Archive pour juin, 2010

Gustave Doré: I martiri cristiani

Gustave Doré: I martiri cristiani dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 30 juin, 2010 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI riflette sulla figura di san Giuseppe Cafasso

dal sito:

http://www.zenit.org/article-23026?l=italian

Benedetto XVI riflette sulla figura di san Giuseppe Cafasso

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 30 giugno 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell’intervento pronunciato da Benedetto XVI questo mercoledì durante l’Udienza generale in piazza San Pietro.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sulla figura di san Giuseppe Cafasso, presbitero italiano.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

abbiamo da poco concluso l’Anno Sacerdotale: un tempo di grazia, che ha portato e porterà frutti preziosi alla Chiesa; un’opportunità per ricordare nella preghiera tutti coloro che hanno risposto a questa particolare vocazione. Ci hanno accompagnato in questo cammino, come modelli e intercessori, il Santo Curato d’Ars ed altre figure di santi sacerdoti, vere luci nella storia della Chiesa. Oggi, come ho annunciato mercoledì scorso, vorrei ricordarne un’altra, che spicca sul gruppo dei « Santi sociali » nella Torino dell’Ottocento: si tratta di san Giuseppe Cafasso.

Il suo ricordo appare doveroso perché proprio una settimana fa ricorreva il 150° anniversario della morte, avvenuta nel capoluogo piemontese il 23 giugno 1860, all’età di 49 anni. Inoltre, mi piace ricordare che il Papa Pio XI, il 1° novembre 1924, approvando i miracoli per la canonizzazione di san Giovanni Maria Vianney e pubblicando il decreto di autorizzazione per la beatificazione del Cafasso, accostò queste due figure di sacerdoti con le seguenti parole: « Non senza una speciale e benefica disposizione della Divina Bontà abbiamo assistito a questo sorgere sull’orizzonte della Chiesa cattolica di nuovi astri, il parroco d’Ars, ed il Venerabile Servo di Dio, Giuseppe Cafasso. Proprio queste due belle, care, provvidamente opportune figure ci si dovevano oggi presentare; piccola e umile, povera e semplice, ma altrettanto gloriosa la figura del parroco d’Ars, e l’altra bella, grande, complessa, ricca figura di sacerdote, maestro e formatore di sacerdoti, il Venerabile Giuseppe Cafasso ». Si tratta di circostanze che ci offrono l’occasione per conoscere il messaggio, vivo e attuale, che emerge dalla vita di questo santo. Egli non fu parroco come il curato d’Ars, ma fu soprattutto formatore di parroci e preti diocesani, anzi di preti santi, tra i quali san Giovanni Bosco. Non fondò, come gli altri santi sacerdoti dell’Ottocento piemontese, istituti religiosi, perché la sua « fondazione » fu la « scuola di vita e di santità sacerdotale » che realizzò, con l’esempio e l’insegnamento, nel « Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d’Assisi » a Torino.

Giuseppe Cafasso nasce a Castelnuovo d’Asti, lo stesso paese di san Giovanni Bosco, il 15 gennaio 1811. E’ il terzo di quattro figli. L’ultima, la sorella Marianna, sarà la mamma del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata. Nasce nella Piemonte ottocentesca caratterizzata da gravi problemi sociali, ma anche da tanti Santi che si impegnavano a porvi rimedio. Essi erano legati tra loro da un amore totale a Cristo e da una profonda carità verso i più poveri: la grazia del Signore sa diffondere e moltiplicare i semi di santità! Il Cafasso compì gli studi secondari e il biennio di filosofia nel Collegio di Chieri e, nel 1830, passò al Seminario teologico, dove, nel 1833, venne ordinato sacerdote. Quattro mesi più tardi fece il suo ingresso nel luogo che per lui resterà la fondamentale ed unica « tappa » della sua vita sacerdotale: il « Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d’Assisi » a Torino. Entrato per perfezionarsi nella pastorale, qui egli mise a frutto le sue doti di direttore spirituale e il suo grande spirito di carità. Il Convitto, infatti, non era soltanto una scuola di teologia morale, dove i giovani preti, provenienti soprattutto dalla campagna, imparavano a confessare e a predicare, ma era anche una vera e propria scuola di vita sacerdotale, dove i presbiteri si formavano nella spiritualità di sant’Ignazio di Loyola e nella teologia morale e pastorale del grande Vescovo sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Il tipo di prete che il Cafasso incontrò al Convitto e che egli stesso contribuì a rafforzare – soprattutto come Rettore – era quello del vero pastore con una ricca vita interiore e un profondo zelo nella cura pastorale: fedele alla preghiera, impegnato nella predicazione, nella catechesi, dedito alla celebrazione dell’Eucarestia e al ministero della Confessione, secondo il modello incarnato da san Carlo Borromeo, da san Francesco di Sales e promosso dal Concilio di Trento. Una felice espressione di san Giovanni Bosco, sintetizza il senso del lavoro educativo in quella Comunità: « al Convitto si imparava ad essere preti ».

