buona notte

dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100519
Mercoledì della VII settimana di Pasqua : Jn 17,11-19
Meditazione del giorno
Sant’Agostino (354-430), vescovo d’Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Omelia sul vangelo di Giovanni, 115
« Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo »
Ascoltate dunque, Giudei e gentili… ; ascoltate, regni tutti della terra: Io non intralcio la vostra sovranità in questo mondo: « Il mio regno non è di questo mondo » (Gv 18,36). Non lasciatevi prendere dall’assurdo timore di Erode che, alla notizia della nascita di Cristo, si allarmò… « Il mio regno – dice il Signore – non è di questo mondo. » Venite nel regno che non è di questo mondo; venite credendo, e non vogliate diventare crudeli per paura. E’ vero che in una profezia, Cristo, riferendosi a Dio Padre, dice: « Da lui io sono stato costituito re sopra Sion, il suo monte santo » (Sal 2, 6), ma questo monte e quella Sion, di cui parla, non sono di questo mondo.
Quale è infatti il suo regno se non i credenti in lui, a proposito dei quali dice: « Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo »? anche se egli voleva che essi rimanessero nel mondo, e per questo chiese al Padre: « Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal male ». Ecco perché anche qui non dice: « Il mio regno non è in questo mondo », ma dice: « Il mio regno non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero per me, affinché non fossi consegnato » (Gv 18,36).
Il suo regno infatti è quaggiù fino alla fine dei secoli, portando mescolata nel suo grembo la zizzania fino al momento della mietitura (Mt 13,24s)… Tuttavia, esso non è di quaggiù, perché è peregrinante nel mondo. E’ precisamente agli appartenenti al suo regno che egli si riferisce quando dice: « Voi non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo » (Gv 15,19). Erano dunque del mondo, quando ancora non facevano parte del suo regno, e appartenevano al principe del mondo (Gv 12,3). E’ quindi del mondo tutto ciò che è stato generato dalla stirpe corrotta di Adamo; è diventato però regno di Dio, e non è più di questo mondo, tutto ciò che in Cristo è stato rigenerato. E’ in questo modo che « Dio ci ha sottratti al potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio dell’amor suo » (Col 1,13).
dal sito:
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/108q05a1.html
Itinerario nella città santa
Le pietre di Sion
di Gianfranco Ravasi
« Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra! Mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme sopra ogni mia gioia ». Là, sulle sponde dei fiumi di Babilonia, l’antico poeta ebreo esule, autore del Salmo 137, con queste parole dava voce a ogni figlio di Israele e al suo amore per quella città, il cui nome echeggia 656 volte nella Bibbia e che il giudaismo ha invocato con una settantina di denominazioni celebrative differenti. Ben più modesta di Roma o di Atene, « Gerusalemme – confessava Chateaubriand nel suo Itinéraire de Paris à Jérusalem – ha un nome che evoca tanti misteri e colpisce ogni immaginazione: tutto è straordinario in questa città straordinaria ».
Seguendo il fiume dei pellegrini di tutti i secoli, è ora Benedetto XVI, terzo successore di Pietro a varcare le porte della « città santa » – al-Quds, come la chiamano lapidariamente gli Arabi – e a percorrerne gli itinerari fondamentali, dalla Spianata del Tempio al Cenacolo, dalla Valle di Giosafat, posta ai piedi del Monte degli Ulivi, fino al cuore della cristianità, il Santo Sepolcro.
Il Salmista cantava: « Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion » (102, 15) e il verbo ebraico usato, ratsû, suggeriva un amore quasi fisico che genera piacere, per cui quelle pietre sono « care » e « accarezzate ». Gesù, invece, le sentiva come creature viventi: « Vi dico (…): le pietre urleranno » (Luca, 19, 40), col verbo greco quasi onomatopeico, kràxousin.
