Archive pour mai, 2010

Santa Teresa d’Avila : « Se uno mi ama… noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100509

VI Domenica di Pasqua – Anno C : Jn 14,23-29
Meditazione del giorno
Santa Teresa d’Avila (1515-1582), carmelitana, dottore della Chiesa
Relazioni diverse, 46 et 48

« Se uno mi ama… noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui »

        Una volta godevo, nel raccoglimento, di quella compagnia che ho sempre nell’animo ; mi sembrava che Dio vi si trovasse, in modo tale che pensavo a questa parola di san Pietro : « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente » (Mt 16, 16), perché Dio era veramente vivente in me. Questa presa di coscienza non assomigliava alle altre ; essa rende la fede più potente ; in quel momento non si sarebbe potuto dubitare che la Trinità fosse nell’animo con una presenza speciale, con la sua potenza e con la sua essenza. Sentire questo è estremamente vantaggioso per fare intendere una tale verità. Mentre mi stupivo di vedere una Maestà così alta in una creatura così spregevole quanto la mia anima, udì questa parola : « Non è spregevole la tua anima, figlia mia, poiché è stata fatta a mia immagine » (Gen 1, 27).

        Un’altra volta, consideravo dentro di me questa presenza delle tre Persone divine. La luce era così viva, da non lasciare nessun dubbio che lì fosse presente il Dio vivente, il vero Dio… Pensavo quanto la vita fosse amara, da impedirci di stare sempre in una compagnia così mirabile, e… il Signore mi disse : « Figlia mia, dopo questa vita, non potrai più servirmi nello stesso modo. Quindi, sia che mangi, sia che dorma, qualunque cosa tu faccia, fallo per amore mio, come se non fossi più tu a vivere, ma io in te. Questo ha proclamato san Paolo » (Gal 2, 20).

The last supper_La Cene

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http://www.artbible.net/3JC/-Mat-26,26_The%20last%20supper_La%20Cene/2nd_15th_Siecle/index5.html

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Dai «Commenti sui salmi» di sant’Agostino, vescovo: L’alleluia pasquale

dal sito:

http://www.maranatha.it/Ore/pas/pas5/letSABpage.htm

UFFICIO DELLE LETTURE DI SABATO 8 MAGGIO 2010

Seconda Lettura
Dai «Commenti sui salmi» di sant’Agostino, vescovo
(Sal. 148, 1-2; CCL 40, 2165-2166)

L’alleluia pasquale

La meditazione della nostra vita presente deve svolgersi nella lode del Signore, perché l’eterna felicità della nostra vita futura consisterà nella lode di Dio; e nessuno sarà atto alla vita futura, se ora non si sarà preparato. Perciò lodiamo Dio adesso, ma anche innalziamo a lui la nostra supplica. La nostra lode racchiude gioia, la nostra supplica racchiude gemito. Infatti ci è stato promesso ciò che attualmente non possediamo; e poiché è verace colui che ha promesso, noi ci rallegriamo nella speranza, anche se, non possedendo ancora quello che desideriamo, il nostro desiderio appare come un gemito. E’ fruttuoso per noi perseverare nel desiderio fino a quando ci giunga ciò che è stato promesso e così passi il gemito e gli subentri solo la lode. La storia del nostro destino ha due fasi: una che trascorre ora in mezzo alle tentazioni e tribolazioni di questa vita, l’altra che sarà nella sicurezza e nella gioia eterna. Per questo motivo è stata istituita per noi anche la celebrazione dei due tempi, cioè quello prima di Pasqua e quello dopo Pasqua. Il tempo che precede la Pasqua raffigura la tribolazione nella quale ci troviamo; invece quello che segue la Pasqua, rappresenta la beatitudine che godremo. Ciò che celebriamo prima di Pasqua, è anche quello che operiamo. Ciò che celebriamo dopo Pasqua, indica quello che ancora non possediamo. Per questo trascorriamo il primo tempo in digiuni e preghiere. L’altro, invece, dopo la fine dei digiuni lo celebriamo nella lode. Ecco perché cantiamo: alleluia.
Infatti in Cristo, nostro capo, è raffigurato e manifestato l’uno e l’altro tempo. La passione del Signore ci presenta la vita attuale con il suo aspetto di fatica, di tribolazione e con la prospettiva certa della morte. Invece la risurrezione e la glorificazione del Signore sono annunzio della vita che ci verrà donata.
Per questo, fratelli, vi esortiamo a lodare Dio; ed è questo che noi tutti diciamo a noi stessi quando proclamiamo: alleluia. Lodate il Signore, tu dici a un altro. E l’altro replica a te la stessa cosa.
Impegnatevi a lodare con tutto il vostro essere: cioè non solo la vostra lingua e la vostra voce lodino Dio, ma anche la vostra coscienza, la vostra vita, le vostre azioni.
Noi lodiamo il Signore in chiesa quando ci raduniamo. Al momento in cui ciascuno ritorna alle proprie occupazioni, quasi cessa di lodare Dio. Non bisogna invece smettere di vivere bene e di lodare sempre Dio. Bada che tralasci di lodare Dio quando ti allontani dalla giustizia e da ciò che a lui piace. Infatti se non ti allontani mai dalla vita onesta, la tua lingua tace, ma la tua vita grida e l’orecchio di Dio è vicino al tuo cuore. Le nostre orecchie sentono le nostri voci, le orecchie di Dio si aprono ai nostri pensieri.

