Archive pour mai, 2010

Il libro di Giobbe (prima lettura dell’Ufficio di questi giorni)

dal sito:

http://www.santaluciagonfalone.it/RiflessioniLibrodiGiobbe.pdf

Il libro di Giobbe

Nel mondo degli «invisibili» della nostra città non è difficile incontrare il volto di Giobbe. Improvviso crollo finanziario, una congiura di incomprensibili circostanze e lo vedi con il cappotto logoro, la barba lunga, i vestiti sporchi, affannosamente alla ricerca di un po’ di ristoro da una mensa all’altra. Sempre in attesa di qualche amico che gli parli. Riconosci il suo viso nelle nuove camere dell’ospedale, con belle tende verdi. Lacrime soffocate e silenzi imbarazzanti. Nelle celle delle carceri. Urla oltre ogni barriera. Percepite sempre in ritardo. Giobbe. Straordinario personaggio biblico, di ieri e di oggi. Volto dai tratti inconfondibili della sofferenza e del dolore di ogni genere. Il testo biblico «vetta della letteratura mondiale» ha un fascino del tutto particolare. Non solo si legge e rilegge, ma si è letteralmente attratti. «Io non lo leggo con gli occhi come si legge un altro libro, me lo metto per così dire sul cuore e in uno stato di clairvoyance interpreto i singoli passi nella maniera più diversa. Come il bambino che mette il libro sotto il cuscino per essere certo di non aver dimenticato la lezione quando al mattino si sveglia, così la notte mi porto a letto il libro di Giobbe» (Kierkegaard). Sia con le pagine in prosa, sia con quelle in poesia il lettore è accompagnato, dal vecchio Giobbe, alla conoscenza dell’uomo, alla esplorazione dell’assurdo mondo della sofferenza, ma soprattutto è introdotto al cospetto di Dio. Il nucleo del libro è proprio questo: l’appassionata ricerca di Dio. «Magari sapessi come incontrarlo, come giungere al suo tribunale! Esporrei davanti a lui la mia causa, con la bocca colma di argomenti, saprei con che parole mi risponde e comprenderei ciò che mi dice» (Gb23,3-5). La vicenda inizia con l’improvviso cambiamento di scenario, che capovolge radicalmente e «senza ragione» la felice esistenza di Giobbe, uomo giusto, onesto e pio. Nonostante tutto però, egli non si rivolta contro Dio, come avrebbe atteso e desiderato Satana.

«Nudo uscii dal grembo di mia madre

nudo vi ritornerò.

Il Signore ha dato, il Signore ha tolto:

sia benedetto il nome del Signore!» (1,21).

Perfino quando è toccato nella sua pelle. «Dalla testa ai piedi coperto di piaghe». Giobbe non si rivolta. La sua stessa moglie, parlando da «insensata» e vedendolo soffrire, esclama: «Maledici Dio e muori». Quante volte, anche a noi, la fine appare migliore di un lento dissolversi. Le inutili ed interminabili notti. Gli insopportabili giorni. Alcuni amici si avvicinano a Giobbe. In un primo tempo provano imbarazzo. Come tutti dinanzi alla sofferenza. «Quando lo videro da lontano, non lo riconoscevano più e scoppiarono a piangere; …si sedettero con lui per terra sette giorni e sette notti senza dirgli una parola, vedendo l’atrocità della sua sofferenza» (2,12-13). Quando finalmente l’angosciante silenzio è rotto con un urlo dallo stesso Giobbe, gli amici, consapevoli difensori di Dio, cominciano ad esprimere il loro pensiero. Presumono di aiutare Giobbe a comprendere la sua situazione: accusandolo. Si avventurano, da esperti, in una «logica» e «ragionevole» difesa del Creatore. Sono teologi, ma ormai superati dalla storia. Con competenza e dovizia di particolari, in un immaginario e grandioso processo, difendono Dio ed accusano Giobbe.

Elifaz di Teman, Bildad di Shuk e Sofar di Naamat sono la punta di diamante del retribuzionismo: ogni sofferenza, spiegano, è sanzione di peccati personali. Pur avendo tale dottrina varie e diversi livelli di applicazione fondamentalmente il ritornello è sempre lo stesso:

«Dio non rigetta l’uomo giusto

né dà man forte al malvagio».

Veramente Giobbe, immerso nell’assurdità di una esistenza

carica di sofferenza, gratuita ed ingiustificata, aveva toccato il lembo

estremo della preghiera dell’uomo: gridare a Dio il non senso di ciò

che gli è toccato vivere. Incatenato dal dolore e come conficcato

sulla nuda terra, dal profondo grida:

«Muoia il giorno in cui nacqui,

la notte che disse: « han concepito un maschio ».

Quel giorno sia tenebra….

Si oscurino le stelle dell’aurora,

attenda la luce e non giunga

non veda il palpebrare dell’alba …

Perché ha dato luce ad un disgraziato

e vita a chi la passa in amarezza

a chi brama la morte che non viene

e scava per cercarla più di un tesoro …

Vivo senza pace, senza quiete, senza riposo

in una agitazione continua» (3 passim).

Agli amici, avvocati e convinte guardie del corpo di Dio, il

personaggio Giobbe sembra riassumere le obiezioni di ogni tempo

alla religiosità dell’uomo, alla professione del suo credo.

Giobbe con calore sostiene che l’esperienza non è affatto come

dicono gli amici. Non solo egli si proclama innocente, ma sostiene

che i fatti smentiscono le tesi degli amici teologi. È sotto gli occhi di

tutti l’opposto di quanto essi affermano:

«Perché i malvagi continuano a vivere

e invecchiando si fanno sempre più ricchi? …

La verga di Dio non li sferza».

«Ma Dio riserva il castigo per i suoi figli» (21, 7.19).