San Giuseppe Cafasso cercò di realizzare questo modello nella formazione dei giovani sacerdoti, affinché, a loro volta, diventassero formatori di altri preti, religiosi e laici, secondo una speciale ed efficace catena. Dalla sua cattedra di teologia morale educava ad essere buoni confessori e direttori spirituali, preoccupati del vero bene spirituale della persona, animati da grande equilibrio nel far sentire la misericordia di Dio e, allo stesso tempo, un acuto e vivo senso del peccato. Tre erano le virtù principali del Cafasso docente, come ricorda san Giovanni Bosco: calma, accortezza e prudenza. Per lui la verifica dell’insegnamento trasmesso era costituita dal ministero della confessione, alla quale egli stesso dedicava molte ore della giornata; a lui accorrevano vescovi, sacerdoti, religiosi, laici eminenti e gente semplice: a tutti sapeva offrire il tempo necessario. Di molti, poi, che divennero santi e fondatori di istituti religiosi, egli fu sapiente consigliere spirituale. Il suo insegnamento non era mai astratto, basato soltanto sui libri che si utilizzavano in quel tempo, ma nasceva dall’esperienza viva della misericordia di Dio e dalla profonda conoscenza dell’animo umano acquisita nel lungo tempo trascorso in confessionale e nella direzione spirituale: la sua era una vera scuola di vita sacerdotale.

Il suo segreto era semplice: essere un uomo di Dio; fare, nelle piccole azioni quotidiane, « quello che può tornare a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime ». Amava in modo totale il Signore, era animato da una fede ben radicata, sostenuto da una profonda e prolungata preghiera, viveva una sincera carità verso tutti. Conosceva la teologia morale, ma conosceva altrettanto le situazioni e il cuore della gente, del cui bene si faceva carico, come il buon pastore. Quanti avevano la grazia di stargli vicino ne erano trasformati in altrettanti buoni pastori e in validi confessori. Indicava con chiarezza a tutti i sacerdoti la santità da raggiungere proprio nel ministero pastorale. Il beato don Clemente Marchisio, fondatore delle Figlie di san Giuseppe, affermava: « Entrai in Convitto essendo un gran birichino e un capo sventato, senza sapere cosa volesse dire essere prete, e ne uscii affatto diverso, pienamente compreso della dignità del sacerdote ». Quanti sacerdoti furono da lui formati nel Convitto e poi seguiti spiritualmente! Tra questi – come ho già detto – emerge san Giovanni Bosco, che lo ebbe come direttore spirituale per ben 25 anni, dal 1835 al 1860: prima come chierico, poi come prete e infine come fondatore. Tutte le scelte fondamentali della vita di san Giovanni Bosco ebbero come consigliere e guida san Giuseppe Cafasso, ma in un modo ben preciso: il Cafasso non cercò mai di formare in don Bosco un discepolo « a sua immagine e somiglianza » e don Bosco non copiò il Cafasso; lo imitò certo nelle virtù umane e sacerdotali – definendolo « modello di vita sacerdotale » -, ma secondo le proprie personali attitudini e la propria peculiare vocazione; un segno della saggezza del maestro spirituale e dell’intelligenza del discepolo: il primo non si impose sul secondo, ma lo rispettò nella sua personalità e lo aiutò a leggere quale fosse la volontà di Dio su di lui. Cari amici, è questo un insegnamento prezioso per tutti coloro che sono impegnati nella formazione ed educazione delle giovani generazioni ed è anche un forte richiamo di quanto sia importante avere una guida spirituale nella propria vita, che aiuti a capire ciò che Dio vuole da noi. Con semplicità e profondità, il nostro Santo affermava: « Tutta la santità, la perfezione e il profitto di una persona sta nel fare perfettamente la volontà di Dio (…). Felici noi se giungessimo a versare così il nostro cuore dentro quello di Dio, unire talmente i nostri desideri, la nostra volontà alla sua da formare ed un cuore ed una volontà sola: volere quello che Dio vuole, volerlo in quel modo, in quel tempo, in quelle circostanze che vuole Lui e volere tutto ciò non per altro se non perché così vuole Iddio ».

