Archive pour le 13 juin, 2010

Jesus Teaching by the Seashore 1899 James Tissot (1836-1902)

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Omelia di Benedetto XVI a conclusione dell’Anno sacerdotale

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22812?l=italian

Omelia di Benedetto XVI a conclusione dell’Anno sacerdotale

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 11 giugno 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia che Benedetto XVI ha pronunciato questo venerdì, Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, nel presiedere in piazza San Pietro la concelebrazione eucaristica con i Cardinali, i Vescovi e i presbiteri a conclusione dell’Anno sacerdotale sul tema “Fedeltà di Cristo, Fedeltà del Sacerdote”.

* * *

Cari confratelli nel ministero sacerdotale,

Cari fratelli e sorelle,

l’Anno Sacerdotale che abbiamo celebrato, 150 anni dopo la morte del santo Curato d’Ars, modello del ministero sacerdotale nel nostro mondo, volge al termine. Dal Curato d’Ars ci siamo lasciati guidare, per comprendere nuovamente la grandezza e la bellezza del ministero sacerdotale. Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione – parole che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e suo Sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a Lui. Il sacerdozio è quindi non semplicemente «ufficio», ma sacramento: Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua – questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola «sacerdozio». Che Dio ci ritenga capaci di questo; che Egli in tal modo chiami uomini al suo servizio e così dal di dentro si leghi ad essi: è ciò che in quest’anno volevamo nuovamente considerare e comprendere. Volevamo risvegliare la gioia che Dio ci sia così vicino, e la gratitudine per il fatto che Egli si affidi alla nostra debolezza; che Egli ci conduca e ci sostenga giorno per giorno. Volevamo così anche mostrare nuovamente ai giovani che questa vocazione, questa comunione di servizio per Dio e con Dio, esiste – anzi, che Dio è in attesa del nostro «sì». Insieme alla Chiesa volevamo nuovamente far notare che questa vocazione la dobbiamo chiedere a Dio. Chiediamo operai per la messe di Dio, e questa richiesta a Dio è, al tempo stesso, un bussare di Dio al cuore di giovani che si ritengono capaci di ciò di cui Dio li ritiene capaci. Era da aspettarsi che al «nemico» questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto fuori dal mondo. E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti – soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio ed alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere che nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino di preparazione ad esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l’autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in situazioni penose e nei pericoli della vita. Se l’Anno Sacerdotale avesse dovuto essere una glorificazione della nostra personale prestazione umana, sarebbe stato distrutto da queste vicende. Ma si trattava per noi proprio del contrario: il diventare grati per il dono di Dio, dono che si nasconde « in vasi di creta » e che sempre di nuovo, attraverso tutta la debolezza umana, rende concreto in questo mondo il suo amore. Così consideriamo quanto è avvenuto quale compito di purificazione, un compito che ci accompagna verso il futuro e che, tanto più, ci fa riconoscere ed amare il grande dono di Dio. In questo modo, il dono diventa l’impegno di rispondere al coraggio e all’umiltà di Dio con il nostro coraggio e la nostra umiltà. La parola di Cristo, che abbiamo cantato come canto d’ingresso nella liturgia odierna, può dirci in questa ora che cosa significhi diventare ed essere sacerdote: « Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore » (Mt 11,29).