Giobbe, come ogni lettore che lo segue attentamente, non accetta una falsa consolazione. Si ribella all’immagine di Dio che viene presentata dai suoi amici. Man mano che la lettura prosegue, Giobbe sembra dar voce a tutte le nostre obiezioni. Non abbiamo visto anche noi gente senza scrupoli arricchirsi rapidamente e facilmente? A loro tutto va a gonfie vele. E anche noi dal profondo abbiamo gridato: Ma Dio dov’è? È divenuto insopportabile il suo silenzio. Anche noi abbiamo toccato con mano. Abbiamo parlato perché toccati nel vivo. La vita di chi è retto, onesto sembra sempre in salita. La sua strada è aspra. Le prove pare non finiscano mai. «Dio ha allentato la mia corda e mi ha umiliato …

La notte mi penetra nelle ossa

poi che non dormono le piaghe nelle ossa. …

Lui mi afferra con violenza per la veste …

mi getta nel fango

e mi confonde con la polvere e la cenere» (30,11.18-19).

Neppure l’inserimento di un nuovo interlocutore convince Giobbe. «I tre non replicarono più a Giobbe, persuasi del fatto che lui si ritenesse giusto. Allora Elihu, figlio di Berekel del clan di Ram, originario di Buz, s’indignò contro Giobbe, perché pretendeva giustificarsi davanti a Dio. Il suo sdegno esplose anche contro i tre amici, poiché non trovando una risposta, avevano messo Dio dalla parte del torto» (32,1-4). L’indignazione del giovane Elihu ha un sapore tutto teologico. Il libro ha lo scopo di far riflettere il lettore su quale sia la sua immagine di Dio. Le argomentazioni di Elihu sono ambigue. Sembra ispirato nel suo linguaggio, ma allo stesso tempo appare quasi troppo sicuro di sé.

«Parlerò e mi sfogherò

Aprirò le labbra per rispondere.

Non prenderò partito per nessuno

nessuno adulerò

perché non so adulare

e perché mi eliminerebbe il mio Creatore» (32,20-22).

Neppure la difesa erudita, documentata di Elihu convince

Giobbe. L’uomo, sembra concludere Elihu, non può raggiungere

Dio. Si contenti quindi Giobbe delle risposte che abbiamo. Non si

ponga altre domande.

Tutti gli avvocati di Dio, parziali e troppo a suo favore, non

danno una spiegazione convincente a chi è inchiodato sulla nuda

terra, con le piaghe sempre sanguinanti.

Che fare?

Quale strada prendere?

Giobbe osa l’impensabile.

Dio. Sia lui a parlare.

«Allora il Signore parlò a Giobbe di mezzo alla tempesta»

(38,1).

«Giobbe oscilla tra la spasmodica ricerca di Dio e l’esaltante esperienza di Dio. Il Signore sfidato diviene a sua volta sfidante dell’uomo» (G. Ravasi). Come Giacobbe, l’uomo rappresentato da Giobbe, è chiamato a lottare con tutte le forze con Dio. In questa lotta, corpo a corpo, è la sua più bella ed esaltante avventura. Dio non potrà mai essere afferrato, non potrà mai essere preso. Non è possibile racchiuderlo nei nostri schemi. Egli sfugge ad ogni presa. È sempre al di là. Seduce e scompare. Lo abbracci e lo ricerchi. Giobbe, nella lotta, assapora la sua indicibile presenza. Anche sotto interrogatorio, gusta la sua Parola e «riconosce davanti alla sfilata dei segreti cosmici della requisitoria di Dio, di non essere in grado di sondare che qualche particella microscopica, mentre Dio sa percorrerli con la sua onniscienza ed onnipotenza» (G. Ravasi). Partendo dalla ragione, l’uomo farà l’esperienza di Dio solo superando la ragione stessa. Nell’assurdità della sofferenza, parabola mai compiuta dell’esistenza umana, Giobbe accetta che ci sia un altro piano. Quanto deciso su quel piano Giobbe, ora avvolto dal Mistero: lo accetta. Arreso. Guarito.

«Ti conoscevo per sentito dire

ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5).

Giobbe, ora davvero felice, riprende i suoi passi nel giardino

della storia.

P. Franco Incampo cmf

Rettore S. Lucia del Gonfalone

Publié dans:Bibbia - Antico Testamento |on 27 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Catechesi di Benedetto XVI sul « munus regendi » del sacerdote

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22619?l=italian

Catechesi di Benedetto XVI sul « munus regendi » del sacerdote

Intervento in occasione dell’Udienza Generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 26 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la catechesi tenuta questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro e dedicata al « munus regendi » del sacerdote, cioè alla sua missione di guida.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

L’Anno Sacerdotale volge al termine; perciò avevo cominciato nelle ultime catechesi a parlare sui compiti essenziali del sacerdote, cioè: insegnare, santificare e governare. Ho già tenuto due catechesi, una sul ministero della santificazione, i Sacramenti soprattutto, e una su quello dell’insegnamento. Quindi, mi rimane oggi di parlare sulla missione del sacerdote di governare, di guidare, con l’autorità di Cristo, non con la propria, la porzione del Popolo che Dio gli ha affidato.