E tre sono le pietre che gridano sopra tutte le altre, le cui voci sono raccolte separatamente dalle tre religioni monoteistiche. Per gli Ebrei è il kotel, Il Muro occidentale, popolarmente noto come Muro del pianto, costituito dai massi squadrati e bordati del tempio eretto da Erode a partire dall’anno 20 prima dell’era cristiana, sotto i quali riposano le pietre degli altri due templi storici, quello basilare e decisivo di Salomone del x secolo e il più modesto edificio dei rimpatriati dall’esilio babilonese (VI secolo), innalzato sulle rovine della distruzione della città santa operata da Nabucodonosor nel 586.
Anche a questa radice sacra dell’ebraismo si accosterà martedì con venerazione Benedetto XVI, mentre in dissolvenza sembrerà a tutti di rivedere la figura già affaticata di Giovanni Paolo ii che proprio nelle fessure di quel muro aveva – secondo la tradizione – inserito, il 26 marzo 2000, un cartiglio con questa invocazione: « Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome fosse portato alle genti: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli, e chiedendoti perdono vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza ».
Ma anche l’islam custodisce a Gerusalemme una sua pietra fondante. A essa accederà il Papa, sempre nella mattinata di martedì 12. È la roccia protetta dalla sfolgorante cupola dorata della cosiddetta moschea di Omar, alta 31 metri: la più corretta denominazione dell’edificio è, infatti, da cercare nell’arabo Qubbet as-sakra’, ossia la « cupola della roccia », memoria del sacrificio di Abramo, descritto nell’emozionante capitolo 22 della Genesi, ma soprattutto dell’ascensione al cielo di Maometto, il Profeta, ricordato anche dall’altra moschea della Spianata, ove forse un tempo si ergeva il tempio salomonico, la moschea al-Aqsa, cioè « la remota », la più lontana rispetto alla Mecca, come si legge all’inizio della sura XVII del Corano: « Lode a Dio che trasportò di notte il suo servo [Maometto] dal tempio santo [Mecca] al tempio remoto [al-Aqsa] dai benedetti recinti, per mostrargli i suoi segni ».
Uno dei più famosi trattati della tradizione musulmana, il Fada’il al-Bayt al-Muqaddas (« La grandezza del tempio santo »), opera di al-Wasiti (xi secolo), raccoglie tutta la documentazione atta a sostenere la qualità sacra musulmana di Gerusalemme, sede anche del giudizio universale finale. In quelle pagine, un accento particolare è riservato alle tradizioni legali riguardanti la ziyara, il « pellegrinaggio » secondario rispetto a quello alla Mecca suggerito ai musulmani, avente come meta appunto al-Quds, la città santa gerosolimitana.
È curioso notare che inizialmente la qibla’, cioè l’orientamento nella preghiera per l’islam aveva come riferimento Gerusalemme: sarà solo nel secondo anno dall’Egira, ossia nel 623, che si opterà per la Mecca. Il pellegrinaggio musulmano a Gerusalemme ha le sue regole di consacrazione rituale (ihram), un rituale proprio, una specifica tipologia.
A questo punto dovremmo lasciare spazio alla terza pietra fondante, quella cristiana: essa ha il suo segno nella pietra ribaltata della tomba di Cristo, custodita appunto nella basilica del Santo Sepolcro. A essa dedicheremo una sosta ideale successiva, anche perché il Papa vi accederà solo a suggello del suo pellegrinaggio. Ora vorremmo concludere questo primo nostro itinerario nella città santa, « orgoglio della nostra forza, incanto dei nostri occhi e amore delle nostre anime », come la definiva il profeta Ezechiele (24, 21), con un suggestivo inno biblico « interreligioso ». Si tratta di un canto di Sion presente nel Salterio.
Il Salmo 87 esalta, infatti, la maternità universale di Gerusalemme, capace di opporsi alla metropoli maligna, la Babilonia della divisione, e pronta ad aprire a tutti i popoli la partecipazione alla salvezza. Non per nulla anche la Bibbia usa per Sion la simbologia dell’ »ombelico della terra » (Ezechiele, 38, 12). Ecco le parole dell’inno: « Il Signore l’ha fondata sui monti santi: / per questo egli ama le porte di Sion / più di tutte le dimore di Giacobbe. / Cose gloriose egli dice di te, città di Dio! / Iscriverò Rahab e Babel come miei familiari; / ecco Filistea, Tiro ed Etiopia: / tutti costoro sono nati là. / E di Sion si dirà: « L’uno e l’altro sono nati in essa » / e « Proprio l’Altissimo la rende salda ». / Il Signore registrerà nel libro dei popoli: « Costui è nato là ». / Cantano e danzano: / Tutte le mie sorgenti sono in te! ».