Celebriamo la festa del Sacro Cuore di Gesù e gettiamo con la liturgia, per così dire, uno sguardo dentro il cuore di Gesù, che nella morte fu aperto dalla lancia del soldato romano. Sì, il suo cuore è aperto per noi e davanti a noi – e con ciò ci è aperto il cuore di Dio stesso. La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore degli uomini, e in questo modo ci manifesta il sacerdozio di Gesù, che è radicato nell’intimo del suo cuore; così ci indica il perenne fondamento, come pure il valido criterio, di ogni ministero sacerdotale, che deve sempre essere ancorato al cuore di Gesù ed essere vissuto a partire da esso. Vorrei oggi meditare soprattutto sui testi con i quali la Chiesa orante risponde alla Parola di Dio presentata nelle letture. In quei canti parola e risposta si compenetrano. Da una parte, essi stessi sono tratti dalla Parola di Dio, ma, dall’altra, sono al contempo già la risposta dell’uomo a tale Parola, risposta in cui la Parola stessa si comunica ed entra nella nostra vita. Il più importante di quei testi nell’odierna liturgia è il Salmo 23 (22) – « Il Signore è il mio pastore » –, nel quale l’Israele orante ha accolto l’autorivelazione di Dio come pastore, e ne ha fatto l’orientamento per la propria vita. « Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla »: in questo primo versetto si esprimono gioia e gratitudine per il fatto che Dio è presente e si occupa dell’uomo. La lettura tratta dal Libro di Ezechiele comincia con lo stesso tema: « Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura » (Ez 34,11). Dio si prende personalmente cura di me, di noi, dell’umanità. Non sono lasciato solo, smarrito nell’universo ed in una società davanti a cui si rimane sempre più disorientati. Egli si prende cura di me. Non è un Dio lontano, per il quale la mia vita conterebbe troppo poco. Le religioni del mondo, per quanto possiamo vedere, hanno sempre saputo che, in ultima analisi, c’è un Dio solo. Ma tale Dio era lontano. Apparentemente Egli abbandonava il mondo ad altre potenze e forze, ad altre divinità. Con queste bisognava trovare un accordo. Il Dio unico era buono, ma tuttavia lontano. Non costituiva un pericolo, ma neppure offriva un aiuto. Così non era necessario occuparsi di Lui. Egli non dominava. Stranamente, questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo. Si comprendeva ancora che il mondo presuppone un Creatore. Questo Dio, però, aveva costruito il mondo e poi si era evidentemente ritirato da esso. Ora il mondo aveva un suo insieme di leggi secondo cui si sviluppava e in cui Dio non interveniva, non poteva intervenire. Dio era solo un’origine remota. Molti forse non desideravano neppure che Dio si prendesse cura di loro. Non volevano essere disturbati da Dio. Ma laddove la premura e l’amore di Dio vengono percepiti come disturbo, lì l’essere umano è stravolto. È bello e consolante sapere che c’è una persona che mi vuol bene e si prende cura di me. Ma è molto più decisivo che esista quel Dio che mi conosce, mi ama e si preoccupa di me. « Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me » (Gv 10,14), dice la Chiesa prima del Vangelo con una parola del Signore. Dio mi conosce, si preoccupa di me. Questo pensiero dovrebbe renderci veramente gioiosi. Lasciamo che esso penetri profondamente nel nostro intimo. Allora comprendiamo anche che cosa significhi: Dio vuole che noi come sacerdoti, in un piccolo punto della storia, condividiamo le sue preoccupazioni per gli uomini. Come sacerdoti, vogliamo essere persone che, in comunione con la sua premura per gli uomini, ci prendiamo cura di loro, rendiamo a loro sperimentabile nel concreto questa premura di Dio. E, riguardo all’ambito a lui affidato, il sacerdote, insieme col Signore, dovrebbe poter dire: « Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me ». « Conoscere », nel significato della Sacra Scrittura, non è mai soltanto un sapere esteriore così come si conosce il numero telefonico di una persona. « Conoscere » significa essere interiormente vicino all’altro. Volergli bene. Noi dovremmo cercare di « conoscere » gli uomini da parte di Dio e in vista di Dio; dovremmo cercare di camminare con loro sulla via dell’amicizia con Dio.

