dal sito:
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Le virtù teologali: fede, speranza e carità.
Un’interpretazione spirituale
di Andreas Schnoeller *
Nell’esperienza cristiana il percorso spirituale poggia su tre pilastri. Sono le tre virtù teologali – che hanno cioè un esplicito riferimento a Dio: la fede, la speranza e la carità. La fede – che è sempre fede-fiducia, abbandono fiducioso – è un atteggiamento che si vive nel presente. Nella Dei Verbum del Concilio Vaticano II si usa la formula: «abbandonarci fiduciosamente a Dio, prestando l’ossequio dell’intelletto e della volontà». Tuttavia, il suo sguardo è rivolto al passato. Si nutre, nel contesto della tradizione cristiana, della testimonianza che ci viene dal passato. La fede coglie le risonanze dell’azione di Dio che ci provengono dagli eventi del passato, dalle testimonianze di coloro che ci hanno educato alla fede, di coloro che ci hanno trasmesso le tradizioni. Questo è il motivo per cui, nella liturgia cristiana, si leggono le Scritture. Volendo nutrire l’atteggiamento di fede nel presente, ci richiamiamo alle testimonianze che ci vengono dal passato.
Ne celebriamo la «memoria», che è una componente essenziale dell’esperienza cristiana. Vale anche per gli Ebrei e, forse, vale per tutti, per ogni uomo e per ogni cultura. Perché noi, in quanto creature, ci portiamo costantemente con noi il passato. Come si legge nella seconda lettera di Pietro 1,19: «Le parole dei profeti sono degne di fiducia, oggi ancora più di prima. E voi fate bene a considerarle con attenzione. Esse sono come una lampada che brilla in un luogo oscuro, fino a quando non comincerà il giorno, e la stella del mattino illuminerà i vostri cuori». Oggi, però, questo sguardo della fede si estende e abbraccia territori che si fanno sempre più vasti dell’umanità. Perché ogni cammino spirituale dell’umanità è veicolo di un’immensa ricchezza che confluisce nel presente. Senza rinnegare o trascurare il proprio passato specifico, l’attuale impegno ecumenico e il dialogo interreligioso richiedono quest’apertura e questo passaggio. Naturalmente, non c’è solo il passato. C’è anche il presente. Esso non è solo il luogo in cui si vive di fede, attingendo al passato. È anche il luogo in cui, in virtù del silenzio che ascolta, la fede si alimenta e cresce. Per i padri della chiesa, la grande Bibbia non sono le Sacre Scritture, ma la vita. Quel roveto ardente, alla cui presenza Mosè si toglie i calzari, perché sa di trovarsi a faccia a faccia con il Dio vivente. «Mio Dio è ogni cosa», ripete estatico Francesco d’Assisi.
La speranza, ossia l’attesa di Dio che viene. Perché questo è la speranza: attesa del dono di Dio che erompe dal futuro. Qui, però, occorre essere chiari. Perché la speranza non consista nell’attendere il bene che ci sarà domani. Oggi va male, ma domani sarà diverso. La speranza a livello teologale è l’attesa di Dio che viene. Dice l’Apocalisse: «Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine. Io sono colui che è, che era e che viene» (Ap 1,8; 21,6; 22,13). Per chi crede in Dio, Dio già è. Cioè, la perfezione totale, la perfezione compiuta, c’è già. Per cui la speranza è essere aperti alla perfezione compiuta che ci viene incontro. È accogliere i frammenti di vita sempre nuovi che ci offre, per condurci alla nostra identità di figli. La speranza è attendere il dono di Dio che ci rende suoi figli. Però, anche qui, occorre di nuovo essere attenti. Perché questo è di nuovo un punto fondamentale.
Infatti, il dono di Dio, cioè la sua azione, per essere veramente nostro, cioè accolto, deve diventare nostra azione, nostra decisione. Non è come ricevere in dono un libro, che rimane nostro anche se lo mettiamo in un cassetto. Se il dono di Dio non diventa nostra azione, nostra decisione, si perde nel vuoto. Il dono c’è. Ma se non viene accolto, non può diventare frammento di vita che ci arricchisce. La speranza è apertura accogliente al dono di Dio che ci arricchisce. È passività, perché tutto è dono di Dio. Ma è passività accogliente, che ci pone nella condizione di essere capaci di attività. La famosa formula di Levinas che, riferendosi al rapporto con Dio, dice: «Quando c’è la massima passività, lì c’è la massima attività», suppone l’accoglienza. Se manca l’accoglienza, la crescita è impossibile. Si tenga oltre tutto presente il fatto che viene continuamente sottolineato dai padri della chiesa, ossia che Dio non si impone, ma si propone. Una proposta, o viene accolta, o cade nel vuoto. La speranza è come la meditazione. D’una parte è riposo, è perfetta serenità. Ma dall’altra parte è consapevolezza, che vuol dire essere svegli, accoglienti, vigilanti.
