Archive pour le 27 mai, 2010

The pain and trial of relationships / La peine et l’épreuve des relations/ Job eprouvé par sa femme

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http://www.artbible.net/1T/job_c_relationships_trial/index_2.htm

Publié dans:immagini sacre |on 27 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Il libro di Giobbe (prima lettura dell’Ufficio di questi giorni)

dal sito:

http://www.santaluciagonfalone.it/RiflessioniLibrodiGiobbe.pdf

Il libro di Giobbe

Nel mondo degli «invisibili» della nostra città non è difficile incontrare il volto di Giobbe. Improvviso crollo finanziario, una congiura di incomprensibili circostanze e lo vedi con il cappotto logoro, la barba lunga, i vestiti sporchi, affannosamente alla ricerca di un po’ di ristoro da una mensa all’altra. Sempre in attesa di qualche amico che gli parli. Riconosci il suo viso nelle nuove camere dell’ospedale, con belle tende verdi. Lacrime soffocate e silenzi imbarazzanti. Nelle celle delle carceri. Urla oltre ogni barriera. Percepite sempre in ritardo. Giobbe. Straordinario personaggio biblico, di ieri e di oggi. Volto dai tratti inconfondibili della sofferenza e del dolore di ogni genere. Il testo biblico «vetta della letteratura mondiale» ha un fascino del tutto particolare. Non solo si legge e rilegge, ma si è letteralmente attratti. «Io non lo leggo con gli occhi come si legge un altro libro, me lo metto per così dire sul cuore e in uno stato di clairvoyance interpreto i singoli passi nella maniera più diversa. Come il bambino che mette il libro sotto il cuscino per essere certo di non aver dimenticato la lezione quando al mattino si sveglia, così la notte mi porto a letto il libro di Giobbe» (Kierkegaard). Sia con le pagine in prosa, sia con quelle in poesia il lettore è accompagnato, dal vecchio Giobbe, alla conoscenza dell’uomo, alla esplorazione dell’assurdo mondo della sofferenza, ma soprattutto è introdotto al cospetto di Dio. Il nucleo del libro è proprio questo: l’appassionata ricerca di Dio. «Magari sapessi come incontrarlo, come giungere al suo tribunale! Esporrei davanti a lui la mia causa, con la bocca colma di argomenti, saprei con che parole mi risponde e comprenderei ciò che mi dice» (Gb23,3-5). La vicenda inizia con l’improvviso cambiamento di scenario, che capovolge radicalmente e «senza ragione» la felice esistenza di Giobbe, uomo giusto, onesto e pio. Nonostante tutto però, egli non si rivolta contro Dio, come avrebbe atteso e desiderato Satana.

«Nudo uscii dal grembo di mia madre

nudo vi ritornerò.

Il Signore ha dato, il Signore ha tolto:

sia benedetto il nome del Signore!» (1,21).

Perfino quando è toccato nella sua pelle. «Dalla testa ai piedi coperto di piaghe». Giobbe non si rivolta. La sua stessa moglie, parlando da «insensata» e vedendolo soffrire, esclama: «Maledici Dio e muori». Quante volte, anche a noi, la fine appare migliore di un lento dissolversi. Le inutili ed interminabili notti. Gli insopportabili giorni. Alcuni amici si avvicinano a Giobbe. In un primo tempo provano imbarazzo. Come tutti dinanzi alla sofferenza. «Quando lo videro da lontano, non lo riconoscevano più e scoppiarono a piangere; …si sedettero con lui per terra sette giorni e sette notti senza dirgli una parola, vedendo l’atrocità della sua sofferenza» (2,12-13). Quando finalmente l’angosciante silenzio è rotto con un urlo dallo stesso Giobbe, gli amici, consapevoli difensori di Dio, cominciano ad esprimere il loro pensiero. Presumono di aiutare Giobbe a comprendere la sua situazione: accusandolo. Si avventurano, da esperti, in una «logica» e «ragionevole» difesa del Creatore. Sono teologi, ma ormai superati dalla storia. Con competenza e dovizia di particolari, in un immaginario e grandioso processo, difendono Dio ed accusano Giobbe.

