Archive pour mai, 2010

buona notte

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San Clemente di Roma: « Questo è il mio comandamento : che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100507

Venerdì della V settimana di Pasqua : Jn 15,12-17
Meditazione del giorno
San Clemente di Roma, papa dal 90 al 100 circa
Prima lettera ai Corinti, 49

« Questo è il mio comandamento : che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati »

        Chi ha la carità in Cristo pratichi i suoi comandamenti. Chi può spiegare «il vincolo della carità» di Dio (Col 3,14)? Chi è capace di esprimere la grandezza della sua bellezza?

        L’altezza ove conduce la carità è ineffabile. La carità ci unisce a Dio: « La carità copre la moltitudine dei peccati » (1 Pt 4,8). La carità tutto soffre, tutto sopporta (1 Cor 13,7). Nulla di banale, nulla di superbo nella carità. La carità non ha divisione, la carità non si ribella, la carità tutto compie nella concordia. Nella carità sono perfetti tutti gli eletti di Dio. Senza carità nulla è accetto a Dio. Nella carità il Signore ci ha presi con sé. Per la carità avuta per noi, Gesù Cristo nostro Signore, secondo la volontà di Dio, ha dato per noi il suo sangue, la sua carne per la nostra carne e la sua anima per la nostra anima.

Gesù: « Pane degli angeli »

Gesù:

http://www.santiebeati.it/

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KARL RAHNER : DIO DELLA MIA PREGHIERA

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/rahner_tu_sei_il_silenzio3.htm

KARL RAHNER 
TU SEI IL SILENZIO
Colloqui con il Dio Altissimo

DIO DELLA MIA PREGHIERA

Della mia preghiera voglio parlarti, Signore. E se pure mi sembra che tu quasi non ti curi di quello che ti soglia dire nella mia preghiera, ascolta le mie parole quest’unica volta.
Ah, Signore Dio, io non mi meraviglio se le mie preghiere ricadono a terra senza arrivare presso a te! Non bado spesso neanch ‘io a quello che dico. La mia preghiera è spesso un impegno, un « compito» che devo sbrigare, e son contento quando l’ho dietro a me. E invece di essere preso dalla tua presenza, sono impegnato nel mio pregare, nel mio « compito».
Così è la mia preghiera. lo lo confesso. Ma me ne devo pentire? Quella non è preghiera; ma pure non mi riesce quasi di pentirmene, mio Dio. Come posso riuscire a parlare con te? Tu sei così lontano e inafferrabile. E quando prego, mi pare che le mie parole cadano tutte nel buio sordo; che nessun’eco mi risponda e mi venga a dire che la mia preghiera ha toccato il tuo cuore. Oh Signore, pregare, parlare tutta una vita, e non udire una risposta, non è troppo per me? Tu comprendi come io ti sfugga sempre, per tornare agli uomini e alle cose – che hanno una risposta da darmi.

O dovrò dare per tue illustrazioni la tenerezza che mi prende pregando, o l’idea che mi viene nel meditare? Oh Dio! La gente devota s’adatta presto e se ne persuade. Ma a me è così difficile crederei. lo ritrovo sempre me stesso in queste esperienze, e solo l’eco vuota della mia propria invocazione. Ma la tua parola io cerco, e te mio Dio. lo con tutti i miei pensieri, sarò forse utile agli altri, anche se i miei pensieri riguardano te; anche se gli altri finiscono per trovarli profondi. Brivido e orrore provo io della mia « profondità» che non è che lo spirito sciatto di un uomo, e di un ordinarissimo uomo. E un’ « interiorità » in cui non trovo che me stesso, svuota il mio cuore anche più di ogni distrazione e di ogni abbandonarmi alle cose del mondo.

Solo se riesco a dimenticarmi nella preghiera, rivolgendo a te la mia vita, solo allora divento sopportabile a me stesso. Ma come ci devo riuscire se tu non mi ti mostri mai, se tu rimani così lontano? Perchè taci così tu, e perchè vuoi che io ti parli, se poi sembra che tu non m’ascolti? O non è un segno che tu non ascolti se taci? O ascolti tu forse attento il mio parlare; ascolti tutta lunga la mia vita finché io abbia narrato tutto me stesso, ti abbia detta tutta la mia vita? Taci forse perchè quieto e attento ascolti fin ch’io finisca, per dirmi la tua parola, la parola della tua eternità, per mettere fine con la luce della tua vita eterna, quando la tua risposta mi dirà te stesso dentro nel cuore, al buio e all’oppressione del lungo monologo che fu la mia vita in questo mondo?

Forse la mia vita è tutta una sola breve invocazione (e le mie preghiere la traducono in parole umane) a cui è eterna risposta la tua eterna visione. Forse il tuo silenzio di fronte alla mia preghiera è una parola piena di infinita promessa, indicibilmente più ricca di ogni parola che dovesse proporzionarsi al mio piccolo e povero cuore, se tu mi parlassi adesso.

Sarà così, Signore. Ma, se è questa la risposta che daresti al mio lamento se tu mi volessi parlare, allora ho ancora da – dire qualcosa che mi preme l’anima anche più che il tuo silenzio, mio Dio lontano.

