volta un genitore alla pari; se lo tiene dipendente da sé, se lo ricatta facendogli sentire la sua superiorità o rendendolo un proprio satellite, lo rovina. L’amore rende adulti. La fede ci deve rendere adulti. L’amore di un prete o di un cristiano è rendere adulto chi segue Gesù.
Se ti rendo dipendente da me, dalle decisioni dall’alto, ossequioso, avrò creato uno obbediente, uno che non crea problemi, uno che esegue, ma non avrò formato una coscienza libera e autonoma. Sarà uno che in continuo chiederà: « Cosa devo fare? Cosa è giusto, cristiano? Cosa bisogna fare?’ ». « Ma sei o non sei grande? Prenditi le tue responsabilità! ». « Perché deleghi a me una scelta che è tua? Come faccio a sapere io cosa tu vivi? ». « Hai una coscienza, hai un cuore, credi in qualcosa? Beh, vivi secondo ciò che credi ».
E’ importante che ci sia una direzione, una strada, dei riferimenti ai quali le persone possono rifarsi. Ma è ancor più importante insegnare alle persone che hanno una coscienza, che sono libere e responsabili, che devono diventare non delle fotocopie ma degli originali. La chiesa fallirà sempre se non avrà il coraggio di far crescere cristiani adulti, « grandi », autonomi. Solo così sapranno rifarsi al proprio credo, al proprio profondo anche nel mondo del lavoro, del sociale o della politica.
Il più grande peccato, e forse l’unico, sarà quando Dio ci metterà davanti la nostra vita, il motivo per cui eravamo a questo mondo e ci dirà: « Magari non hai fatto niente di male, ma non hai vissuto. Tu non sei stato te stesso. Hai seguito sempre gli altri, hai fatto quello che facevano tutti; non c’è niente di personale, di tuo nella tua vita. Una vita sprecata ». E scopriremo tutta la nostra paura di vivere e diventare uomini adulti.
Ad un certo punto Gesù inizia a chiedere: « Cosa si dice in giro di me? ». E gli apostoli riportano alcune opinioni: « Giovanni Battista, Elia, un profeta », cose molto belle!; altrove invece si dice di Gesù: « Un mangione, un beone, un amico dei pubblicani e dei peccatori (un uomo, cioè, di malaffare, pericoloso), un eretico, ecc ».
E’ importante sapere cosa dice il catechismo di Lui; è importante sapere cosa si crede in giro; è importante farci dire dagli altri le loro esperienze su di Lui. Ma ciò che è decisivo non è tutto questo. Ciò che è decisivo è: « E per te, chi sono io? ». « Qual è la mia presenza nella tua vita? Come/quanto pulso in te? Come/quanto vivo in te e tu di me? Come/quanto ti ho cambiato la vita, modo di pensare, di sentire, di amare, di dare priorità alle scelte ». Tutte le risposte preconfezionate, le « belle rispostine », le frasi fatte, qui non c’entrano più.
Ci si può ingannare facilmente riportando cosa si sa, cosa si ha studiato, cosa si dice in giro. Magari si fa una bella figura, magari si è anche ammirati. Ma la domanda decisiva è: « Chi sono per te? E dammi una risposta che venga da te! ». Non si può sempre rifarsi a qualcun altro nella vita, ripararsi dietro agli altri chiamando in causa ciò che loro vivono. « Tu cosa vivi di Dio? Tu cos’hai nella tua anima? Tu sei disposto a lasciarti coinvolgere? ». « Non scappare, rispondi: tu… ».
Dio ci ama anche se gli diciamo di « no ». Dio ci accoglie anche se noi gli diciamo: « Non mi interessi; non voglio avere a che fare con te ». L’importante è essere chiari e veri con sé e non mentirsi. Non dire: « Io credo in Dio » e poi vivere falsificando tutto questo, relegando Dio nel ripostiglio o nella soffitta della nostra vita, esibendo una facciata di fede che nasconde invece un vuoto di fede.
L’esperienza cristiana è un incontro tra me e Lui. Leggiamo pure i santi e proponiamoli, andiamo pure a fare esperienze spirituali e religiose in giro, pellegrinaggi e messe da carismatici, ma non idolatriamoli. Perché ciò che conta è che tutto questo mi dia la forza di incontrare Lui, di sceglierlo, di lasciargli spazio, di trasformarmi, di diventare io stesso protagonista, partner di Dio.
Pietro qui risponde: « Tu sei il Cristo di Dio ». Questa frase condensa tutto ciò che era il Cristo per gli apostoli.
Dio è Colui che ti accoglierà in maniera incondizionata, che ti amerà al di là di ogni sbaglio, di ogni errore, dal quale potrai sempre andare con tutti i tuoi sbagli, errori, pianti, fallimenti e non dovrai rimediare; non dovrai rimeritarti l’amore; non dovrai fare qualcosa per dimostrargli che sei degno del suo amore; non dovrai sentirti in colpa. Dovrai semplicemente stendere le tue braccia e farti abbracciare da Lui.
Questa è l’esperienza centrale della fede. E’ l’esperienza che si può vivere, osare, esporsi perché Lui c’è e ci sarà in ogni caso, sempre.