Ma un altro elemento caratterizza il ministero del nostro Santo: l’attenzione agli ultimi, in particolare ai carcerati, che nella Torino ottocentesca vivevano in luoghi disumani e disumanizzanti. Anche in questo delicato servizio, svolto per più di vent’anni, egli fu sempre il buon pastore, comprensivo e compassionevole: qualità percepita dai detenuti, che finivano per essere conquistati da quell’amore sincero, la cui origine era Dio stesso. La semplice presenza del Cafasso faceva del bene: rasserenava, toccava i cuori induriti dalle vicende della vita e soprattutto illuminava e scuoteva le coscienze indifferenti. Nei primi tempi del suo ministero in mezzo ai carcerati, egli ricorreva spesso alle grandi predicazioni che arrivavano a coinvolgere quasi tutta la popolazione carceraria. Con il passare del tempo, privilegiò la catechesi spicciola, fatta nei colloqui e negli incontri personali: rispettoso delle vicende di ciascuno, affrontava i grandi temi della vita cristiana, parlando della confidenza in Dio, dell’adesione alla Sua volontà, dell’utilità della preghiera e dei sacramenti, il cui punto di arrivo è la Confessione, l’incontro con Dio fattosi per noi misericordia infinita. I condannati a morte furono oggetto di specialissime cure umane e spirituali. Egli accompagnò al patibolo, dopo averli confessati ed aver amministrato loro l’Eucaristia, 57 condannati a morte. Li accompagnava con profondo amore fino all’ultimo respiro della loro esistenza terrena.

Morì il 23 giugno 1860, dopo una vita offerta interamente al Signore e consumata per il prossimo. Il mio Predecessore, il venerabile servo di Dio Papa Pio XII, il 9 aprile 1948, lo proclamò patrono delle carceri italiane e, con l’Esortazione apostolica Menti nostrae, il 23 settembre 1950, lo propose come modello ai sacerdoti impegnati nella Confessione e nella direzione spirituale.

Cari fratelli e sorelle, san Giuseppe Cafasso sia un richiamo per tutti ad intensificare il cammino verso la perfezione della vita cristiana, la santità; in particolare, ricordi ai sacerdoti l’importanza di dedicare tempo al Sacramento della Riconciliazione e alla direzione spirituale, e a tutti l’attenzione che dobbiamo avere verso i più bisognosi. Ci aiuti l’intercessione della Beata Vergine Maria, di cui san Giuseppe Cafasso era devotissimo e che chiamava « la nostra cara Madre, la nostra consolazione, la nostra speranza ».