Se la mia vita dev’essere una sola preghiera, e il mio pregare solo una parte di questa vita che passa così, in preghiera, davanti a te, allora devo poter presentare la mia vita, me stesso a te. Ma vedi che proprio questo è sopra le mie forze. Quando prego parla la mia bocca, e, se faccio una « buona» preghiera, pensieri e propositi eseguono docili la parte che ho imparato a recitare. Ma sono proprio io, nella preghiera ?Perchè non parole o pensieri o propositi dovrei pregare, ma me stesso.

La mia buona volontà sta pur sempre su un piano superficiale della mia anima, è troppo debole per spingersi fino a quell’intimo del mio essere, dov’io sono io, dove l’onda della mia vita fiotta libera nel suo proprio ritmo. Che poca forza ho io su me stesso! Amo io proprio quel ch’io voglio amare? Amore è riversarsi e fluire in te, pendere da te e aderire a te con l’ultimo fondo del mio essere. E come dovrò io pregare in amore se la preghiera dell’amore è questa consegna della mia intimità, lo schiudere a te l’ultimo sacrario dell’anima, e io non ho forza su questo chiuso sacrario e sto così impotente e smarrito in faccia all’ultimo mio segreto che giace sepolto immobile e sordo in quel cuore del mio essere dove non penetra la libertà in cui vivo io i miei giorni?

So bene, mio Dio, che la preghiera non è di necessità entusiasmo e rapimento, e mi può tuttavia mettere intero in mano a te, a tua discrezione, senza riserva alcuna. La preghiera, che si chiama giustamente preghiera, non è necessariamente giubilo e gioia di abbandonata e felice donazione di se stesso. La preghiera può essere afflizione e dolore e intimo sanguinare del cuore, che penetra in silenzio nella profondità dell’uomo interiore. E io sarei contento di una preghiera o di un’altra, perché giungessi a darti pregando quello che solo tu vuoi. non pensieri, affetti e propositi, ma me stesso. Ma a questo appunto non riesco, perchè nell’abituale superficialità, in cui la necessaria mia povertà risospinge sempre la mia vita, sono assente e straniero a me stesso. Come posso cercare te, lontanissimo Dio, e consegnare la mia anima a te, se io stesso non mi sono trovato?

Abbi pietà, mio Dio. Se io fuggo la preghiera, non è te che io voglio fuggire, ma solo me e la mia superficialità. Non voglio sottrarmi alla tua santità infinita, ma alla desolazione di questo vuòto della mia anima dov’io devo vagare quando fuggo il mondo senza riuscire a penetrare nel vero santuario della mia intimità dove solo potrei trovare e adorare te.

Non comprendi nella tua pietà che, escluso dal luogo della tua dimora, devo, mio malgrado, riempire del traffico mondano questo sagrato della tua casa, al quale sono ridotto; non comprendi nella tua misericordia che il chiasso di quel traffico mi è più dolce dello sconcertante silenzio a cui mi condanno se faccio tacere il mondo senza che tu mi attiri in te, almeno all’intelligenza del tuo eloquente silenzio?

Che posso più fare? Tu m’hai comandato di pregare. E potrei credere che tu mi imponga qualcosa che io non possa fare con la tua grazia? lo credo che tu vuoi che io preghi e che posso pregare con la tua grazia. Ma allora la preghiera che tu vuoi da me non può essere in fondo, che lo stare ad aspettarti, lo stare pronto, in silenzio, finché tu, che sempre dimori in fondo al mio essere, mi apra l’adito a che entri anch’io nel santuario segreto della mia vita, per offrirti una volta il sacrificio del sangue del mio cuore.

E questa sarà l’ora del mio amore. Se quest’ora coinciderà con una preghiera quella che sogliamo chiamare così – o con un’altra ora decisiva per la mia salvezza, o con la mia morte; se io m’accorgerò che quella è l’ora della mia vita; se sarà lunga e se saranno pochi momenti, tutto questo è noto solo a te. Ma io devo vivere in attesa, perchè quando tu mi chiami a decidere della mia vita – forse sottovoce o quasi impercettibile – non m’avvenga di perdere la sorte di entrare in me e in te, dissipato com’io sono sulle cose di questo mondo.

Mi troverò allora ad avere me stesso nelle mani tremanti, quel misterioso senza-nome in cui tutte le mie forze e le mie potenze sono ancora uno, come nella loro sorgente; e lo renderò a te in sacrificio di amore. lo non se se quest’ora è già cominciata nella mia vita; so che solo la morte ne segnerà la fine. In quest’ora, beata e terribile, del mio amore tu tacerai ancora, e lascerai dire me, . ch’io dica me stesso. Notte dello spirito han chiamato questo tuo silenzio coloro che hanno fatto la teologia di quell’ora dell’elezione, e coloro che l’hanno sperimentata, coloro che non solo sono vissuti in quest’ora dell’elezione dell’amore, come tutti gli uomini, ma che quasi hanno potuto vedersi vivere in quell’ora, son detti « mistici »; nome che ha per molti un senso tanto vano. E dopo l’ora del mio amore, che tu veli nel tuo silenzio, viene il giorno del tuo amore: la visione beatifica.