È suggestivo questo canto « natale » di Gerusalemme come genitrice di tutte le nazioni: per tre volte nell’originale ebraico risuona la locuzione jullad sham/bah, « è nato là / in essa ». Il Salmista disegna una mappa universale nella quale tutti i punti cardinali della terra, pur nella loro diversità, sono incentrati su un unico polo e sentono di appartenere a un’unica matrice: c’è Rahab, cioè l’Egitto, la grande potenza occidentale, e c’è Babel, la grande potenza orientale babilonese; c’è Tiro, la potenza commerciale del nord, c’è la Filistea (o Palestina) che è l’area centrale, e l’Etiopia che rappresenta il profondo sud. Nell’anagrafe di Sion tutti sono registrati come figli: la citata locuzione jullad sham/bah era appunto la formula giuridica ufficiale con cui si dichiarava un individuo nativo di una determinata città e, come tale, dotato della pienezza dei diritti municipali.
Tutti i popoli, anche quelli che una visione sacrale e integralista avrebbe considerato come impuri e illegittimi, diventano « familiari » della stessa comunità di Dio. E in finale la processione di queste nazioni, dalle religioni diverse ma legate alla ricerca dello stesso Dio, si trasforma in una danza gioiosa e in un canto corale.
A Sion essi ritrovano le loro radici e, quindi, la sorgente della vita, della pace e della speranza, proprio come aveva già sognato Isaia in un suo celebre inno a Sion, sede della Parola di Dio: « Verranno molti popoli e diranno: « Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri ». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra » (2, 3-4).
(L’Osservatore Romano 11-12 maggio 2009)
dal sito:
http://www.zenit.org/article-22504?l=italian
La predica del Venerdì Santo di Cantalamessa: un passo indietro o avanti?
ROMA, martedì, 18 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo scritto da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., Predicatore della Casa Pontificia, in merito alle polemiche suscitate dalla sua predica di quest’anno per la celebrazione della Passione del Signore.
* * *
Passato il clamore seguito alla mia predica del Venerdì Santo in San Pietro, in presenza del papa, vorrei chiarire quali erano le mie intenzioni nel pronunciare le frasi incriminate dell’omelia, perché l’incidente non noccia al dialogo ebreo-cristiano, ma piuttosto lo incoraggi, e anche per mostrare che la reazione del mondo ebraico non è stata dappertutto la stessa.
Approfittando del fatto che quest’anno la Pasqua ebraica cadeva nella stessa settimana della Pasqua cristiana, avevo deciso di far giungere agli ebrei un saluto da parte dei cristiani, proprio dal contesto del Venerdì Santo che è stato sempre, per loro, occasione di comprensibile sofferenza. Tanto più che il tema centrale della predica era contro la violenza e, di essa, il popolo ebraico molta esperienza lungo i secoli. Già in passato, del resto, nel 1998, in una coincidenza analoga tra Pasqua ebraica e Pasqua cristiana, avevo dedicato tutta la predica del Venerdì Santo a mettere in luce le radici dell’antisemitismo cristiano, unendomi alla richiesta di perdono, lanciata in quel tempo al mondo ebraico dal papa Giovanni Paolo II. La stampa, anche ebraica, diede ampio risalto a quel discorso.
Pochi giorni prima del Venerdì Santo, mi è giunta la lettera di un amico ebreo italiano (la lettera esiste davvero, non è una mia finzione letteraria!); egli paragonava a certi aspetti dell’antisemitismo i continui attacchi alla Chiesa e al papa, in particolare l’uso dello stereotipo e il passaggio dalla responsabilità individuale a quella collettiva nel caso della pedofilia del clero. Ho deciso allora, dietro consenso dell’interessato, di citarla nella predica perché mi sembrava un gesto di grande nobiltà da parte di un ebreo, esprimere, in un momento come questo, la sua solidarietà con il capo della Chiesa cattolica, un gesto che, ritenevo, avrebbe incoraggiato i cristiani a fare altrettanto, in circostanze simili, nei confronti del popolo ebraico.