Paolo a Roma: Una spina nella carne: dalla debolezza la forza

dal sito:

http://www.romasette.it/modules/news/article.php?storyid=4645

Paolo a Roma: Una spina nella carne: dalla debolezza la forza
 
di Andrea Lonardo

«Ho scoperto che si può essere condotti ad odiare una persona, a odiarla con tutte le forze del nostro essere e, allo stesso tempo, a trovare nell’amore il sollievo rispetto a questo odio. Non si può amare qualcuno che vi fa del male. Ma si può trovare, e io l’ho trovato in Cristo, un punto di appoggio, come un trampolino. Mi dicevo: “Per Te, Signore, non dico che lo detesto”. Il fatto di non aver sulla bocca queste parole di odio era un conforto. Talvolta vedevo arrivare un guerrigliero crudele e spaventoso. Veniva a sedersi davanti a me ed io ero capace di sorridergli. L’amore è necessario. Ho cominciato un cammino di perdono».

Così Ingrid Betancourt ha raccontato della sua prigionia, durata ben sei anni nella giungla dove era stata condotta dopo il suo rapimento.

Paolo visse parte del suo periodo romano in una analoga situazione di carcere. Già la sua prima abitazione era stata una custodia militaris, cioè qualcosa di simile agli arresti domiciliari o ad una libertà vigilata. Quella condizione doveva poi essersi trasformata in una vera e propria detenzione

La tradizione conserva nei sotterranei della chiesa di S. Maria in via Lata (l’antico nome dell’odierna via del Corso) una colonna alla quale Paolo sarebbe stato legato; su di essa venne poi posta l’iscrizione Verbum Domini non est alligatum, «la Parola di Dio non è incatenata» (2 Tim 2,9).

Più noto ancora è il Carcere Mamertino, il luogo di detenzione dei prigionieri che sfilavano al seguito dei cortei degli imperatori vincitori. Mentre gli Augusti salivano al Tempio della Triade Capitolina, ad offrire sacrifici agli dèi di Roma per la vittoria ottenuta, i prigionieri venivano lì custoditi, in attesa della loro esecuzione capitale. Vi passarono certamente le loro ultime ore di vita Giugurta, re della Numidia, Vercingetorige, capo dei Galli, Aristobulo II, che si era opposto a Pompeo quando questi conquistò la Siria e Gerusalemme, Simone di Ghiora, uno dei leader che guidarono e persero la I guerra giudaica contro Roma che si concluse con la distruzione del Tempio di Gerusalemme.

Probabilmente san Paolo trascorse in quel luogo la sua ultima detenzione, così come avvenne per Pietro. La parte inferiore del carcere, detta Tullianum, conserva la memoria del battesimo che gli apostoli avrebbero impartito ai loro carcerieri che erano stati convertiti al Signore dalla testimonianza di fede e di amore dei loro due prigionieri.

Certo è che l’esperienza della prigionia fu per Paolo non solo dolorosa, ma anche feconda. Egli ben comprese che nella propria carne proseguiva l’opera di Cristo, dalla cui croce era nata la salvezza. Le catene non erano così semplicemente da affrontare o da fuggire, ma da trasformare in occasione di grazia.

Innanzitutto dal carcere Paolo scrisse le cosiddette “lettere dalla prigionia”, certamente Filippesi e Filemone che sono unanimemente riconosciute di mano paolina dagli esegeti. Ma anche Efesini e Colossesi, oltre alla seconda a Timoteo, conservano memoria del carcere di Paolo. Non è certo se tutti questi testi siano stati scritti nel corso della prigionia romana come afferma la tradizione o se si debba ipotizzare una prigionia efesina non esplicitamente attestata dagli Atti.

Nelle catene, comunque, egli continuava a vivere la responsabilità per tutte le chiese che lo aveva sempre animato e dalla detenzione confortava i suoi fratelli. Ma, ancor più, la sua testimonianza restava viva in prigione e diveniva annuncio di fede, come l’apostolo stesso racconta:

«Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo, al punto che in tutto il pretorio – e dovunque – si sa che sono in catene per Cristo; in tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore alcuno» (Fil 1,12-14). Era solo per amore di Cristo che egli veniva recluso.

Già a Filippi Paolo era stato miracolosamente liberato dal carcere ed il carceriere si era convertito ed era stato battezzato insieme a tutti i suoi (At 16). Dal sangue e dalle catene dei martiri, in continuità con la croce di Cristo, continuava ad erompere l’acqua del battesimo e della salvezza.