Come comprendere nella cultura contemporanea una tale dimensione, che implica il concetto di autorità e ha origine dal mandato stesso del Signore di pascere il suo gregge? Che cos’è realmente, per noi cristiani, l’autorità? Le esperienze culturali, politiche e storiche del recente passato, soprattutto le dittature in Europa dell’Est e dell’Ovest nel XX secolo, hanno reso l’uomo contemporaneo sospettoso nei confronti di questo concetto. Un sospetto che, non di rado, si traduce nel sostenere come necessario l’abbandono di ogni autorità, che non venga esclusivamente dagli uomini e sia ad essi sottoposta, da essi controllata. Ma proprio lo sguardo sui regimi che, nel secolo scorso, seminarono terrore e morte, ricorda con forza che l’autorità, in ogni ambito, quando viene esercitata senza un riferimento al Trascendente, se prescinde dall’Autorità suprema, che è Dio, finisce inevitabilmente per volgersi contro l’uomo. E’ importante allora riconoscere che l’autorità umana non è mai un fine, ma sempre e solo un mezzo e che, necessariamente ed in ogni epoca, il fine è sempre la persona, creata da Dio con la propria intangibile dignità e chiamata a relazionarsi con il proprio Creatore, nel cammino terreno dell’esistenza e nella vita eterna; è un’autorità esercitata nella responsabilità davanti a Dio, al Creatore. Un’autorità così intesa, che abbia come unico scopo servire il vero bene delle persone ed essere trasparenza dell’unico Sommo Bene che è Dio, non solo non è estranea agli uomini, ma, al contrario, è un prezioso aiuto nel cammino verso la piena realizzazione in Cristo, verso la salvezza.

La Chiesa è chiamata e si impegna ad esercitare questo tipo di autorità che è servizio, e la esercita non a titolo proprio, ma nel nome di Gesù Cristo, che dal Padre ha ricevuto ogni potere in Cielo e sulla terra (cfr Mt 28,18). Attraverso i Pastori della Chiesa, infatti, Cristo pasce il suo gregge: è Lui che lo guida, lo protegge, lo corregge, perché lo ama profondamente. Ma il Signore Gesù, Pastore supremo delle nostre anime, ha voluto che il Collegio Apostolico, oggi i Vescovi, in comunione con il Successore di Pietro, e i sacerdoti, loro più preziosi collaboratori, partecipassero a questa sua missione di prendersi cura del Popolo di Dio, di essere educatori nella fede, orientando, animando e sostenendo la comunità cristiana, o, come dice il Concilio, « curando, soprattutto che i singoli fedeli siano guidati nello Spirito Santo a vivere secondo il Vangelo la loro propria vocazione, a praticare una carità sincera ed operosa e ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati » (Presbyterorum Ordinis, 6). Ogni Pastore, quindi, è il tramite attraverso il quale Cristo stesso ama gli uomini: è mediante il nostro ministero – cari sacerdoti – è attraverso di noi che il Signore raggiunge le anime, le istruisce, le custodisce, le guida. Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di san Giovanni, dice: « Sia dunque impegno d’amore pascere il gregge del Signore » (123,5); questa è la suprema norma di condotta dei ministri di Dio, un amore incondizionato, come quello del Buon Pastore, pieno di gioia, aperto a tutti, attento ai vicini e premuroso verso i lontani (cfr S. Agostino, Discorso 340, 1; Discorso 46, 15), delicato verso i più deboli, i piccoli, i semplici, i peccatori, per manifestare l’infinita misericordia di Dio con le parole rassicuranti della speranza (cfr Id., Lettera 95, 1).

Se tale compito pastorale è fondato sul Sacramento, tuttavia la sua efficacia non è indipendente dall’esistenza personale del presbitero. Per essere Pastore secondo il cuore di Dio (cfr Ger 3,15) occorre un profondo radicamento nella viva amicizia con Cristo, non solo dell’intelligenza, ma anche della libertà e della volontà, una chiara coscienza dell’identità ricevuta nell’Ordinazione Sacerdotale, una disponibilità incondizionata a condurre il gregge affidato là dove il Signore vuole e non nella direzione che, apparentemente, sembra più conveniente o più facile. Ciò richiede, anzitutto, la continua e progressiva disponibilità a lasciare che Cristo stesso governi l’esistenza sacerdotale dei presbiteri. Infatti, nessuno è realmente capace di pascere il gregge di Cristo, se non vive una profonda e reale obbedienza a Cristo e alla Chiesa, e la stessa docilità del Popolo ai suoi sacerdoti dipende dalla docilità dei sacerdoti verso Cristo; per questo alla base del ministero pastorale c’è sempre l’incontro personale e costante con il Signore, la conoscenza profonda di Lui, il conformare la propria volontà alla volontà di Cristo.

Negli ultimi decenni, si è utilizzato spesso l’aggettivo « pastorale » quasi in opposizione al concetto di « gerarchico », così come, nella medesima contrapposizione, è stata interpretata anche l’idea di « comunione ». E’ forse questo il punto dove può essere utile una breve osservazione sulla parola « gerarchia », che è la designazione tradizionale della struttura di autorità sacramentale nella Chiesa, ordinata secondo i tre livelli del Sacramento dell’Ordine: episcopato, presbiterato, diaconato. Nell’opinione pubblica prevale, per questa realtà « gerarchia », l’elemento di subordinazione e l’elemento giuridico; perciò a molti l’idea di gerarchia appare in contrasto con la flessibilità e la vitalità del senso pastorale e anche contraria all’umiltà del Vangelo. Ma questo è un male inteso senso della gerarchia, storicamente anche causato da abusi di autorità e da carrierismo, che sono appunto abusi e non derivano dall’essere stesso della realtà « gerarchia ». L’opinione comune è che « gerarchia » sia sempre qualcosa di legato al dominio e così non corrispondente al vero senso della Chiesa, dell’unità nell’amore di Cristo. Ma, come ho detto, questa è un’interpretazione sbagliata, che ha origine in abusi della storia, ma non risponde al vero significato di quello che è la gerarchia. Cominciamo con la parola. Generalmente, si dice che il significato della parola gerarchia sarebbe « sacro dominio », ma il vero significato non è questo, è « sacra origine », cioè: questa autorità non viene dall’uomo stesso, ma ha origine nel sacro, nel Sacramento; sottomette quindi la persona alla vocazione, al mistero di Cristo; fa del singolo un servitore di Cristo e solo in quanto servo di Cristo questi può governare, guidare per Cristo e con Cristo. Perciò chi entra nel sacro Ordine del Sacramento, la « gerarchia », non è un autocrate, ma entra in un legame nuovo di obbedienza a Cristo: è legato a Lui in comunione con gli altri membri del sacro Ordine, del Sacerdozio. E anche il Papa – punto di riferimento di tutti gli altri Pastori e della comunione della Chiesa – non può fare quello che vuole; al contrario, il Papa è custode dell’obbedienza a Cristo, alla sua parola riassunta nella « regula fidei », nel Credo della Chiesa, e deve precedere nell’obbedienza a Cristo e alla sua Chiesa. Gerarchia implica quindi un triplice legame: quello, innanzitutto, con Cristo e l’ordine dato dal Signore alla sua Chiesa; poi il legame con gli altri Pastori nell’unica comunione della Chiesa; e, infine, il legame con i fedeli affidati al singolo, nell’ordine della Chiesa.