Alla ricerca delle radice – l’identità ebraica di Martin Buber (stralcio)

dal sito:

http://www.nostreradici.it/identit%C3%A0-Buber.htm#nref10

Alla ricerca delle radice – l’identità ebraica di Martin Buber (stralcio)

Clara Levi Coen

 Costruire la pace è completare la creazione        

    Dopo le terribili e meravigliose esperienze di morte e di vita, subite e realizzate da Israele, con la Shoà e con la ricostruzione dello Stato ebraico, il mondo aspetta qualcosa da Buber, dal suo più profondo contenuto spirituale. Egli, parlando a New York nel 1951(10), indicava questa «domanda silenziosa» rivolta dal mondo d’oggi all’Ebraismo, come un fenomeno nuovo nella storia. Per secoli, infatti, il più profondo contenuto spirituale dell’Ebraismo o era rimasto sconosciuto, o aveva ricevuto scarsa attenzione, per la ragione, forse, che durante il periodo dei Ghetti la realtà sottomessa della vita ebraica era intravista a stento dal mondo esterno, mentre, durante il periodo dell’emancipazione, gli Ebrei soltanto e non l’Ebraismo, apparvero a scena aperta.

    Il terribile massacro di milioni di Ebrei, l’avviarsi al martirio di tanti di loro nel nome del Signore, sorretti nell’inumano destino dai cantici della fede e della speranza e, d’altra parte, il rifiorire nella terra dei Padri di un novello stato ebraico, opera umana apparentemente miracolosa, dovuta alla tenace e faticata volontà ed all’azione dei pionieri, tutto questo ha contribuito a far sì che il mondo abbia gradualmente iniziato a percepire che dentro l’Ebraismo vi è qualcosa che ha a che fare, in un modo speciale, con i bisogni spirituali del mondo presente.

    Si può intendere ciò solo considerando l’Ebraismo nella sua interezza e nel suo totale percorso spirituale. Ma «questa interezza, queste fondamentali tendenze e la loro evoluzione – diceva ancora Buber nel 1951 – sono per la maggior parte non riconosciute dagli stessi Ebrei, perfino da coloro che cercano ardentemente il sentiero della verità(11). E portava l’esempio di ebrei spiritualmente importanti come Henry Bergson e Simone Weil:

    Tutti e due, Bergson e Weil, erano ebrei. Tutti e due erano convinti che nel misticismo cristiano avrebbero trovato la verità religiosa che stavano cercando. Bergson ancora vedeva nei profeti d’Israele i precursori della Cristianità, mentre S. Weil semplicemente si sbarazzò tanto di Israele quanto dell’Ebraismo. Nessuno dei due si convertì al Cristianesimo. Bergson, probabilmente perché andava contro le sue inclinazioni lasciare la comunità degli oppressi e perseguitati, e S. Weil per ragioni derivanti dal suo concetto di religione(12).

    Ambedue, secondo Buber, cercavano e credevano di avere trovato nel Cristianesimo la risposta religiosa che stavano cercando e respingevano l’Ebraismo perché non lo conoscevano nella sua interezza:

    Non è vero che Israele non abbia dedicato all’intimità spirituale il suo posto di diritto; piuttosto, non si è accontentato di questo. I suoi maestri contestano l’autosufficienza dell’anima. L’interna verità deve divenire vita reale, altrimenti non rimane verità. Una goccia di realizzazione messianica deve essere mescolata con ogni ora, altrimenti l’ora è priva di Dio, a dispetto di ogni pietà e devozione. Di conseguenza, quello che può essere chiamato il principio sociale della religione d’Israele… ha rapporto con l’umanità sociale, perché la società umana è qui legittimata soltanto se fondata su relazioni reali tra i suoi membri; e l’umanità è considerata nel suo significato religioso. perché la reale relazione con Dio non può essere compiuta sulla terra se mancano le relazioni con il mondo e con l’umanità(13) .

    L’uomo nell’accettare la creazione dalle mani di Dio s.impegna a collaborare all’opera ancora incompiuta: «La creazione è incompleta perché i regni dentro di essa sono ancora discordi e la pace può emergere soltanto dal creato». Nella tradizione ebraica. colui che effettua la pace è chiamato «il compagno di Dio nell’opera della creazione… in nessun luogo l’azione essenziale dell’uomo è così strettamente legata al mistero dell’Essere»(14).