In un famosissimo passaggio della seconda Lettera ai Corinzi, l’apostolo parla di una “spina nella carne” (2 Cor 12,7) che Dio non aveva voluto togliergli, nonostante le ripetute preghiere in merito. Il grande esegeta gesuita Ugo Vanni, così commenta questo termine misterioso, rifiutando quelle interpretazioni che vi avevano voluto leggere un peccato della sensualità: la spina nella carne è la «situazione di conti che non tornano: Paolo si sentiva inviato da Dio a portare il Vangelo, era guidato dallo Spirito anche nei suoi piani apostolici, faceva dei progetti apostolici e a un certo punto le circostanze esterne e poi le circostanze sue personali – la sua salute – non gli permettevano di realizzarli».

Nella stessa lettera Paolo enumera, in maniera impressionante, tutte le vessazioni che ha dovuto subire: «Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2 Cor 11,24-28).

Era questa la “spina nella carne” che Paolo doveva accogliere; il Cristo lo invitava a non fuggire l’incomprensione, l’ostilità ed addirittura l’odio che incontrava, ma a trarne motivo ed occasione di annuncio e di testimonianza. Paolo dichiara così, nella stessa lettera, la fecondità del suo essere esposto alla morte in favore della vita di coloro che accoglievano la fede:

«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita» (2 Cor 4,7-12).

Da quelle catene, dalla morte di Paolo e Pietro, è giunta a noi la fede.

N.B. Questo il testo integrale della Betancourt da cui è presa la citazione che compare all’inizio dell’articolo:

(N.d.R. Il testo è stato raccolto per il settimanale francese «La Vie» da Elisabeth Marshall e pubblicato in italiano da Avvenire del 21 gennaio 2009, con il titolo Ingrid, la fede e il perdono. Ingrid Betancourt, candidata alle presidenziali in Colombia, viene rapita nel 2002 tre mesi prima delle lezioni, dalle Farc, sigla che designa le Forze Armate Rivoluzionarie. È stata liberata il 2 luglio 2008, dopo 6 anni di prigionia)

«Ho scoperto la fede in Dio durante la mia prigionia. Fino ad allora, la mia fede era basata sul ritualismo: come molti cattolici, andavo a messa, pregavo, ma la mia conoscenza di Dio era molto limitata. Quando mi sono ritrovata nella giungla, ho avuto molto tempo e per unica lettura la Bibbia. Ho avuto il piacere, in sei anni, di leggerla, di meditarla. Se avessi avuto altre cose da fare, avrei fatto altro, perché si è sempre pigri per riflettere sull’essenziale.

Forse era una prigionia necessaria. Essa mi ha permesso di capire chi è Dio, di stabilire una relazione con lui, con molta ammirazione, molto amore ma – soprattutto – comprendendo chi è, attraverso la sua parola. Per me non si tratta di parole vuote ma di una realtà: leggendo la Bibbia, ho compreso il carattere di Dio; non è solo una luce, un’energia o soltanto una forza, ma è una Parola, qualcuno che vuole comunicare con me. Non ho avuto illuminazioni, no! Ho semplicemente letto la Bibbia, razionalmente. Sono stata colpita da tutti i brani che mi hanno connesso emozionalmente e interiormente con la parola di Dio. Ho sentito la voce di Dio in un modo assai umano e molto concreto.

Leggevo e rileggevo alcuni passaggi dicendomi: «Questo è stato scritto per me!». Avevo sentito a lungo senza capire e, di colpo, è stato come se mi fossi collegata alla presa di corrente giusta. In un momento, la luce si accende e si capiscono tutte le cose che erano rimaste oscure. Ancora una volta, non si tratta di un’esperienza mistica ma razionale, che ha profondamente trasformato la mia vita.

