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Benedetto XVI: “La nostra speranza getti radici!”

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Benedetto XVI: “La nostra speranza getti radici!”

Omelia al Santuario di Fatima

FATIMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’omelia pronunciata questo giovedì dal Papa nella spianata del Santuario di Fatima nella celebrazione del 10° anniversario della beatificazione dei pastorelli Giacinta e Francesco.

* * *

Cari pellegrini,

«Sarà famosa tra le genti la loro stirpe, […] essi sono la stirpe benedetta dal Signore » (Is 61, 9). Così iniziava la prima lettura di questa Eucaristia, le cui parole trovano mirabile compimento in questa assemblea devotamente raccolta ai piedi della Madonna di Fatima. Sorelle e fratelli tanto amati, anch’io sono venuto come pellegrino a Fatima, a questa «casa» che Maria ha scelto per parlare a noi nei tempi moderni. Sono venuto a Fatima per gioire della presenza di Maria e della sua materna protezione. Sono venuto a Fatima, perché verso questo luogo converge oggi la Chiesa pellegrinante, voluta dal Figlio suo quale strumento di evangelizzazione e sacramento di salvezza. Sono venuto a Fatima per pregare, con Maria e con tanti pellegrini, per la nostra umanità afflitta da miserie e sofferenze. Infine, sono venuto a Fatima, con gli stessi sentimenti dei Beati Francesco e Giacinta e della Serva di Dio Lucia, per affidare alla Madonna l’intima confessione che «amo», che la Chiesa, che i sacerdoti «amano» Gesù e desiderano tenere fissi gli occhi in Lui, mentre si conclude quest’Anno Sacerdotale, e per affidare alla materna protezione di Maria i sacerdoti, i consacrati e le consacrate, i missionari e tutti gli operatori di bene che rendono accogliente e benefica la Casa di Dio.

Essi sono la stirpe che il Signore ha benedetto… Stirpe che il Signore ha benedetto sei tu, amata diocesi di Leiria-Fatima, con il tuo Pastore Mons. Antonio Marto, che ringrazio per il saluto rivoltomi all’inizio e per ogni premura di cui mi ha colmato, anche mediante i suoi collaboratori, in questo santuario. Saluto il Signor Presidente della Repubblica e le altre autorità al servizio di questa gloriosa Nazione. Idealmente abbraccio tutte le diocesi del Portogallo, qui rappresentate dai loro Vescovi, e affido al Cielo tutti i popoli e le nazioni della terra. In Dio, stringo al cuore tutti i loro figli e figlie, in particolare quanti di loro vivono nella tribolazione o abbandonati, nel desiderio di trasmettere loro quella speranza grande che arde nel mio cuore e che qui, a Fatima, si fa trovare in maniera più palpabile. La nostra grande speranza getti radici nella vita di ognuno di voi, cari pellegrini qui presenti, e di quanti sono uniti con noi attraverso i mezzi di comunicazione sociale.

Sì! Il Signore, la nostra grande speranza, è con noi; nel suo amore misericordioso, offre un futuro al suo popolo: un futuro di comunione con sé. Avendo sperimentato la misericordia e la consolazione di Dio che non lo aveva abbandonato lungo il faticoso cammino di ritorno dall’esilio di Babilonia, il popolo di Dio esclama: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio» (Is 61,10). Figlia eccelsa di questo popolo è la Vergine Madre di Nazaret, la quale, rivestita di grazia e dolcemente sorpresa per la gestazione di Dio che si veniva compiendo nel suo grembo, fa ugualmente propria questa gioia e questa speranza nel cantico del Magnificat: «Il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore». Nel frattempo Ella non si vede come una privilegiata in mezzo a un popolo sterile, anzi profetizza per loro le dolci gioie di una prodigiosa maternità di Dio, perché «di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono» (Lc 1, 47.50).

Ne è prova questo luogo benedetto. Tra sette anni ritornerete qui per celebrare il centenario della prima visita fatta dalla Signora «venuta dal Cielo», come Maestra che introduce i piccoli veggenti nell’intima conoscenza dell’Amore trinitario e li porta ad assaporare Dio stesso come la cosa più bella dell’esistenza umana. Un’esperienza di grazia che li ha fatti diventare innamorati di Dio in Gesù, al punto che Giacinta esclamava: «Mi piace tanto dire a Gesù che Lo amo! Quando Glielo dico molte volte, mi sembra di avere un fuoco nel petto, ma non mi brucio». E Francesco diceva: «Quel che m’è piaciuto più di tutto, fu di vedere Nostro Signore in quella luce che la Nostra Madre ci mise nel petto. Voglio tanto bene a Dio!» (Memorie di Suor Lucia, I, 42 e 126).

Fratelli, nell’udire queste innocenti e profonde confidenze mistiche dei Pastorelli, qualcuno potrebbe guardarli con un po’ d’invidia perché essi hanno visto, oppure con la delusa rassegnazione di chi non ha avuto la stessa fortuna, ma insiste nel voler vedere. A tali persone, il Papa dice come Gesù: «Non è forse per questo che siete in errore, perché non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio?» (Mc 12,24). Le Scritture ci invitano a credere: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20, 29), ma Dio – più intimo a me di quanto lo sia io stesso (cfr S. Agostino, Confessioni, III, 6, 11) – ha il potere di arrivare fino a noi, in particolare mediante i sensi interiori, così che l’anima riceve il tocco soave di una realtà che si trova oltre il sensibile e che la rende capace di raggiungere il non sensibile, il non visibile ai sensi. A tale scopo si richiede una vigilanza interiore del cuore che, per la maggior parte del tempo, non abbiamo a causa della forte pressione delle realtà esterne e delle immagini e preoccupazioni che riempiono l’anima (cfr Commento teologico del Messaggio di Fatima, anno 2000). Sì! Dio può raggiungerci, offrendosi alla nostra visione interiore.

Di più, quella Luce nell’intimo dei Pastorelli, che proviene dal futuro di Dio, è la stessa che si è manifestata nella pienezza dei tempi ed è venuta per tutti: il Figlio di Dio fatto uomo. Che Egli abbia il potere di infiammare i cuori più freddi e tristi, lo vediamo nei discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,32). Perciò la nostra speranza ha fondamento reale, poggia su un evento che si colloca nella storia e al tempo stesso la supera: è Gesù di Nazaret. E l’entusiasmo suscitato dalla sua saggezza e dalla sua potenza salvifica nella gente di allora era tale che una donna in mezzo alla moltitudine – come abbiamo ascoltato nel Vangelo – esclama: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato». Tuttavia Gesù rispose: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11, 27.28). Ma chi ha tempo per ascoltare la sua parola e lasciarsi affascinare dal suo amore? Chi veglia, nella notte del dubbio e dell’incertezza, con il cuore desto in preghiera? Chi aspetta l’alba del nuovo giorno, tenendo accesa la fiamma della fede? La fede in Dio apre all’uomo l’orizzonte di una speranza certa che non delude; indica un solido fondamento sul quale poggiare, senza paura, la propria vita; richiede l’abbandono, pieno di fiducia, nelle mani dell’Amore che sostiene il mondo.