    E proprio per questa ragione la risposta alla domanda silente posta dal mondo contemporaneo in maniera inconscia e non riconosciuta, ma suggerita dai più intimi recessi del cuore, «là dove dimora la disperazione». la domanda di un insegnamento di fede nella realtà, nelle verità dell’esistenza. «cosicché la vita abbia qualche scopo e l’esistenza abbia qualche significato», la domanda rivolta alle religioni storiche, non nei loro dogmi ne nei loro rituali, ma nella intrinseca realtà di fede, appare a Buber come essenzialmente rivolta all’Ebraismo.

      Ma vorrà l’Ebraismo stesso – egli si domanda – rendersi conto che proprio la sua esistenza dipende dal rifiorire della sua esistenza religiosa? Lo stato ebraico può assicurare – egli dice – il futuro di una nazione di Ebrei, anche dotata di una cultura sua propria. ma l’Ebraismo vivrà soltanto se legherà ancora alla vita la primitiva relazione ebraica con Dio, con il mondo e con l’umanità. I profeti di Israele servirono lo spirito, nel mondo umano, generazione dopo generazione, con aggressività, lottando contro chi non attuava «la verità divina nella pienezza della vita di ogni giorno, evadendo così nel puramente formale e rituale, vale a dire nel non impegnativo», limitando il servizio di Dio alla sfera puramente sacrale.

    Il principio religioso-normativo d’Israele è essenzialmente storico. A differenza delle altre religioni, la sua rivelazione è un fatto di storia nazionale. Con questa fede storica, ad un tempo realistica e messianica, il popolo ebreo andò nel mondo, nel suo esilio universale. Il principio della nostra fede, la verità e la giustizia di Dio, l’amore tra gli uomini nella luce della realtà divina: «Ama il prossimo tuo come te stesso. lo sono il Signore tuo Dio» (Lv 19,18), questo principio tentò di attuarsi nel dominio della vita e della storia umane. Ma noi abbiamo negato a noi stessi l’attuarsi del nostro principio nel mondo. L’idea messianica si perse in furiose estasi collettive o in tardive speculazioni gnostiche. E, tuttavia, pur nell’epoca dei ghetti e dei pogrom, si attuò, nel seno delle comunità ebraiche, il principio dell’amore per Dio, per gli uomini e per il mondo, soprattutto nel hassidismo che animò di puro fervore l’intrinseca realtà di fede.

    Quando camminammo nel mondo fuori dal ghetto, ci capitò il peggio. Una spaccatura, sempre più profonda, lacerò l’unità di popolo e religione. E questa spaccatura è presente anche nello stato ebraico. Israele e il principio del suo essere procedono separati. La frattura si può saldare solo nell’adempimento di verità, giustizia, amore di Dio sulla terra. Impresa tremendamente difficile. Nella diaspora, «ancora vigorosamente viva a dispetto della immensa distruzione e devastazione» da nessuna parte vi è un potente sforzo di rinsaldare la frattura.

    Siamo noi ancora Ebrei, Ebrei nelle nostre vite? È l’Ebraismo ancora vivo? In Erez Israel il dubbio può essere ancora nascosto dalle controversie politiche e dal pericolo.
Ma alla diaspora si presenta nella sua nudità. Ci si rende conto della grande crisi dell’umanità. Qual’è la condizione delle sue radici? Possono essere salvate? Possono ancora produrre un fresco germoglio? Riconosciamo noi stessi nel nostro ebraismo reale. Noi siamo i custodi delle radici: lo siamo? – si domanda Buber – Come possiamo di nuovo ascoltare la voce di Dio? «Egli è uno, il Signore della storia, il Dio che nasconde se stesso e che rivela se stesso». Vi sono delle ore nella storia apparentemente abbandonate da Dio, silenziose. Dopo la Shoà, il nascondimento di Dio è troppo profondo. possono « i Giobbe delle camere a gas » ancora parlare con Dio? Giobbe contese con Dio e lo accusò di ingiustizia. Ricevette una risposta da Lui e la ascoltò, ma la parola di Dio non rispondeva all’accusa, non la toccava nemmeno. E noi? – si domanda ancora Buber – «Noi, e con ciò si intende tutti quelli che non hanno superato quello che è accaduto e non lo supereranno. Come è ciò con noi?.. Dobbiamo rimanere sopraffatti di fronte alla faccia nascosta di Dio, come il tragico eroe dei Greci di fronte al fato senza volto? No, piuttosto sempre noi contendiamo, anche noi, con Dio… Anche con Lui, il Signore dell’Essere che noi una volta, noi qui, abbiamo scelto per nostro Signore. Noi non accettiamo supinamente l’esistenza terrena, noi lottiamo per la sua redenzione e, lottando, ci appelliamo all’aiuto del nostro Signore che è sempre ed ancora nascosto. In tale stato noi aspettiamo la Sua voce, sia che essa venga fuori dalla tempesta, sia che esca dalla calma che segue ad essa. Benché la sua veniente comparsa non assomigli a nulla di precedente, riconosceremo ancora il nostro crudele e misericordioso Signore» (15)