Ritorniamo al nostro Salmo. Lì si dice: « Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza » (23 [22], 3s). Il pastore indica la strada giusta a coloro che gli sono affidati. Egli precede e li guida. Diciamolo in maniera diversa: il Signore ci mostra come si realizza in modo giusto l’essere uomini. Egli ci insegna l’arte di essere persona. Che cosa devo fare per non precipitare, per non sperperare la mia vita nella mancanza di senso? È, appunto, questa la domanda che ogni uomo deve porsi e che vale in ogni periodo della vita. E quanto buio esiste intorno a tale domanda nel nostro tempo! Sempre di nuovo ci viene in mente la parola di Gesù, il quale aveva compassione per gli uomini, perché erano come pecore senza pastore. Signore, abbi pietà anche di noi! Indicaci la strada! Dal Vangelo sappiamo questo: Egli stesso è la via. Vivere con Cristo, seguire Lui – questo significa trovare la via giusta, affinché la nostra vita acquisti senso ed affinché un giorno possiamo dire: « Sì, vivere è stata una cosa buona ». Il popolo d’Israele era ed è grato a Dio, perché Egli nei Comandamenti ha indicato la via della vita. Il grande Salmo 119 (118) è un’unica espressione di gioia per questo fatto: noi non brancoliamo nel buio. Dio ci ha mostrato qual è la via, come possiamo camminare nel modo giusto. Ciò che i Comandamenti dicono è stato sintetizzato nella vita di Gesù ed è divenuto un modello vivo. Così capiamo che queste direttive di Dio non sono catene, ma sono la via che Egli ci indica. Possiamo essere lieti per esse e gioire perché in Cristo stanno davanti a noi come realtà vissuta. Egli stesso ci ha resi lieti. Nel camminare insieme con Cristo facciamo l’esperienza della gioia della Rivelazione, e come sacerdoti dobbiamo comunicare alla gente la gioia per il fatto che ci è stata indicata la via giusta.

C’è poi la parola concernente la « valle oscura » attraverso la quale il Signore guida l’uomo. La via di ciascuno di noi ci condurrà un giorno nella valle oscura della morte in cui nessuno può accompagnarci. Ed Egli sarà lì. Cristo stesso è disceso nella notte oscura della morte. Anche lì Egli non ci abbandona. Anche lì ci guida. « Se scendo negli inferi, eccoti », dice il Salmo 139 (138). Sì, tu sei presente anche nell’ultimo travaglio, e così il nostro Salmo responsoriale può dire: pure lì, nella valle oscura, non temo alcun male. Parlando della valle oscura possiamo, però, pensare anche alle valli oscure della tentazione, dello scoraggiamento, della prova, che ogni persona umana deve attraversare. Anche in queste valli tenebrose della vita Egli è là. Sì, Signore, nelle oscurità della tentazione, nelle ore dell’oscuramento in cui tutte le luci sembrano spegnersi, mostrami che tu sei là. Aiuta noi sacerdoti, affinché possiamo essere accanto alle persone a noi affidate in tali notti oscure. Affinché possiamo mostrare loro la tua luce.

« Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza »: il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno ed aiuta ad attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano anche nel ministero della Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore.

Alla fine del Salmo si parla della mensa preparata, dell’olio con cui viene unto il capo, del calice traboccante, del poter abitare presso il Signore. Nel Salmo questo esprime innanzitutto la prospettiva della gioia per la festa di essere con Dio nel tempio, di essere ospitati e serviti da Lui stesso, di poter abitare presso di Lui. Per noi che preghiamo questo Salmo con Cristo e col suo Corpo che è la Chiesa, questa prospettiva di speranza ha acquistato un’ampiezza ed una profondità ancora più grandi. Vediamo in queste parole, per così dire, un’anticipazione profetica del mistero dell’Eucaristia in cui Dio stesso ci ospita offrendo se stesso a noi come cibo – come quel pane e quel vino squisito che, soli, possono costituire l’ultima risposta all’intima fame e sete dell’uomo. Come non essere lieti di poter ogni giorno essere ospiti alla mensa stessa di Dio, di abitare presso di Lui? Come non essere lieti del fatto che Egli ci ha comandato: « Fate questo in memoria di me »? Lieti perché Egli ci ha dato di preparare la mensa di Dio per gli uomini, di dare loro il suo Corpo e il suo Sangue, di offrire loro il dono prezioso della sua stessa presenza. Sì, possiamo con tutto il cuore pregare insieme le parole del Salmo: « Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita » (23 [22], 6).

Alla fine gettiamo ancora brevemente uno sguardo sui due canti alla comunione propostici oggi dalla Chiesa nella sua liturgia. C’è anzitutto la parola con cui san Giovanni conclude il racconto della crocifissione di Gesù: « Un soldato gli trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua » (Gv 19,34). Il cuore di Gesù viene trafitto dalla lancia. Esso viene aperto, e diventa una sorgente: l’acqua e il sangue che ne escono rimandano ai due Sacramenti fondamentali dei quali la Chiesa vive: il Battesimo e l’Eucaristia. Dal costato squarciato del Signore, dal suo cuore aperto scaturisce la sorgente viva che scorre attraverso i secoli e fa la Chiesa. Il cuore aperto è fonte di un nuovo fiume di vita; in questo contesto, Giovanni certamente ha pensato anche alla profezia di Ezechiele che vede sgorgare dal nuovo tempio un fiume che dona fecondità e vita (Ez 47): Gesù stesso è il tempio nuovo, e il suo cuore aperto è la sorgente dalla quale esce un fiume di vita nuova, che si comunica a noi nel Battesimo e nell’Eucaristia.