Né io né l’amico ebreo pensavamo minimamente all’antisemitismo della Shoa, ma all’antisemitismo come atteggiamento culturale, che è ben più antico e più diffuso della Shoa. L’antisemitismo, per esempio dell’affare Dreyfus, o quello che consiste nel far ricadere su tutto il popolo ebraico, anche attuale, la responsabilità della morte di Cristo. (Caso tipico,appunto, di passaggio dalla responsabilità individuale a quella collettiva!).
Così inteso, il paragone non mi sembrava così assurdo come si è voluto far credere. Poche settimane prima, un giornalista laico, Ernesto Galli della Loggia, sulla prima pagina del “Corriere della sera”, aveva denunciato il diffondersi, nella cultura moderna, di un vero e proprio “anticristianesimo”. Sono molti, del resto, a pensare che più che da amore e pietà per le vittime della pedofilia, la campagna dei media sia mossa da volontà di mettere in ginocchio la Chiesa. Qualcosa che ricorda l’ “Ecrasez l’infame” di Voltaire. L’ex sindaco di New York, Ed Koch, in un articolo del “The Jerusalem Post”, ha scritto: “Credo che i continui attacchi da parte dei media alla Chiesa Cattolica e a Papa Benedetto XVI siano diventate manifestazioni di anti-cattolicesimo. La sequela di articoli sugli stessi eventi non ha più, a mio parere, lo scopo di informare, ma semplicemente di punire”.
Questo non significa minimamente tacere o sottovalutare la gravità dei casi di pedofilia del clero. In quella stessa omelia parlavo, anche se non era il tema principale del discorso, della “violenza sui bambini di cui si sono sciaguratamente macchiati non pochi membri del clero”. In una predica alla Casa Pontificia dell’Avvento 2006 avevo addirittura proposto di indire un giorno di digiuno e di penitenza per esprimere solidarietà alle vittime della pedofilia, una proposta che ebbe larga eco nella stampa.
Come ha potuto dunque, da queste premesse ben intenzionate, svilupparsi una tempesta mediatica delle proporzioni che conosciamo? Lo ha spiegato un rabbino ebreo, una settimana dopo l’incidente, sul più diffuso quotidiano di Israele, “The Jerusalem Post” (11.04.2010), in un articolo intitolato “Siamo dei cattivi ascoltatori”. Vale la pena riassumerne alcuni passaggi perché mostrano come, intesa correttamente, la mia predica non costituisce un passo indietro nel dialogo tra ebrei e cristiani, ma un passo avanti.
Devo pensare, scrive il rabbino Alon Goshen Gottstein, che nessun portavoce ebreo che ha criticato l’affermazione del predicatore ha mai letto la sua omelia. Essi molto probabilmente hanno reagito a un giornalista che chiedeva un commento su una certa frase, e hanno dato una risposta in merito a quella frase. I giornalisti, estrapolando una citazione da un testo più lungo, fissano i termini del problema, i portavoce ebrei rispondono, ne nasce una storia, si crea uno scandalo…
Uno sguardo a ciò che il predicatore francescano ha realmente detto racconta una storia diversa, di cui il minimo che si possa dire è che dissipa l’impressione negativa generata dalle frasi che hanno fatto i titoli dei giornali. L’omelia del Venerdì Santo è stata per secoli il momento più temuto dagli ebrei. Dopo aver ascoltato tale omelia, la folla usciva per le strade e gli ebrei temevano per la loro vita. Le rappresentazioni teatrali della Passione del Venerdì Santo erano fonte costante di violenza contro i giudei…Con questo retroscena, sorprende notare ciò che Padre Cantalamessa ha fatto di questa occasione. Egli usa questo momento nella basilica di San Pietro, in presenza del papa, per augurare “Buona festa di Pasqua” agli ebrei! Ma il predicatore non si ferma qui: saluta noi ebrei con parole prese dalla Mishna, citate nell’Hagadda, il più popolare dei testi giudaici. Pensare agli ebrei come fratelli di fede durante la liturgia papale del Venerdì Santo è il frutto di decenni di lavoro nel campo delle relazioni giudeo-cristiane. Che questo abbia potuto essere detto così naturalmente e quasi a caso, questa è la vera notizia…
Non abbiamo colto tutto questo perché abbiamo notato solo il paragone tra i violenti attacchi contro la Chiesa e quelli perpetrati con gli ebrei. E anche in questo caso abbiamo omesso di ascoltare per intero la voce dell’ebreo citato dal Padre francescano. “C’è solo una risposta appropriata a tutto ciò: riconoscimento del significato sereno e profondo di quanto accaduto e dire: Grazie, P. Cantalamessa!”