Quindi, si capisce che comunione e gerarchia non sono contrarie l’una all’altra, ma si condizionano. Sono insieme una cosa sola (comunione gerarchica). Il Pastore è quindi tale proprio guidando e custodendo il gregge, e talora impedendo che esso si disperda. Al di fuori di una visione chiaramente ed esplicitamente soprannaturale, non è comprensibile il compito di governare proprio dei sacerdoti. Esso, invece, sostenuto dal vero amore per la salvezza di ciascun fedele, è particolarmente prezioso e necessario anche nel nostro tempo. Se il fine è portare l’annuncio di Cristo e condurre gli uomini all’incontro salvifico con Lui perché abbiano la vita, il compito di guidare si configura come un servizio vissuto in una donazione totale per l’edificazione del gregge nella verità e nella santità, spesso andando controcorrente e ricordando che chi è il più grande si deve fare come il più piccolo, e colui che governa, come colui che serve (cfr Lumen gentium, 27).

Dove può attingere oggi un sacerdote la forza per tale esercizio del proprio ministero, nella piena fedeltà a Cristo e alla Chiesa, con una dedizione totale al gregge? La risposta è una sola: in Cristo Signore. Il modo di governare di Gesù non è quello del dominio, ma è l’umile ed amoroso servizio della Lavanda dei piedi, e la regalità di Cristo sull’universo non è un trionfo terreno, ma trova il suo culmine sul legno della Croce, che diventa giudizio per il mondo e punto di riferimento per l’esercizio dell’autorità che sia vera espressione della carità pastorale. I santi, e tra essi san Giovanni Maria Vianney, hanno esercitato con amore e dedizione il compito di curare la porzione del Popolo di Dio loro affidata, mostrando anche di essere uomini forti e determinati, con l’unico obiettivo di promuovere il vero bene delle anime, capaci di pagare di persona, fino al martirio, per rimanere fedeli alla verità e alla giustizia del Vangelo.

Cari sacerdoti, «pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri [...], facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,2). Dunque, non abbiate paura di guidare a Cristo ciascuno dei fratelli che Egli vi ha affidati, sicuri che ogni parola ed ogni atteggiamento, se discendono dall’obbedienza alla volontà di Dio, porteranno frutto; sappiate vivere apprezzando i pregi e riconoscendo i limiti della cultura in cui siamo inseriti, con la ferma certezza che l’annuncio del Vangelo è il maggiore servizio che si può fare all’uomo. Non c’è, infatti, bene più grande, in questa vita terrena, che condurre gli uomini a Dio, risvegliare la fede, sollevare l’uomo dall’inerzia e dalla disperazione, dare la speranza che Dio è vicino e guida la storia personale e del mondo: questo, in definitiva, è il senso profondo ed ultimo del compito di governare che il Signore ci ha affidato. Si tratta di formare Cristo nei credenti, attraverso quel processo di santificazione che è conversione dei criteri, della scala di valori, degli atteggiamenti, per lasciare che Cristo viva in ogni fedele. San Paolo così riassume la sua azione pastorale: « figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi » (Gal 4,19).

Cari fratelli e sorelle, vorrei invitarvi a pregare per me, Successore di Pietro, che ho uno specifico compito nel governare la Chiesa di Cristo, come pure per tutti i vostri Vescovi e sacerdoti. Pregate perché sappiamo prenderci cura di tutte le pecore, anche quelle smarrite, del gregge a noi affidato. A voi, cari sacerdoti, rivolgo il cordiale invito alle Celebrazioni conclusive dell’Anno Sacerdotale, il prossimo 9, 10 e 11 giugno, qui a Roma: mediteremo sulla conversione e sulla missione, sul dono dello Spirito Santo e sul rapporto con Maria Santissima, e rinnoveremo le nostre promesse sacerdotali, sostenuti da tutto il Popolo di Dio.

Grazie!

buona notte

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Guglielmo di Saint-Thierry: « Che vuoi che io ti faccia ? »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100527

Giovedì dell’VIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 10,46-52
Meditazione del giorno
Guglielmo di Saint-Thierry (circa 1085-1148), monaco benedettino poi cistercense
La Contemplazione di Dio, 1-2 ; SC 61

« Che vuoi che io ti faccia ? »

        «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe perché ci indichi le sue vie» (Is 2,3). Voi tutti, intenzioni, desideri intensi, volontà e pensieri, affetti e tutte le energie del cuore, venite, saliamo sul monte, giungiamo al luogo dove il Signore vede e si fa vedere. Ma voi, preoccupazioni, sollecitudini e inquietudini, fatiche e schiavitù, aspettateci qui… finché, andati fin lassù, ritorniamo poi da voi, dopo aver adorato (cfr Gen 22,5). Dovremo infatti tornare, e ahimé, troppo presto.