«Sarà famosa tra le genti la loro stirpe, […] essi sono la stirpe benedetta dal Signore» (Is 61,9) con una speranza incrollabile e che fruttifica in un amore che si sacrifica per gli altri ma non sacrifica gli altri; anzi – come abbiamo ascoltato nella seconda lettura – «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7). Di ciò sono esempio e stimolo i Pastorelli, che hanno fatto della loro vita un’offerta a Dio e una condivisione con gli altri per amore di Dio. La Madonna li ha aiutati ad aprire il cuore all’universalità dell’amore. In particolare, la beata Giacinta si mostrava instancabile nella condivisione con i poveri e nel sacrificio per la conversione dei peccatori. Soltanto con questo amore di fraternità e di condivisione riusciremo ad edificare la civiltà dell’Amore e della Pace.

Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa. Qui rivive quel disegno di Dio che interpella l’umanità sin dai suoi primordi: «Dov’è Abele, tuo fratello? […] La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gen 4, 9). L’uomo ha potuto scatenare un ciclo di morte e di terrore, ma non riesce ad interromperlo… Nella Sacra Scrittura appare frequentemente che Dio sia alla ricerca di giusti per salvare la città degli uomini e lo stesso fa qui, in Fatima, quando la Madonna domanda: «Volete offrirvi a Dio per sopportare tutte le sofferenze che Egli vorrà mandarvi, in atto di riparazione per i peccati con cui Egli è offeso, e di supplica per la conversione dei peccatori?» (Memorie di Suor Lucia, I, 162).

Con la famiglia umana pronta a sacrificare i suoi legami più santi sull’altare di gretti egoismi di nazione, razza, ideologia, gruppo, individuo, è venuta dal Cielo la nostra Madre benedetta offrendosi per trapiantare nel cuore di quanti le si affidano l’Amore di Dio che arde nel suo. In quel tempo erano soltanto tre, il cui esempio di vita si è diffuso e moltiplicato in gruppi innumerevoli per l’intera superficie della terra, in particolare al passaggio della Vergine Pellegrina, i quali si sono dedicati alla causa della solidarietà fraterna. Possano questi sette anni che ci separano dal centenario delle Apparizioni affrettare il preannunciato trionfo del Cuore Immacolato di Maria a gloria della Santissima Trinità.

Il lavoro come dovere e perfezionamento dell’uomo

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Il lavoro come dovere e perfezionamento dell’uomo

di mons. Angelo Casile*

ROMA, giovedì, 13 maggio 2010 (ZENIT.org).- Sono passati 55 anni da quando il papa Pio XII istituì la festa liturgica di san Giuseppe lavoratore nel giorno del 1° maggio e affidò ogni uomo che lavora sotto la custodia dell’umile artigiano di Nazareth, che «impersona presso Dio e la Santa Chiesa la dignità del lavoratore».[1]

In modo eminente nella memoria di san Giuseppe si riconosce la dignità del lavoro umano, come dovere e perfezionamento dell’uomo, esercizio benefico della sua custodia del creato, servizio della comunità, prolungamento dell’opera del Creatore, contributo al piano della salvezza (cfr Conc. Vat. II, Gaudium et spes, 34).

Il culto

San Giuseppe, uomo giusto, nato dalla stirpe di Davide, sposo della beata Vergine Maria, fece da padre a Gesù, e da falegname di Nazareth, provvide con il suo lavoro a procurare, nella santità della vita, beni di sussistenza per la Sacra Famiglia. Nella sua bottega iniziò il Figlio di Dio al lavoro tra gli uomini al punto che Gesù è conosciuto come «il figlio del falegname» (Mt 13,55). La Chiesa con speciale onore lo venera come patrono, posto da Dio a custodia di ogni famiglia e dei lavoratori che lo venerano come esempio di dedizione.

Il Vangelo definisce san Giuseppe «uomo giusto» (Mt 1,19), la tradizione lo qualifica come nutritor Domini, la locuzione italiana “padre putativo” è giuridica, il titolo latino indica piuttosto i compiti di sicurezza, educazione umana e tutela svolti da chi seguì da vicino la crescita di Gesù. Per trovare i primi accenni a un culto pubblico ufficiale diffuso dobbiamo arrivare all’XI secolo. La data del 19 marzo, come propria di una memoria liturgica di san Giuseppe, è segnalata per la prima volta in un martirologio dell’VIII secolo, originario probabilmente della Francia settentrionale o del Belgio. Il motivo della scelta di questa data ci è sconosciuto. Qualche studioso la riconduce a una festa che si celebrava a Roma in onore della dea Minerva e che era assegnata proprio al 19 marzo. Tale ricorrenza, a Roma, era la festa di tutti gli artifices, una specie di grande festa operaia, quasi un’anticipazione del nostro 1° maggio.

Fin dall’antichità, quindi, la Chiesa aveva associato la figura di san Giuseppe al lavoro. Dalla seconda metà del Quattrocento la figura del santo acquista sempre maggiore rilievo, come testimonia il continuo crescere di grado della memoria liturgica. Ma per un collegamento esplicito con il mondo del lavoro dobbiamo attendere Leone XIII, che inviterà gli operai a ricorrere a san Giuseppe «quasi per un diritto loro proprio e imparare da lui quello che devono imitare… Nessun lavoro, anche manuale, è indecoroso. Anzi, può diventare titolo di nobiltà, se esercitato con dignità».[2] Anche Pio XI presenterà san Giuseppe come modello e patrono degli operai: Egli «con una vita di fedelissimo adempimento del dovere quotidiano, ha lasciato un esempio a tutti quelli che devono guadagnarsi il pane col lavoro delle loro mani e meritò di essere chiamato il Giusto, esempio vivente di quella giustizia cristiana, che deve dominare nella vita sociale».[3]

Pio XII e il 1° maggio 1955
Nel 1955 la Chiesa propose ufficialmente la figura di san Giuseppe come modello per i lavoratori. Si introduceva così una prospettiva religiosa in una giornata la cui origine risaliva al 1° maggio 1890, giorno in cui simultaneamente i lavoratori di vari paesi per la prima volta chiedevano, con pubbliche manifestazioni, la riduzione dell’orario di lavoro ad otto ore. Nascerà così la festa del lavoro, che la Chiesa volle illuminare con l’esemplarità dell’artigiano di Nazaret, cui fu affidato lo stesso Divino Lavoratore.