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10. In., The silent question in At the turning, Ed Farrar, Strauss and Young, New York 1952.
11. ID., o. c., pp. 33.34.
12. Ibidem, p. 38.
13. Ibidem, p. 38.
14. Ibidem, p. 39.
15. ID., Dialogue between Heaven and Earth, in At the turning, Ed. Farrar, Strauss and Young, New York 1952, p. 62.

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Pasqua: la Pace viva che zampilla dal fondo dell’anima – VI domenica di Pasqua

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22380?l=italian

Pasqua: la Pace viva che zampilla dal fondo dell’anima

VI Domenica di Pasqua, 9 maggio 2010

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 7 maggio 2010, (ZENIT.org).- “Gli disse Giuda, non l’Iscariota: ‘Signore, com’è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?’. Gli rispose Gesù: ‘Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la da’ il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate’” (Gv 14,23-29).

Il primo messaggio comunicato dal volto dell’Uomo della Sindone, anche a chi lo fissa senza fede, è un arcano senso di pace, definitiva, inalienabile; una pace viva che non sembra provenire dal regno dei morti. Per il credente, questa pace ha il sapore della gioia, poiché egli riconosce nell’Uomo della Sindone il “Vivente”, colui che “era morto, ma ora vive per sempre ed ha potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1,18).

Il primo istante di questo “ora” eterno, è rimasto impresso nella Sindone come traccia luminosa della “Vita oltre la vita”; e come l’angelo Gabriele rallegrò Maria con l’annuncio dell’Incarnazione, così la Sindone rallegra il credente con l’annuncio della Risurrezione. Quest’immagine misteriosa è l’istantanea del ritorno al Padre di Colui che era disceso dal Cielo per abitare trentatre anni e nove mesi in mezzo a noi. Dal volto silenzioso e come addormentato di quest’Uomo, traspare l’abisso insondabile della Vita divina, la Vita tout-court, quella Vita Increata che è all’origine di ogni vita.

In un cadavere umano il volto fa pensare ad un cielo invernale, gelido, plumbeo, ma il Volto della Sindone è simile al cielo in una limpida notte d’estate, fissando il quale l’anima si sente trasportare oltre le stelle, al di là delle galassie, fino agli estremi confini del “Principio”. Tale contemplazione delle schiere celesti, pur essendo di per sé pacificante, non è tuttavia in grado di comunicare la pace a chi l’avesse gravemente perduta.

La contemplazione della Sindone, al contrario, promette questa pace, poiché le labbra ammutolite del Signore sembrano suggerire proprio le parole che Egli dice oggi ai suoi discepoli “Vi lascio la pace vi do la mia pace. Non come la da’ il mondo io la do a voi” (Gv 14,27).

Dicendo “la mia pace”, Gesù non lascia alternative: la sua pace è l’unica in grado di placare qualsiasi turbamento profondo che abbia infranto la nostra fragile pace interiore. Come intendere, allora, questa pace propria ed esclusiva di Gesù?

Può darcene l’idea il disastro ecologico di questi giorni nel Golfo del Messico. Cito al riguardo le parole di un esperto: “Questo è un fiume di petrolio in piena che scorre dal fondo dell’oceano e non sappiamo quando si fermerà” (intervista riportata da “Avvenire”, 1 maggio).

Leggendole, m’è venuto in mente un passo del profeta Isaia, di segno diametralmente opposto rispetto a quello della marea nera, ma metaforicamente utile alla riflessione sulla pace di Gesù, se sostituiamo alla menzione dell’oceano il fondo della coscienza, e all’esplosione della piattaforma petrolifera un evento drammatico come quello dell’aborto, che costituisce un vero e proprio “disastro” dell’anima.

In questo capitolo il profeta si rivolge alla nuova comunità che sta risorgendo in Gerusalemme dopo il terribile disastro della distruzione del tempio, seguito dalla deportazione in esilio. Come in un sogno, Isaia descrive ciò che vede: una carovana esultante che avanza verso la Città santa, formata dagli Israeliti che tornano dall’esilio e da una moltitudine di popoli attratti, come i Magi, dalla luce che rifulge sul colle di Sion. Rivolgendosi a Gerusalemme come ad una persona, le dice: “A quella vista sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché le ricchezze del mare si riverseranno su di te, verranno a te i beni dei popoli” (Is 60,5).

E’ finito il tempo del lamento ed è iniziato quello della gioia e della speranza!