La liturgia della Solennità del Sacro Cuore di Gesù prevede, però, come canto di comunione anche un’altra parola, affine a questa, tratta dal Vangelo di Giovanni: Chi ha sete, venga a me. Beva chi crede in me. La Scrittura dice: « Sgorgheranno da lui fiumi d’acqua viva » (cfr Gv 7,37s). Nella fede beviamo, per così dire, dall’acqua viva della Parola di Dio. Così il credente diventa egli stesso una sorgente, dona alla terra assetata della storia acqua viva. Lo vediamo nei santi. Lo vediamo in Maria che, quale grande donna di fede e di amore, è diventata lungo i secoli sorgente di fede, amore e vita. Ogni cristiano e ogni sacerdote dovrebbero, a partire da Cristo, diventare sorgente che comunica vita agli altri. Noi dovremmo donare acqua della vita ad un mondo assetato. Signore, noi ti ringraziamo perché hai aperto il tuo cuore per noi; perché nella tua morte e nella tua risurrezione sei diventato fonte di vita. Fa’ che siamo persone viventi, viventi dalla tua fonte, e donaci di poter essere anche noi fonti, in grado di donare a questo nostro tempo acqua della vita. Ti ringraziamo per la grazia del ministero sacerdotale. Signore, benedici noi e benedici tutti gli uomini di questo tempo che sono assetati e in ricerca. Amen.

Bruno Forte: Il Cantico dei cantici: La più bella canzone d’Amore

dal sito:

http://www.fidae.it/AreaLibera/AreeTematiche/Educazioni/sessuale/B_Forte_Il_Cantico_dei_cantici.pdf