Il 1° maggio 1955 papa Pio XII si rivolgeva alle ACLI nel decennale di fondazione. Siamo nella terza fase del lungo pontificato di papa Pacelli e, dopo i duri contrasti con i regimi fascista e nazista, dopo il ciclone bellico, l’azione del Papa mostra una precisa scelta pastorale per la ricompaginazione del mondo cattolico in un decennio di veloci cambiamenti: il crescente inurbamento, l’affermazione dell’industria e la perdita di peso di artigianato e agricoltura, la diffusione di costumi e modelli di vita estranei alla cultura cattolica italiana, i prodromi di un miglioramento economico che avrebbe toccato il culmine nei successivi anni Sessanta.

Nel suo discorso Pio XII esortava con forza i lavoratori: «Se voi volete essere vicini a Cristo, Noi anche oggi vi ripetiamo “Ite ad Ioseph”: Andate da Giuseppe! (Gen. 41, 55)». L’Osservatore Romano ne dava così notizia: «La presenza di Cristo e della Chiesa nel mondo operaio. Il 1° Maggio solennità cristiana». Le foto dell’epoca presentano un colpo d’occhio straordinario: piazza San Pietro era gremita e la folla, riempita anche piazza Pio XI, debordava lungo il corso di via della Conciliazione.

Giovanni XXIII e Paolo VI
Giovanni XXIII propone l’esempio di S. Giuseppe a tutti gli uomini, «che nella legge del lavoro trovano segnata la loro condizione di vita» e li invita «a fare delle loro attività un mezzo potente di perfezionamento personale, e di merito eterno. Il lavoro è infatti un’alta missione: esso è per l’uomo come una collaborazione intelligente ed effettiva con Dio Creatore, dal quale ha ricevuto i beni della terra, per coltivarli e farli prosperare». La Chiesa è maternamente «vicina a quanti compiono nel nascondimento lavori ingrati e pesanti… a chi ancora non ha una stabile occupazione… a chi la malattia o la sventura sul lavoro ha dolorosamente provato».[4]

Celebrando il decimo anniversario della festa, Paolo VI motivava su un piano teologico la decisione di porre un forte sigillo cristiano su una festa che aveva trovato altrove i suoi natali: ciò è coerente con il genio teologico del cristianesimo, «il quale scopre in ogni manifestazione autentica della vita un campo sempre possibile e quasi predisposto all’economia dell’Incarnazione, alla penetrazione del divino nell’umano, all’infusione redentrice e sublimante della grazia». Occorre «pregare per il mondo del lavoro, per quanti in esso sono oggi sofferenti: disoccupati, sottoccupati, emigrati, mal sicuri del loro pane, mal retribuiti della loro fatica, amareggiati della loro sorte… affinché “la giustizia e la pace” auspice l’umile e grande Artigiano di Nazareth, abbiano a rifiorire cristianamente nel mondo del lavoro».[5] San Giuseppe è il «modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; san Giuseppe è la prova che per essere buoni ed autentici seguaci di Cristo non occorrono “grandi cose”, ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici. ma vere ed autentiche».[6]

Giovanni Paolo II

Giovanni Paolo II nella Redemptoris custos presenta il lavoro come espressione quotidiana di «amore nella vita della Famiglia di Nazareth… Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della redenzione». La virtù della laboriosità è capace di rendere «l’uomo in un certo senso più uomo» e apre alla «santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello accessibile a tutti: San Giuseppe».[7]

Nello storico incontro per il Giubileo mondiale dei lavoratori, Giovanni Paolo II ebbe ad affermare che «la globalizzazione è oggi un fenomeno presente ormai in ogni ambito della vita degli uomini, ma è fenomeno da governare con saggezza. Occorre globalizzare la solidarietà». E appellandosi agli imprenditori e dirigenti, ai sindacati dei lavoratori, agli uomini della finanza, agli artigiani, ai commercianti e ai lavoratori dipendenti, ha sottolineato come tutti devono «operare perché il sistema economico, in cui viviamo, non sconvolga l’ordine fondamentale della priorità del lavoro sul capitale, del bene comune su quello privato. è quanto mai necessario che si costituisca nel mondo una globale coalizione a favore del “lavoro dignitoso”».[8]

Benedetto XVI

Nel 2006, la Chiesa italiana e le associazioni del mondo del lavoro si sono stretti attorno a Benedetto XVI per far memoria grata e pregare insieme nella festa di san Giuseppe. Il Papa sottolineava la necessità di «vivere una spiritualità che aiuti i credenti a santificarsi attraverso il proprio lavoro, imitando san Giuseppe… La sua testimonianza mostra che l’uomo è soggetto e protagonista del lavoro. Vorrei affidare a lui i giovani che a fatica riescono ad inserirsi nel mondo del lavoro, i disoccupati e coloro che soffrono i disagi dovuti alla diffusa crisi occupazionale».[9]

Nella Caritas in veritate, Benedetto XVI indica la priorità dell’«obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti»[10] e ripropone quanto auspicato da Giovanni Paolo II nel corso del Giubileo dei Lavoratori sul lavoro decente, dignitoso, cioè «un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna… scelto liberamente… permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione… consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli… lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale… assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa».[11]

Il Vangelo del lavoro

Fenomeni gravi, presenti in tante parti del mondo, come la disoccupazione, lo sfruttamento dei minori, l’insufficienza dei salari, la precarietà del lavoro femminile, attendono ancora di essere affrontati e risolti. In questo senso gli aspetti negativi della globalizzazione del lavoro non devono mortificare le possibilità che si sono aperte per tutti di dare espressione ad un umanesimo del lavoro a livello planetario, affinché lavorando in un simile contesto sempre più ampio e interconnesso, l’uomo comprenda la sua vocazione unitaria e solidale.[12]

È necessario «testimoniare anche nell’odierna società il “Vangelo del lavoro”, di cui parlava Giovanni Paolo II nell’enciclica Laborem exercens. Auspico che non manchi il lavoro specialmente per i giovani, e che le condizioni lavorative siano sempre più rispettose della dignità della persona umana».[13] È dunque urgente impegnarsi in un’articolata formazione ai diversi livelli di responsabilità in modo che si aprano strade percorribili al “Vangelo del lavoro” e alla testimonianza effettiva dei laici cattolici nella società del lavoro e si possa promuovere l’autentico sviluppo delle persone e dell’intera umanità. Come ci ricordano i nostri vescovi, «i veri attori dello sviluppo non sono i mezzi economici, ma le persone. E le persone, come tali, vanno educate e formate: “lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune” (Caritas in veritate, n. 71».[14]

Il 1° maggio, memoria di san Giuseppe lavoratore, ci richiama a cogliere il lavoro dentro una visione dell’uomo che è illuminata profondamente da Gesù di Nazareth. Egli ci aiuti a vivere in pienezza il rapporto tra lavoro e resto della vita, lavoro e festa, lavoro e famiglia, lavoro e figli, lavoro e realizzazione di se stessi, e quindi il rapporto con Dio, gli altri, il creato.
—-

*Mons. Angelo Casile è Direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro.