Ora dunque, che io non so quando la mia ora viene, o se è già iniziata, devo stare in attesa sul sagrato del mio e tuo santuario; devo liberarlo dal rumore del mondo, devo soffrire, con la: tua grazia e in fede pura, l’amaro silenzio e la desolazione che succede al rumore del mondo: notte dei sensi.

Questo è l’ultimo senso delle mie preghiere d’ogni giorno.

Non quello che io penso nella mia preghiera, non quello che io sento o decido, non questo adoperare della mente e del volere, non questo è che a te piace in se stesso. Tutto questo è precetto e grazia tua, perchè l’anima sia pronta per l’ora in cui tu le darai di pregare davvero se stessa e di entrare in te. Dammi, o Dio della mia preghiera, ch’io viva, pregando, nella tua attesa.

Publié dans:preghiera (sulla), preghiere |on 6 mai, 2010 |Pas de commentaires »

« Il cuore parla al cuore », motto della vista del Papa in Gran Bretagna

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22360?l=italian

« Il cuore parla al cuore », motto della vista del Papa in Gran Bretagna

LONDRA, giovedì, 6 maggio 2010 (ZENIT.org).- Il motto cardinalizio del porporato John Henry Newman – Cor ad cor loquitur, ovvero Il cuore parla al cuore – è stato scelto come motto della visita di Benedetto XVI in Gran Bretagna.

« Il cuore parla al cuore è una scelta appropriata per questa visita papale, visto che l’ultimo giorno del suo viaggio apostolico il Santo Padre beatificherà il Cardinale Newman, il teologo vittoriano più amato », indica un comunicato pubblicato sulla web dedicata a questa visita storica, che si svolgerà dal 16 al 19 settembre prossimi.

Le parole che il Cardinale Newman scelse per il suo stemma quando divenne porporato nel 1879 sono di San Francesco di Sales, Vescovo francese al quale era molto devoto.

Questa definizione, trasformata ora nel motto della visita papale, dice molto sulla concezione dell’essere umano che aveva il Cardinale, convinto che la vera comunicazione tra le persone andava al di là dell’intelligenza, si raggiungeva dal proprio cuore a quello degli altri.

In un sermone anglicano, scrisse: « L’eloquenza e l’ingegno, l’astuzia e la destrezza difendono bene una causa e la diffondono rapidamente, ma muore con loro. Non ha radici nel cuore degli uomini e non vive oltre una generazione ».

La verità, invece, parla dal centro della persona, dal suo cuore, sosteneva Newman, che avrebbe scritto: « Attraverso un cuore sveglio tra i morti e mediante affetti forgiati in cielo, possiamo (…) davvero testimoniare che Cristo vive ».

Per l’ecclesiastico, Cristo parla dal cuore. « Quando la Chiesa parla, Tu passi a parlare », pregava.

Per preparare la visita del Papa nel Regno Unito, la Conferenza Episcopale di Inghilterra e Galles ha chiesto ai cattolici di coinvolgersi attivamente, con preghiere e contributi economici.

Il 23 maggio, festa di Pentecoste, in tutte le parrocchie di Scozia, Inghilterra e Galles si eleveranno preghiere e si svolgerà una colletta speciale per il viaggio apostolico.

Nelle Messe verranno distribuiti cartoncini con una preghiera per la visita del Papa, ha reso noto un comunicato della Conferenza Episcopale pubblicato questo mercoledì.

Il denaro che verrà raccolto nella colletta speciale di quel giorno aiuterà a pagare i costi della visita a carico della Chiesa, attualmente stimati intorno agli 8.200.000 euro, dei quali sono già stati ottenuti più di 3,5 milioni.

Le spese collegate agli aspetti statali della visita verranno pagate dal Governo; quelle a carico della Chiesa consistono principalmente nei costi di organizzazione dei tre maggiori incontri pubblici pastorali: in Scozia, a Londra e nelle West Midlands.

« Esorto tutta la comunità cattolica a pregare per questa visita e a sostenere la colletta nel modo più generoso possibile », ha indicato il presidente della Conferenza dei Vescovi di Inghilterra e Galles, l’Arcivescovo Vincent Nichols.

« La visita del Santo Padre è un’opportunità meravigliosa affinché la dolce luce della fede sia contemplata di nuovo da tutti – ha aggiunto -. Egli confermerà la forte fede della nostra comunità ».

Monsignor Nichols ha rivelato di pregare perché « la visita serva per accendere una nuova vitalità spirituale, una messa in discussione del cuore di tanti nella nostra società che possono non avere alcuna affiliazione religiosa ma stanno in qualche modo cercando un significato più profondo e un obiettivo per la propria vita ».

Benedetto XVI giungerà il 16 settembre in Scozia, a Edimburgo, dove sarà ricevuto dalla regina Elisabetta II – che ha invitato ufficialmente il Papa a visitare la Gran Bretagna – e dal marito, il duca di Edimburgo, nel Palazzo di Holyroodhouse.

Durante questo viaggio di quattro giorni, il Papa visiterà anche Glasgow, Londra e Coventry. Nel Palazzo di Westminster rivolgerà un discorso ai rappresentanti della società civile.

Nella sua visita alle West Midlands beatificherà il Cardinale Newman il 19 settembre durante una Messa pubblica all’aeroporto di Coventry, nell’Arcidiocesi di Birmingham, alla quale sono attesi 250.000 pellegrini.