Il Cantico dei cantici: La più bella canzone d’Amore

Bruno Forte

Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele» (Rabbi Aqiba, citato in Mishnah Jadajim 3,5). Queste parole di uno dei grandi maestri della tradizione ebraica dicono incisivamente quanto il Cantico sia stato considerato e amato da essa. Il testo è una delle «meghillot», uno dei rotoli, cioè, da leggere nella liturgia sinagogale: il fatto che venga proclamato a Pasqua, la festa centrale fra tutte che celebra la liberazione dalla schiavitù d’Egitto e il passaggio del Mar Rosso, testimonia di quale considerazione goda Shir Ha Shirim (questo il nome ebraico: il Cantico dei Cantici, il «Cantico sublime»). Ancora oggi nelle famiglie ebree il sabato è accolto come la sposa del Cantico (in ebraico «shabbat» è femminile).
Il Libro dello splendore o Zohar riconosce nel Cantico l’intera rivelazione di Dio: «Questo cantico comprende tutta la Torah; comprende tutta l’opera della creazione; comprende il mistero dei Padri; comprende l’esilio d’Israele in Egitto e il canto del mare; comprende l’essenza del Decalogo e il patto del monte Sinai e il peregrinare d’Israele nel deserto, fino all’ingresso nella terra promessa e alla costruzione del Tempio; comprende l’incoronazione del santo nome celeste nell’amore e nella gioia; comprende l’esilio d’Israele fra le nazioni e la sua redenzione; comprende la risurrezione dei morti fino al giorno che è il sabato del Signore» (Libro dello splendore. Teruma 144a). Nella tradizione cristiana il Cantico gode di una stima non minore: «Beato chi comprende e canta i cantici della Sacra Scrittura – afferma Origene –, ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei Cantici» (Omelia sul Cantico l,l: Pg 13,37).
Attraverso l’uso dell’interpretazione allegorica, tutto il Cantico appare come un paradigma del Cristo: così, l’Amato che viene saltando sopra i monti di Ct 2,8 è riconosciuto sin dal primo commento cristiano come «il Verbo, saltato dal cielo fin nel corpo della Vergine, dal sacro ventre sul leg no della Croce, dal legno negli inferi, di là nella carne (della risurrezione)… infine, dalla terra al cielo» (Ippolito di Roma, Commento al Cantico, XXI, 2). Le descrizioni del Cantico vengono interpretate come metafore della vita della Chiesa: «Se tu senti nominare le membra dello sposo, cerca di capire che in realtà sono evocati i membri della Chiesa» (Origene, Commento al Cantico, libro II, su Ct 4). Muovendo dal Cantico sviluppa la sua riflessione sui gradi della «violenta carità» Riccardo di San Vittore, combinando genialmente teologia ed esperienza spirituale per sottolineare come il rapporto d’amore con Dio non lasci nessuno come lo ha trovato, ma al contrario segni in modo indelebile la sua anima: «Grande è la forza dell’amore, meravigliosa la potenza della carità» (I quattro gradi della violenta carità, 2).
Al Cantico si ispira la mistica cristiana, celebrando il rapporto d’amore con Dio: basti pensare ai versi di San Giovanni della Croce: «In una notte oscura / con ansie di amor tutta infiammata, / o felice ventura!, / uscii, né fui notata, / stando già la mia casa addormentata. / … / Notte che mi guidasti! /oh, notte amabile più che l’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata» (San Giovanni della Croce, Noche oscura, Strofe l e 5). Eloquente e ispirativo nelle più diverse stagioni della tradizione ebraico-cristiana, il Cantico continua a parlare anche oggi: «Questo – afferma Guido Ceronetti – è un Cantico di oggi, per il presente, per servirgli restando quel che è, un punto lontano» (Il Cantico dei Cantici, Adelphi, Milano 1975. 2005, 114). E aggiunge: «Colpisce la somiglianza delle sue parole coi gradi più alti del silenzio; è una musica cessata in
ogni suo suono, che affiora come pura memoria» (115). La forza evocativa per ogni uomo, per ogni tempo, di queste poche parole (1250: 117 versetti), continua a essere riconosciuta: «Per esprimere l’Assoluto in una visione umana è bastato questo arco brev e» (115).
Non si può non chiedersi come un’opera storicamente datata, probabilmente del tardo post-esilio (IV-III secolo a.C.), abbia potuto esercitare una tale influenza sull’anima ebraico-cristiana e in generale sulla storia culturale e religiosa dell’umanità. La ragione di questo fascino esercitato dal Cantico sta plausibilmente nel fatto che esso si muove sulla soglia, in quella sottile striscia di esperienza universalmente umana, dove la morte è eguagliata solo dall’amore. Scrive ancora Ceronetti: «Forse perché sei la sera, la morte velata – Cantico, sacro Cantico – di Te ho paura» (128). Proprio così il Cantico è poesia: «Senza poesia non si può vivere e tanto meno amare. Grazie a Dio c’è poesia nella Bibbia» (D. Garrone, Introduzione al Cantico dei Cantici, traduzione di G. Bemporad, Morcelliana, Brescia 2006, 30).
Il Cantico è amore portato alla parola, non risolto in essa: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore» (4,9). Il Cantico è la prova di come sia l’amore a spingere a parlare dell’amore: «Urget caritas de caritate loqui» (Riccardo di San Vittore, I quattro gradi della violenta carità, l). Si può capire il Cantico, allora, solo se si è inquietati dall’amore, feriti da esso, attratti, animati o motivati dall’esperienza di amare. Per la comprensione del Cantico vale la legge dell’amore: «Amor che a null’amato amar perdona» (Dante, Inferno, V, 103). Solo l’amore capisce l’amore: solo l’amore introduce nel santuario del Cantico e ne rivela le profondità abissali.