Veniamo ora al giorno e al momento del “disastro” dell’aborto, pensando in particolare alla mamma che sta ingoiando la famigerata pillola RU 486, che ella sa benissimo essere un veleno mortale per il suo bambino. Posato il bicchiere, nel profondo della sua coscienza si apre una ferita dalla quale, come un fiume di petrolio, si riversa in tutta la sua persona l’inquinamento spirituale per ciò che ha fatto.

Ne è segno la morsa d’angoscia che comincia a stringerle il cuore, spingendola poi a rimedi palliativi la cui inutilità fa pensare a quelli messi in opera dai tecnici del Golfo per arginare la marea nera. Tali sono le misure di ordine umano, psicologico, farmacologico, ecc., con le quali si cercherà di darle sollievo, le quali sono però sostanzialmente insufficienti, poiché non vanno e non possono andare efficacemente al luogo profondo dell’“esplosione”, cioè alla coscienza della donna davanti a Dio, ferita dal pungiglione mortale del peccato.

Infatti, come l’unica soluzione reale al disastro petrolifero consiste nel fermare la fuoriuscita del veleno oleoso dal fondo dell’oceano (e ciò non basta a riparare i danni irreversibili inferti all’ecosistema), così la pace del cuore della mamma che ha abortito può essere ritrovata solo se la ferita della sua coscienza viene sanata in profondità, senza lasciare cicatrici, vale a dire con la “restitutio ad integrum” dell’intero “ecosistema” della sua persona: “spirito, anima e corpo”(1 Ts 5,23) .

In verità, il fiume di turbamento che la memoria non cessa di far scaturire dal fondo del cuore, può essere fermato solamente se nello stesso punto la donna lascerà zampillare la sorgente purissima dell’“acqua viva” promessa da Gesù alla donna samaritana (Gv 4,13), l’unico rimedio in grado di rigenerare la vita interiore e far rifiorire la persona, una volta che si è riconciliata con Dio: “perché queste acque dove giungono risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà” (Ez 47,9).

Sì, quest’acqua divina è il “dono di Dio” (Gv 4,10) che Gesù vuol dare ad ogni donna che ha abortito, “samaritana” in quanto assetata di verità, di amore vero, di perdono e di pace. Dovrà solo incontrare ed ascoltare molte volte il Maestro divino che la sta attendendo al pozzo dell’anima.

Ora comprendiamo il significato profondo di queste parole del Signore: “Non come la da’ il mondo io la do a voi” (Gv 14,27).

Gesù vuole aiutare tutti coloro che sono angosciati dal ricordo di un evento doloroso ed irreversibile (sia che si tratti di un peccato commesso, sia di un fatto accaduto senza volerlo) e che non sanno (e non possono) darsi pace.

La vera pace, infatti, non è quella che ci si può dare in un modo o nell’altro, cercando qualcuno o qualcun altro, ma è quella che Dio solo può e vuole dare. Essa dipende dall’armonia interiore della persona, cioè dalla sua amicizia con Dio in Gesù “via, verità e vita” dell’anima.

Ogni volta che tale comunione vitale è colpevolmente interrotta (come nel peccato di aborto volontario), dal fondo dell’anima si spande in tutta la persona come una morte spirituale, segnalata dal turbamento del rimorso che solo la grazia sacramentale della Confessione può dissolvere, donando insieme la pace propria di Gesù, la pace nel suo sangue, come annuncia Paolo: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete divenuti vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia,..per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace (Ef 2,13-1). Paolo la chiama anche “la pace di Dio che supera ogni intelligenza”(Fil 4,7), vale a dire che non ha spiegazione umana, né può essere ottenuta da risorse umane.

Il salmo 46/45 la descrive splendidamente come un fiume: “Un fiume e i suoi canali rallegrano la santa città di Dio…Dio è in mezzo ad essa: non potrà vacillare. Perciò non temiamo se trema la terra, se vacillano i monti nel fondo del mare. Fremano, si gonfino le sue acque, si scuotano i monti per i suoi flutti” (vv. 3-5).

Il turbamento del cuore è come il mare in tempesta: quando il vento cessa, le onde non si placano all’istante, ma continuano a perturbare la superficie e a far ballare le imbarcazioni, fino al giorno dopo.

Questa è anche la dinamica della Confessione. Gesù lo sa bene, per questo dice: “abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1). L’atto di fede che compio inginocchiandomi, confidando ciecamente nella Misericordia del Padre ed in Gesù, mi sottrae già dall’occhio del ciclone interiore, ma non elimina ancora il turbamento.