Perché sarà inevitabile il momento della difficoltà e della prova. Ci saranno dei giorni in cui non ci piacerà essere amici e discepoli di Gesù; ci saranno dei giorni in cui malediremo il giorno in cui l’abbiamo incontrato; ci saranno dei giorni in cui sarà rischioso seguire il Signore, in cui ci verrà chiesto di osare, di buttarci, di smetterla con tutti i nostri calcoli logici soppesando ogni cosa; ci saranno dei giorni in cui saremo chiamati ad esporci e a metterci in prima linea; ci saranno dei giorni in cui pagheremo il coraggio di seguirlo e di credere alla forza dei nostri sogni e del nostro cuore; ci saranno dei giorni in cui proprio i genitori dell’amore o della fede, gli « scribi, i sacerdoti », cioè proprio quelli che dovrebbero capirci, aiutarci, che dovrebbero sostenerci, si rivolteranno contro di noi.
E che faremo in quel giorno? Solamente chi è radicato in profondità; solamente chi ha fatto un incontro trasformante e decisivo; solamente chi lo sente vivo per davvero nella propria vita terrà e avrà il coraggio di non tradire la propria strada, la propria coscienza, il proprio cuore. Solamente chi avrà fatto un incontro sconvolgente con Lui e quindi coinvolgente sarà fedele a se stesso, alla propria anima e a Lui.
C’è un proverbio russo che dice: « Con la menzogna puoi girare tutto il mondo, ma non arrivi mai a casa ». Chi si piega alla paura del giudizio degli altri, chi ha bisogno di essere approvato e non può accettare di « essere riprovato », giudicato e considerato male, tenterà di mostrare al mondo una facciata diversa da quella che ha nell’intimo e così facendo si allontanerà sempre più da se stesso. Non c’è altra scelta: bisogna vivere ciò che Dio ha riposto nel nostro cuore; bisogna prendere le parti di ciò che è vivo; bisogna trovare il coraggio della verità e dell’amore libero scoprendo la forza del nostro cuore; bisogna soprattutto rinnegare tutte le maschere che ci costruiamo per paura.
Le persone vogliono « serenità e salute ». E’ un modo per dire che vorrebbero essere felici. Ma non c’è nessun supermercato per la felicità (ce ne sono tanti per altre cose, ma non per questo); non c’è nessuna ricetta per essere felici e per stare bene; nessun libro, nessun guru, nessuna rispostina risolutiva. Bisogna avere il coraggio di vivere la propria vita in prima persona e questo è tutto. Perché la felicità della vita non può che derivare dal vivere la vita stessa con intensità.
Le persone si dicono: « Io mi amo ». Amarsi (e amare) può essere indicibilmente duro e difficile. E’ difficile rinnegarsi, dirsi di « no ». Perché amarsi è rinnegare se stessi, cioè tutte quelle false maschere che ci impediscono di vedere chi siamo e di prendere la nostra croce, la nostra strada, la nostra vita. E’ difficile dire « no » alla maschera del sorriso a tutti i costi, dell’essere sempre generosi e buoni, tutti per gli altri, dei bravi bambini. E’ difficile dirsi « no » e deporre certi atteggiamenti: « L’uomo non piange mai; mai chiedere aiuto a nessuno; io ce la faccio da solo; non ascoltare mai i propri sentimenti; non essere mai arrabbiati ». E’ difficile dirsi « no » e non cedere quando gli altri ci fanno del male, non posso sempre far finta di niente e passare sopra, anche se ci verrebbe da appianare sempre tutto. E’ difficile dire « no » e smettere di chiamare amore ciò che non è amore, ciò che è solo sfruttamento, servilismo, dipendenza, morbosità. E’ difficile dire di « no » alla superficialità e mettersi davanti le reali questioni della propria vita senza scavalcarle sempre. E’ difficile dirsi « no » e smettere di mentirsi sul proprio rapporto di coppia, al fatto che si finge di essere felici e che le cose vadano bene. E’ difficile dire « no » a certe abitudini. Questo comportamento (bestemmiare, fumare, bere, dormire poco, averla sempre vinta, lavorare sempre, ecc) mi fa male, mi distrugge, mi aliena, mi allontana dalle persone, mi rende in-sensibile.
E’ difficile dire « no » ai nostri pensieri. « Per me tutto è così difficile, nessuno si occupa di me, non ce la faccio più; nessuno mi vuole bene, ce l’hanno tutti con me; a me tutto va storto, cos’avrò fatto di male io per meritarmi tutto questo, perché tutte a me; sbaglio sempre tutto; non ce la farò mai ». Allora io mi affeziono alla mia tristezza, mi aggrappo all’illusione che gli altri siano responsabili della mia vita, che la debbano rendere felice; mi sta bene vedermi sfortunato e vittima, così mantengo le cose così e mi evito la fatica di crescere e di diventare adulto.