È l’amore il tema del Cantico: si comprende, perciò, come proprio questo piccolo libro stia al centro di quella narrazione della storia dell’amore fra Dio e le Sue creature, che è la Bibbia. «Il Primo Testamento inizia con il grido esultante dell’uomo di fronte alla donna: « Questa, sì, è carne della mia carne, osso delle mie ossa » (Gen 2,23). Il Nuovo termina con il grido d’amore della sposa per lo sposo divino: « Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni! » (Ap 22,17). In mezzo alla Bibbia, Primo e Nuovo Testamento, vi è il Cantico dei Cantici, il libro dell’amore, il cuore della Bibbia» (Cantico dei Cantici, nuova versione, introduzione e commento di G. Barbiero, Paoline, Milano 2004, 8). In quanto libro dell’amore, il Cantico è anche l’unico libro biblico a essere composto dall’inizio alla fine in forma di dialogo: «Il fatto stesso del dialogo è significativo, perché indica, nella prossimità, anche la distanza dei due amanti, come è tipico del vero amore» (ib., 420). Ma di quale amore si tratta? È amore umano, solo umano, quello di cui parla il Cantico? O è anche amore divino? Il verbo ’ahev = «amare» è un termine chiave in Shir Ha Shirim, tanto che esso e i suoi derivati vi ricorrono ben diciotto volte: ’ahavah = «amore» corrisponde ai tre termini greci eros, philìa e agàpe, ed esprime nella Bibbia ebraica sia l’amore per Dio (cfr. Dt 6,5), sia l’amore di amicizia (1 Sam 18,1: Davide e Gionata), sia l’amore di un uomo per una donna (Gdc 16,4: Sansone per Dalila). Si tratta di un unico amore che intreccia le varie possibilità: in tutte è però presente l’Eterno, come sottolineano i maestri ebrei mostrando come la parola ’ahavah abbia due lettere in comune col nome divino impronunciabile, significato dal Tetragramma sacro (Jhwh).
L’identità di posizione delle he all’interno dei due termini viene interpretata come l’espressione di un rapporto mistico fra la coppia umana e il Creatore, in forza del quale l’uomo e la donna nella loro relazione d’amore rendono presente il Nome divino fra gli uomini. In ogni esperienza veramente umana di amore si fa esperienza di Dio: questo è il senso che al Cantico dà la professione di fede di 8,6: «Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore!». «Come la morte l’amore chiede tutto. Amare vuol dire perdere la propria libertà e la propria vita, non appartenere più a se stessi… Bisogna perdersi per ritrovarsi» (i b., 427: cfr. Le 9,24).
A questa esperienza della totale esigitività dell’amore corrisponde la convinzione che la fede d’Israele non può essere che riconoscimento della totale appartenenza al Dio unico (cfr. Dt 6,4). Questa ricchezza di sensi del tema «amore» fa comprendere come del libro dell’amore che è il Cantico siano state date le più diverse interpretazioni: esse vanno dalla lettura voluttuosa, che ne esalta il senso erotico, a quella virtuosa, che vi coglie la parabola dell’amore indissolubile, da quella sapienziale, che vi legge la ricerca e l’amore della Sapienza, a quella mistica, che vi riconosce il canto dell’unione fra l’anima e Dio. C’è chi ha dato del Cantico un’esclusiva interpretazione simbolica e chi lo ha letto solo in senso letterale,
come canto di amore o collezione di canti nuziali. Una foresta di simboli pervade comunque l’intero testo: l’Amato, l’amore, il corpo, il giardino, il creato, la società… Il «filo rosso» in questa selva di sensi è rappresentato dal tema della ricerca amorosa, con l’accentuazione della presenza gustata dopo l’amarezza dell’assenza, dell’aurora accolta dopo la notte, dell’oblio di sé vissuto come condizione per trovare l’Altro.
Un indizio importante per cogliere nel Cantico la pluralità di sensi riferiti all’amore è il termine Dodî = «amato mio»: esso contiene le lettere del nome David. Già così, rimanda contemporaneamente al singolo innamorato di Dio, di cui Davide, il cantore dei salmi, è figura, e al popolo messianico, costitutivamente legato alla discendenza davidica. In quanto poi il termine ricorre ventisei volte nel Cantico, e ventisei è un numero sacro per la ghematria ebraica perché è il valore numerale del tetragramma Jhwh, è possibile riconoscervi anche il riferimento all’Amato divino.
L’amore del Cantico è allora al tempo stesso quello dell’amato per l’amata, quello di Dio per il Suo popolo e del popolo per Dio, e infine quello del singolo credente per il Signore. Che l’amore in tutta la ricchez za del suo significato sia il tema dominante del Cantico è mostrato anche dal fatto che il testo si preoccupa di presentare sin dall’inizio i due protagonisti come l’amata e l’amato. È interessante notare che a pronunciare il maggior numero di parole nel Cantico sia la donna (una sessantina di versetti), mentre all’uomo ne sono riservate poco più della metà (trentasei versetti). È questo un implicito riconoscimento dell’inclinazione che la donna ha verso la sapienza dell’amore, non solo nel senso della capacità oblativa che dimostra, ma anche della disponibilità a intuire, presentire ed evocare la presenza dell’Amato. Quest’attitudine alla percezione e alla comunicazione dell’amore è intesa dalla tradizione ebraica come risultante naturale dell’essere la donna sorgente della vita: se vivere veramente è amare, colei che nella casa accende la candela del sabato per introdurre la famiglia intera nella vita nuova del riposo divino, la donna, è anche quella che in generale saprà meglio accendere e alimentare la fiamma dell’amore.