        Signore, Dio della mia forza, rivolgici a te: «Rialzaci, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi» (Sal 79,20). Ma Signore, quanto è inopportuno, temerario, presuntuoso, contrario alla regola portata dalla parola della tua verità e della tua sapienza, pretendere di vedere Dio con un cuore impuro! O sovrana bontà, bene supremo, vita dei cuori, luce dei nostri occhi interiori, a motivo della tua bontà, Signore, abbi pietà.

        Eccola la mia purificazione, la mia fiducia e la mia giustizia: la contemplazione della tua bontà, Signore buono! Tu, mio Dio, hai detto alla mia anima, come sai fare: «La tua salvezza, sono io» (Sal 34,3). Rabbunì, sovrano Maestro e insegnante, tu l’unico medico capace di farmi vedere ciò che desidero vedere, di’ al tuo mendicante cieco: «Che vuoi che io ti faccia?» E sai bene, tu che mi dai questa grazia…, con quale forza il mio cuore ti grida: «Ho cercato il tuo volto; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (Sal 26,8).

Orvieto cathedral evangelists’ Symbols the angel symbol of Matthieu

Orvieto cathedral evangelists' Symbols the angel symbol of Matthieu  dans immagini sacre 14%20ORVIETO%20CATHEDRAL%20%20EVANGELISTS%20SYMBOLS%20MATTHIEU%20THE%20ANGEL

http://www.artbible.net/Jesuschrist_fr.html

Publié dans:immagini sacre |on 26 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Nel buio una luce: a mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza». (2 Corinzi 12,9)

dal sito:

http://www.credereoggi.it/upload/1999/articolo113_3.asp

NEL BUIO UNA LUCE

(articolo del 1999)

a mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza». (2 Corinzi 12,9)  

«Vittoria… disfatta…
queste parole non hanno senso.
Sotto queste immagini c’è la vita;
la vita che prepara altre immagini.
Una vittoria indebolisce un popolo,
una disfatta ne rianima un altro».
     (Antoine de Saint-Exupéry)

     La nostra è un’epoca di grandi risultati e di grandi mete raggiunte! Il progresso e la fiducia nella scienza hanno condotto il genere umano a conquiste che si ritenevano solo cent’anni fa insperate. Abbiamo da poco celebrato il trentesimo anniversario dell’approdo dell’uomo sulla Luna; vent’anni fa iniziava l’inarrestabile ‘rivoluzione informatica’, destinata a entrare capillarmente e di prepotenza nel mondo del lavoro; per non parlare poi delle tante, piccole, ma incisive acquisizioni in ambito bio-medico. Grandi conquiste dunque hanno dinamicizzato la società e i rapporti tra i paesi, hanno aperto nuove frontiere della conoscenza e del sapere, costruendo più sicurezze per il futuro.

     Eppure tutto questo non ci ha protetto più di tanto dal vivere esperienze concrete molto umane, dal sapore ancestrale, come quella del fallimento: nella nostra progettualità tutto o in parte può riuscire o compiersi; ma non è escluso ­ e qualche volta ciò accade ­ che tutto si risolva in un insuccesso, in un fallimento, parziale o totale che sia. L’insuccesso ­ a livello personale e sociale ­ è ben vivo e radicato nella nostra società contemporanea. Nessun soggetto ne è esente: può essere l’affermato politico, costretto alle dimissioni a causa di uno scandalo; oppure il popolare attore che, trascorso il periodo di notorietà, cade nel vortice della depressione perché non riesce più a ‘calcare la scena’. Più comunemente: l’affiatata coppia che, dopo anni di matrimonio e di consolidata unione, decide di separarsi; il parroco del paese che, pur avendo dato prova di essere un brillante predicatore ed essersi dimostrato prodigo di cure e attenzioni verso i fedeli, ritorna sulla propria scelta e abbandona il sacerdozio. Si constata con una punta di amarezza che le proprie forze non sono all’altezza del ruolo che si sta svolgendo (prete, religioso, marito, madre, ecc.).

    Gente comune e gente importante indistintamente possono fallire, possono accorgersi di aver sbagliato, di aver percorso magari nella loro vita per un tratto (a volte, con tragicità, per tutto il cammino) la strada errata. Istintivamente si cerca di rimuovere la crisi, oppure di minimizzare, di ignorarla, impegnandosi magari in attività febbrili; altrimenti ci si abbandona alla rassegnazione e a praticare forme compensatorie, quasi che il fallimento sia una colpa spassionatamente personale. La psicologia giustamente ci avverte che il fallimento in sé e per sé non è da considerarsi necessariamente colpevole. Certo, può essere originato da una propria debolezza corporea o psichica, da una malattia, da un concorso di sfortunate circostanze che lo stesso soggetto ­ a sua insaputa ­ contribuisce a creare. Ma non è in sé e per sé una colpa.

