Il testo: Matteo 5,1-12, Le Beatitudini (Lectio)
dal sito:
http://www.cappellauniss.org/preghiera/lectio/5,1-12_secondo.htm
Beati gli afflitti, i miti, i misericordiosi,
coloro che hanno fame, i puri di cuore,
gli operatori di pace
Il testo: Matteo 5,1-12
Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli.
Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:
“Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.
Lectio
Beati gli afflitti
L’afflizione è un tristezza con pianto, un traboccare all’esterno di un’incontenibile pena interna. A questi Gesù dice: “Venite a me, voi tutti , che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11,28-29).
Essi sono beati quando accettano la propria croce con fede (qualsiasi croce) senza ribellioni, senza andare a mormorare o lamentarci con altri (perché in tal caso ci ritroveremmo vuoti, col nostro dolore) e aderiscono a Gesù con mitezza e umiltà del cuore. Questa è la fede: è affidarsi a Gesù, è abbandonarsi a lui. Ecco la consolazione: “Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,30). E’ vero, perché la croce non la porti più da solo; Gesù la porta con te. C’è il dolore, ma non ti condiziona più, lo esperimenti dentro di te, ma esperimenti anche la completa libertà e una grande serenità.
Questa beatitudine si realizza soprattutto nella preghiera intima, personale, quando ci mettiamo dinanzi a Gesù in silenzio: parla solo il nostro dolore, siamo un’offerta dolorante. A poco a poco Gesù col suo Spirito ci pacifica., come nella tempesta sedata: “Sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia” (Mt 8,26).
Ma gli afflitti sono tali a motivo delle sofferenze altrui, come pure perché vedono il tanto male che devasta il mondo. In tal caso vivono in sé la compassione di Gesù e, di fronte al cuore chiuso dell’uomo autosufficiente, superbo e spesso violento, partecipano alla sofferenza del Signore, il grande afflitto, il Trafitto, che però è anche il più grande dei consolati (ossia il Glorificato) ed è causa della salvezza e di santità per tutti coloro che seguono la sua vita di oblazione e di vittima d’amore.
Beati i miti
Nella Scrittura la mitezza è sempre accompagnata dall’umiltà. ‘Poveri in spirito’ e ‘miti’ sono due aspetti di un’identica realtà, di un identico atteggiamento di spirito. I miti sono coloro che non avanzano pretese, che scusano facilmente i difetti del prossimo, pur non approvandoli, anzi lo aiutano amabilmente a correggersi, come fanno per se stessi. Sono disponibili al servizio dei fratelli con serena dolcezza, eliminando le eventuali difficoltà. Miti sono coloro che vincono con la perseveranza della bontà, con la forza della pazienza. E’ l’amore che non si stanca mai.
Il mite ama la pace, la serenità e le diffonde attorno a sé, tutto col sorriso.
I vizi opposti alla mitezza sono l’asprezza, l’avarizia che accaparra rende il cuore duro, la severità.
Per San Vincenzo de’ Paoli «non c’è nessuno più costante nel bene di coloro che sono miti e benigni; mentre coloro che si lasciano trasportare dalla collera e dalle passioni dell’appetito sensibile, sono ordinariamente molto incostanti, perché non operano se non a capriccio e impulsivamente» (1).
La mitezza delle beatitudini non ha quindi nulla della rassegnazione puramente passiva. Anzi… i miti sono i veri forti.
Gesù mite
A Gesù mite e umile di cuore, Matteo applica il testo di Isaia (42,1-4): “Ecco il mio servo che io ho scelto… Non contenderà, né griderà, non si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante finché abbia fatto trionfare la giustizia…”.
Gesù entrando in Gerusalemme come il re “mite” (Mt 21,5) profetizzato da Zaccaria (9,9) intraprende il cammino dell’umiliazione, che lo condurrà alla croce.
… perché possederanno la terra
La “terra” ereditata dai miti, nella quale essi trovano il loro riposo, è il mondo dell’amore di Dio, è Dio stesso. A questa terra tendiamo conformandoci sempre più a Cristo mite e umile.
Ora mitezza e umiltà vanno di pari passo. Non c’è l’una senza l’altra. Santa Teresa d’Avila nel Cammino di perfezione ci dice – utilizzando un’immagine – che l’anima che cammina nella via della perfezione è come il giocatore di scacchi: deve disporre i pezzi e muoversi con abilità, poiché scopo del gioco è catturare il re dandogli scacco matto. Tutti i pezzi (le pedine, le torri, gli alfieri, i cavalli) sono importanti, ma il pezzo più importante è la regina, che ha un potere tutto particolare per “catturare” il re e questa regina è l’umiltà.