A prendere la parola per prima è lei, l’amata, e lo fa per parlare di lui: «I tuoi amori sono più buoni del vino. Per fragranza sono belli i tuoi profumi. Profumo che si spande è il tuo nome, per questo le giovinette ti amarono» (1,2s). Per quanto letterale, la traduzione non rende la musicalità di queste bellissime parole d’amore: essa gioca sull’assonanza fra il termine shem, che vuol dire «nome», e il termine shemen, che significa «profumo». Il solo nome dell’amato riempie l’aria di profumo, che incanta lei, come incantò altre. Nel versetto seguente all’olfatto si unisce il gusto: «Ricorderemo i tuoi amori più del vino» (v. 4: cfr. v. 2). È come se il ricordo dell’amato abbia un sapore, forte come quello del vino. Tutti i sensi sono convocati per descrivere l’attrazione che lui esercita su tutto l’essere di lei, passando attraverso l’udito, la visione, il tatto: «Attirami dietro a te, corriamo!» (v. 4). Così lei si mette alla ricerca di lui , abbandonando la vigna sicura dei suoi fratelli per cercare lui nel rischio e nell’insicurezza (v. 6). E la ragione di questa scelta è che lui è l’amore dell’anima sua (v. 7).
Interviene quindi lui a parlare di lei, «bella fra le donne» (v. 8), e ne descrive le guance, il collo, il portamento regale (vv. 9s), rivolgendole un invito pieno di suggestione, perché pervaso dalla memoria sacra di tutto Israele: «Escitene sulle orme del gregge» (v. 8). È il verbo dell’Esodo jasa: l’invito è a mettersi in atteggiamento di esodo, ad abbandonare le proprie sicurezze per affrontare il nuovo. Come fu per Abramo (Gen 12,1), così per l’amata l’invito è a lasciare ogni sicurezza per andare verso la terra promessa dell’amore. Lontani fisicamente, i due sono vicini nell’anima, e il mondo intero sembra invitarli a realizzare il loro desiderio di incontrarsi: è il senso delle stupende parole dell’amato:
Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro (2,10-14).
Fra i due protagonisti si crea così il ponte dell’amore, che non tollera alcuna lontananza e sfida ogni separazione, perché l’amore è reciproca appartenenza, anche quando si vive la ferita del non essere insieme. È il senso della formula usata da lei in 2,16: «Dodî lî-wa’anî lô – il mio amato a me e io a lui». L’espressione dice il totale appartenersi degli amanti nell’amore: si tratta di un’appartenenza caratterizzata dalla reciprocità, che esclude ogni prevaricazione dell’uno sull’altro, come mostra il fatto che in 6,3 la s tessa formula è presentata nell’ordine inverso: «lo sono del mio amato e lui è mio». L’amore è insomma esodo da sé di ciascuno dei due per essere dell’altro. Questa trama complessa di legami d’amore non è presentata mai staticamente nel Cantico, ma evocata nelle forme proprie dei dinamismi dell’amore: l’amore è cammino che si apre al cuore e alla vita, e perciò non può non vivere di tappe e di gradi: «Grande è la forza dell’amore, meravigliosa la potenza della carità. Molti sono i gradi dell’amore e fra essi grande è la differenza» (Riccardo di San Vittore, I quattro gradi della violenta carità, 2).
Questi gradi o tappe caratterizzano il rapporto dell’Amato e dell’Amata, fatto di ricerca, di incontro, di nuova ricerca fino al definitivo reciproco possesso: «La fusione delle due persone rende il dialogo impossibile, mentre dei due amanti del Cantico è caratteristica la parola», e dunque la reciproca ricerca (Cantico dei Cantici, nuova versione, introduzione e commento di G. Barbiero, Paoline, o.c., 420). Appunto per durare l’amore ha bisogno di distanza, di incontro, di nuova distanza, di nuovo incontro. Si profilano così i gradi dell’amore nel Cantico, corrispondenti alle tappe in cui il dialogo fra i due si svolge, fra lontananza e prossimità. Sono gradi, riferibili sia all’amore umano, che al rapporto con Dio. Il primo grado è quello dell’amore che cerca. In esso a dominare sono il desiderio e la ricerca, e l’altro è percepito come l’assente Presenza. Proprio così i due si profilano in questa tappa come mendicanti d’amore, cercatori ardenti dell’amato altro. Il secondo grado dell’amore è quello del tocco dell’amore, dell’amore, cioè, che trova e nuovamente perde la persona amata.
Ad aver rilievo è qui il «bacio mortale», ovvero l’incontro con l’Amato, che sembra uccidere e dà la vita, perché, mentre tutto assorbe, tutto dona. Il movimento della relazione fra i due è quello dell’abbandono di sé nell’Altro: si delinea qui la grande legge dell’amore, quel morire per vivere, che mostra come vita e morte stiano nell’esperienza d’amare in fatale duello, che però, quando l’amore c’è, è a favore della vita. Infine, la terza tappa è quella dell’amore vittorioso. Vi emerge il contesto del giardino fiorito, dove i due non sono più due, ma Uno, e il ritrovarsi di ciascuno nell’altro è pegno e caparra della vittoria sulla morte, che è la vita senza fine dell’amore.