Oppure: « E’ colpa sua; che schifo questo mondo; non ci si può fidare di nessuno; tutti ti odiano; chi fa da sé fa per tre; non ti fidare di nessuno ».
Oppure insulto l’altro dentro di me, sparlo di lui, lo giudico, cerco tutti i suoi punti deboli, lo penso e lo rivango dentro di me fino all’esaurimento; gli faccio fare brutta figura, lo copro di ridicolo, gli auguro il male, lo ferisco, rido o sorrido (senza che nessuno mi veda) quando gli capita qualcosa di male; cerco tutti i motivi per non riconciliarmi, per non dargli la parola, per stargli lontano. Allora io mi affeziono alla mia rabbia, alla mia inferiorità, all’invidia e alla gelosia che provo e continuo a scaricarla addosso agli altri.
Devo dirmi: « No, smettila di buttare sugli altri ciò che è tuo, smetti di fare come il bambino che accusa sempre gli altri ». Allora mi devo dire: « No, basta. Guardati dentro e smetti di guardare gli altri ». E fa male!
Oppure: « Sono più bravo? Sono più bello? Io sono di più! Per fortuna che non sono come quello lì. Nessuno è bravo come me. Se non ci fossi io in casa! ».
O viceversa: « Ecco sono sempre l’ultimo, incapace, buono a nulla; lo sapevo che finiva così!; o tutto o niente; sono un perdente; non farò mai niente di buono nella vita; non concludo nulla ». Allora mi devo dire: « No, smettila di buttarti giù solo perché non sei il primo. Inizia ad accoglierti ed amarti non perché sei più o meno degli altri ma perché sei tu ». E’ difficile dirsi « no » ma nessuno ha mai detto che amarsi sia facile. Ogni « no » è sempre un « sì ». Ogni « no » a ciò che ci fa male è sempre un « sì » a ciò che ci fa bene. Mia madre mi ha amato molto dicendomi « sì », ma molto di più dicendomi « no ». E così devo fare io con me. Se mi voglio bene devo dire « no » a tutto ciò che mi fa male, a tutto ciò che mi allontana da me e da Lui.
Gesù è stato Gesù e io sono io. Non devo essere invidioso di chi era lui, né copiarlo. Lui ha avuto la sua vita ed io ho la mia. Da lui devo imparare il coraggio di vivere la mia vita (croce), quell’unica vita che Dio ha destinato per me. Gesù ha compiuto il suo viaggio che l’ha portato a conoscere il suo cuore, se stesso, la sua missione e il Dio che era in Lui. Io devo compiere il mio viaggio che mi porta a conoscere il mio cuore, me stesso con tutto ciò che vuol dire, la mia missione e il Dio che abita in me.
Prendere la propria croce non è farsi del male, imporsi sofferenze o punizioni, ma accogliere la propria vita in tutte le sue dimensioni, in tutta la sua radicalità, in tutta la sua compresenza di luce ed ombra, in tutti i suoi richiami e in tutte le sue contraddizioni.
Prendere la propria croce è accettare la dura croce della realtà della propria vita. E chi non è disposto a fare questo, chi tenta di salvarsi, si perde.
Chi vuol salvare, cioè non mettere in gioco la propria vita, mantenere tutti gli equilibri esistenti, conservare tutto, la perderà: è ovvio, è inevitabile.
Quante persone per mantenere una facciata o delle situazioni morte, finite, o solo per paura di cambiare e di mettersi in gioco, hanno perso la loro vitalità, la loro creatività, la loro voglia di vivere, di ridere, di spendersi, di lottare, di amare; non c’è più forza in loro, non c’è più vibrazione nei loro sentimenti e non c’è più passione nelle loro giornate. Pur in vita qualcosa si è spento.
E così! Chi vuol salvarsi dall’evolvere muore; chi vuol mantenere la fissità della situazione presente vi perirà dentro.
Quante cose dobbiamo perdere per salvarci!
Nella prima parte della vita si crede che salvarsi sia ottenere. Allora si rincorre la posizione sociale; si accumulano soldi, denaro, posizioni, onorabilità; si cerca di avere cose, case e quant’altro. Si cerca di salire nella scala sociale dell’apprezzamento altrui. Ottenere, avere, raggiungere, arrivare, sembrano la nostra salvezza.
Ma nella seconda parte si impara (si potrebbe!) che tutto questo non ci fa felici e che la salvezza è proprio il contrario: non ottenere ma perdere. Bisogna perdere tutte le maschere e le facciate che ci siamo costruiti; bisogna perdere tante illusioni (« Ce la faremo; avremo delle relazioni meravigliose; si vive per sempre; siamo perfetti; certe cose non capiteranno a noi… »); bisogna perdere tanti rivestimenti e vestiti per ritornare alla nudità essenziale e all’essenziale nudità della vita; bisogna svestirsi di tutto e ritrovarsi.
La vita più che un processo di acquisizione, di apprendimento (necessario) è un grande processo di spogliazione e di perdita. La vita vive della paradossale verità che per trovare bisogna perdere.