    Come risponde un cristiano con la propria fede davanti al fallimento personale? Con delusione, arrendevolezza, cinismo? Oppure con speranza e attesa? È possibile affrontare in modo cristiano queste esperienze? E la teologia, oltre a proporre situazioni ideali di vita cristiana, che cosa può direi al riguardo?
    La comprensione cristiana sul fallimento parte obbligatoriamente da Cristo. La sua vita terrena termina con una sconfitta, con un fallimento, dal punto di vista umano. Questo giovane ebreo trentenne, che socialmente minacciava di destabilizzare i poteri forti locali, viene condannato a morte. Anche lui sulla croce tocca il limite estremo del fallimento (la morte) e vive l’esperienza dell’impotenza: ‘Non può salvare se stesso’, gli gridano ai piedi della croce. Il Figlio piange, urla, ma accetta nella volontà del Padre il limite che sta vivendo. La pietra sul sepolcro è la sconfitta delle sue parole, ormai destinate a restare mute.
    Ma è proprio a partire dal suo fallimento che in Gesù si manifesta il ‘successo’ di Dio, è nella debolezza che la potenza divina si dimostra pienamente (cf. 2Cor 12,9). Abbandonandosi a tale destino, Cristo non guadagna nulla di più per sé. Sa e spera che anche in quel momento la sua esistenza ha un senso per il Padre. Nel fallimento della croce ‘si incarna’ l’amore del Padre, un amore che non conosce limiti, trasformando in gloria la sconfitta. E quei segni infamanti del dolore sulla croce, quei segni evidenti della sconfitta diventeranno segni tangibili di fede: non a caso Gesù, apparendo agli Undici, mostra le piaghe sulle mani e sul costato per dipanare le loro paure, i timori e i sospetti.

    L’esperienza terrena di Gesù forse non risolleverà più di tanto dal personale dolore davanti a un nostro fallimento. Non giustifica, non spiega i tanti ‘perché’ dei nostri fallimenti. Tuttavia ci induce a pensare che ogni fallimento ­ compreso quello ‘estremo’ alla progettualità umana, qual è la morte ­ non è l’ultima parola della nostra esistenza. Quanto è accaduto a Gesù accende una luce nel nostro piccolo o grande buio personale, annuncia un possibile futuro di gloria.
 
    Il presente numero si divide sostanzialmente in due parti. Nella prima viene data una lettura in chiave psicologica di questa esperienza dell’uomo (GIUSEPPE SOVERNIGO). Il Messia sconfitto come paradigma per la vita cristiana è il tema svolto da PAOLO GIANNONI. Abbiamo chiesto a GIANNINO PIANA  di illustrarci quale particolare linguaggio la nostra religiosità ha sviluppato innanzi a questo tipo di esperienze. La riflessione di ALDO NATALE TERRIN descrive le suggestioni e le soluzioni che prospetta la ‘Deep Ecology’.

    La seconda parte del fascicolo è senz’altro un po’ anomala, ma non meno istruttiva della prima. Abbiamo preferito proporre poche teorie per comprendere queste intime situazioni di vita e domandare ad altri di narrare la loro storia personale. Tra le tante esperienze raccontabili, abbiamo scelto quelle di alcuni malati gravi, di coppie sposate e di persone consacrate.

a.f.

Publié dans:meditazioni |on 26 mai, 2010 |Pas de commentaires »

L’AMORE, FRUTTO DELLO SPIRITO, è FONTE DI PACE

studio del 2003/2004, dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/2002-2003/L%27amore_frutto_dello_Spirito_%E8fonte_di_pace.html

L’AMORE, FRUTTO DELLO SPIRITO, è FONTE DI PACE


Com’è difficile parlare oggi di pace! Sembra un bene lontano, desiderato, sperato, ma non posseduto. E il motivo è semplice: ci sentiamo incapaci di costruire la pace. Tutti invocano la pace, anche coloro che non sanno a chi rivolgere questa preghiera. Mai come oggi si sente che la pace è un dono, e noi credenti, abituati al linguaggio biblico, sappiamo che la pace è un dono del Dio della pace. Per noi cristiani è un raggio di quell’amore, frutto dello Spirito Santo che è stato effuso da Dio nei nostri cuori (vedi Gal 5,22; Rm 5,5). È il dono che Gesù vuole farci, quando dice: “Vi lascio la pace, vi dò la mia pace” (Gv 14,27).

Quella di Dio è una pace diversa

La parola “pace” ha una lunga storia. Si suole dire che c’è pace quando non c’è guerra, e tra le persone che c’è pace quando non c’è discordia. Dopo le guerre, quando si riprende un’apparente situazione di pace, lo si fa mediante un trattato. Comunque la parola “pace” mantiene tante volte un senso assai ambiguo. Il libro della Sapienza, nella sua lunga descrizione dell’idolatria con tutte le sue conseguenze di immoralità, dice degli uomini: “Non bastò loro sbagliare nella conoscenza di Dio; essi, pur vivendo in una grande guerra d’ignoranza, danno a sí grandi mali il nome di pace” (14,22). Ambigua era pure la celebre “pace romana” dei tempi di Augusto, tanto da dire che alla nascita di Gesù “tutto il mondo era in pace”. Lo era perché le potenti legioni romane sapevano dominare: era una pace imposta, subìta, come lo dimostrano, in Palestina, la guerriglia degli zeloti e, in Germania, la disfatta delle legioni di Augusto a Teutoburgo, e ai nostri tempi le dittature, che sì mantengono una specie di pace, ma senza rispetto delle persone. È solo il meglio del peggio.
Chi legge la Bibbia si accorge quante volte l’uomo ha sperimentato l’incapacità di giungere con le sue sole forze alla vera pace: il peccato gliela rubava in continuità. Comunque una nostalgia di pace si incideva in modo sempre più profondo in lui e, a poco a poco, riusciva sempre meglio a capire che solo Dio poteva procurargli la pace in modo stabile. A questo lo conduceva la parola di Dio: “Agli afflitti io pongo sulle labbra: Pace, pace ai lontani e ai vicini, dice il Signore, io li guarirò” (Is 57,19). La pace è il bene messianico per eccellenza. Il Messia viene infatti chiamato da Isaia “il Principe della pace” (Is 9,5) e, nello stesso periodo di Isaia, il profeta Michea parla della sicurezza che regnerà ai tempi del Re-Messia e dice: “Tale sarà la pace” (Mi 5,4), mentre Ezechiele la definisce come “un’alleanza di pace” (34,25; 37,26), dono totale di Dio, che dice al suo popolo: “Vi purificherò. Vi darò un cuore nuovo…, uno spirito nuovo…; farò con voi un’alleanza di pace, che sarà per voi un’alleanza eterna” (36, 25-26; 37, 26). Questa pace, dono di Dio, è davvero ben diversa da una pace puramente umana. Essa nasce da una conversione totale di ogni singola persona, da una sincera accoglienza del dono di Dio, da un cuore nuovo, da uno spirito nuovo, tutti doni di Dio; essa nasce da un cuore colmo di quell’amore che Gesù ci ha insegnato. Come fondamento della pace c’è il suo comandamento: “Amatevi come io vi ho amato”.
Su questa linea si collocano quei testi paolini, anteriori alla redazione dei Vangeli, nei quali si descrive come Dio in Gesù ci dona la pace.