Publié dans:biblica, Bruno Forte, Teologia |on 13 juin, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

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Sant’Ambrogio: « La tua fede ti ha salvata; va in pace »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100613

XI Domenica delle ferie delle ferie del Tempo Ordinario – Anno : Lc 7,36-50#Lc 8,1-3
Meditazione del giorno
Sant’Ambrogio (circa 340-397), vescovo di Milano e dottore della Chiesa
La Penitenza, II, 8 ; SC 179, 175

« La tua fede ti ha salvata; va in pace »

        «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Mt 9,12). Fai vedere, dunque al medico la tua piaga, perché tu sia curato. Se non gliela mostrerai, egli la conosce, ma desidera ascoltare la tua voce. Netta le tue cicatrici con le lacrime. In questa maniera, appunto, la donna di cui è parola nel Vangelo, si è mondata dal peccato, dal fetore della sua iniquità. Si è resa libera dalla colpa, nel lavare i piedi di Gesù con le lacrime.

        Volesse il cielo, o Gesù, che tu mi destinassi a lavare i piedi che hai imbrattati mentre incedevi entro di me!… Ma donde attingere l’acqua viva con cui lavarli? Non ho a disposizione l’acqua, bensì le lacrime. Oh, potessi con esse purificare me stesso, mentre lavo i tuoi piedi! Come fare, perché tu dica di me: «Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato»? Ben di più avrei dovuto amare, lo ammetto, e fin troppo mi è stato condonato. Sono stato, infatti, chiamato al sacerdozio dopo essere vissuto sino a quel momento tra il frastuono delle cause forensi e le beghe paurose della pubblica amministrazione. È mio timore, pertanto, apparire ingrato, se dimostrerò un amore minore, giacché molto di più mi è stato condonato.

        Ma non posso stimare tutti all’altezza della donna la quale, meritatamente, è stata preferita anche a Simone che offriva il pranzo al Signore. Essa ha, infatti, dato lezione alle persone che intendono lucrarsi il perdono. Ha baciato i piedi di Cristo, li ha lavati con le lacrime, asciugati con i capelli e cosparsi di olio profumato… Tuttavia, se non siamo in grado di uguagliarla, Gesù sa venire in soccorso dei deboli. Se non c’è la donna che possa apprestare il banchetto, offrire l’unguento, portare con sé «la fonte dell’acqua viva» (Gv 4,10), Cristo in persona viene.

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