Come sono cambiata! Oggi il mio tempo non è il tempo di prima. Avevo sempre voglia che le cose andassero in fretta. Oggi non mi preoccupo più: so che tutto capita al tempo giusto. La mia speranza dunque è più forte. Il passaggio attraverso la prigionia non ha ucciso la mia volontà, anzi ha cambiato la natura della mia speranza.

La sola risposta alla violenza è una risposta d’amore. Questa risposta d’amore, questo atteggiamento non violento, per me, ha avuto origine dalla fede cristiana. Ho scoperto che si può essere condotti ad odiare una persona, a odiarla con tutte le forze del nostro essere e, allo stesso tempo, a trovare nell’amore il sollievo rispetto a questo odio. Non si può amare qualcuno che vi fa del male. Ma si può trovare, e io l’ho trovato in Cristo, un punto di appoggio, come un trampolino.

Mi dicevo: «Per Te, Signore, non dico che lo detesto». Il fatto di non aver sulla bocca queste parole di odio era un conforto. Talvolta vedevo arrivare un guerrigliero crudele e spaventoso. Veniva a sedersi davanti a me ed io ero capace di sorridergli. L’amore è necessario. Ho cominciato un cammino di perdono. Sono riuscita a perdonare, e non solo ai miei sequestratori. Ho perdonato anche quelli che erano prigionieri con me, con i quali talvolta ci sono stati momenti molto difficili.

Ho perdonato quei miei amici che non si sono ricordati di noi, quelle persone sulle quali si fa affidamento e che sono mancate; quelle persone che amavo e che hanno detto delle cose orribili, come, ad esempio, che la prigionia me l’ero cercata. Oggi credo più profondamente che possiamo cambiare il mondo perché io stessa sono stata trasformata. Ma, in questo mondo di dominio e di possesso, so come è nel cuore che si generano i cambiamenti essenziali. La pace, che sogniamo, sarà possibile il giorno in cui ci sarà un atteggiamento diverso nei cuori».

31 marzo 2009

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La nostra casa è sempre oltre (di Giovanni Vannucci *)

dal sito:

http://www.romena.it/Giornalino/2008-4/pagina14.htm

La nostra casa è sempre oltre (di Giovanni Vannucci *)