P. Cantalamessa ha fatto le dovute scuse, ma anche noi dobbiamo esprimere le nostre scuse per aver mancato di ascoltare il messaggio come fu pronunciato, per aver permesso ai media di creare una falsa storia, ignorando quella vera. La battaglia contro le presentazioni selettive e superficiali del nostro messaggio religioso è una battaglia comune, nella quale le voci delle persone pensose di tutte le religioni devono collaborare. “Il tema dell’omelia del predicatore era contro la violenza. Questi ultimi fatti ci hanno mostrato come anche il cattivo ascolto può essere fonte di violenza”.
Alla voce del rabbino di Gerusalemme si è unita quella di Guido Guastalla, assessore alla cultura della comunità ebraica di Livorno, in un articolo pubblicato da “Cultura cattolica” e riassunto ne “L’Osservatore Romano” del 19 Aprile 2010. A causa della mia predica, una parte dell’opinione pubblica e della stampa italiana ha promosso, nei giorni dopo Pasqua, una campagna per sospendere la laurea honoris causa in Scienze della comunicazione che l’Università di Macerata aveva da tempo decretato di conferirmi. È stata di nuovo una ebrea, la docente di biologia Marisa Levi, il cui padre aveva perso l’insegnamento al tempo del fascismo, a prendere le mie difese. In una lettera di sostegno al Rettore, notava: “Il fatto che fossero state scritte da un ebreo rendeva molto più significative quelle parole di solidarietà al Papa, citate da padre Cantalamessa. Al di là di questo caso specifico, sono molto preoccupata da un sistema di informazione che, a partire da parole chiave appositamente scelte e staccate dal contesto, le diffonde con rapidità estrema, senza sapere cosa la persona ha detto veramente”.
Spero che questa nota serva a rassicurare tanti miei lettori o ascoltatori sparsi nel mondo, sconcertati da ciò che hanno letto o ascoltato nei media, e soprattutto a convincere gli amici ebrei che i miei sentimenti nei loro confronti non sono cambiati e che hanno, nel predicatore della Casa Pontificia, un promotore, non un nemico del dialogo con loro.
Photo de lion et lionne Panthera lio Faune sauvage d’Afrique
http://raf-photos.blogspot.com/search/label/Animaux%20Afrique
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100518
Martedì della VII settimana di Pasqua : Jn 17,1-11
Meditazione del giorno
San Cirillo d’Alessandria (380-444), vescovo e dottore della Chiesa
Commento sul Vangelo di Giovanni, 11, 7; PG 74, 497-499
« Padre, ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini »
Il Figlio ha fatto conoscere il nome del Padre non soltanto rivelandolo e lasciandoci un insegnamento esatto sulla sua divinità. In fatti, tutto ciò era stato proclamato prima della venuta del Figlio, dalla Scrittura ispirata. Ma è anche insegnandoci che, pure essendo vero Dio, è anche veramente Padre, e è qualificato così in verità, poiché ha in sé e produce fuori di sé suo Figlio, coeterno alla sua natura.