Per possedere la pace totale di Gesù, come un mare tranquillo che ricolma l’anima, dovrò attendere, continuare a navigare con Gesù senza timore, trovando sempre rifugio sotto la protezione materna della Regina della Pace.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

buona notte

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http://www.floralimages.co.uk/index2.htm

San Cipriano : « Poiché non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100508

Sabato della V settimana di Pasqua : Jn 15,18-21
Meditazione del giorno
San Cipriano (circa 200-258), vescovo di Cartagine e martire
Lettere,  58, 1-9

« Poiché non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia »

        Il Signore ha voluto che ci rallegrassimo ed esultassimo quando siamo perseguitati (Mt 5, 12), perché quando vengono le persecuzioni, allora si ricevono le corone della fede (Gc 1, 12), i soldati di Cristo mostrano le proprie capacità, e i cieli si aprono per i suoi testimoni. Non siamo stati impegnati nella milizia di Dio allo scopo di pensare solo alla tranquillità, di sottrarci al nostro servizio, mentre il Maestro dell’umiltà, della pazienza e della sofferenza ha compiuto in prima persona, prima di noi, lo stesso servizio. Ciò che ha insegnato, egli ha cominciato col adempierlo, e ci esorta a tener duro perché lui stesso ha sofferto prima di noi, e per noi.

        Prima di partecipare alle gare dello stadio, uno si esercita, si allena, e si considera poi molto onorato se, sotto gli occhi della folla, ha la fortuna di ricevere il premio. Ma ecco una prova molto più nobile e lampante : mentre lottiamo e combattiamo la battaglia della fede, Dio ci guarda, noi che siamo i suoi figli, e lui in persona ci dà la corona di gloria (1 Cor 9, 25). Ci guardano i suoi angeli e Cristo ci assista. Perciò armiamoci, fratelli carissimi, raccogliamo tutte le forze e disponiamoci alla battaglia con animo integro, con fede piena e con virtù solide.

Day 4 Sun moon & stars

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http://www.artbible.net/1T/Gen0114_4Sunmoon_stars/index_2.htm

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Una prospettiva educativa e teologica al consumo: In un convegno, le ragioni dell’acquisto selvaggio

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22369?l=italian

Una prospettiva educativa e teologica al consumo

In un convegno, le ragioni dell’acquisto selvaggio

di Mariaelena Finessi

ROMA, venerdì, 7 maggio 2010 (ZENIT.org).- Gli esperti la chiamano società dei consumi, a significare che sono gli acquisti a connotare in modo sostanziale il funzionamento della struttura sociale. «Si tratta di un fenomeno affrontato da molti studiosi e in molti ambiti, e che in un’accezione più critica viene anche definito consumismo, in una declinazione che lascia intendere un giudizio negativo». Così don Dario Viganò – preside dell’Istituto Pastorale Redemptor Hominis – introduce presso la Pontificia università Lateranense la giornata di studio « »Consumo, dunque sono »? Una prospettiva educativa, teologica e sociale».

Un incontro, quello del 5 maggio, suggerito dal titolo di un libro di Bauman del 2008, a cui è stato aggiunto un interrogativo con il dichiarato proposito di sondare il tema dei consumi. E, in finale, di indagare sulla realtà esistenziale dell’uomo di oggi. Una realtà caratterizzata dalla tecnologia e dai media, i quali, per dirla con le parole di Menduni «sono prodotti culturali realizzati industrialmente, riprodotti e diffusi in un gran numero di pezzi uguali o simili, che portano a conoscenza dei loro utenti, paganti o meno, determinati contenuti che spesso sono prodotti anch’essi in forma industriale, collettiva».

Dall’altro lato, gli stessi media appaiono, come scriveva Roger Silverstone nel 1999, «dei veri e propri surrogati sociali in quanto essi si sono sostituiti alle comuni casualità dell’interazione quotidiana, generando in maniera insidiosa e continua simulacri della vita». «In questo inscatolamento mediale della società – interviene Massimiliano Padula, docente di Comunicazione Istituzionale presso la Lateranense – , non sono più chiari i confini tra consumo e consumismo».

«Individualità e socialità perdono la loro forza distintiva per mescolarsi in un omogeneizzato socio-culturale sempre più evidente in Occidente, il quale è stato in grado di imporsi e di imporre il proprio modello in tutto il mondo e ad aspetti diversi della vita». Quello stesso Occidente che ha cioè « McDonaldizzato » il mondo, per usare un’espressione di Ritzer, suggeritagli dal noto fast food che ha saputo mettere radici ovunque con una crescita esponenziale.

E in una realtà siffatta, finiamo «col vivere una specie di falso dilemma: da una parte – spiega Chiara Palazzini, CeSNAF – si coltivano intensamente gli affetti, ma nessuno vuol sentir parlare di legami; d’altra parte si stringono ogni giorno legami che tengono lontani gli affetti». «L’uomo ha senso nel riconoscimento da parte dei simili. Venendo meno il quale – chiarisce monsignor Sergio Lanza -, si affida agli oggetti di consumo e fatalmente finisce con l’essere esso stesso oggetto. Ecco perché è necessario intervenire con una pedagogia energica. In fondo, la spontaneità, lasciata a se stessa non produce roseti ma rovi».