Durante il viaggio, il Papa presiederà anche una Messa pubblica a Glasgow, una veglia di preghiera a Londra e un evento « concentrato sull’educazione ».

Uno dei temi principali della visita sarà rappresentato dal rapporto tra le Chiese cristiane e dalle relazioni tra le maggiori confessioni.

In questo senso, Benedetto XVI farà visita all’Arcivescovo di Canterbury, nel Palazzo di Lambeth, e pregherà con « altri responsabili » della Chiesa nell’abbazia di Westminster.

La visita di Giovanni Paolo II nel 1982 segnò il ristabilimento di piene relazioni diplomatiche tra il Regno Unito e la Santa Sede, ma non fu una visita papale ufficiale.

Quella di settembre, invece, sarà una visita papale con la condizione di visita di Stato.

Benedetto XVI e la missione di santificare dei sacerdoti

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22346?l=italian

Benedetto XVI e la missione di santificare dei sacerdoti

Catechesi all’Udienza generale in piazza San Pietro

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 5 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro e dedicato alla missione di santificare gli uomini affidata ai sacerdoti.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

domenica scorsa, nella mia Visita Pastorale a Torino, ho avuto la gioia di sostare in preghiera davanti alla sacra Sindone, unendomi agli oltre due milioni di pellegrini che durante la solenne Ostensione di questi giorni, hanno potuto contemplarla. Quel sacro Telo può nutrire ed alimentare la fede e rinvigorire la pietà cristiana, perché spinge ad andare al Volto di Cristo, al Corpo del Cristo crocifisso e risorto, a contemplare il Mistero Pasquale, centro del Messaggio cristiano. Del Corpo di Cristo risorto, vivo e operante nella storia (cfr. Rm 12, 5), noi, cari fratelli e sorelle, siamo membra vive, ciascuno secondo la propria funzione, con il compito cioè che il Signore ha voluto affidarci. Oggi, in questa catechesi, vorrei ritornare ai compiti specifici dei sacerdoti, che, secondo la tradizione, sono essenzialmente tre: insegnare, santificare e governare. In una delle catechesi precedenti ho parlato sulla prima di queste tre missioni: l’insegnamento, l’annuncio della verità, l’annuncio del Dio rivelato in Cristo, o — con altre parole — il compito profetico di mettere l’uomo in contatto con la verità, di aiutarlo a conoscere l’essenziale della sua vita, della realtà stessa.

Oggi vorrei soffermarmi brevemente con voi sul secondo compito che ha il sacerdote, quello di santificare gli uomini, soprattutto mediante i Sacramenti e il culto della Chiesa. Qui dobbiamo innanzitutto chiederci: Che cosa vuol dire la parola «Santo»? La risposta è: «Santo» è la qualità specifica dell’essere di Dio, cioè assoluta verità, bontà, amore, bellezza — luce pura. Santificare una persona significa quindi metterla in contatto con Dio, con questo suo essere luce, verità, amore puro. È ovvio che tale contatto trasforma la persona. Nell’antichità c’era questa ferma convinzione: Nessuno può vedere Dio senza morire subito. Troppo grande è la forza di verità e di luce! Se l’uomo tocca questa corrente assoluta, non sopravvive. D’altra parte c’era anche la convinzione: Senza un minimo contatto con Dio l’uomo non può vivere. Verità, bontà, amore sono condizioni fondamentali del suo essere. La questione è: Come può trovare l’uomo quel contatto con Dio, che è fondamentale, senza morire sopraffatto dalla grandezza dell’essere divino? La fede della Chiesa ci dice che Dio stesso crea questo contatto, che ci trasforma man mano in vere immagini di Dio.

Così siamo di nuovo arrivati al compito del sacerdote di «santificare». Nessun uomo da sé, a partire dalla sua propria forza può mettere l’altro in contatto con Dio. Parte essenziale della grazia del sacerdozio è il dono, il compito di creare questo contatto. Questo si realizza nell’annuncio della parola di Dio, nella quale la sua luce ci viene incontro. Si realizza in un modo particolarmente denso nei Sacramenti. L’immersione nel Mistero pasquale di morte e risurrezione di Cristo avviene nel Battesimo, è rafforzata nella Confermazione e nella Riconciliazione, è alimentata dall’Eucaristia, Sacramento che edifica la Chiesa come Popolo di Dio, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo (cfr. Giovanni Paolo II, Esort. ap. Pastores gregis, n. 32). È quindi Cristo stesso che rende santi, cioè ci attira nella sfera di Dio. Ma come atto della sua infinita misericordia chiama alcuni a «stare» con Lui (cfr. Mc 3, 14) e diventare, mediante il Sacramento dell’Ordine, nonostante la povertà umana, partecipi del suo stesso Sacerdozio, ministri di questa santificazione, dispensatori dei suoi misteri, «ponti» dell’incontro con Lui, della sua mediazione tra Dio e gli uomini e tra gli uomini e Dio (cfr. po, 5).