Il nome di Padre si confà a Dio più propriamente del nome di Dio : questo è un nome di dignità, quello significa una proprietà sostanziale. Infatti dire Dio vale a dire il Signore dell’universo. Pero, chi lo chiama Padre, precisa la proprietà della sua persona. Indica che lui genera. Che il nome di Padre sia più vero e più proprio del nome di Dio, il Figlio stesso ce lo mostra quando lo usa. Diceva infatti non « Io e Dio » ma proprio « Io e il Padre siamo una cosa sola » (Gv 10, 30). E diceva anche « E’ il Figlio. Su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo » (Gv 6, 27).
E quando ha prescritto ai suoi discepoli di battezzare tutte le nazioni, ha espressamente ordinato di farlo non nel nome di Dio, ma nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
dal sito:
http://www.qumran2.net/ritagli/ritaglio.pax?id=6150
Pasqua
(Card. C. M. Martini, La Pasqua dei deboli più forte della morte, 2007)
Mentre il Natale evoca istintivamente l’immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata con rappresentazioni più complesse. È una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, una esistenza ridonata a chi l’aveva perduta. Perciò se il Natale suscita un po’ in tutte le latitudini, anche presso i non cristiani e i non credenti, un’atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell’oscuro e del difficile.
Mi appare significativo il fatto che Gesù nel suo ministero pubblico si sia interessato soprattutto dei malati e che Paolo nel suo discorso di addio alla comunità di Efeso ricordi il dovere di «soccorrere i deboli». Per questo vorrei che questa Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello “star bene” come principio assoluto. Vorrei che il senso di sollievo, di liberazione e di speranza che vibra nella Pasqua ebraica dalle sue origini ai nostri giorni entrasse in tutti i cuori.
In questa Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda lettera ai Corinti: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne». (2Corinti 4,16-18). È così che siamo invitati a guardare anche ai dolori del mondo di oggi: come a «gemiti della creazione», come a «doglie del parto» (Romani, 8,22) che stanno generando un mondo più bello e definitivo, anche se non riusciamo bene a immaginarlo. Tutto questo richiede una grande tensione di speranza.
Più difficile è però per me l’esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. Ma qui mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa dentro, che li aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (ivi, 4,17), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto. È così che molti uomini e donne hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre di due anni fa o dopo l’inondazione di New Orleans. Si pensi alle energie di ricostruzione sorte come dal nulla dopo la tempesta delle guerre.
È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro modo di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla”. In questa Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda lettera ai Corinti: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne». (2Corinti 4,16-18). È così che siamo invitati a guardare anche ai dolori del mondo di oggi: come a «gemiti della creazione», come a «doglie del parto» (Romani, 8,22) che stanno generando un mondo più bello e definitivo, anche se non riusciamo bene a immaginarlo. Tutto questo richiede una grande tensione di speranza.
Più difficile è però per me l’esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. Ma qui mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa dentro, che li aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (ivi, 4,17), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto. È così che molti uomini e donne hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre di due anni fa o dopo l’inondazione di New Orleans. Si pensi alle energie di ricostruzione sorte come dal nulla dopo la tempesta delle guerre.
È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro modo di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.
dal sito:
http://chiesa.espresso.repubblica.it:80/articolo/1343307
Chiesa perseguitata? Sì, dai peccati dei suoi figli
È questa la « terrificante » attualità del messaggio di Fatima, secondo Benedetto XVI. Ma l’ultima parola nella storia è la bontà di Dio. Da accogliere con penitenza e spirito di conversione
di Sandro Magister
ROMA, 14 maggio 2010 – Curiosamente, le parole più folgoranti del suo viaggio di quattro giorni in Portogallo, con al centro la visita a Fatima, Benedetto XVI le ha pronunciate prima di atterrare a Lisbona, quando ancora era in volo, la mattina di martedì 11 aprile.
E le ha pronunciate rispondendo ai giornalisti sull’aereo, apparentemente improvvisando.
In realtà erano parole ben meditate. Le domande gli erano state presentate in anticipo dal direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi. E il papa ne aveva scelte tre, di cui la terza riguardava il « segreto » di Fatima e lo scandalo della pedofilia.