Elifaz di Teman, Bildad di Shuk e Sofar di Naamat sono la punta di diamante del retribuzionismo: ogni sofferenza, spiegano, è sanzione di peccati personali. Pur avendo tale dottrina varie e diversi livelli di applicazione fondamentalmente il ritornello è sempre lo stesso:

«Dio non rigetta l’uomo giusto

né dà man forte al malvagio».

Veramente Giobbe, immerso nell’assurdità di una esistenza

carica di sofferenza, gratuita ed ingiustificata, aveva toccato il lembo

estremo della preghiera dell’uomo: gridare a Dio il non senso di ciò

che gli è toccato vivere. Incatenato dal dolore e come conficcato

sulla nuda terra, dal profondo grida:

«Muoia il giorno in cui nacqui,

la notte che disse: « han concepito un maschio ».

Quel giorno sia tenebra….

Si oscurino le stelle dell’aurora,

attenda la luce e non giunga

non veda il palpebrare dell’alba …

Perché ha dato luce ad un disgraziato

e vita a chi la passa in amarezza

a chi brama la morte che non viene

e scava per cercarla più di un tesoro …

Vivo senza pace, senza quiete, senza riposo

in una agitazione continua» (3 passim).

Agli amici, avvocati e convinte guardie del corpo di Dio, il

personaggio Giobbe sembra riassumere le obiezioni di ogni tempo

alla religiosità dell’uomo, alla professione del suo credo.

Giobbe con calore sostiene che l’esperienza non è affatto come

dicono gli amici. Non solo egli si proclama innocente, ma sostiene

che i fatti smentiscono le tesi degli amici teologi. È sotto gli occhi di

tutti l’opposto di quanto essi affermano:

«Perché i malvagi continuano a vivere

e invecchiando si fanno sempre più ricchi? …

La verga di Dio non li sferza».

«Ma Dio riserva il castigo per i suoi figli» (21, 7.19).

Giobbe, come ogni lettore che lo segue attentamente, non accetta una falsa consolazione. Si ribella all’immagine di Dio che viene presentata dai suoi amici. Man mano che la lettura prosegue, Giobbe sembra dar voce a tutte le nostre obiezioni. Non abbiamo visto anche noi gente senza scrupoli arricchirsi rapidamente e facilmente? A loro tutto va a gonfie vele. E anche noi dal profondo abbiamo gridato: Ma Dio dov’è? È divenuto insopportabile il suo silenzio. Anche noi abbiamo toccato con mano. Abbiamo parlato perché toccati nel vivo. La vita di chi è retto, onesto sembra sempre in salita. La sua strada è aspra. Le prove pare non finiscano mai. «Dio ha allentato la mia corda e mi ha umiliato …

La notte mi penetra nelle ossa

poi che non dormono le piaghe nelle ossa. …

Lui mi afferra con violenza per la veste …

mi getta nel fango

e mi confonde con la polvere e la cenere» (30,11.18-19).

Neppure l’inserimento di un nuovo interlocutore convince Giobbe. «I tre non replicarono più a Giobbe, persuasi del fatto che lui si ritenesse giusto. Allora Elihu, figlio di Berekel del clan di Ram, originario di Buz, s’indignò contro Giobbe, perché pretendeva giustificarsi davanti a Dio. Il suo sdegno esplose anche contro i tre amici, poiché non trovando una risposta, avevano messo Dio dalla parte del torto» (32,1-4). L’indignazione del giovane Elihu ha un sapore tutto teologico. Il libro ha lo scopo di far riflettere il lettore su quale sia la sua immagine di Dio. Le argomentazioni di Elihu sono ambigue. Sembra ispirato nel suo linguaggio, ma allo stesso tempo appare quasi troppo sicuro di sé.

«Parlerò e mi sfogherò

Aprirò le labbra per rispondere.

Non prenderò partito per nessuno

nessuno adulerò

perché non so adulare

e perché mi eliminerebbe il mio Creatore» (32,20-22).

Neppure la difesa erudita, documentata di Elihu convince

Giobbe. L’uomo, sembra concludere Elihu, non può raggiungere

Dio. Si contenti quindi Giobbe delle risposte che abbiamo. Non si

ponga altre domande.