Una ricetta magica per educare tuttavia non esiste. «Spesso, ciò che dobbiamo – sottolinea con amarezza Sergio Belardinelli, coordinatore delle iniziative del Progetto culturale della Cei – è ciò che ci costa di più nella pratica. Eppure una cosa si può fare: generare il più possibile una consapevolezza che il bene e il piacere, come sostiene Platone, non sono la stessa cosa».

E far capire che la realtà, sì, esiste ma non asseconda spontanemaente i nostri desideri. «Diceva Rousseau che se il bambino vuole la mela, non devi portare la mela al bambino ma devi condurre il bambino verso la mela». Un insegnamento pedagogicamente prezioso, che abitua alla fatica di attribuire un valore ad ogni cosa, al di là del prezzo di mercato.

«Consumare – spiega Francis-Vincent Anthony, docente di Teologia alla Pontificia università Salesiana -, cioè esaurire risorse materiali, scaturisce da una visione della realtà, cioè da un modo di comprendere la persona umana e Dio». In particolare, «dietro la nostra abitudine odierna di « usa e getta », c’è una visione meccanicistica e utilitaristica della natura, che si riduce a un indiscreto uso e consumo da parte dell’uomo. Superare questa visione eccessivamente antropocentrica e ristabilire un rapporto idoneo tra il cosmo, l’uomo e Dio è il pimo passo da compiere nell’affrontare il problema del consumismo».

Tradotto, significa che per raggiungere lo scopo ultimo della propria vita è necessario imprimere un orientamento etico all’acquisizione sia dei beni materiali, sia dei piaceri della vita. «Il consumo non è male. Lo è, invece, esaurire le risorse senza nessun riguardo per la coscienza morale e la convivenza comune». Alla domanda « Consumo, dunque sono? », Anthony risponde sicuro: «Si, consumare è indispensabile per vivere; eppure una vita degna dell’uomo orientato alla gioia piena impone la necessità di regolare eticamente la soddisfazione dei propri bisogni, sacrificando anche la propria vita per il bene comune».

«Il termine « consumare » (dal latino consumere) – composto da cum (con) e sumere (prendere, usare interamente) – nella sua accezione più ampia indica « un prendere con » gli altri. In questo senso consumare è sacrificare (sacrum facere), cioè un’azione sacra. Dalla prospettiva cristiana – conclude Anthony –, l’eucaristia rappresenta eloquentemente il consumo congiunto al sacrificio da testimoniare nella vita».

Publié dans:Educazione |on 7 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Giovanni Paolo II: Il volto di Dio Padre, anelito dell’uomo (1999)

dal sito:

http://digilander.libero.it/carromano/gp2b.html

La catechesi di Giovanni Paolo II

IL VOLTO DI DIO PADRE. ANELITO DELL’UOMO

L’udienza generale, 13 gennaio 1999
(L’Osservatore Romano, 14/01/99, pp 4/5)

« La Chiesa guarda con rispetto ai tentativi che le varie religioni compiono per cogliere d volto di Dio, distinguendo nelle loro credenze ciò che è accettabile da quanto è incompatibile con la rivelazione cristiana ». Lo ha detto Giovanni Paolo II durante 1′udienza generale svoltasi mercoledì 13 gennaio nell’Aula Paolo VI. Questo il testo della catechesi svolta dal Santo Padre:

1. « Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te », (Conf. 1,1). Questa celebre affermazione, che apre le Confessioni di sant’Agostino, esprime efficacemente il bisogno insopprimibile che spinge 1′uomo a cercare il volto di Dio. É un’esperienza attestata dalle diverse tradizioni religiose. « Dai tempi antichi fino ad oggi – ha detto il Concilio – presso i vari popoli si nota quasi una percezione di quella forza arcana che è presente al corso delle cose c agli avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta si avverte un riconoscimento della divinità suprema o anche del Padre » (Nostra aetate, 2).

In realtà, tante preghiere della letteratura religiosa universale esprimono la convinzione che l’Essere supremo possa essere percepito e invocato come un padre, al quale si arriva attraverso 1′esperienza delle premure affettuose ricevute dal padre terreno. Proprio questa relazione ha suscitato in alcune correnti dell’ateismo contemporaneo il sospetto che 1′idea stessa di Dio sia la proiezione dell’immagine paterna. 11 sospetto, in realtà, è infondato.