1) Pio XII, Discorso in occasione della festività di San Giuseppe, 1° maggio 1955.
2) Leone XIII, Lettera enciclica Quamquam pluries, 15 agosto 1889.
3) Pio XI, lettera enciclica Divini Redemptoris, 19 marzo 1937. Altri riferimenti a san Giuseppe come «modello» degli operai e dei lavoratori si possono trovare in: cfr Benedetto XV, Motu proprio Bonum sane, 25 luglio 1920; Pio XII, Allocuzione, 11 marzo l945.
4) Giovanni XXIII, Radiomessaggio, 1º maggio 1960.
5) Paolo VI, Udienza generale, 1° maggio 1965.
6) Idem, Allocuzione, 19 marzo 1969.
7) Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Redemptoris custos, 15 agosto 1989.
8) Idem, Discorso all’incontro con il mondo del lavoro, Tor Vergata, 1° maggio 2000.
9) Benedetto XVI, Omelia, 19 marzo 2006.
10) Idem, Lettera enciclica Caritas in veritate, 29 giugno 2009, n. 32.
11) Ibidem, n. 63.
12) Cfr Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 25 ottobre 2004, n. 322.
13) Benedetto XVI, Angelus, 1° maggio 2005.
14) Conferenza Episcopale Italiana, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 21 febbraio 2010, n. 16.

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Una marmotta in Paradiso in Mount Rainier Parco Nazionale

Una marmotta in Paradiso in Mount Rainier Parco Nazionale  dans immagini buon...notte, giorno 322-1222568027XSgy

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San Basilio: « Ancora un poco e non mi vedrete ; un po’ ancora e mi vedrete »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100513

Giovedì della VI settimana di Pasqua : Jn 16,16-20
Meditazione del giorno
San Basilio (circa 330-379), monaco e vescovo di Cesarea in Cappadocia, dottore della Chiesa
Hexaemeron, 6

« Ancora un poco e non mi vedrete ; un po’ ancora e mi vedrete »

        Se qualche volta, nella quiete di una notte serena, fissando gli occhi sulla bellezza inesprimibile degli astri, hai pensato all’autore dell’universo, chiedendoti chi ha seminato tali fiori sul firmamento, allora sei pronto a seguire questa assemblea e ad ascoltare il commento del racconto ispirato…

        Vieni pure : come si tengano per mano e si conducono nelle città quelli che non le conoscono, così sarò la vostra guida per farvi scoprire le meraviglie misteriose dell’universo. In questa città, nostra antica patria dalla quale siamo stati cacciati dal demonio che ha ridotto in schiavitù l’uomo per mezzo della seduzione, vedrai la creazione dell’uomo e la morte che si è impadronita di noi, questa morte nata dal peccato, creatura del demonio, maestro del male… Dio, mediante l’esperienza del presente, ci conferma nell’attesa dell’avvenire : se infatti i beni materiali sono così importanti, cosa saranno i beni eterni ? Se gli esseri visibili sono così belli, quale sarà la bellezza degli esseri invisibili ? Se la grandezza del cielo oltrepassa la misura dell’intelligenza umana, quale intelligenza potrà scoprire la natura di ciò che è eterno ? Se questo sole caduco è così bello, così grande, così veloce nei suoi moti, così regolare nel suo ciclo, di una grandezza così proporzionata al resto dell’universo, se nessuno può saziarsi di godersene, quale bellezza sarà quella di Cristo chiamato nella Scrittura « Sole di giustizia » (Mal 3,20). E se è un grande danno per il cieco essere privo del sole, che danno sarà per il peccatore essere privo della luce vera ed eterna…

OUR LADY OF FATIMA

OUR LADY OF FATIMA dans immagini sacre Our_Lady_of_Fatima150
http://windhorse.homestead.com/MoreHolyCards.html

Publié dans:immagini sacre |on 12 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Lo Sconosciuto oltre il Verbo: Considerazioni sullo Spirito Santo

dal sito:

http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=166

Lo Sconosciuto oltre il Verbo

Considerazioni sullo Spirito Santo

di Rino Fisichella
rettore della Pontificia Università Lateranense 
 
      «Lo Sconosciuto che viene oltre il Verbo». È l’espressione più concisa con la quale un teologo dello spessore di Hans Urs von Balthasar poteva parlare dello Spirito Santo. Che lo Spirito Santo sia uno “Sconosciuto” può essere vero per almeno due motivi: il primo, di ordine teologico, è determinato dal fatto che mai come in questo caso siamo posti dinanzi al mistero. Egli è Spirito di Amore e riporta inevitabilmente alla sublimità dell’essenza stessa di Dio come l’ha rivelata Gesù Cristo. Il linguaggio umano trova forte il limite delle sue parole sempre imbrigliate all’interno di quella “gabbia” – per usare l’espressione di Ludwig Wittgenstein – che impedisce di dire ciò che costituisce l’essenza del mistero. Con ragione, quindi, i fratelli di Oriente suggeriscono che è meglio invocare lo Spirito piuttosto che parlare di lui; egli, infatti, è grazia che viene data dall’amore del Padre. Da questa prospettiva, dunque, è importante sottolineare che per avere una coerente intelligenza di questo mistero è determinante acquisire l’atteggiamento dello stupore e della ricezione silenziosa.
      Il secondo motivo è di ordine maggiormente storico e dipende dal fatto che per lungo tempo la teologia ha dimenticato di tenere fisso lo sguardo sull’intelligenza dello Spirito Santo. Ne è scaturita una teologia debole perché priva della centralità del mistero trinitario e, quindi, frammentaria nell’esposizione dei diversi misteri di cui si compone la fede. L’emarginazione del tema dello Spirito alla sola sfera della spiritualità, ad esempio, ha impedito di raggiungere una coerente teologia dei ministeri e del laicato. Il recupero del posto centrale che è dovuto agli studi sullo Spirito Santo ha permesso di verificare, in questi ultimi decenni, quanto ritardo sia stato imposto alla tabella di marcia della teologia sia nel suo corrispondere alla missione ecclesiale che le appartiene sia nel dare voce alla forza della profezia.
      Chi è, dunque, lo Spirito Santo? «Se vuoi sapere quello che deve essere il tuo pensiero intorno allo Spirito Santo, ti è necessario ritornare agli apostoli e ai Vangeli con i quali e nei quali hai certezza che Dio ha parlato» (Lo Spirito Santo, I, 9). Questo testo di Fausto, vescovo di Riez nella metà del V secolo (452/460?) permette al teologo di ritrovare il metodo corretto per balbettare qualche cosa sul mistero dello Spirito di Cristo. “Ritorna agli apostoli e ai Vangeli”. Ecco la fonte originaria della fede cristiana: la Tradizione e la Scrittura nella loro inscindibile unità e nella reciprocità piena che permette di cogliere l’unica Parola che Dio ha rivolto all’umanità (cfr. Dei Verbum 9).
      «Esaminiamo ora le nozioni correnti che abbiamo intorno allo Spirito Santo, sia quelle raccolte dalle Scritture, sia quelle che ci furono trasmesse dalla tradizione non scritta dei Padri… Lo Spirito Santo è chiamato Spirito di Dio, Spirito di verità che procede dal Padre, Spirito retto, Spirito che guida. Il suo nome più appropriato è Spirito Santo, perché questo nome indica l’essere più incorporale, più immateriale e più esente da composizione. Poiché il Signore alla samaritana persuasa che si dovesse adorare Dio in un luogo, insegnò che l’incorporeo non può essere chiuso da limiti, e le disse: “Dio è spirito”. Quindi, chi sente dire “Spirito” non può figurarsi una natura limitata, sottoposta a mutamenti e variazioni, oppure simile in tutto a cosa creata». Sono le parole di san Basilio, monaco e vescovo di Cesarea, che nel 375 scriveva il suo trattato Sullo Spirito Santo.
      Sappiamo che la Scrittura parla con preferenza dello Spirito come «ruah»: «soffio», «aria», «spirito», «vento», «respiro»… tutte realtà di cui, per dirla con le parole di Gesù, «si ode il suono, ma non sai da dove viene e dove va» (Gv 3,8); si percepisce, quindi, la sua presenza e la sua forza, ma non sappiamo dire di più, perché egli è avvolto nel mistero della vita di Dio. Il concilio di Costantinopoli nel professare: «È Signore e dà la vita», cerca di dare corpo all’insegnamento della Sacra Scrittura che pone sempre lo Spirito in relazione alla vita. Il salmista esplicita il testo della Genesi, quando attesta: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera» (Sal 33,6). Lo Spirito, insomma, è il soffio che esce dalla bocca di Dio e che crea ogni cosa dando vita. Il genio di Michelangelo, nell’affresco della Cappella Sistina, darà forma artistica a questo insegnamento. Il «digitus paternae dexterae» del Veni Creator, è ciò che dà la vita all’uomo e tutto sostiene (cfr. Sal 8,5). È talmente vero che, «se Dio richiamasse a sé il suo spirito e a sé ritraesse il suo soffio, ogni carne morirebbe all’istante e l’uomo ritornerebbe polvere» (Gb 34,14). In una parola, lo Spirito è la potenza e la forza di Dio, per suo mezzo tutto viene alla luce e tutto viene portato a compimento.
      Lo Spirito Santo, dunque, è protagonista di tutta la storia della salvezza. Ogni qual volta Dio interviene in mezzo al suo popolo per liberarlo e per mostrargli il compimento delle sue promesse, è sempre lo Spirito che lo accompagna. È in forza della sua potenza che vengono vinte le battaglie; alla stessa stregua, è la sua forza che trasforma gli uomini permettendo loro di adempiere la missione ricevuta. È, ancora, lo Spirito che «investe Gedeone» o che «penetra in Sansone» dando a ciascuno la forza necessaria per la vittoria. È sempre lo stesso Spirito che scende sul re, lo incorona e lo protegge perché possa regnare a nome di Dio sul suo popolo: «lo Spirito del Signore si posò sopra David da quel giorno in poi» (1Sam 16,13). 
 