E’ assurdo dice la ragione.
E’ una disgrazia dice l’astuzia.
Non è che dolore dice la paura.
E’ senza speranza dice il senno.
E’ ridicolo dice l’orgoglio.
E’ sconsiderato dice la prudenza.
E’ impossibile dice l’esperienza.
E’ come è dice l’amore. 

Il Papa al Convegno ecclesiale diocesano sull’Eucarestia domenicale

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22880?l=italian

Il Papa al Convegno ecclesiale diocesano sull’Eucarestia domenicale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 16 giugno 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato da Benedetto XVI il 15 giugno nell’inaugurare nella Basilica di San Giovanni in Laterano il Convegno della Diocesi di Roma sul tema: “’Si aprirono loro gli occhi, lo riconobbero e lo annunziarono’. L’Eucarestia domenicale e la testimonianza della carità”.

* * *

Cari fratelli e sorelle!

Dice il Salmo: « Ecco, com’è bello e com’è dolce / che i fratelli vivano insieme! » (Sal 133,1). È proprio così: è per me motivo di profonda gioia ritrovarmi con voi e condividere il tanto bene che le parrocchie e le altre realtà ecclesiali di Roma hanno realizzato in questo anno pastorale. Saluto con fraterno affetto il Cardinale Vicario e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha indirizzato e per l’impegno che quotidianamente pone nel governo della Diocesi, nel sostegno ai sacerdoti e alle comunità parrocchiali. Saluto i Vescovi Ausiliari, l’intero Presbiterio e ciascuno di voi. Rivolgo un pensiero cordiale a quanti sono ammalati e in particolari difficoltà, assicurando loro la mia preghiera.