Tutti gli avvocati di Dio, parziali e troppo a suo favore, non

danno una spiegazione convincente a chi è inchiodato sulla nuda

terra, con le piaghe sempre sanguinanti.

Che fare?

Quale strada prendere?

Giobbe osa l’impensabile.

Dio. Sia lui a parlare.

«Allora il Signore parlò a Giobbe di mezzo alla tempesta»

(38,1).

«Giobbe oscilla tra la spasmodica ricerca di Dio e l’esaltante esperienza di Dio. Il Signore sfidato diviene a sua volta sfidante dell’uomo» (G. Ravasi). Come Giacobbe, l’uomo rappresentato da Giobbe, è chiamato a lottare con tutte le forze con Dio. In questa lotta, corpo a corpo, è la sua più bella ed esaltante avventura. Dio non potrà mai essere afferrato, non potrà mai essere preso. Non è possibile racchiuderlo nei nostri schemi. Egli sfugge ad ogni presa. È sempre al di là. Seduce e scompare. Lo abbracci e lo ricerchi. Giobbe, nella lotta, assapora la sua indicibile presenza. Anche sotto interrogatorio, gusta la sua Parola e «riconosce davanti alla sfilata dei segreti cosmici della requisitoria di Dio, di non essere in grado di sondare che qualche particella microscopica, mentre Dio sa percorrerli con la sua onniscienza ed onnipotenza» (G. Ravasi). Partendo dalla ragione, l’uomo farà l’esperienza di Dio solo superando la ragione stessa. Nell’assurdità della sofferenza, parabola mai compiuta dell’esistenza umana, Giobbe accetta che ci sia un altro piano. Quanto deciso su quel piano Giobbe, ora avvolto dal Mistero: lo accetta. Arreso. Guarito.

«Ti conoscevo per sentito dire

ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5).

Giobbe, ora davvero felice, riprende i suoi passi nel giardino

della storia.

P. Franco Incampo cmf

Rettore S. Lucia del Gonfalone

Publié dans:Bibbia - Antico Testamento |on 27 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Catechesi di Benedetto XVI sul « munus regendi » del sacerdote

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22619?l=italian

Catechesi di Benedetto XVI sul « munus regendi » del sacerdote

Intervento in occasione dell’Udienza Generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 26 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la catechesi tenuta questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro e dedicata al « munus regendi » del sacerdote, cioè alla sua missione di guida.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

L’Anno Sacerdotale volge al termine; perciò avevo cominciato nelle ultime catechesi a parlare sui compiti essenziali del sacerdote, cioè: insegnare, santificare e governare. Ho già tenuto due catechesi, una sul ministero della santificazione, i Sacramenti soprattutto, e una su quello dell’insegnamento. Quindi, mi rimane oggi di parlare sulla missione del sacerdote di governare, di guidare, con l’autorità di Cristo, non con la propria, la porzione del Popolo che Dio gli ha affidato.

Come comprendere nella cultura contemporanea una tale dimensione, che implica il concetto di autorità e ha origine dal mandato stesso del Signore di pascere il suo gregge? Che cos’è realmente, per noi cristiani, l’autorità? Le esperienze culturali, politiche e storiche del recente passato, soprattutto le dittature in Europa dell’Est e dell’Ovest nel XX secolo, hanno reso l’uomo contemporaneo sospettoso nei confronti di questo concetto. Un sospetto che, non di rado, si traduce nel sostenere come necessario l’abbandono di ogni autorità, che non venga esclusivamente dagli uomini e sia ad essi sottoposta, da essi controllata. Ma proprio lo sguardo sui regimi che, nel secolo scorso, seminarono terrore e morte, ricorda con forza che l’autorità, in ogni ambito, quando viene esercitata senza un riferimento al Trascendente, se prescinde dall’Autorità suprema, che è Dio, finisce inevitabilmente per volgersi contro l’uomo. E’ importante allora riconoscere che l’autorità umana non è mai un fine, ma sempre e solo un mezzo e che, necessariamente ed in ogni epoca, il fine è sempre la persona, creata da Dio con la propria intangibile dignità e chiamata a relazionarsi con il proprio Creatore, nel cammino terreno dell’esistenza e nella vita eterna; è un’autorità esercitata nella responsabilità davanti a Dio, al Creatore. Un’autorità così intesa, che abbia come unico scopo servire il vero bene delle persone ed essere trasparenza dell’unico Sommo Bene che è Dio, non solo non è estranea agli uomini, ma, al contrario, è un prezioso aiuto nel cammino verso la piena realizzazione in Cristo, verso la salvezza.