É vero tuttavia che, partendo dalla sua esperienza, 1′uomo è tentato talvolta di immaginare la divinità con tratti antropomorfici che rispecchiano troppo il mondo umano. La ricerca di Dio procede cosi « a tentoni », come Paolo disse nel discorso agli Ateniesi (cfr At 17, 27). Occorre dunque tener presente questo chiaroscuro del1′esperienza religiose, nella consapevolezza che solo la rivelazione piena, in cui Dio stesso si manifesta, può dissipare le ombre e gli equivoci e far risplendere la luce.

2. Sull’esempio di Paolo, che proprio nel discorso agli Ateniesi cita un verso del poeta Arato sul1′origine divina dell’uomo (cfr At 17, 28) la Chiesa guarda con’ rispetto ai tentativi che le varie religioni compiono per cogliere il volto di Dio, distinguendo nelle loro credenze ciò che è accettabile da quanto è incompatibile con la rivelazione cristiana.

In questa linea si deve considerare un’intuizione religiosa positiva la percezione di Dio come Padre universale del mondo e degli uomini. Non può essere invece accolta 1′idea di una divinità dominata dall’arbitrio e dal capriccio. Presso gli antichi greci, ad esempio, il Bene, quale essere sommo e divino, era chiamato anche padre, ma il dio Zeus manifestava la sua paternità tanto nella benevolenza quanto nell’ira e nella malvagità. Nell’Odissea si legge: « Padre Zeus, nessuno è più funesto di te tra gli dei: degli uomini non hai pietà, dopo. averli generati e affidati alla sventura e a gravosi dolori », (XX, 201-203).

Tuttavia 1′esigenza di un Dio superiore all’arbitrio capriccioso è presente anche tra i greci antichi, come testimonia, ad esempio, 1′ »Inno a Zeus » del poeta Cleante. L’idea di un padre divino, pronto al dono generoso della vita c provvido nel fornire i beni necessari all’esistenza, ma anche severo e punitore, e non sempre per una ragione evidente, si collega nelle società antiche all’istituzione del patriarcato e ne trasferisce la concezione più abituale sul piano religiose.

3. In Israele il riconoscimento delta paternità di Dio è progressivo e continuamente insidiato dalla tentazione idolatrica che i profeti denunciano con forza: « Dicono a un pezzo di legno: Tu sei mio padre, e a una pietra: Tu mi hai generato » (Ger 2, 27). In realtà per 1′esperienza religiosa biblica la percezione di Dio come Padre è legata, più che alla sua azione creatrice, al suo intervento storico-salvifico, attraverso il quale stabilisce con Israele uno speciale rapporto di alleanza. Spesso Dio lamenta che il suo amore paterno non ha trovato adeguata corrispondenza: « II Signore dice: Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me », (Is 1, 2).

La paternità di Dio appare a Israele più salda di quella umana: « Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto » (Sal 27, 10). I1 salmista che ha fatto questa. dolorosa esperienza di abbandono, e ha trovato in Dio un padre più sollecito di quello terreno, ci indica la via da lui percorsa per giungere a questa meta: « Di te ha detto il mio cuore: Cercate il suo volto; il tuo volto, Signore, io cerco » (Sal 27, 8). Ricercare il volto di Dio è un cammino necessario, che si deve percorrere con sincerità di cuore e impegno costante. Solo il cuore del giusto può gioire nel cercare il volto del Signore (cfr Sal 105, 3s.) e su di lui può quindi risplendere il volto paterno di Dio (cfr Sal 119, 135; cfr anche 31, 17; 67, 2; 80, 4.8.20). Osservando la legge divina si gode anche pienamente della protezione del Dio dell’alleanza. La benedizione di cui Dio gratifica il suo popolo, tramite la mediazione sacerdotale di Aronne, insiste proprio su questo svelarsi luminoso del volto di Dio: « II Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. II Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace » (Nm 6. 25s.).

4. Da quando Gesù è venuto nel mondo, la ricerca del volto di Dio Padre ha assunto una dimensione ancora più significativa. Nel suo insegnamento Gesù, fondandosi sulla propria esperienza di Figlio, ha confermato la concezione di Dio come padre, già delineata nell’Antico Testamento; anzi 1′ha evidenziata costantemente, vissuta in modo intimo e ineffabile, e proposta come programma di vita per chi vuole ottenere la salvezza.

Soprattutto Gesù si pone in modo assolutamente unico in relazione con la paternità divina, manifestandosi come « figlio » e offrendosi come 1′unica strada per giungere al Padre. A Filippo che gli chiede « mostraci il Padre e ci basta », (Gv 14, 8), egli risponde che conoscere lui significa conoscere il Padre, perché il Padre opera attraverso lui (cfr Gv 14, 8-11). Per chi vuole dunque incontrare il Padre è necessario credere nel Figlio: mediante Lui Dio non si limita ad assicurarci una provvida assistenza paterna, ma comunica la sua stessa vita rendendoci « figli nel Figlio ». É quanto sottolinea con commossa gratitudine 1′apostolo Giovanni: « Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente » (1 Gv 3, 1).

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