Come si costruisce la pace

Paolo, salutando i suoi destinatari, va sempre oltre il semplice saluto o augurio umano: “La pace sia con voi”, non annuncia una pace qualunque, ma quella pace che l’umanità, in particolare Israele, si aspettava da sempre. Dice infatti, all’inizio di tutte le sue lettere: “Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo”. E nella lettera ai Romani, dopo aver descritto l’opera purificatrice di Gesù Cristo, afferma: “Ora siamo in pace con Dio” e dice che ciò è possibile perché “l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato” (5,1.5). Paolo è così affascinato dall’opera redentrice che il Padre compie per mezzo di Cristo, che si congeda dai suoi destinatari romani dicendo: “Il Dio della pace sia con tutti voi. Amen!” (Rm 15, 33). Ma le parole più belle di Paolo le troviamo nella Lettera ai cristiani di Efeso, dove descrive lo scopo dell’opera di Cristo: “Egli è la nostra pace; egli è colui che ha fatto dei due (pagani e giudei) un popolo solo, abbattendo il muro di separazione, cioè l’inimicizia… per creare in se stesso un solo uomo nuovo, facendo la pace e per riconciliare per mezzo della croce tutti e due con Dio in un solo popolo, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani (i pagani) e pace a coloro che erano vicini (i giudei; Israele). Per questo per mezzo di lui possiamo presentarci tutti gli uni gli altri al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,14-18), cioè veramente in comunione tra noi.
“Gesù è la nostra pace… Gesù è venuto ad annunciare la pace”, non a parole, ma per mezzo della sua croce. Perché solo quando lo contempliamo innalzato in croce in atto di chiedere perdono per tutti, sentiamo che egli abbatte i muri di separazione tra gli uni e gli altri, che egli distrugge in se stesso ogni inimicizia e con il suo amore, fatto dono sino alla fine, ci riconcilia tutti con il Padre e tra noi. Gesù, riconciliando, costruisce la sua comunità. Come non c’è vero amore di Dio se manca l’amore del prossimo, se non ci si impegna a diventare “prossimo degli altri”, così non c’è vera pace se non c’è volontà di imitare fino in fondo i sentimenti del Cristo crocifisso: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù” (Fil 2,5). Il dono della pace è frutto del mutuo perdono, fonte di ogni vera riconciliazione. La vera pace è donata ai riconciliati con Dio e i fratelli. E fratello è ogni persona umana.

Fissiamo lo sguardo su Gesù

Osserviamo Gesù nel Cenacolo, la notte in cui fu tradito. Non poteva non soffrire, eppure, nel lungo dialogo che intrattiene con i suoi discepoli dopo che Giuda se ne è andato, chiede loro di amarlo, osservando i suoi comandamenti e promettendo loro lo Spirito Santo, e aggiunge: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace; non come il mondo la dà io la dono a voi” (14,27). Non è il solito saluto di congedo quello di Gesù. L’evangelista per esprimere bene la coscienza che Gesù aveva di sé, l’esperienza di amore che egli stava vivendo in quel momento, ha coniato una formula di saluto nuova. Egli contempla Gesù come un patriarca che prima di lasciarli dona loro in eredità quello che possiede: la pace. Egli sa che la morte si avvicina e dà senso alla sua morte rendendola fonte di riconciliazione e di pace. Questo dice che Gesù uomo nella sua passione è sempre in comunione con il Padre ed è guidato dallo Spirito, questa è la comunione gli che infonde serenità e pace.
Sì, è vero che sulla croce griderà: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”. La morte è l’anti-Dio; di fronte alla morte che si avvicina è difficile sentire il Dio della vita, ma l’espressione “Dio mio, Dio mio” ci fa capire che egli, anche in quel momento, è in stretta comunione con il Padre; sa che il Padre gli è accanto. Aveva detto ai suoi nel Cenacolo: “Il Padre non mi lascerà solo” (Gv 16,32). Anche sulla croce, sa di essere uno con il Padre.
Nel Cenacolo, dopo aver donato la sua pace, guarda l’imminente futuro dei discepoli. Sa che per loro i giorni della sua passione saranno colmi di tristezza. Perciò dice loro: “Non si turbi il vostro cuore, né si sgomenti” e, alla conclusione del lungo e intimo dialogo che ha con loro, dirà: “Vi ho detto tutte queste cose, perché uniti a me abbiate pace” (Gv 16,33). È chiaro che la pace nasce dalla comunione con lui e potrà farsi piena solo in comunione con lui e i fratelli. Quando non si vive da riconciliati, non si è in pace né con il Padre, né con Gesù perché secondo Paolo “solo per mezzo di lui (cioè accogliendo in noi la sua pace) possiamo presentarci gli uni gli altri al Padre in un solo Spirito”. È il dono dello Spirito che ci rende una cosa sola tra noi e con Dio-Padre, Dio-Figlio, Dio-Spirito Santo. Non chiediamo forse nella celebrazione eucaristica che lo Spirito Santo ci renda “un solo corpo, un solo spirito”?