La Chiesa è chiamata e si impegna ad esercitare questo tipo di autorità che è servizio, e la esercita non a titolo proprio, ma nel nome di Gesù Cristo, che dal Padre ha ricevuto ogni potere in Cielo e sulla terra (cfr Mt 28,18). Attraverso i Pastori della Chiesa, infatti, Cristo pasce il suo gregge: è Lui che lo guida, lo protegge, lo corregge, perché lo ama profondamente. Ma il Signore Gesù, Pastore supremo delle nostre anime, ha voluto che il Collegio Apostolico, oggi i Vescovi, in comunione con il Successore di Pietro, e i sacerdoti, loro più preziosi collaboratori, partecipassero a questa sua missione di prendersi cura del Popolo di Dio, di essere educatori nella fede, orientando, animando e sostenendo la comunità cristiana, o, come dice il Concilio, « curando, soprattutto che i singoli fedeli siano guidati nello Spirito Santo a vivere secondo il Vangelo la loro propria vocazione, a praticare una carità sincera ed operosa e ad esercitare quella libertà con cui Cristo ci ha liberati » (Presbyterorum Ordinis, 6). Ogni Pastore, quindi, è il tramite attraverso il quale Cristo stesso ama gli uomini: è mediante il nostro ministero – cari sacerdoti – è attraverso di noi che il Signore raggiunge le anime, le istruisce, le custodisce, le guida. Sant’Agostino, nel suo Commento al Vangelo di san Giovanni, dice: « Sia dunque impegno d’amore pascere il gregge del Signore » (123,5); questa è la suprema norma di condotta dei ministri di Dio, un amore incondizionato, come quello del Buon Pastore, pieno di gioia, aperto a tutti, attento ai vicini e premuroso verso i lontani (cfr S. Agostino, Discorso 340, 1; Discorso 46, 15), delicato verso i più deboli, i piccoli, i semplici, i peccatori, per manifestare l’infinita misericordia di Dio con le parole rassicuranti della speranza (cfr Id., Lettera 95, 1).

Se tale compito pastorale è fondato sul Sacramento, tuttavia la sua efficacia non è indipendente dall’esistenza personale del presbitero. Per essere Pastore secondo il cuore di Dio (cfr Ger 3,15) occorre un profondo radicamento nella viva amicizia con Cristo, non solo dell’intelligenza, ma anche della libertà e della volontà, una chiara coscienza dell’identità ricevuta nell’Ordinazione Sacerdotale, una disponibilità incondizionata a condurre il gregge affidato là dove il Signore vuole e non nella direzione che, apparentemente, sembra più conveniente o più facile. Ciò richiede, anzitutto, la continua e progressiva disponibilità a lasciare che Cristo stesso governi l’esistenza sacerdotale dei presbiteri. Infatti, nessuno è realmente capace di pascere il gregge di Cristo, se non vive una profonda e reale obbedienza a Cristo e alla Chiesa, e la stessa docilità del Popolo ai suoi sacerdoti dipende dalla docilità dei sacerdoti verso Cristo; per questo alla base del ministero pastorale c’è sempre l’incontro personale e costante con il Signore, la conoscenza profonda di Lui, il conformare la propria volontà alla volontà di Cristo.