Come ha ricordato il Cardinale Vallini, ci stiamo impegnando, dallo scorso anno, nella verifica della pastorale ordinaria. Questa sera riflettiamo su due punti di primaria importanza: « Eucaristia domenicale e testimonianza della carità ». Sono a conoscenza del grande lavoro che le parrocchie, le associazioni e i movimenti hanno realizzato, attraverso incontri di formazione e di confronto, per approfondire e vivere meglio queste due componenti fondamentali della vita e della missione della Chiesa e di ogni singolo credente. Ciò ha anche favorito quella corresponsabilità pastorale che, nella diversità dei ministeri e dei carismi, deve sempre più diffondersi se desideriamo realmente che il Vangelo raggiunga il cuore di ogni abitante di Roma. Tanto è stato fatto, e ne rendiamo grazie al Signore; ma ancora molto, sempre con il suo aiuto, rimane da fare.

La fede non può mai essere presupposta, perché ogni generazione ha bisogno di ricevere questo dono mediante l’annuncio del Vangelo e di conoscere la verità che Cristo ci ha rivelato. La Chiesa, pertanto, è sempre impegnata a proporre a tutti il deposito della fede; in esso è contenuta anche la dottrina sull’Eucaristia – mistero centrale in cui « è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua » (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Presbyterorum ordinis, 5) –; dottrina che oggi, purtroppo, non è sufficientemente compresa nel suo valore profondo e nella sua rilevanza per l’esistenza dei credenti. Per questo è importante che una conoscenza più approfondita del mistero del Corpo e del Sangue del Signore sia avvertita come un’esigenza dalle diverse comunità della nostra diocesi di Roma. Al tempo stesso, nello spirito missionario che vogliamo alimentare, è necessario che si diffonda l’impegno di annunciare tale fede eucaristica, perché ogni uomo incontri Gesù Cristo che ci ha rivelato il Dio « vicino », amico dell’umanità, e di testimoniarla con una eloquente vita di carità.

In tutta la sua vita pubblica Gesù, mediante la predicazione del Vangelo e i segni miracolosi, ha annunciato la bontà e la misericordia del Padre verso l’uomo. Questa missione ha raggiunto il culmine sul Golgota, dove Cristo crocifisso ha rivelato il volto di Dio, perché l’uomo, contemplando la Croce, possa riconoscere la pienezza dell’amore (cfr BENEDETTO XVI, Enc. Deus caritas est, 12). Il Sacrificio del Calvario viene mistericamente anticipato nell’Ultima Cena, quando Gesù, condividendo con i Dodici il pane e il vino, li trasforma nel suo corpo e nel suo sangue, che poco dopo avrebbe offerto come Agnello immolato. L’Eucaristia è il memoriale della morte e risurrezione di Gesù Cristo, del suo amore fino alla fine per ciascuno di noi, memoriale che Egli ha voluto affidare alla Chiesa perché fosse celebrato nei secoli. Secondo il significato del verbo ebraico zakar, il « memoriale » non è semplice ricordo di qualcosa che è avvenuto nel passato, ma celebrazione che attualizza quell’evento, in modo da riprodurne la forza e l’efficacia salvifica. Così « si rende presente e attuale il sacrificio che Cristo ha offerto al Padre, una volta per tutte, sulla Croce in favore dell’umanità » (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, 280). Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo la parola sacrificio non è amata, anzi essa sembra appartenere ad altre epoche e a un altro modo di intendere la vita. Essa, però, ben compresa, è e rimane fondamentale, perché ci rivela di quale amore Dio, in Cristo, ci ama.