Negli ultimi decenni, vi sono state tendenze orientate a far prevalere, nell’identità e nella missione del sacerdote, la dimensione dell’annuncio, staccandola da quella della santificazione; spesso si è affermato che sarebbe necessario superare una pastorale meramente sacramentale. Ma è possibile esercitare autenticamente il Ministero sacerdotale «superando» la pastorale sacramentale? Che cosa significa propriamente per i sacerdoti evangelizzare, in che cosa consiste il cosiddetto primato dell’annuncio? Come riportano i Vangeli, Gesù afferma che l’annuncio del Regno di Dio è lo scopo della sua missione; questo annuncio, però, non è solo un «discorso», ma include, nel medesimo tempo, il suo stesso agire; i segni, i miracoli che Gesù compie indicano che il Regno viene come realtà presente e che coincide alla fine con la sua stessa persona, con il dono di sé, come abbiamo sentito oggi nella lettura del Vangelo. E lo stesso vale per il ministro ordinato: egli, il sacerdote, rappresenta Cristo, l’Inviato del Padre, ne continua la sua missione, mediante la «parola» e il «sacramento», in questa totalità di corpo e anima, di segno e parola. Sant’Agostino, in una lettera al Vescovo Onorato di Thiabe, riferendosi ai sacerdoti afferma: «Facciano dunque i servi di Cristo, i ministri della parola e del sacramento di Lui, ciò che egli comandò o permise» (Epist. 228, 2). È necessario riflettere se, in taluni casi, l’aver sottovalutato l’esercizio fedele del munus sanctificandi, non abbia forse rappresentato un indebolimento della stessa fede nell’efficacia salvifica dei Sacramenti e, in definitiva, nell’operare attuale di Cristo e del suo Spirito, attraverso la Chiesa, nel mondo.

Chi dunque salva il mondo e l’uomo? L’unica risposta che possiamo dare è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si attualizza il Mistero della morte e risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? Nell’azione di Cristo mediante la Chiesa, in particolare nel Sacramento dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta sacrificale redentrice del Figlio di Dio, nel Sacramento della Riconciliazione, in cui dalla morte del peccato si torna alla vita nuova, e in ogni altro atto sacramentale di santificazione (cfr. po, 5). È importante, quindi, promuovere una catechesi adeguata per aiutare i fedeli a comprendere il valore dei Sacramenti, ma è altrettanto necessario, sull’esempio del Santo Curato d’Ars, essere disponibili, generosi e attenti nel donare ai fratelli i tesori di grazia che Dio ha posto nelle nostre mani, e dei quali non siamo i «padroni», ma custodi ed amministratori. Soprattutto in questo nostro tempo, nel quale, da un lato, sembra che la fede vada indebolendosi e, dall’altro, emergono un profondo bisogno e una diffusa ricerca di spiritualità, è necessario che ogni sacerdote ricordi che nella sua missione l’annuncio missionario e il culto e i sacramenti non sono mai separati e promuova una sana pastorale sacramentale, per formare il Popolo di Dio e aiutarlo a vivere in pienezza la Liturgia, il culto della Chiesa, i Sacramenti come doni gratuiti di Dio, atti liberi ed efficaci della sua azione di salvezza.

Come ricordavo nella santa Messa Crismale di quest’anno: «Centro del culto della Chiesa è il Sacramento. Sacramento significa che in primo luogo non siamo noi uomini a fare qualcosa, ma Dio in anticipo ci viene incontro con il suo agire, ci guarda e ci conduce verso di Sé. (…) Dio ci tocca per mezzo di realtà materiali (…) che Egli assume al suo servizio, facendone strumenti dell’incontro tra noi e Lui stesso» (S. Messa Crismale, 1 aprile 2010). La verità secondo la quale nel Sacramento «non siamo noi uomini a fare qualcosa» riguarda, e deve riguardare, anche la coscienza sacerdotale: ciascun presbitero sa bene di essere strumento necessario all’agire salvifico di Dio, ma pur sempre strumento. Tale coscienza deve rendere umili e generosi nell’amministrazione dei Sacramenti, nel rispetto delle norme canoniche, ma anche nella profonda convinzione che la propria missione è far sì che tutti gli uomini, uniti a Cristo, possano offrirsi a Dio come ostia viva e santa a Lui gradita (cfr. Rm 12, 1). Esemplare, circa il primato del munus sanctificandi e della giusta interpretazione della pastorale sacramentale, è ancora san Giovanni Maria Vianney, il quale, un giorno, di fronte ad un uomo che diceva di non aver fede e desiderava discutere con lui, il parroco rispose: «Oh! amico mio, v’indirizzate assai male, io non so ragionare… ma se avete bisogno di qualche consolazione, mettetevi là… (il suo dito indicava l’inesorabile sgabello [del confessionale]) e credetemi, che molti altri vi si sono messi prima di voi, e non ebbero a pentirsene» (cfr. Monnin A., Il Curato d’Ars. Vita di Gian-Battista-Maria Vianney, vol. i, Torino 1870, pp. 163-164).