Ecco questa terza domanda con la risposta del papa, nella trascrizione diffusa dagli uffici vaticani, tipica del linguaggio parlato:
*
D. – Veniamo a Fatima, dove sarà un po’ il culmine anche spirituale di questo viaggio. Santità, quale significato hanno oggi per noi le apparizioni di Fatima? E quando lei presentò il testo del terzo segreto nella sala stampa vaticana, nel giugno 2000, c’erano diversi di noi e altri colleghi di allora, le fu chiesto se il messaggio poteva essere esteso, al di là dell’attentato a Giovanni Paolo II, anche alle altre sofferenze dei papi. È possibile, secondo lei, inquadrare anche in quella visione le sofferenze della Chiesa di oggi, per i peccati degli abusi sessuali sui minori?
R. – Innanzitutto vorrei esprimere la mia gioia di andare a Fatima, di pregare davanti alla Madonna di Fatima, che per noi è un segno della presenza della fede, che proprio dai piccoli nasce una nuova forza della fede, che non si riduce ai piccoli, ma che ha un messaggio per tutto il mondo e tocca la storia proprio nel suo presente e illumina questa storia.
Nel 2000, nella presentazione, avevo detto che un’apparizione, cioè un impulso soprannaturale, che non viene solo dall’immaginazione della persona, ma in realtà dalla Vergine Maria, dal soprannaturale, che un tale impulso entra in un soggetto e si esprime nelle possibilità del soggetto. Il soggetto è determinato dalle sue condizioni storiche, personali, temperamentali, e quindi traduce il grande impulso soprannaturale nelle sue possibilità di vedere, di immaginare, di esprimere, ma in queste espressioni, formate dal soggetto, si nasconde un contenuto che va oltre, più profondo, e solo nel corso della storia possiamo vedere tutta la profondità, che era – diciamo – “vestita” in questa visione possibile alle persone concrete.
Così direi, anche qui, oltre questa grande visione della sofferenza del papa, che possiamo in prima istanza riferire a papa Giovanni Paolo II, sono indicate realtà del futuro della Chiesa che man mano si sviluppano e si mostrano. Perciò è vero che oltre il momento indicato nella visione, si parla, si vede la necessità di una passione della Chiesa, che naturalmente si riflette nella persona del papa, ma il papa sta per la Chiesa e quindi sono sofferenze della Chiesa che si annunciano.
Il Signore ci ha detto che la Chiesa sarebbe stata sempre sofferente, in modi diversi, fino alla fine del mondo. L’importante è che il messaggio, la risposta di Fatima, sostanzialmente non va a devozioni particolari, ma proprio alla risposta fondamentale, cioè conversione permanente, penitenza, preghiera, e le tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Così vediamo qui la vera e fondamentale risposta che la Chiesa deve dare, che noi, ogni singolo, dobbiamo dare in questa situazione.
Quanto alle novità che possiamo oggi scoprire in questo messaggio, vi è anche il fatto che non solo da fuori vengono attacchi al papa e alla Chiesa, ma le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall’interno della Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa. Anche questo si è sempre saputo, ma oggi lo vediamo in modo realmente terrificante: che la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa e che la Chiesa quindi ha profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia. Il perdono non sostituisce la giustizia. Con una parola, dobbiamo ri-imparare proprio questo essenziale: la conversione, la preghiera, la penitenza e le virtù teologali. Così rispondiamo, siamo realisti nell’attenderci che sempre il male attacca, attacca dall’interno e dall’esterno, ma che sempre anche le forze del bene sono presenti e che, alla fine, il Signore è più forte del male, e la Madonna per noi è la garanzia visibile, materna della bontà di Dio, che è sempre l’ultima parola nella storia.
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Queste parole di Benedetto XVI hanno doppiamente stupito gli osservatori.
Anzitutto per la lettura che papa Joseph Ratzinger ha dato del cosiddetto « segreto » di Fatima. Una lettura non confinata al passato, come nelle interpretazioni correnti di parte ecclesiastica, ma aperta al presente e al futuro. « Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa », ha ripetuto ai fedeli davanti al santuario.