Allora, ancora una volta, cosa vuol dire sperare, attendere Dio che viene? – Vuol dire assumere l’atteggiamento per cui l’azione di Dio in noi può diventare gesto nuovo di amore, forma nuova di misericordia, intuizione nuova della verità degli altri, capacità nuova di dialogo, di attenzione reciproca, e così via. Cioè è permettere all’azione di Dio di diventare nostra qualità umana. Allora l’esercizio della speranza non è passività. È disponibilità a compiere gesti inediti, a esprimere potenze nuove di vita. Per cui, se noi ci esaminiamo, io credo che noi troveremo che raramente esercitiamo la speranza teologale. Sì, abbiamo fiducia in Dio. Diciamo: «Sì, spero e lotto per un futuro diverso». Però, nell’affermare questo, noi ci fidiamo poi delle nostre capacità, delle nostre finanze, degli amici potenti che abbiamo… Cioè, non attendiamo il dono di Dio, anche quando attendiamo cose buone.
Vi faccio un piccolo esempio. Se voi fate un elenco delle attività che svolgete quotidianamente, e poi vi chiedete: «Quando faccio questo, cosa mi attendo, cosa aspetto?», scoprirete che aspettate tante cose che non hanno molto collegamento con l’azione di Dio in noi. Aspettiamo il riconoscimento degli altri, la stima degli altri, l’applauso, il compenso economico, il successo, ecc. Cose anche buone. Non dico che sono cose cattive. Però, tutte queste cose non sono il dono di Dio. In questo caso, e per anni noi c’impegniamo in una determinata attività, e poi quello che attendevamo non viene – perché non c’è il successo, perché gli altri non ci approvano – ci sembra di avere fallito, di avere perso tempo, perché quello che attendevamo non è venuto.
Ma se, invece, noi impariamo ad attendere Dio che viene, cioè quel dono di vita per cui cresciamo come figli suoi, allora anche quando la nostra azione non ha successo, anche quando quello che abbiamo profuso non produce nulla, non viene riconosciuto, queste delusioni non scalfiscono in nulla la nostra interiorità. Il dono di Dio l’abbiamo accolto e nessuno ci può impedire di accogliere il suo amore e di crescere come suoi figli attraverso ciò che facciamo. Come abbiamo visto, Romani 8,35: «Nessuno ci può separare dall’amore». Per questo Paolo può dire, Romani 5,5: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato».
La speranza non delude. La speranza teologica non delude perché Dio viene sempre se tu lo riconosci e lo accogli, anche quando fallisce la tua impresa, anche quando viene meno la ragione immediata, superficiale per cui ti eri mosso.
Il dono di Dio ti viene offerto, solo che tu non lo aspettavi. Attendevi altro, per cui non lo riconosci e non lo accogli. Per questo, vedete, la speranza teologale non è facile e forse, tra le tre virtù teologali è quella meno esercitata, la più povera. È – come diceva qualcuno – la virtù dimenticata, trascurata. Credo sia esatto. Perché noi attendiamo sempre altre cose, anche buone; ma non Dio che viene nella nostra vita. Per questo, chiedetevi spesso: «Che cosa attendo?». E poi: «Come reagisco?».
L’amore, la carità, l’amore-carità. Il termine greco è agàpe. Indica l’amore di Dio che si esprime in forma creata.
Partirei con una citazione. Gv 15,9-10.17: «Come il Padre ha amato me e io resto nel suo amore, così ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Amatevi gli uni gli altri». Credo che in questi versetti è riassunta, in modo schematico ma esemplare, la dinamica dell’agàpe. «Come il Padre»: quel katòs – come – non è semplicemente la misura; è anche la ragione: per il fatto che il Padre mi ha amato e io resto nel suo amore, per questo io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Amatevi gli uni gli altri.
Allora vedete i tre momenti: il rapporto con Dio, che è fondamentale, perché è la fonte a cui tutto attinge. Ma poi c’è la forma creata, la creature che accoglie e che offre. Quindi l’agàpe è l’amore di Dio che si esprime in forma creata, in chi consapevolmente lo accoglie e lo offre. Sono tre gli elementi: Dio, io, l’atro.
L’agàpe, quindi, non è semplicemente il mio voler bene, la mia buona volontà. Nella prospettiva agàpica non si dovrebbe dire «Io amo». Si dovrebbe dire: «L’Amore in me si esprime». Non si dovrebbe dire: «Io ti voglio bene», ma: «Il Bene in me si offre a te». Cioè, il soggetto agente è più grande di noi. È il Bene che si offre, è l’Amore che si esprime.
Allora, quando c’è l’amore agàpico? – Quando permettiamo a Dio di esprimersi in noi. Quando ci apriamo così all’azione di Dio, da permettergli di far fiorire in noi un dono di vita per i fratelli. Questa è la ragione per cui Gesù unisce sempre il rapporto con Dio e l’amore per gli altri, o quello che viene chiamato l’amore di Dio e l’amore dei fratelli.
L’amore di Dio non è l’amore verso Dio. È l’amore di Dio che si riversa in noi e che, in noi, diventa dono per i fratelli. Questo vuol dire lasciarsi investire dall’azione di Dio, in modo da poter esprimere il suo amore agli altri. Per questo sono sempre collegati, nei vangeli, l’amore di Dio e l’amore per gli altri.
