dal sito:
http://www.credereoggi.it/upload/1999/articolo113_3.asp
NEL BUIO UNA LUCE
(articolo del 1999)
a mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza». (2 Corinzi 12,9)
«Vittoria… disfatta…
queste parole non hanno senso.
Sotto queste immagini c’è la vita;
la vita che prepara altre immagini.
Una vittoria indebolisce un popolo,
una disfatta ne rianima un altro».
(Antoine de Saint-Exupéry)
La nostra è un’epoca di grandi risultati e di grandi mete raggiunte! Il progresso e la fiducia nella scienza hanno condotto il genere umano a conquiste che si ritenevano solo cent’anni fa insperate. Abbiamo da poco celebrato il trentesimo anniversario dell’approdo dell’uomo sulla Luna; vent’anni fa iniziava l’inarrestabile ‘rivoluzione informatica’, destinata a entrare capillarmente e di prepotenza nel mondo del lavoro; per non parlare poi delle tante, piccole, ma incisive acquisizioni in ambito bio-medico. Grandi conquiste dunque hanno dinamicizzato la società e i rapporti tra i paesi, hanno aperto nuove frontiere della conoscenza e del sapere, costruendo più sicurezze per il futuro.
Eppure tutto questo non ci ha protetto più di tanto dal vivere esperienze concrete molto umane, dal sapore ancestrale, come quella del fallimento: nella nostra progettualità tutto o in parte può riuscire o compiersi; ma non è escluso e qualche volta ciò accade che tutto si risolva in un insuccesso, in un fallimento, parziale o totale che sia. L’insuccesso a livello personale e sociale è ben vivo e radicato nella nostra società contemporanea. Nessun soggetto ne è esente: può essere l’affermato politico, costretto alle dimissioni a causa di uno scandalo; oppure il popolare attore che, trascorso il periodo di notorietà, cade nel vortice della depressione perché non riesce più a ‘calcare la scena’. Più comunemente: l’affiatata coppia che, dopo anni di matrimonio e di consolidata unione, decide di separarsi; il parroco del paese che, pur avendo dato prova di essere un brillante predicatore ed essersi dimostrato prodigo di cure e attenzioni verso i fedeli, ritorna sulla propria scelta e abbandona il sacerdozio. Si constata con una punta di amarezza che le proprie forze non sono all’altezza del ruolo che si sta svolgendo (prete, religioso, marito, madre, ecc.).
Gente comune e gente importante indistintamente possono fallire, possono accorgersi di aver sbagliato, di aver percorso magari nella loro vita per un tratto (a volte, con tragicità, per tutto il cammino) la strada errata. Istintivamente si cerca di rimuovere la crisi, oppure di minimizzare, di ignorarla, impegnandosi magari in attività febbrili; altrimenti ci si abbandona alla rassegnazione e a praticare forme compensatorie, quasi che il fallimento sia una colpa spassionatamente personale. La psicologia giustamente ci avverte che il fallimento in sé e per sé non è da considerarsi necessariamente colpevole. Certo, può essere originato da una propria debolezza corporea o psichica, da una malattia, da un concorso di sfortunate circostanze che lo stesso soggetto a sua insaputa contribuisce a creare. Ma non è in sé e per sé una colpa.
Come risponde un cristiano con la propria fede davanti al fallimento personale? Con delusione, arrendevolezza, cinismo? Oppure con speranza e attesa? È possibile affrontare in modo cristiano queste esperienze? E la teologia, oltre a proporre situazioni ideali di vita cristiana, che cosa può direi al riguardo?
La comprensione cristiana sul fallimento parte obbligatoriamente da Cristo. La sua vita terrena termina con una sconfitta, con un fallimento, dal punto di vista umano. Questo giovane ebreo trentenne, che socialmente minacciava di destabilizzare i poteri forti locali, viene condannato a morte. Anche lui sulla croce tocca il limite estremo del fallimento (la morte) e vive l’esperienza dell’impotenza: ‘Non può salvare se stesso’, gli gridano ai piedi della croce. Il Figlio piange, urla, ma accetta nella volontà del Padre il limite che sta vivendo. La pietra sul sepolcro è la sconfitta delle sue parole, ormai destinate a restare mute.
Ma è proprio a partire dal suo fallimento che in Gesù si manifesta il ‘successo’ di Dio, è nella debolezza che la potenza divina si dimostra pienamente (cf. 2Cor 12,9). Abbandonandosi a tale destino, Cristo non guadagna nulla di più per sé. Sa e spera che anche in quel momento la sua esistenza ha un senso per il Padre. Nel fallimento della croce ‘si incarna’ l’amore del Padre, un amore che non conosce limiti, trasformando in gloria la sconfitta. E quei segni infamanti del dolore sulla croce, quei segni evidenti della sconfitta diventeranno segni tangibili di fede: non a caso Gesù, apparendo agli Undici, mostra le piaghe sulle mani e sul costato per dipanare le loro paure, i timori e i sospetti.
L’esperienza terrena di Gesù forse non risolleverà più di tanto dal personale dolore davanti a un nostro fallimento. Non giustifica, non spiega i tanti ‘perché’ dei nostri fallimenti. Tuttavia ci induce a pensare che ogni fallimento compreso quello ‘estremo’ alla progettualità umana, qual è la morte non è l’ultima parola della nostra esistenza. Quanto è accaduto a Gesù accende una luce nel nostro piccolo o grande buio personale, annuncia un possibile futuro di gloria.
Il presente numero si divide sostanzialmente in due parti. Nella prima viene data una lettura in chiave psicologica di questa esperienza dell’uomo (GIUSEPPE SOVERNIGO). Il Messia sconfitto come paradigma per la vita cristiana è il tema svolto da PAOLO GIANNONI. Abbiamo chiesto a GIANNINO PIANA di illustrarci quale particolare linguaggio la nostra religiosità ha sviluppato innanzi a questo tipo di esperienze. La riflessione di ALDO NATALE TERRIN descrive le suggestioni e le soluzioni che prospetta la ‘Deep Ecology’.
La seconda parte del fascicolo è senz’altro un po’ anomala, ma non meno istruttiva della prima. Abbiamo preferito proporre poche teorie per comprendere queste intime situazioni di vita e domandare ad altri di narrare la loro storia personale. Tra le tante esperienze raccontabili, abbiamo scelto quelle di alcuni malati gravi, di coppie sposate e di persone consacrate.
a.f.