Nell’offerta che Gesù fa di se stesso troviamo tutta la novità del culto cristiano. Nell’antichità gli uomini offrivano in sacrificio alle divinità gli animali o le primizie della terra. Gesù, invece, offre se stesso, il suo corpo e l’intera sua esistenza: Egli stesso in persona diventa quel sacrificio che la liturgia offre nella Santa Messa. Infatti, con la consacrazione il pane e il vino diventano il suo vero corpo e sangue. Sant’Agostino invitava i suoi fedeli a non soffermarsi su ciò che appariva alla loro vista, ma ad andare oltre: « Riconoscete nel pane – diceva – quello stesso corpo che pendette sulla croce, e nel calice quello stesso sangue che sgorgò dal suo fianco » (Disc. 228 B, 2). Per spiegare questa trasformazione, la teologia ha coniato la parola « transustanziazione », parolache risuonò per la prima volta in questa Basilica durante il IV Concilio Lateranense, di cui fra cinque anni ricorrerà l’VIII centenario. In quell’occasione furono inserite nella professione di fede le seguenti espressioni: « il suo corpo e il suo sangue sono contenuti veramente nel sacramento dell’altare, sotto le specie del pane e del vino, poiché il pane è transustanziato nel corpo, e il sangue nel vino per divino potere » (DS, 802). È dunque fondamentale che negli itinerari di educazione alla fede dei bambini, degli adolescenti e dei giovani, come pure nei « centri di ascolto » della Parola di Dio, si sottolinei che nel sacramento dell’Eucaristia Cristo è veramente, realmente e sostanzialmente presente.

La Santa Messa, celebrata nel rispetto delle norme liturgiche e con un’adeguata valorizzazione della ricchezza dei segni e dei gesti, favorisce e promuove la crescita della fede eucaristica. Nella celebrazione eucaristica noi non inventiamo qualcosa, ma entriamo in una realtà che ci precede, anzi che abbraccia cielo e terra e quindi anche passato, futuro e presente. Questa apertura universale, questo incontro con tutti i figli e le figlie di Dio è la grandezza dell’Eucaristia: andiamo incontro alla realtà di Dio presente nel corpo e sangue del Risorto tra di noi. Quindi, le prescrizioni liturgiche dettate dalla Chiesa non sono cose esteriori, ma esprimono concretamente questa realtà della rivelazione del corpo e sangue di Cristo e così la preghiera rivela la fede secondo l’antico principio lex orandi – lex credendi. E per questo possiamo dire che « la migliore catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata » (BENEDETTO XVI, Esort. ap. post-sinod. Sacramentum caritatis, 64). È necessario che nella liturgia emerga con chiarezza la dimensione trascendente, quella del Mistero, dell’incontro con il Divino, che illumina ed eleva anche quella « orizzontale », ossia il legame di comunione e di solidarietà che esiste fra quanti appartengono alla Chiesa. Infatti, quando prevale quest’ultima non si comprende pienamente la bellezza, la profondità e l’importanza del mistero celebrato. Cari fratelli nel sacerdozio, a voi il Vescovo ha affidato, nel giorno dell’Ordinazione sacerdotale, il compito di presiedere l’Eucaristia. Abbiate sempre a cuore l’esercizio di questa missione: celebrate i divini misteri con intensa partecipazione interiore, perché gli uomini e le donne della nostra Città possano essere santificati, messi in contatto con Dio, verità assoluta e amore eterno.

E teniamo anche presente che l’Eucaristia, legata alla croce alla risurrezione del Signore, ha dettato una nuova struttura al nostro tempo. Il Risorto si era manifestato il giorno dopo il sabato, il primo giorno della settimana, giorno del sole e della creazione. Dall’inizio i cristiani hanno celebrato il loro incontro con il Risorto, l’Eucaristia, in questo primo giorno, in questo nuovo giorno del vero sole della storia, il Cristo Risorto. E così il tempo inizia sempre di nuovo con l’incontro con il Risorto e questo incontro dà contenuto e forza alla vita di ogni giorno. Perciò è molto importante per noi cristiani, seguire questo ritmo nuovo del tempo, incontrarci col Risorto nella domenica e così « prendere » con noi questa sua presenza, che ci trasformi e trasformi il nostro tempo. Inoltre, invito tutti a riscoprire la fecondità dell’adorazione eucaristica: davanti al Santissimo Sacramento sperimentiamo in modo del tutto particolare quel « rimanere » di Gesù, che Egli stesso, nel Vangelo di Giovanni, pone come condizione necessaria per portare molto frutto (cfr Gv 15,5) ed evitare che la nostra azione apostolica si riduca a uno sterile attivismo, ma sia invece testimonianza dell’amore di Dio.