      Sarà soprattutto con i profeti che la sua azione diventerà maggiormente visibile. Il profeta è l’uomo chiamato dallo Spirito di Jhwh per far ascoltare la sua voce nelle situazioni più disparate della storia. Isaia, Geremia, Ezechiele, come Amos, Osea e tutti i profeti minori, anche se non esplicitamente detto per il timore di fraintendimenti, esprimono la consapevolezza di essere stati chiamati e “rapiti” alla missione profetica dallo Spirito del Signore. Per tutti, vale l’espressione di Ezechiele: «Lo Spirito del Signore venne su di me e mi disse: parla» (Ez 11,5). Il profeta diventa possesso dello Spirito e “bocca” mediante la quale Dio fa udire la sua voce. È interessante, in proposito, osservare che alcuni Padri della Chiesa hanno voluto parlare dello Spirito come della “bocca” di Dio. Simeone il nuovo Teologo, vissuto nel 1022, così scrive nel suo libro di Etica: «La bocca di Dio è lo Spirito Santo e la sua Parola e Verbo è il suo Figlio, anch’egli Dio. Ma perché lo Spirito è chiamato bocca di Dio e il Figlio Parola e Verbo? Nella stessa maniera nella quale il discorso interiore esce dalla nostra bocca e si rivela agli altri, senza che noi possiamo pronunciarlo o manifestarlo con un altro mezzo che non sia quello della bocca, allo stesso modo il Figlio e Verbo di Dio, se non è espresso o rivelato dallo Spirito Santo come da una bocca, non può essere conosciuto né inteso».
      Lo Spirito Santo viene pienamente rivelato da Gesù Cristo. Quasi fosse un’armoniosa sintesi dell’intero Vangelo di Luca e di Giovanni, san Gregorio Nazianzeno così scrive: «Cristo nasce e lo Spirito lo precede; è battezzato e lo Spirito lo testimonia; viene messo alla prova e quello lo riconduce in Galilea; compie i miracoli e quello lo accompagna; sale al cielo e lo Spirito gli succede» (Discorsi, XXX, 29). Su Cristo, infatti, lo Spirito riposa in pienezza e ne accompagna tutta l’esistenza. Poiché Gesù possiede in pienezza lo Spirito Santo, lo può donare in abbondanza e senza misura a quanti credono in lui (Gv 7,37-39). La nuova creazione che Gesù compie, attraverso il sacrificio della sua morte e la risurrezione, diventa evidente quando egli, alitando sui discepoli raccolti nel cenacolo, infonde in loro il suo Spirito: «alitò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Perché la Chiesa potesse essere forte nel suo annuncio, coerente nella sua vita e capace di portare il perdono e l’amore a tutti, l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste segna l’inizio ufficiale della missione dei discepoli di Gesù davanti al mondo.
      Lo Spirito Santo è dono del Padre e del Figlio; la sua azione è sempre pienamente trinitaria in una relazionalità che forma la pericoresi perenne del donarsi reciproco, pieno e totale delle tre persone divine. «Egli prenderà del mio e ve lo annunzierà» (Gv 16,14-15). La missione dello Spirito, dunque, è portare a intelligenza ciò che Gesù ha rivelato. La rivelazione che egli compie non ha un suo contenuto proprio; questa può essere solo ciò che il Logos ha pronunciato avendolo udito presso il Padre. Ma l’intelligenza del mistero non è meno importante del contenuto. Ogni intelligenza è un’azione sempre nuova in cui la Chiesa vede e sperimenta la presenza del suo Signore che non l’ha mai abbandonata e che sempre la segue e accompagna nella storia, fino a quando non avrà raggiunto la verità nella sua pienezza. È sempre l’insegnamento di Fausto da Riez che consente di recepire questa istanza: «La nostra esistenza sembra essere riferita propriamente al Padre “nel quale” come ha detto l’Apostolo, “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28); invece il nostro essere capaci di ragione, di sapienza e di giustizia è attribuito in particolare a colui che è ragione (logos), sapienza e giustizia, vale a dire al Figlio. Attraverso la Parola di Dio, poi, nella persona dello Spirito Santo sono chiaramente ascritti la nostra chiamata alla rigenerazione, il rinnovamento che ne consegue e la successiva santificazione… Forse, potreste dire: è più grande lo Spirito Santo, le cui opere sono più importanti e più nobili. Non è così… anche se le singole persone compiono qualcosa di proprio, permane nei tre il disegno di insieme» (Lo Spirito Santo, I,10).
      La Chiesa, che era già presente nel gruppo dei discepoli che per tre anni avevano seguito il Signore formando con lui una comunità, nasce in quella effusione dello Spirito che sulla croce era già stata segnata e raffigurata dallo scorrere di sangue e acqua dal costato aperto del crocifisso. Ora, nel giorno di Pentescoste, essa ha la forza di porsi nel mondo come testimone della resurrezione del Signore. E come Gesù aveva inaugurato la sua missione pubblica con la predicazione della conversione e del perdono, così anche la Chiesa ripercorrendo le stesse orme di Cristo, proclama il suo primo discorso richiamando alla conversione e alla fede nel Signore Gesù (At 2,14). La divisione di Babele frutto del peccato, viene distrutta dalla Pentecoste, riportando l’unità per mezzo dello Spirito. È lo Spirito che dà forza ai discepoli di aprire le porte sbarrate del cenacolo dove si trovavano “per paura” e immette nella missione evangelizzatrice. Ciò che emerge, tuttavia, in maniera originale, tanto da creare una discontinuità con la mentalità e la prassi ebraica, è che in Gesù lo Spirito viene dato a tutti. La visione profetica di Gioele che vedeva nel futuro l’espandersi dello Spirito profetico su tutti i figli e le figlie di Israele si attua e diventa visibile nella comunità dei credenti.
      Come lo Spirito aveva accompagnato Gesù, così ora egli accompagna la sua Chiesa. Uno sguardo alle diverse comunità e alla loro vita interna che si struttura progressivamente, mostra la sua azione onnipresente. È lui che rivela agli apostoli dove andare o non andare (At 16,6-10); è sempre lui che concede a ognuno i carismi necessari per costruire la comunità (1Cor 12,7); è lo stesso Spirito che dona ai discepoli le parole necessarie per difendersi durante i processi (Lc 12,11-12), ed è lo Spirito del Risorto che permette a Stefano di offrire la sua testimonianza suprema (At 7). È lo stesso Spirito che ispira gli autori sacri a mettere per iscritto i Vangeli e gli insegnamenti degli apostoli perché la Chiesa potesse avere nel futuro un riferimento costante per la sua vita; ed è sempre lo stesso Spirito che guida l’incessante trasmettersi di tutto ciò che non è stato scritto, ma che costituisce la fede di sempre e di tutti. È lo Spirito di verità che non viene mai meno nella storia della Chiesa; questi consente a tutti i credenti di mantenersi intatti in quel «senso della fede» (Lumen gentium,12) che permette ai più semplici di sapere in che cosa consiste la fede e che dà certezza ai suoi Pastori uniti a Pietro di interpretare il Vangelo nella verità.
      Quanto mai significative, in questo senso, risuonano le parole di uno degli ultimi autori della letteratura romana del III secolo, Novaziano: «Lo Spirito costituisce nella Chiesa i profeti, istruisce i maestri, dispone le lingue, opera i prodigi e le guarigioni, compie azioni meravigliose, concede il discernimento degli spiriti, assegna i posti di comando, suggerisce i consigli, dispone e distribuisce tutti gli altri doni; e così rende perfetta e completa la Chiesa del Signore in ogni luogo e in ogni cosa… Egli rende testimonianza a Cristo negli apostoli, mostra la fede stabile nei martiri, circonda nelle vergini la mirabile castità della carità insigne, negli altri custodisce inalterati e incontaminati i precetti della dottrina del Signore, annienta gli eretici, corregge gli infedeli, smaschera i bugiardi, frena i malvagi, custodisce la Chiesa incorrotta e inviolata nella santità della perpetua verginità e della verità» (La Trinità, 26, 10-26).   
 