E poi e più ancora per l’affermazione che « la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa ». Anche qui contraddicendo i giudizi espressi da molti ecclesiastici, secondo i quali la Chiesa soffre primariamente per gli attacchi che le vengono portati dall’esterno.
Ma in entrambi i casi Ratzinger non ha fatto che confermare ed esplicitare giudizi da lui già formulati in precedenti occasioni.
Basti ricordare, ad esempio, questo passo dell’omelia da lui pronunciata – anch’essa a braccio – nella messa celebrata lo scorso 15 aprile con i membri della pontificia commissione biblica:
« C’è una tendenza in esegesi che dice: Gesù in Galilea avrebbe annunciato una grazia senza condizione, assolutamente incondizionata, quindi anche senza penitenza, grazia come tale, senza precondizioni umane. Ma questa è una falsa interpretazione della grazia. La penitenza è grazia. È una grazia che noi riconosciamo il nostro peccato. È una grazia che conosciamo di aver bisogno di rinnovamento, di cambiamento, di una trasformazione del nostro essere. Penitenza, poter fare penitenza, è il dono della grazia. E devo dire che noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, ci appariva troppo dura. Adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter fare penitenza è grazia. E vediamo che è necessario far penitenza, cioè riconoscere quanto è sbagliato nella nostra vita, aprirsi al perdono, prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare. Il dolore della penitenza, cioè della purificazione, della trasformazione, questo dolore è grazia, perché è rinnovamento, è opera della misericordia divina ».
E il 19 marzo, nella lettera ai cattolici dell’Irlanda, aveva scritto cose analoghe. Ad esempio che gli scandali della pedofilia tra il clero « hanno oscurato la luce del Vangelo a un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione ». E che solo un cammino di penitenza, da parte dell’intera Chiesa di quel paese, poteva aprire alla purificazione e alla conversione: in una parola, alla grazia.
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Ma c’è di più. Ancora nella lettera ai cattolici dell’Irlanda Benedetto XVI aveva scritto che lo scandalo dell’abuso sessuale dei ragazzi ad opera di preti « ha contribuito in misura tutt’altro che piccola all’indebolimento della fede ».
Nella visione di papa Benedetto, lo spegnimento della fede è il massimo pericolo non solo per il mondo di oggi ma anche per la Chiesa.
Tant’è vero che a questo pericolo egli associa quella che chiama la « priorità » della sua missione di pontefice.
L’ha scritto con chiarezza cristallina nella memorabile lettera da lui indirizzata ai vescovi di tutto il mondo il 10 marzo del 2009:
« Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr. Gv 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.
E l’ha ridetto con parole identiche sulla spianata del santuario di Fatima, la sera del 12 maggio di quest’anno, nel benedire le fiaccole prima della recita del rosario:
“Nel nostro tempo, in cui la fede in ampie regioni della terra rischia di spegnersi come una fiamma che non viene più alimentata, la priorità al di sopra di tutte è rendere Dio presente in questo mondo ed aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un dio qualsiasi, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore portato fino alla fine (cfr. Gv 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.
Parlando ai vescovi del Portogallo, nel pomeriggio di giovedì 13 maggio, Benedetto XVI ha riproposto questa priorità a tutti i cattolici di quel paese: « Mantenete viva la dimensione profetica, senza bavagli, nello scenario del mondo attuale, perché ‘la parola di Dio non è incatenata!’ (2 Timoteo 2, 9) ».
Ma li ha anche avvertiti che per testimoniare la fede cristiana non bastano semplici discorsi o richiami morali. È necessaria la santità della vita.
La stessa santità che da molto tempo, incessantemente, questo papa va chiedendo anzitutto ai sacerdoti. Specie in quell’Anno Sacerdotale di sua invenzione, che sta per concludersi il mese prossimo, al cui centro egli ha posto come modello un umile prete di campagna dell’Ottocento, il santo Curato d’Ars.
Perché « proprio dai piccoli nasce una nuova forza della fede ». Da quei piccoli che sono stati anche i tre pastorelli di Fatima.