La comunione con Cristo è sempre anche comunione con il suo corpo che è la Chiesa, come ricorda l’apostolo Paolo dicendo: « Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane » (1Cor 10,16-17). È, infatti, l’Eucaristia che trasforma un semplice gruppo di persone in comunità ecclesiale: l’Eucaristia fa Chiesa. È dunque fondamentale che la celebrazione della Santa Messa sia effettivamente il culmine, la « struttura portante » della vita di ogni comunità parrocchiale. Esorto tutti a curare al meglio, anche attraverso appositi gruppi liturgici, la preparazione e la celebrazione dell’Eucaristia, perché quanti vi partecipano possano incontrare il Signore. È Cristo risorto, che si rende presente nel nostro oggi e ci raduna intorno a sé. Nutrendoci di Lui siamo liberati dai vincoli dell’individualismo e, per mezzo della comunione con Lui, diventiamo noi stessi, insieme, una cosa sola, il suo Corpo mistico. Vengono così superate le differenze dovute alla professione, al ceto, alla nazionalità, perché ci scopriamo membri di un’unica grande famiglia, quella dei figli di Dio, nella quale a ciascuno è donata una grazia particolare per l’utilità comune. Il mondo e gli uomini non hanno bisogno di un’ulteriore aggregazione sociale, ma hanno bisogno della Chiesa, che è in Cristo come un sacramento, « cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano » (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Lumen gentium, 1), chiamata a far risplendere su tutte le genti la luce del Signore risorto.

Gesù è venuto per rivelarci l’amore del Padre, perché « l’uomo senza amore non può vivere » (GIOVANNI PAOLO II, Enc. Redemptor hominis, 10). L’amore è, infatti, l’esperienza fondamentale di ogni essere umano, ciò che dà significato al vivere quotidiano. Nutriti dall’Eucaristia anche noi, sull’esempio di Cristo, viviamo per Lui, per essere testimoni dell’amore. Ricevendo il Sacramento, noi entriamo in comunione di sangue con Gesù Cristo. Nella concezione ebraica, il sangue indica la vita; così possiamo dire che nutrendoci del Corpo di Cristo noi accogliamo la vita di Dio e impariamo a guardare la realtà con i suoi occhi, abbandonando la logica del mondo per seguire quella divina del dono e della gratuità. Sant’Agostino ricorda che durante una visione gli parve di udire la voce del Signore, il quale gli diceva: « Io sono il nutrimento degli adulti. Cresci, e mi mangerai, senza per questo trasformarmi in te, come il nutrimento della tua carne; ma tu ti trasformerai in me » (cfrConfessioni VII,10,16). Quando riceviamo Cristo, l’amore di Dio si espande nel nostro intimo, modifica radicalmente il nostro cuore e ci rende capaci di gesti che, per la forza diffusiva del bene, possono trasformare la vita di coloro che ci sono accanto. La carità è in grado di generare un cambiamento autentico e permanente della società, agendo nei cuori e nelle menti degli uomini, e quando è vissuta nella verità « è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera » (BENEDETTO XVI, Enc. Caritas in veritate, 1). La testimonianza della carità per il discepolo di Gesù non è un sentimento passeggero, ma al contrario è ciò che plasma la vita in ogni circostanza. Incoraggio tutti, in particolare la Caritas e i Diaconi, a impegnarsi nel delicato e fondamentale campo dell’educazione alla carità, come dimensione permanente della vita personale e comunitaria.