A confronto con il Padre e Gesù

Nella notte di Natale è stata donata la pace a tutti. Gli angeli infatti hanno cantato: “Pace sulla terra agli uomini che Dio ama” (Lc 2,14). Questo annuncio dice che Dio ama tutti e, proclamando il dono messianico per eccellenza, afferma qual è la missione di Gesù: portare la pace. Ma gli uomini l’hanno accolta? Un giorno Gesù, immagino con tanta tristezza, disse: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, ma la divisione” (Lc 12,51). Si accorge di essere nella storia un “segno di contraddizione” (Lc 2,34). E da quanto dice ai discepoli nel Cenacolo, sa che questa contraddizione continuerà per mezzo loro nella storia. Comunque il rifiuto degli altri non li priverà della “sua pace”. Dice infatti: “In qualunque casa entriate, dite: «Pace a questa casa». Se in essa vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà a voi” (Lc 10,5). Come Gesù nella sofferenza non perde la sua pace, neppure i suoi discepoli nella loro missione, la perderanno. La sofferenza apostolica che può anche comportare il martirio (morte subìta non cercata),1 può coesistere con la pace del cuore. La comunione con Gesù è sempre fonte di pace e di serenità. Nessuna sofferenza ce la può togliere. Nessuna sofferenza, dice Paolo, neppure la morte (= martirio) “ci può separare dall’amore di Cristo” o “dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,31-39).
Non possiamo vivere la beatitudine dei “Beati i portatori di pace, perché essi saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9), se non facciamo opera di riconciliazione a costo di qualsiasi sofferenza. La vita cristiana è lasciar vivere Gesù in noi e, Gesù, il Figlio, ha portato a compimento la sua opera di riconciliazione per mezzo della sua Croce. Per essere davvero chiamati “Figli di Dio”, dobbiamo imitarlo. Altrimenti come esprimiamo nella vita la nostra dignità di figli?

Preghiamo

“Vieni, Signore, a visitarci nella pace, la tua presenza ci riempia di gioia”. Così ti ha invocato il popolo d’Israele e noi facciamo nostra questa preghiera aggiungendo: “Compi in noi tutte le tue promesse di pace”. E tu, o Padre, hai iniziato a compiere in noi le tue promesse quando nel tuo immenso amore hai inviato a noi il Figlio tuo Gesù come Salvatore e le hai compiute perfettamente quando per mezzo della sua croce ci hai riconciliati con te e tra di noi.
Gesù, tuo Figlio, ha portato a termine la sua opera di pace riconciliando tutti tra di loro e con te, Padre. La tua pace, infatti, non esiste senza una riconciliazione comunitaria aperta a ogni persona, di qualunque razza o lingua. I tuoi discepoli prima di iniziare la celebrazione eucaristica, vero banchetto di comunione, sentono il bisogno di riconciliarsi tra loro e con te, abbattendo ogni muro di separazione. Con questo noi vogliamo impegnarci nel vivere la beatitudine degli “operatori di pace”. Ma sappiamo anche, o Padre, che non ce la faremo mai da soli. Per questo, quando ci riuniamo noi ti invochiamo: “Guarda con amore, o Padre, questa tua famiglia e donale la pienezza dello Spirito Santo perché diventi un solo popolo e un solo Spirito”. Solo così, con la forza dello Spirito che ci doni in ogni Eucaristia, riusciremo a imitare tuo Figlio e a essere chiamati figli tuoi. Grazie, o Padre, per averci chiamati a te per vivere nel Figlio, per mezzo dello Spirito, ciò che il mondo più desidera: la Pace. Amen!

Mario Galizzi SDB

Publié dans:meditazioni |on 26 mai, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

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Sant Alfonso-Maria de Liguori: « Dare la propria vita in riscatto per molti »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100526

Mercoledì dell’VIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 10,32-45
Meditazione del giorno
Sant Alfonso-Maria de Liguori (1696-1787), vescovo e dottore della Chiesa
Opere, t.14

« Dare la propria vita in riscatto per molti »

        Un Dio che serve, che spazza la casa, che si dedica a lavori penosi – quanto uno solo di questi pensieri dovrebbe colmarci di amore! Quando il Salvatore ha cominciato a predicare il suo Vangelo, si è fatto «il servo di tutti», dichiarando lui stesso che «non era venuto per essere servito, ma per servire». È come se avesse detto che voleva essere il servitore di tutti gli uomini. E, al termine della sua vita, non si è contentato, dice san Bernardo, «di aver preso la condizione di servo per mettersi al servizio degli uomini; ha voluto prendere la forma del servo indegno, per lasciarsi colpire, e subire la pena che era dovuta a noi, a causa dei nostri peccati».

        Ecco che il Signore, obbediente servo di tutti, si sottomette alla sentenza di Pilato, per quanto ingiusta sia, e si consegna ai suoi carnefici… Così, Dio ci ha tanto amato, da voler obbedire come schiavo, per amore nostro, fino a morire e a morire di una morte dolorosa e infame, il supplizio della croce (Fil 2,8).

        Ora, in tutto questo, obbediva non in quanto Dio, ma in quanto uomo, che aveva assunto la condizione di schiavo. Un certo santo si è consegnato come schiavo per riscattare un povero, e si è attirato l’ammirazione del mondo per questo atto eroico di carità. Ma cos’è questa carità in confronto a quella del Redentore? Essendo Dio e volendo riscattarci dalla schiavitù del diavolo e della morte che avevamo meritata, si fa lui stesso schiavo, si lascia legare e inchiodare sulla croce. «Perché il servo diventasse maestro, dice san Agostino, Dio ha voluto farsi servo».

26 maggio : San Filippo Neri (m)

26 maggio : San Filippo Neri (m) dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 25 mai, 2010 |Pas de commentaires »
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