Cari sacerdoti, vivete con gioia e con amore la Liturgia e il culto: è azione che il Risorto compie nella potenza dello Spirito Santo in noi, con noi e per noi. Vorrei rinnovare l’invito fatto recentemente a «tornare al confessionale, come luogo nel quale celebrare il Sacramento della Riconciliazione, ma anche come luogo in cui “abitare” più spesso, perché il fedele possa trovare misericordia, consiglio e conforto, sentirsi amato e compreso da Dio e sperimentare la presenza della Misericordia Divina, accanto alla Presenza reale nell’Eucaristia» (Discorso alla Penitenzieria Apostolica, 11 marzo 2010). E vorrei anche invitare ogni sacerdote a celebrare e vivere con intensità l’Eucaristia, che è nel cuore del compito di santificare; è Gesù che vuole stare con noi, vivere in noi, donarci se stesso, mostrarci l’infinita misericordia e tenerezza di Dio; è l’unico Sacrificio di amore di Cristo che si rende presente, si realizza tra di noi e giunge fino al trono della Grazia, alla presenza di Dio, abbraccia l’umanità e ci unisce a Lui (cfr. Discorso al Clero di Roma, 18 febbraio 2010). E il sacerdote è chiamato ad essere ministro di questo grande Mistero, nel Sacramento e nella vita. Se «la grande tradizione ecclesiale ha giustamente svincolato l’efficacia sacramentale dalla concreta situazione esistenziale del singolo sacerdote, e così le legittime attese dei fedeli sono adeguatamente salvaguardate», ciò non toglie nulla «alla necessaria, anzi indispensabile tensione verso la perfezione morale, che deve abitare ogni cuore autenticamente sacerdotale»: c’è anche un esempio di fede e di testimonianza di santità, che il Popolo di Dio si attende giustamente dai suoi Pastori (cfr. Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Congr. per il Clero, 16 marzo 2009). Ed è nella celebrazione dei Santi Misteri che il sacerdote trova la radice della sua santificazione (cfr. po, 12-13).

Cari amici, siate consapevoli del grande dono che i sacerdoti sono per la Chiesa e per il mondo; attraverso il loro ministero, il Signore continua a salvare gli uomini, a rendersi presente, a santificare. Sappiate ringraziare Dio, e soprattutto siate vicini ai vostri sacerdoti con la preghiera e con il sostegno, specialmente nelle difficoltà, affinché siano sempre più Pastori secondo il cuore di Dio. Grazie.

buona notte

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White Water-lily

http://www.floralimages.co.uk/index2.htm

Beato Charles de Foucauld : Portare frutto a suo tempo

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100505

Mercoledì della V settimana di Pasqua : Jn 15,1-8
Meditazione del giorno
Beato Charles de Foucauld (1858-1916), eremita e missionario nel Sahara
Meditazioni sui salmi, Sal 1

Portare frutto a suo tempo

        «Beato l’uomo… che si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte; Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua che darà frutto a suo tempo». Mio Dio, mi dici che sarò beato, beato della vera beatitudine, beato nell’ultimo giorno…, che, per quanto miserabile io sia, sono come palma piantata lungo corsi d’acqua viva, dell’acqua viva della volontà del Signore, dell’amore divino, della grazia…, e che darò il mio frutto a mio tempo. Ti degni di consolarmi; mi sento senza frutto, mi sento senza opere buone, mi dico: da undici anni sono convertito, cosa ho fatto? Quali erano le opere dei santi e quali sono le mie? Mi vedo con le mani vuote di ogni bene.

        Ti degni di consolarmi: «Porterai frutto a tuo tempo» mi dici… Qual’è questo tempo? Il tempo di noi tutti è l’ora del giudizio: mi prometti che se persisterò nella buona volontà e nel combattimento, per quanto povero io mi veda, avrò frutti in quella ultima ora.

IL presbiterio di una Chiesa Ortodossa

IL presbiterio di una Chiesa Ortodossa dans immagini sacre Vima

metto questa immagine perché sul mio Blog « la pagina di San Paolo » ho postato alcuni articoli sul tema dell’Ortodossia;

http://digilander.libero.it/ortodossia/Vima.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 4 mai, 2010 |Pas de commentaires »

La spiritualità ebraica

dal sito:

http://www.nostreradici.it/spiritualita-ebraica.htm

Marco Morselli

Università di Modena e Reggio Emilia

La spiritualità ebraica

«Quanta gente è perplessa riguardo alla comprensione della Torah. Non ne percepiscono le verità segrete. La Torah li invita amorosamente ogni giorno, ma loro non ci badano. È proprio come ho detto prima: la Torah mette avanti una parola misteriosa, rivelandosi in questo modo, e poi subito si ritira. Ma questo essa non lo fa che per quelli che la amano e la studiano».(1)
1. La spiritualità ebraica è vita nella Toràh. Il primo versetto della Torah è «Bereshìt barà Eloqìm et ha-shammàyim we-et ha-àretz». Dunque la Torah inizia con una bet, la seconda lettera dell’alfabeto, che ha valore numerico 2. Alef indica l’assoluta unità divina, il Creatore. Ciò che viene creato è invece sotto il segno della dualità, delle opposizioni.
«All’inizio, in principio creò…» abbiamo poi uno dei due Nomi che nella Bibbia indicano il Santo, benedetto Egli sia. Uno è un plurale, l’altro è una sigla impronunciabile. Uno indica l’attributo della sua Giustizia, l’altro della sua Misericordia.
Questi Nomi, come tutti i nomi, sono intraducibili. Nelle circa 2000 traduzioni della Bibbia esistenti, sono invece stati tradotti, facendo ricorso ai nomi delle diverse divinità locali, di modo che il libro che avrebbe dovuto portare al mondo la conoscenza dell’Unità del molteplice è divenuto il ricettacolo di tutte le divinità.(2)
Dunque, che cosa creò il Signore? Lo sanno tutti: i cieli e la terra. Ma nell’originale ebraico prima di queste parole troviamo la particella et, che indica che ciò che segue è un complemento oggetto. Et è formato da una alef e da una taw, che sono la prima e l’ultima delle lettere dell’alfabeto. Che cosa ha creato allora il Santo innanzi tutto? Egli, che è infinito, ha creto l’inizio e la fine.
Eppure no: la prima cosa creata è stata la luce (come Es 20,11 conferma). Rashì (XI sec., il principale commentatore della Torah) scrive: «Questo testo non dice altro che: Interpretami!». I vv. 1-2-3 sono inseparabili, costituiscono un tutt’uno: Al principio della creazione dei cieli e della terra, la terra era turbamento, vuoto e tenebre, il Signore disse: «Sia la luce!».
Questo è solo un piccolo esempio di esegesi ebraica delle Scritture. È significativo anzi che in ebraico non si parli di Scritture, ma di Miqrà, che vuol dire lettura. La Parola del Signore ha infiniti significati, la sua lettura è infinita.
Occorre inoltre tenere presente che non vi è solo la Torah scritta, vi è anche la Torah orale, che precede e accompagna la Torah scritta. In una situazione di estremo pericolo per l’esistenza stessa del popolo ebraico(3) la Torah orale venne messa per iscritto, e abbiamo così la Mishnàh. I commenti alla Mishnah costituiscono il Talmùd. Abbiamo poi ancora il Midràsh e la Qabbalàh.
Elie Wiesel ha definito il Talmud «un oceano vasto, turbolento eppure confortante, che suggerisce l’infinita dimensione dell’esistenza e l’amore per la vita, oltre che il mistero della morte e dell’istante che la precede».
Il Talmud fa parte della storia degli Ebrei da millenni, se consideriamo la sua storia dalle tradizioni orali alla Mishnah, alla discussione della Mishnah, al Talmud orale, al Talmud manoscritto, poi stampato, poi su Internet. Al suo interno, il qui e l’ora sono intimamente connessi con altri tempi e altri luoghi, i Maestri del I secolo discutono con i Maestri del XX secolo, i Rabbini babilonesi con quelli francesi. Più che un libro, è un approccio all’esistenza, nel quale la ricerca e la discussione collegano le realtà di questo mondo alle realtà del mondo a venire.(4)
Quello che il Talmud è per la Mishnah, il Midrash è per la Torah. Il termine deriva da darash, ricercare. Vi sono moltissimi punti oscuri nella Bibbia, incomprensibili senza il riferimento a una tradizione esegetica che precede, accompagna e segue il testo.(5)
La Qabbalah è la mistica ebraica. La realtà è un’unità in cui il visibile e l’invisibile, la materia e lo spirito si compenetrano. Il progressivo disvelamento della Qabbalah ha valenze escatologiche. Vi sono dei momenti privilegiati del passaggio dei segreti dalla sfera esoterica a quella essoterica.
Nell’anno 1240, corrispondente all’anno 5000 nella datazione ebraica, ha avuto inizio il sesto millennio, e ha fatto la sua comparsa lo Zohar, il principale testo cabbalistico. Altra data importante è il 1840, corrispondente al 5600. Siamo ora nell’anno 5766, in un’epoca in cui la preparazione messianica si intensifica.(6)
2. Per millenni l’ebraismo è stato accusato di essere una religione particolaristica. Rav Elia Benamozegh (Livorno 1823-1900) è tra coloro che più si sono adoperati per dimostrare l’infondatezza di tale accusa. Come sarebbe mai stato possibile che da tale particolarismo scaturissero due religioni universali (o meglio: aspiranti all’universalità) come il cristianesimo e l’islamismo? Vi è nell’ebraismo una duplice struttura, articolata in mosaismo e noachismo. L’alleanza con Noè non è in nulla inferiore all’alleanza con Mosè. Colui che si convertiva doveva presentarsi davanti a tre rabbini e dichiarare di voler appartenere alla religione noachide. È probabile che la conversione fosse accompagnata dal battesimo, ossia dall’immersione nelle acque del miqweh. Il noachide si impegna a rispettare sette comandamenti: 1) istituzione di tribunali (= ogni società umana ha bisogno di giustizia); 2) divieto di blasfemia; 3) divieto di idolatria; 4) divieto di adulterio; 5) divieto di omicidio; 6) divieto di furto; 7) divieto di mangiare una parte di un animale vivo (= divieto di crudeltà nei confronti degli animali). Rispettando tali comandamenti il noachide entrerà nel mondo a venire, ossia avrà parte alla vita eterna.(7)
La Torah è dunque un libro da fare: 613 mitzwot per gli Ebrei e per chi voglia entrare nell’alleanza di Mosè, 7 mitzwot per chi voglia entrare nell’alleanza di Noè, con la libertà di osservare, volendo, anche un certo numero delle restanti.
Il Santo, benedetto Egli sia, nella sua trascendenza è assolutamente inconoscibile. Di Lui possiamo conoscere ciò che Lui ha voluto rivelarci: la sua volontà. Aderendo alla sua volontà noi ci avviciniamo a Lui. Come Lui è santo, così noi cerchiamo di santificarci, anche nelle minute attività della nostra vita quotidiana.
Ciò che la Torah ci indica, più che una ortodossia, è una ortoprassi. Il primato dell’etica non è un rifiuto della Rivelazione, ma proprio il contenuto della Rivelazione, con il quale la teologia dovrebbe confrontarsi.
3. So per esperienza che non è facile parlare davanti a un uditorio cristiano dell’antiebraismo cristiano, e dunque non lo farò. Posso rinviare ad alcuni testi che consentono di avviare una riflessione su questo aspetto delle relazioni ebraico-cristiane.(8) Posso anche aggiungere che l’importanza dell’argomento è tale che ne dipende la Redenzione. Posso infine cedere la parola a due cristiani.
Il primo è il Cardinale Jean-Marie Lustiger: «Il massacro e la persecuzione d’Israele ad opera dei pagani [cioè dei goyim] – bisognerebbe dire dei pagano-cristiani – sono la prova della loro menzogna o della loro presunta adorazione di Cristo. […] L’atteggiamento concreto dei pagano-cristiani verso il popolo d’Israele è il sintomo della loro reale infedeltà a Cristo o della loro menzogna nella loro pseudo-fedeltà a Cristo. È la confessione involontaria del loro paganesimo e del loro peccato».(9)
Il secondo è il Pastore Martin Cunz: «Auschwitz è la negazione più assoluta dell’uomo, o più precisamente dell’uomo al cospetto di D. come ce lo presenta il popolo ebraico. E la negazione del popolo ebraico è la negazione più assoluta del D. d’Israele. Se i non ebrei battezzati avessero avuto la minima idea del D. d’Israele e il minimo amore per lui, non avrebbero lasciato morire gli ebrei».(10)
4. A partire dal Concilio Vaticano II ha avuto inizio il percorso di teshuvah dei cattolici (e più o meno contemporaneamente dei cristiani di altre confessioni). Possa questo cammino dell’abbandono della teologia della sostituzione e dell’insegnamento del disprezzo proseguire, nella sequela di Rav Yeshua ben Yosef (= Gesù), fino a raggiungere il monte Sion, il luogo in cui viene imbandito il banchetto messianico: «Sul monte Sion il Signore dell’universo preparerà per tutte le nazioni del mondo un banchetto imbandito di ricche vivande e di vini pregiati. All’improvviso farà sparire su questo monte il velo che copriva tutti i popoli» (Is 25,6-7).
_____________________