Questa nostra Città chiede ai discepoli di Cristo, con un rinnovato annuncio del Vangelo, una più chiara e limpida testimonianza della carità. È con il linguaggio dell’amore, desideroso del bene integrale dell’uomo, che la Chiesa parla agli abitanti di Roma. In questi anni del mio ministero quale vostro Vescovo, ho avuto modo di visitare vari luoghi dove la carità è vissuta in modo intenso. Sono grato a quanti si impegnano nelle diverse strutture caritative, per la dedizione e la generosità con le quali servono i poveri e gli emarginati. I bisogni e la povertà di tanti uomini e donne ci interpellano profondamente: è Cristo stesso che ogni giorno, nei poveri, ci chiede di essere sfamato e dissetato, visitato negli ospedali e nelle carceri, accolto e vestito. L’Eucaristia celebrata ci impone e al tempo stesso ci rende capaci di diventare, a nostra volta, pane spezzato per i fratelli, venendo incontro alle loro esigenze e donando noi stessi. Per questo una celebrazione eucaristica che non conduce ad incontrare gli uomini lì dove essi vivono, lavorano e soffrono, per portare loro l’amore di Dio, non manifesta la verità che racchiude. Per essere fedeli al mistero che si celebra sugli altari dobbiamo, come ci esorta l’apostolo Paolo, offrire i nostri corpi, noi stessi, in sacrificio spirituale gradito a Dio (cfr Rm 12,1) in quelle circostanze che richiedono di far morire il nostro io e costituiscono il nostro « altare » quotidiano. I gesti di condivisione creano comunione, rinnovano il tessuto delle relazioni interpersonali, improntandole alla gratuità e al dono, e permettono la costruzione della civiltà dell’amore. In un tempo come il presente di crisi economica e sociale, siamo solidali con coloro che vivono nell’indigenza per offrire a tutti la speranza di un domani migliore e degno dell’uomo. Se realmente vivremo come discepoli del Dio-Carità, aiuteremo gli abitanti di Roma a scoprirsi fratelli e figli dell’unico Padre.

La natura stessa dell’amore richiede scelte di vita definitive e irrevocabili. Mi rivolgo in particolare a voi, carissimi giovani: non abbiate paura di scegliere l’amore come la regola suprema della vita. Non abbiate paura di amare Cristo nel sacerdozio e, se nel cuore avvertite la chiamata del Signore, seguitelo in questa straordinaria avventura di amore, abbandonandovi con fiducia a Lui! Non abbiate paura di formare famiglie cristiane che vivono l’amore fedele, indissolubile e aperto alla vita! Testimoniate che l’amore, così come lo ha vissuto Cristo e lo insegna il Magistero della Chiesa, non toglie nulla alla nostra felicità, ma al contrario dona quella gioia profonda che Cristo ha promesso ai suoi discepoli.

La Vergine Maria accompagni con la sua materna intercessione il cammino della nostra Chiesa di Roma. Maria, che in modo del tutto singolare visse la comunione con Dio e il sacrificio del proprio Figlio sul Calvario, ci ottenga di vivere sempre più intensamente, piamente e consapevolmente il mistero dell’Eucaristia, per annunciare con la parola e la vita l’amore che Dio nutre per ogni uomo. Cari amici, vi assicuro la mia preghiera e imparto di cuore a tutti voi la Benedizione Apostolica. Grazie.

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 19 juin, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

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Amaryllis

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Catechismo della Chiesa cattolica : « Per la vostra vita non affannatevi »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php

Sabato della XI settimana delle ferie delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 6,24-34
Meditazione del giorno
Catechismo della Chiesa cattolica
§ 302-305

« Per la vostra vita non affannatevi »

        La creazione ha la sua propria bontà e perfezione, ma non è uscita dalle mani del Creatore interamente compiuta. È creata « in stato di via » verso una perfezione ultima alla quale Dio l’ha destinata, ma che ancora deve essere raggiunta. Chiamiamo divina provvidenza le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce la creazione verso questa perfezione…

        La testimonianza della Scrittura è unanime : la sollecitudine della divina Provvidenza è concreta e immediata ; essa si prende cura di tutto, dalle più piccole cose fino ai grandi eventi del mondo e della storia. Con forza, i Libri Sacri affermano la sovranità assoluta di Dio sul corso degli avvenimenti : « Il nostro Dio è nei cieli, egli opera tutto ciò che vuole » (Sal 115, 3) ; e di Cristo si dice: « Quando egli apre, nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre » (Ap 3, 7) ;  « Molte sono le idee nella mente dell’uomo, ma solo il disegno del Signore resta saldo » (Pr 19, 21)…

        Gesù chiede un abbandono filiale alla provvidenza del Padre celeste, il quale si prende cura dei più elementari bisogni dei suoi figli : « Non affannatevi dunque dicendo: « Che cosa mangeremo ? Che cosa berremo ? » … Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta ».

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