      Sulla stessa lunghezza d’onda si muove san Massimo il Confessore: «Uomini, donne, ragazzi, profondamente divisi in ciò che riguarda la razza, la nazione, la lingua, la classe sociale, il lavoro, la scienza, la dignità, i beni… tutti questi la Chiesa li ricrea nello Spirito. A tutti ugualmente essa imprime una forma divina. Tutti ricevono da essa un’unica natura impossibile a romperla, una natura che non permette più che si tenga ormai conto delle molteplici e profonde differenze che li riguardano. Di qui deriva che tutti siamo uniti in una maniera veramente cattolica. Nella Chiesa, nessuno è separato dalla comunità, tutti si fondano, per così dire, gli uni negli altri, dalla forza indivisibile della fede. Cristo è, così, tutto in tutti, lui che assume tutto in lui secondo la sua forza infinita e a tutti comunica la sua bontà. Egli è come un centro a cui convergono tutte le linee. Così avviene che le creature di Dio unico, non restino più estranee e nemiche le une per le altre, per mancanza di un luogo comune dove possano manifestare la loro amicizia e la loro pace» (Mystagogia, I). Come si può osservare, attraverso i doni che vengono dati possiamo ricostruire la sublimità di colui che li dona.
      Tutta la vita della Chiesa si svolge, fino ai nostri giorni, nell’obbedienza allo Spirito del Signore. L’apostolo ricorda che nella preghiera «noi non sappiamo neppure cosa è conveniente chiedere… lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza e con i suoi gemiti inesprimibili ci permette di rivolgerci a Dio e chiamarlo: Padre» (Rm 8,26 ss). È soprattutto nella liturgia che la sua opera diventa percepibile in maniera chiara, perché lì egli santifica l’intera comunità cristiana e ogni singolo credente in essa. L’eucaristia, in modo particolare, consente di vedere realizzata l’opera dello Spirito. Essa costituisce come la sintesi di tutta la vita sacramentale perché si ha la vera e reale presenza di Cristo. L’epiclesi, cioè l’invocazione dello Spirito Santo sulle offerte, si conferma come il centro focale in cui riconoscere la sua azione: «Manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo» rimane come l’espressione culminante per vedere concretizzata la missione dello Spirito Santo. Senza di lui, il pane e il vino restano tali, così come l’acqua del battesimo o il crisma della confermazione e gli olii per le unzioni; se egli non è presente, non vi è trasformazione alcuna nel patto di amore tra i coniugi né in quell’uomo disteso a terra in attesa che gli vengano imposte le mani per il sacerdozio; se egli non viene invocato, nessun peccato può essere rimesso a colui che chiede perdono. La grandezza dello Spirito Santo, in tutta l’azione liturgica, si manifesta nell’obbedienza che egli pone alle parole del ministro che lo invoca perché venga a trasformare la materia del sacramento. In qualche modo, è possibile vedere quasi una “kenosi” dello Spirito (Hans Urs von Balthasar), non solo perché obbedisce alle parole del ministro, ma ancora di più perché si rende visibile nella sua Chiesa anche nella forma dell’Istituzione.
      La vita teologale è opera dello Spirito. Dove si crede, spera ed ama là egli opera permettendo di compiere un lento, ma progressivo cammino verso l’identificazione piena del volto che deve ricevere la nostra obbedienza della fede, la certezza della speranza e la passione dell’amore. Con ragione, san Tommaso poteva sostenere che «omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est» (Summa Theologica, II, 109, 1 ad 1). I semi del Logos sono piantati in ognuno per l’azione del suo Spirito; la maturazione necessaria che richiede l’attesa per i tempi dello Spirito obbliga alla pazienza e al rispetto, senza intraprendere strade che potrebbero manifestare un pio desiderio umano ma non necessariamente una spinta propulsiva dello Spirito. Questo tema che apre in modo particolare al dialogo interreligioso permette di ribadire l’impegno che il teologo è tenuto ad assumere in sé in quanto soggetto ecclesiale. Lo Spirito “soffia dove vuole” è freschezza di una giovinezza perenne della Sposa che sempre e dovunque è chiamata a seguire le strade dello Spirito. Lui indica le terre e segna i ritmi dei tempi: a lui si deve guardare e lui si deve ascoltare perché possiamo essere ancora segni di una speranza che non è mai venuta meno.
      «Sine tuo numine nihil est in homine, nihil est innoxium». Questa visione della fede, lontano dal rendere passiva l’azione del credente, apre alla libera obbedienza che sa fare della testimonianza cristiana il frutto più genuino di un’esistenza vissuta nell’ entusiasmo, cioè mossa dallo Spirito che dà vita.   

Omelia di Benedetto XVI al Terreiro do Paço di Lisbona

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22420?l=italian

Omelia di Benedetto XVI al Terreiro do Paço di Lisbona

CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 11 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell’omelia che Benedetto XVI ha pronunciato questo martedì pomeriggio durante la Messa che ha presieduto nel Terreiro do Paço di Lisbona.

* * *
Carissimi Fratelli e Sorelle,

Giovani amici!

«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, […] insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20). Queste parole di Cristo risorto si rivestono di particolare significato in questa città di Lisbona, da dove sono partiti in grande numero generazioni e generazioni di cristiani – Vescovi, sacerdoti, consacrati e laici, uomini e donne, giovani e meno giovani -, obbedendo all’appello del Signore e armati semplicemente di questa certezza che Egli ha loro lasciato: «Io sono con voi tutti i giorni». Glorioso è il posto che il Portogallo si è guadagnato in mezzo alle nazioni per il servizio offerto alla diffusione della fede: nelle cinque parti del mondo ci sono Chiese locali che hanno avuto origine dall’azione missionaria portoghese.

In passato, la vostra partenza alla ricerca di altri popoli non ha impedito né distrutto i vincoli con ciò che eravate e credevate, anzi, con cristiana saggezza, siete riusciti a trapiantare esperienze e particolarità, aprendovi al contributo degli altri per essere voi stessi, in un’apparente debolezza che è forza. Oggi, partecipando all’edificazione della Comunità europea, portate il contributo della vostra identità culturale e religiosa. Infatti Gesù Cristo, così come si è unito ai discepoli sulla strada di Emmaus, così anche oggi cammina con noi secondo la sua promessa: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Pur se diversa da quella degli Apostoli, abbiamo anche noi una vera e personale esperienza del Signore risorto. La distanza dei secoli viene superata e il Risorto si offre vivo e operante, per il nostro tramite, nell’oggi della Chiesa e del mondo. Questa è la nostra grande gioia. Nel fiume vivo della Tradizione ecclesiale, Cristo non si trova a duemila anni di distanza, ma è realmente presente tra noi e ci dona la Verità, ci dona la luce che ci fa vivere e trovare la strada verso il futuro.

Presente nella sua Parola, nell’assemblea del popolo di Dio con i suoi Pastori e, in modo eminente, nel sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, Gesù è qui con noi. Saluto il Signor Cardinale Patriarca di Lisbona, che ringrazio per le affettuose parole che mi ha rivolto, all’inizio della celebrazione, a nome della sua comunità che mi accoglie e che io abbraccio nei suoi quasi due milione di figli e figlie; a tutti voi qui presenti – amati Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, carissime donne e uomini consacrati e fedeli laici impegnati, care famiglie e giovani, battezzati e catecumeni – rivolgo il mio saluto fraterno e amico, che estendo a quanti si trovano uniti a noi attraverso la radio e la televisione. Ringrazio sentitamente il Signor Presidente della Repubblica per la sua presenza e le altre Autorità, in particolare il Sindaco di Lisbona, che ha avuto la cortesia di consegnarmi le chiavi della città.