(1) Zohar, in S. Avisar, Tremila anni di letteratura ebraica, Carucci 1980, vol. I, p. 555. Per una prima introduzione: L. Sestieri, La spiritualità ebraica, Studium 1986; Ead., Gli ebrei nella storia di tre millenni, Carucci 1986.
(2) Su questo si veda: A. Chouraqui, Mosè, Marietti 1996.
(3) Mi riferisco a quelle che i Romani chiamarono la I e la II Guerra Giudaica. Durante la I venne distrutto il Tempio di Gerusalemme e, riferisce Flavio Giuseppe, non vi erano più alberi in Israele perché centinaia di migliaia di Ebrei erano stati crocifissi dalle truppe di occupazione romane. «Secondo i dati forniti indipendentemente da Giuseppe e da Tacito, oltre 600.000 Ebrei avrebbero trovato la morte nel corso delle operazioni militari, circa il 25% della popolazione, e molti altri vennero fatti prigionieri e venduti come schiavi. Con ciò sembra possibile che qualcosa come la metà della popolazione ebraica sia stata eliminata fisicamente» (J. A. Soggin, Storia d’Israele, Paideia 1984, p. 485). Nel 135 i morti furono 850.000 (Soggin p. 492).
(4) E. Wiesel, Sei riflessioni sul Talmud, Bompiani 2000; Id., Celebrazione talmudica, Lulav 2002; A. Steinsaltz, Cos’è il Talmud?, Giuntina 2004.
(5) G. Stemberger, Il Midrash, Dehoniane 1992.
(6) A. Safran, Saggezza della Cabbalà, Giuntina 1998; Id., Tradizione esoterica ebraica, Giuntina 1999; A. Steinsaltz, La rosa dai tredici petali, Giuntina 2000; G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi 1993.
(7) E. Benamozegh, Israele e l’umanità, Marietti 1990; A. Pallière, Il Santuario sconosciuto, Marietti 2005.
(8) J. Isaac, Gesù e Israele, Marietti 2001; L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo, 5 voll., La Nuova Italia 1974-96 (Sansoni 2004).
(9) J.-M. Lustiger, La Promessa, Marcianum 2005, p. 67.
(10) M. Cunz, Il silenzio ad Auschwitz. Gli interrogativi dopo Auschwitz, in «Sefer», 1990 n. 52, p. 3.

Publié dans:ebraismo |on 4 mai, 2010 |Pas de commentaires »
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