Negli ultimi decenni, si è utilizzato spesso l’aggettivo « pastorale » quasi in opposizione al concetto di « gerarchico », così come, nella medesima contrapposizione, è stata interpretata anche l’idea di « comunione ». E’ forse questo il punto dove può essere utile una breve osservazione sulla parola « gerarchia », che è la designazione tradizionale della struttura di autorità sacramentale nella Chiesa, ordinata secondo i tre livelli del Sacramento dell’Ordine: episcopato, presbiterato, diaconato. Nell’opinione pubblica prevale, per questa realtà « gerarchia », l’elemento di subordinazione e l’elemento giuridico; perciò a molti l’idea di gerarchia appare in contrasto con la flessibilità e la vitalità del senso pastorale e anche contraria all’umiltà del Vangelo. Ma questo è un male inteso senso della gerarchia, storicamente anche causato da abusi di autorità e da carrierismo, che sono appunto abusi e non derivano dall’essere stesso della realtà « gerarchia ». L’opinione comune è che « gerarchia » sia sempre qualcosa di legato al dominio e così non corrispondente al vero senso della Chiesa, dell’unità nell’amore di Cristo. Ma, come ho detto, questa è un’interpretazione sbagliata, che ha origine in abusi della storia, ma non risponde al vero significato di quello che è la gerarchia. Cominciamo con la parola. Generalmente, si dice che il significato della parola gerarchia sarebbe « sacro dominio », ma il vero significato non è questo, è « sacra origine », cioè: questa autorità non viene dall’uomo stesso, ma ha origine nel sacro, nel Sacramento; sottomette quindi la persona alla vocazione, al mistero di Cristo; fa del singolo un servitore di Cristo e solo in quanto servo di Cristo questi può governare, guidare per Cristo e con Cristo. Perciò chi entra nel sacro Ordine del Sacramento, la « gerarchia », non è un autocrate, ma entra in un legame nuovo di obbedienza a Cristo: è legato a Lui in comunione con gli altri membri del sacro Ordine, del Sacerdozio. E anche il Papa – punto di riferimento di tutti gli altri Pastori e della comunione della Chiesa – non può fare quello che vuole; al contrario, il Papa è custode dell’obbedienza a Cristo, alla sua parola riassunta nella « regula fidei », nel Credo della Chiesa, e deve precedere nell’obbedienza a Cristo e alla sua Chiesa. Gerarchia implica quindi un triplice legame: quello, innanzitutto, con Cristo e l’ordine dato dal Signore alla sua Chiesa; poi il legame con gli altri Pastori nell’unica comunione della Chiesa; e, infine, il legame con i fedeli affidati al singolo, nell’ordine della Chiesa.

Quindi, si capisce che comunione e gerarchia non sono contrarie l’una all’altra, ma si condizionano. Sono insieme una cosa sola (comunione gerarchica). Il Pastore è quindi tale proprio guidando e custodendo il gregge, e talora impedendo che esso si disperda. Al di fuori di una visione chiaramente ed esplicitamente soprannaturale, non è comprensibile il compito di governare proprio dei sacerdoti. Esso, invece, sostenuto dal vero amore per la salvezza di ciascun fedele, è particolarmente prezioso e necessario anche nel nostro tempo. Se il fine è portare l’annuncio di Cristo e condurre gli uomini all’incontro salvifico con Lui perché abbiano la vita, il compito di guidare si configura come un servizio vissuto in una donazione totale per l’edificazione del gregge nella verità e nella santità, spesso andando controcorrente e ricordando che chi è il più grande si deve fare come il più piccolo, e colui che governa, come colui che serve (cfr Lumen gentium, 27).

Dove può attingere oggi un sacerdote la forza per tale esercizio del proprio ministero, nella piena fedeltà a Cristo e alla Chiesa, con una dedizione totale al gregge? La risposta è una sola: in Cristo Signore. Il modo di governare di Gesù non è quello del dominio, ma è l’umile ed amoroso servizio della Lavanda dei piedi, e la regalità di Cristo sull’universo non è un trionfo terreno, ma trova il suo culmine sul legno della Croce, che diventa giudizio per il mondo e punto di riferimento per l’esercizio dell’autorità che sia vera espressione della carità pastorale. I santi, e tra essi san Giovanni Maria Vianney, hanno esercitato con amore e dedizione il compito di curare la porzione del Popolo di Dio loro affidata, mostrando anche di essere uomini forti e determinati, con l’unico obiettivo di promuovere il vero bene delle anime, capaci di pagare di persona, fino al martirio, per rimanere fedeli alla verità e alla giustizia del Vangelo.