Lisbona amica, porto e riparo di tante speranze che ti venivano affidate da chi partiva e che desiderava chi ti faceva visita, mi piacerebbe oggi servirmi di queste chiavi che mi hai consegnate perché tu possa fondare le tue umane speranze sulla Speranza divina. Nella lettura appena proclamata, tratta dalla Prima Lettera di San Pietro, abbiamo sentito: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso». E l’Apostolo spiega: Avvicinatevi al Signore, «pietra viva, rifiutata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio» (1 Pt 2,6.4). Fratelli e sorelle, chi crede in Gesù non resterà deluso: è Parola di Dio, che non si inganna né può ingannarci. Parola confermata da una «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» e quali sono stati contemplati dall’autore dell’Apocalisse «avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palme nelle loro mani» (Ap 7,9). In questa moltitudine innumerevole non ci sono soltanto i Santi Verissimo, Massima e Giulia, qui martirizzati nella persecuzione di Diocleziano, o San Vincenzo, diacono e martire, patrono principale del Patriarcato; Sant’Antonio e San Giovanni di Brito che sono partiti da qui per seminare il buon seme di Dio presso altre terre e popoli, o San Nuno di Santa Maria che, da poco più di un anno, ho iscritto nel libro dei Santi. Ma viene formata dai «servi del nostro Dio» di tutti i tempi e luoghi, sulla cui fronte è stato tracciato il segno della croce con «il sigillo del Dio vivente» (Ap 7,2): lo Spirito Santo. Si tratta del rito iniziale compiuto su ognuno di noi nel sacramento del Battesimo, per mezzo del quale la Chiesa dà alla luce i «santi».

Sappiamo che non le mancano figli riottosi e persino ribelli, ma è nei Santi che la Chiesa riconosce i propri tratti caratteristici e, proprio in loro, assapora la sua gioia più profonda. Li accomuna tutti la volontà di incarnare il Vangelo nella propria esistenza, sotto la spinta dell’eterno animatore del Popolo di Dio che è lo Spirito Santo. Fissando lo sguardo sui propri Santi, questa Chiesa locale ha giustamente concluso che oggi la priorità pastorale è quella di fare di ogni donna e uomo cristiani una presenza raggiante della prospettiva evangelica in mezzo al mondo, nella famiglia, nella cultura, nell’economia, nella politica. Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?
 
Affinché ciò non accada, bisogna annunziare di nuovo con vigore e gioia l’evento della morte e risurrezione di Cristo, cuore del cristianesimo, fulcro e sostegno della nostra fede, leva potente delle nostre certezze, vento impetuoso che spazza via qualsiasi paura e indecisione, qualsiasi dubbio e calcolo umano. La risurrezione di Cristo ci assicura che nessuna potenza avversa potrà mai distruggere la Chiesa. Quindi la nostra fede ha fondamento, ma c’é bisogno che questa fede diventi vita in ognuno di noi. C’è dunque un vasto sforzo capillare da compiere affinché ogni cristiano si trasformi in un testimone in grado di rendere conto a tutti e sempre della speranza che lo anima (cfr 1Pt 3,15): soltanto Cristo può soddisfare pienamente i profondi aneliti di ogni cuore umano e dare risposte ai suoi interrogativi più inquietanti circa la sofferenza, l’ingiustizia e il male, sulla morte e la vita nell’Aldilà.

Carissimi Fratelli e giovani amici, Cristo è sempre con noi e cammina sempre con la sua Chiesa, la accompagna e la custodisce, come Egli ci ha detto: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Non dubitate mai della sua presenza! Cercate sempre il Signore Gesù, crescete nella amicizia con lui, ricevetelo nella comunione. Imparate ad ascoltare la sua parola e anche a riconoscerlo nei poveri. Vivete la vostra esistenza con gioia ed entusiasmo, sicuri della sua presenza e della sua amicizia gratuita, generosa, fedele fino alla morte di croce. Testimoniate a tutti la gioia per questa sua presenza forte e soave, cominciando dai vostri coetanei. Dite loro che è bello essere amico di Gesù e vale la pena seguirlo. Con il vostro entusiasmo mostrate che, fra tanti modi di vivere che il mondo oggi sembra offrici – apparentemente tutti dello stesso livello –, l’unico in cui si trova il vero senso della vita e quindi la gioia vera e duratura è seguendo Gesù. Cercate ogni giorno la protezione di Maria, Madre del Signore e specchio di ogni santità. Ella, la Tutta Santa, vi aiuterà ad essere fedeli discepoli del suo Figlio Gesù Cristo.

buona notte

buona notte dans Papa Benedetto XVI 8373

Nepenthes sp. Winged Nepenthes, Pitcher Plant

http://toptropicals.com/cgi-bin/garden_catalog/cat.cgi?number=5&find=Nepenthaceae&imagesonly=1

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 12 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Catechismo della Chiesa cattolica : « Egli, lo Spirito di verità, vi guiderà alla verità tutta intera»

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php

Mercoledì della VI settimana di Pasqua : Jn 16,12-15
Meditazione del giorno
Catechismo della Chiesa cattolica
§ 687-688

« Egli, lo Spirito di verità, vi guiderà alla verità tutta intera»

        « I segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio » (1 Cor 2,11). Ora, il suo Spirito, che lo rivela, ci fa conoscere Cristo, suo Verbo, sua Parola vivente, ma non manifesta se stesso. Colui che « ha parlato per mezzo dei profeti » (Credo) ci fa udire la Parola del Padre. Lui, però, non lo sentiamo. Non lo conosciamo che nel movimento in cui ci rivela il Verbo e ci dispone ad accoglierlo nella fede. Lo Spirito di verità che ci svela Cristo «non parla da sé» (Gv 16,13). Un tale annientamento, propriamente divino, spiega il motivo per cui « il mondo non può ricevere » lo Spirito, « perché non lo vede e non lo conosce » (Gv 14,17), mentre coloro che credono in Cristo lo conoscono perché dimora presso di loro.

        La Chiesa, comunione vivente nella fede degli Apostoli che essa trasmette, è il luogo della nostra conoscenza dello Spirito Santo:
           — nelle Scritture, che egli ha ispirato;
           — nella Tradizione, di cui i Padri della Chiesa sono i testimoni sempre attuali;
           — nel Magistero della Chiesa, che egli assiste;
           — nella liturgia sacramentale, attraverso le sue parole e i suoi simboli, in cui lo Spirito Santo ci mette in comunione con Cristo;
           — nella preghiera, nella quale intercede per noi;
           — nei carismi e nei ministeri per mezzo dei quali si edifica la Chiesa;
           — nei segni di vita apostolica e missionaria;
           — nella testimonianza dei santi, in cui egli manifesta la sua santità e continua l’opera della salvezza.

trittico dedicato alla Vergine Maria

trittico dedicato alla Vergine Maria dans immagini sacre vierge_tryptique_s

En visuel, en examinant ce tryptique dédié à « La Vierge Marie », on pourrait tout à fait identifier la présence de deux ou plusieurs silhouettes de type obélisques ou bien de tours jumelles en symétrie autour de la niche centrale.
L’aspect Gothique des façades des tours du WTC était flagrant

http://www.bibleetnombres.online.fr/911_k.htm

Publié dans:immagini sacre |on 11 mai, 2010 |Pas de commentaires »
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