Cristo ci dice: “Io sono la vita”. Abbiamo visto che la vita è una mutazione continua, un passaggio incessante da una figura all’altra figura; la permanenza della vita è garantita da questa continua morte per risorgere, morte e resurrezione, distruzione e apparizione di una nuova figura. Questo avviene implacabilmente nel ritmo del tempo per tutte le cose viventi. È avvenuto nel Cristo e avviene anche di noi che vogliamo seguire la via del Cristo e vivere la vita del Cristo. Dobbiamo implacabilmente essere pronti e vigilanti alla novità che incontriamo nel giorno che si dischiude al nostro cammino.
Ogni giorno Dio è nuovo: lo chiamiamo “l’eterno dei giorni” ma Dio non ha tempo, è presente eternamente. Per la nostra esperienza umana in continua mutazione è presente ed è assente. Cristo è venuto e lo attendiamo; è un paradosso questo. Cristo è venuto, perché lo attendiamo? Diciamo: “La seconda venuta. Attendiamo ancora che Cristo nasca in noi. È nato a Betlemme e deve nascere in noi…”
Se invece ci chiudiamo nelle nostre visioni religiose, corriamo il rischio di essere pietre morte nel fluire della vita. Allora Cristo passa in noi e noi non lo avvertiamo, non ci guarda neppure, perché non ci sente, non siamo viventi: siamo morti di una morte senza risurrezione.
Questa è la vita di Cristo, la realtà di Cristo, la realtà della vita. Noi dobbiamo continuamente confrontare il mistero di Dio, che è vita, con le manifestazioni della vita. Se chiudiamo Dio soltanto nell’esperienza della nostra mente o della nostra emotività, dimenticando la realtà vivente, rischiamo di morire soffocati dai nostri sentimenti pietistici e rischiamo di rimanere inerti, inariditi dalle definizioni della nostra mente.
Anche la nostra vita cristiana bisogna sia permeata da un continuo rinnovamento, dalla continua ansia di seguire la novità di Cristo. Cristo ci passa vicino, ci saluta, ci dice: “Va’ oltre”: E diventiamo inquieti, agitati, finché non sentiamo che il nostro passo segue le orme di Cristo. E quando gli chiediamo: “Dove abiti?”. Lui ci dice: “Il Figlio dell’Uomo non ha una tana dove dimorare né una pietra dove posare il capo”(Mt 8,20. Lc 9,58). È il pellegrino eterno, qui nel tempo e nello spazio, e noi che siamo alla ricerca di Dio dobbiamo essere i pellegrini eterni, sempre in un movimento vitale per poter seguire le orme del maestro che ci porta a più vita, più amore, più verità, più saggezza, più equilibrio; e questo “più”, questo “oltre”, che l’esperienza religiosa introduce nel nostro organismo psicologico e mentale non trova mai pace.
Noi cerchiamo una città che non è costruita da mano d’uomo, ma è costruita da Dio stesso, la Gerusalemme celeste che è oltre il tempo e oltre lo spazio, la maturazione del nostro essere in Dio, che è oltre il presente e non avverrà altro che nel momento in cui il bacio di Dio si poserà sulle nostre labbra. Allora saremo assorbiti dalla luce e dalla vita di Dio, e avremo una vita senza fine. Come deve essere, allora, la nostra vita cristiana? Un avvento continuo, una continua attesa dello Sposo che viene. Allo Sposo dobbiamo andare incontro con le lampade accese, cioè con tutto il nostro essere vivente, non racchiuso in nessuna visione religiosa, perché tutte le visioni sono buone nel momento presente, ma tutte devono essere superate nel momento successivo. Vorrei che sentiste così il mistero di Cristo: egli ci chiama ad andare oltre, vuole che la nostra vita abbia sempre accanto il segno più, mai il segno meno. Noi sogniamo una vita più piena, più intensa, sogniamo un amore più caldo, più umano, più esteso, sogniamo una libertà sempre maggiore, una possibilità di comunicare con tutti gli esseri, una dilatazione di coscienza che ci permetta di essere presenti a tutte le creature che attualmente vivono negli sconfinati universi che attorniano la nostra terra. Questo aspettiamo e dobbiamo essere insofferenti fintanto che non avremo raggiunto la vera pienezza di vita.

* Questo testo è tratto da “Il passo di Dio”, Meditazioni per l’Avvento, Edizioni Paoline, Milano, 2005

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A differenza di un moralista, Cristo non amava una teoria, ma amava l’uomo vero.
D. Bonhoeffer
 

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buona notte

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Photo de papillon : l’Apollon

http://raf-photos.blogspot.com/2008/04/papillon-apollon.html

Omelia per il 30 giugno 2010: Il grido di Satana

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13110.html

Omelia (02-07-2008) 
Monaci Benedettini Silvestrini

Il grido di Satana

«Che cosa abbiamo noi in comune con te, Figlio di Dio? Sei venuto qui prima del tempo a tormentarci?». Due indemoniati escono dal buio dei sepolcri, pare sia questa la loro dimora nel regno della morte, una caratteristica del loro inferno… e gridano minacciosi verso Gesù: dichiarano di non voler condividere nulla con Lui, che viene invece dal Regno dell’amore e nel loro livore affermano che Egli è anzitempo la causa della loro rovina e motivo di tormento. Chiedono di essere mandati ad invasare una mandria di porci, tra quegli animali che nel mondo giudaico rappresentavano l’essenza stessa dell’impurità. Li attende un precipizio di morte tra i flutti del mare! Un salmista afferma nella sua grande disgrazia: «Un abisso chiama l’abisso al fragore delle tue cascate; tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati». I demoni si sono dati una definizione in lingua latina che ha del demoniaco, recita così e il lettore può leggerla nei due versi, da destra a sinistra e viceversa: «In girum imus nocte et consumimur igni»: «andiamo vagando nelle tenebre della notte e siamo divorati dal fuoco». Ai nostri giorni non si parla più del demonio, si arriva a negarne l’esistenza e non ci accorge che così egli si nasconde ed opera le sue trame contro di noi. Lo si nega anche dinanzi alle più evidenti azioni diaboliche, anche quando il male serpeggia e poi assume dimensioni disastrose e ciò sia a livello personale che collettivo. In due modi essenzialmente agisce: si nasconde per non farsi riconoscere e poi cerca di carpire e nascondere Dio alla vista dell’uomo. È il suo capolavoro! Il Signore Gesù è venuto per sconfiggerlo e scacciarlo per sempre dal nostro mondo: «Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo, poiché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte». Non dovremmo essere noi a riaprirgli le porte e dargli accoglienza. 