Cari sacerdoti, «pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri [...], facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,2). Dunque, non abbiate paura di guidare a Cristo ciascuno dei fratelli che Egli vi ha affidati, sicuri che ogni parola ed ogni atteggiamento, se discendono dall’obbedienza alla volontà di Dio, porteranno frutto; sappiate vivere apprezzando i pregi e riconoscendo i limiti della cultura in cui siamo inseriti, con la ferma certezza che l’annuncio del Vangelo è il maggiore servizio che si può fare all’uomo. Non c’è, infatti, bene più grande, in questa vita terrena, che condurre gli uomini a Dio, risvegliare la fede, sollevare l’uomo dall’inerzia e dalla disperazione, dare la speranza che Dio è vicino e guida la storia personale e del mondo: questo, in definitiva, è il senso profondo ed ultimo del compito di governare che il Signore ci ha affidato. Si tratta di formare Cristo nei credenti, attraverso quel processo di santificazione che è conversione dei criteri, della scala di valori, degli atteggiamenti, per lasciare che Cristo viva in ogni fedele. San Paolo così riassume la sua azione pastorale: « figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi » (Gal 4,19).

Cari fratelli e sorelle, vorrei invitarvi a pregare per me, Successore di Pietro, che ho uno specifico compito nel governare la Chiesa di Cristo, come pure per tutti i vostri Vescovi e sacerdoti. Pregate perché sappiamo prenderci cura di tutte le pecore, anche quelle smarrite, del gregge a noi affidato. A voi, cari sacerdoti, rivolgo il cordiale invito alle Celebrazioni conclusive dell’Anno Sacerdotale, il prossimo 9, 10 e 11 giugno, qui a Roma: mediteremo sulla conversione e sulla missione, sul dono dello Spirito Santo e sul rapporto con Maria Santissima, e rinnoveremo le nostre promesse sacerdotali, sostenuti da tutto il Popolo di Dio.

Grazie!

buona notte

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Guglielmo di Saint-Thierry: « Che vuoi che io ti faccia ? »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100527

Giovedì dell’VIII settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 10,46-52
Meditazione del giorno
Guglielmo di Saint-Thierry (circa 1085-1148), monaco benedettino poi cistercense
La Contemplazione di Dio, 1-2 ; SC 61

« Che vuoi che io ti faccia ? »

        «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe perché ci indichi le sue vie» (Is 2,3). Voi tutti, intenzioni, desideri intensi, volontà e pensieri, affetti e tutte le energie del cuore, venite, saliamo sul monte, giungiamo al luogo dove il Signore vede e si fa vedere. Ma voi, preoccupazioni, sollecitudini e inquietudini, fatiche e schiavitù, aspettateci qui… finché, andati fin lassù, ritorniamo poi da voi, dopo aver adorato (cfr Gen 22,5). Dovremo infatti tornare, e ahimé, troppo presto.

        Signore, Dio della mia forza, rivolgici a te: «Rialzaci, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi» (Sal 79,20). Ma Signore, quanto è inopportuno, temerario, presuntuoso, contrario alla regola portata dalla parola della tua verità e della tua sapienza, pretendere di vedere Dio con un cuore impuro! O sovrana bontà, bene supremo, vita dei cuori, luce dei nostri occhi interiori, a motivo della tua bontà, Signore, abbi pietà.

        Eccola la mia purificazione, la mia fiducia e la mia giustizia: la contemplazione della tua bontà, Signore buono! Tu, mio Dio, hai detto alla mia anima, come sai fare: «La tua salvezza, sono io» (Sal 34,3). Rabbunì, sovrano Maestro e insegnante, tu l’unico medico capace di farmi vedere ciò che desidero vedere, di’ al tuo mendicante cieco: «Che vuoi che io ti faccia?» E sai bene, tu che mi dai questa grazia…, con quale forza il mio cuore ti grida: «Ho cercato il tuo volto; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (Sal 26,8).

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