Allora, io credo che se ci esaminiamo tutti nei nostri rapporti, scopriamo che non sono frequenti nella nostra vita gesti di amore agàpico. Non sono frequenti.
Ma vorrei adesso brevissimamente indicare alcune caratteristiche dell’amore agàpico. Perché da quello che riusciamo a dedurre, da quello che riusciamo a capire dell’azione di Dio, potremmo evidenziare quattro caratteristiche, quattro qualità dell’amore agàpico, che sono poi anche il riflesso dell’azione di Dio in noi.
Allora: primo, l’amore agàpico è creativo; secondo, è oblativo; terzo, è gratuito; quarto, è universale. Sono le caratteristiche dell’amore di Dio come Gesù ce lo ha rivelato.
Primo: è un amore creativo. Cioè, un amore che non si esercita per il bene che l’altro ha, ma per il bene che l’altro ancora non ha. Noi cominciamo la nostra vita con un atteggiamento diverso. Noi siamo attratti dal bene che c’è in coloro che incontriamo. Siamo attratti da una persona intelligente, da una persona gentile, affidabile, amabile. È legittimo. È doveroso. Non possiamo fare altrimenti. Perché dobbiamo demonizzare questo tipo di amore? Però l’amore agàpico non si muove in questa direzione. L’amore agàpico è un amore che crea, cioè che si esercita nei confronti del vuoto, del nulla. Per cui – pigliate per esempio un rapporto di amicizia, di coppia – man mano che si scoprono i limiti, i difetti dell’altro, l’amore agàpico assume le modalità più profonde, cioè comincia ad esprimersi con modalità nuove, appunto perché offre ciò che non c’è. In questo senso è creatore, si esercita nei confronti del vuoto, del nulla. Certo, non possiamo radicalizzare, portare all’estremo tutte le conseguenze che questo implica, perché non siamo Dio. Però voi vedete: l’amore agàpico mette in atto dinamiche che acquistano rilevanza proprio quando si scoprono difetti, vuoti, insufficienze, quando ci troviamo di fronte al male, al peccato. È allora che l’amore investe, cresce, è sollecitato a donare di più.
Secondo, dunque, è un amore oblativo. Offre. Non ha paura di donarsi, non si tira indietro davanti alla difficoltà. Noi tutti cominciamo la nostra esistenza con atteggiamenti necessariamente possessivi. Ci aggrappiamo agli altri, succhiamo la vita dagli altri. Non possiamo fare altrimenti. Ma man mano che cresciamo, la vita ci sollecita ed esige che diventiamo anche noi oblativi. Offriamo. Perché altrimenti, se tutti succhiano e nessuno offre, alla fine non c’è niente. E quindi, man mano che cresciamo dobbiamo diventare capaci di offerta, di dono. Voi sapete che oggi l’antropologia e la filosofia mettono in luce queste dinamiche essenziali del dono come costitutive proprie della persona.
Terzo, è gratuito. Perché se noi offriamo con l’esigenza che ci venga qualcosa di ritorno, già condizioniamo molto la nostra offerta. Ora, la forza creatrice è radicalmente gratuita. Non chiede nulla. Offre e non chiede nulla. Anche nei confronti del peccato, come vi ho già detto altre volte: «Dimenticherò le loro iniquità, perdonerò i loro peccati». Per cui potremmo anche utilizzare questo criterio dell’oblatività, della gratuità per individuare le dinamiche di agape che noi viviamo, di cui siamo capaci.
Infine, quarto, è universale. Nel senso che non mette confini. Universale non vuol dire che è indifferente, che è uguale per tutti. C’è un vescovo libanese che riportava un detto del Libano. Diceva: «Quello ama come un prete». Per dire che ama tutti allo stesso modo. Ossia, in modo un po’ indifferenziato, per non scendere troppo nei particolari, per non giungere alla concretezza della persona.
Dio non ama come un prete. Cioè, l’amore giunge alla persona, con le sue caratteristiche. Quindi è diverso l’uno dall’altro. Certo, anche Gesù aveva modalità diverse di amare le persone. Universale vuol dire che non pone confini, non pone limiti. Cioè, non dice: fin lì arrivo, oltre no. Ma proprio perché ci stanno tutte le altre caratteristiche, anche quando è di fronte al male, al peccato, l’amore si esercita. La forza creatrice trova sempre spazi per esprimersi. Anzi, a volte diventa proprio più ricca nei confronti del male, come abbiamo visto nel caso dell’insufficienza. Quindi universale, nel senso che non pone confini. Allora, se noi scopriamo di porre dei limiti nel nostro tipo di amore, vuol dire che ancora non abbiamo assunto le modalità agàpiche dell’amore. Cioè, non viviamo in rapporto con Dio quando stabiliamo rapporti con gli altri.
* Frate Francescano Cappuccino, Svizzera (conferenza tenuta ad Ancona)