Concilio Vaticano II : « Lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100630

Mercoledì della XIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mt 8,28-34
Meditazione del giorno
Concilio Vaticano II
Constituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes), 9-10 – Copyright © Libreria Editrice Vaticana

« Lo pregarono che si allontanasse dal loro territorio »

        Il mondo si presenta oggi potente a un tempo e debole, capace di operare il meglio e il peggio, mentre gli si apre dinanzi la strada della libertà o della schiavitù, del progresso o del regresso, della fraternità o dell’odio. Inoltre l’uomo prende coscienza che dipende da lui orientare bene le forze da lui stesso suscitate e che possono schiacciarlo o servirgli. Per questo si pone degli interrogativi.

        In verità gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo. È proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si combattono a vicenda. Da una parte infatti, come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; d’altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe (Rm 7,14). Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società…

        Con tutto ciò, di fronte all’evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi più fondamentali: cos’è l’uomo?
Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?

        Ecco: la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione; né «è dato in terra un altro Nome agli uomini, mediante il quale possono essere salvati» (At 4,12). Essa crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana. Inoltre la Chiesa afferma che al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che «è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli» (Eb 13,8).

buona notte

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Dwarf Alpenrose

http://www.naturephoto-cz.com/preserved-plants.html

Aelredo di Rievaulx : « Su questa pietra, edificherò la mia Chiesa »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100629

Santi Pietro e Paolo, apostoli, solennità : Mt 16,13-19
Meditazione del giorno
Aelredo di Rievaulx ( 1110-1167), monaco cistercense inglese
Per la festa dei Santi Pietro e Paolo. Omelia XVI, PL 195, 298-302

« Su questa pietra, edificherò la mia Chiesa »

        Tutti gli Apostoli sono colonne della terra (Sal 75, 4), però in primo luogo, coloro di cui celebriamo la solennità. Sono le due colonne che sostengono la Chiesa con il loro insegnamento, la loro preghiera e l’esempio della loro costanza. Il Signore stesso ha fondato queste colonne. Prima, erano deboli e non potevano portare né loro, né gli altri. E a questo punto, appare il grande disegno del Signore : Se fossero stati sempre forti, si sarebbe potuto pensare che la loro forza veniva da loro stessi. Perciò il Signore, prima di affermare loro, ha voluto mostrare quanto erano capaci, affinché tutti sappiano che la loro forza veniva da Dio.

        Il Signore stesso ha fondato queste colonne, cioè la Santa Chiesa. Ecco perché dobbiamo lodare con tutto il cuore questi nostri santi padri che hanno sopportato tanta fatica per il Signore e hanno perseverato con tanta forza. È niente perseverare nella gioia, nella prosperità e la pazienza. È grande invece essere lapidato, flagellato, schiaffeggiato per il Cristo, e in tutto ciò, perseverare col Cristo (2 Cor 11, 25). È grande, con Paolo, essere maledetto e benedire…essere la feccia del mondo e tirarne gloria (1 Cor 4, 12-13). E cosa dire di Pietro ? Anche se non avesse sopportato nulla per il Cristo, basterebbe per festeggiarlo il fatto che oggi sia stato crocifisso per lui. La croce fu la sua strada.

SS Pietro e Paolo

SS Pietro e Paolo dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 28 juin, 2010 |Pas de commentaires »
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