Scrive la santa: “A scacchi, la guerra più accanita che il re deve subire, gli viene dalla regina. Orbene, non c’è regina che più obblighi alla resa il re del cielo quanto l’umiltà. Credetemi, la sorella che sarà più radicata nell’umiltà, lo possederà anche di più” (cap. XVI, 2).
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia
Gli affamati e gli assetati di giustizia sono coloro che cercano la volontà di Dio e si dedicano fedelmente alla costruzione di quel Regno che Cristo ha inaugurato: “Cercate il regno di Dio e la sua giustizia” (cf. 6,33). Gesù ha scelto qui un simbolo radicale, istintivo, primordiale, un bisogno di vita: fame e sete. E’ beato chi sente questo “bisogno” di vivere di vivere come Gesù che ha compiuto ogni giustizia facendosi solidale con i fratelli perduti (cfr. Mt 3,15). Da lui, fatto pane, anche noi prendiamo forza e sazietà filiali.
Beati i misericordiosi
E’ nuovamente il cuore che viene interpellato sia pure con un’espressione diversa, perché il termine eleémones indica probabilmente un vocabolo dell’Antico Testamento particolarmente suggestivo che veniva applicato a Dio: rachamim. Si tratta di un plurale che diventa aggettivo applicato a Dio. Rachamim sono le “viscere” materne, cioè qualcosa d’istintivo e di permanente, perché la madre non è tale soltanto in alcune ore o in alcuni istanti della sua vita, oppure in alcuni comportamenti o pensieri, ma lo è sempre. Dio è misericordioso sempre ed anche l’uomo è invitato ad esserlo sempre.Quanto san Francesco ebbe il coraggio di baciare il lebbroso, si sentì libero da tutte le paure, pieno di fede e di amore per Cristo. La misericordia usata al lebbroso si era riversata in misura più abbondante su di lui. E’ come se diffondi amore, pace, gioia: sono doni che non diminuiscono come i soldi, ma si moltiplicano e ritornano intensificati in te che li doni.
Beati i puri di cuore
Il “cuore”, nel linguaggio biblico, è la coscienza stessa della persona. Ancora una volta dobbiamo ritrovare la norma direzionale, la base, la struttura che sorregge tutto l’agire e il comportamento dell’uomo che ha mani innocenti e cuore puro, come dice il salmo 24 per definire l’uomo completo e perfetto. «Dal momento della conversione al giorno della morte, Francesco fu molto duro, sempre, con il suo corpo. Ma il suo più alto e appassionato impegno fu quello di possedere e conservare in se stesso la gioia spirituale. Affermava: “Se il sevo di Dio si preoccuperà di avere e conservare abitualmente la gioia interiore ed esteriore, che sgorga da un cuore puro, in nulla gli possono nuocere i demoni…» (2).
Beati gli operatori di pace
Beati cioè i pacificatori. Chi fa opera di pace continua l’opera di riconciliazione di Gesù… Vi sono persone che, a causa della loro profonda pace interiore emanano un’atmosfera di pace e di serenità, che dissolve nei cuori le inquietudini, ridesta la fiducia, rende l’animo tranquillo e sicuro. La loro anima è così piena dello Spirito Santo e di benevolenza verso i fratelli, che qualsiasi forma di aggressività, di violenza, di cupidigia è estranea al loro comportamento.
Beati i perseguitati per causa della giustizia
Quest’ultima beatitudine differisce dalle altre beatitudini, perché è ripresa per altri due versetti in forma ampia. Gesù si indirizza ai suoi ascoltatori: “Beati voi quando vi insulteranno… per causa mia”. Chi ama il Cristo e i fratelli, si scontra con il male: trova ostilità e persecuzione, in sé e fuori di sé. “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20). Le persecuzioni sono inevitabili per chi è fedele al Vangelo; sono un segno di Dio per chi crede, sono una prova di autenticità nella nostra fede, praticata nella nostra vita. “Rallegratevi ed esultate (lett. gridare/danzate)”: La beatitudine diviene gioia interna che si esprime con acclamazioni e canti di ringraziamento a Dio, come pure in danza. “La vostra ricompensa è grande nei cieli”. Ci è aggiudicata la più grande ricompensa: divenire eredi della vita eterna (cfr. Mc 10,17). La gioia del perseguitato è un’anticipazione della letizia del cielo. Nell’Apocalisse gli eletti alla fine dei tempi cantano: “Alleluia. Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta” (Ap 19,6-7).
Meditatio
Le beatitudini non si possono capire se non si vivono. Il miglior commento ad esse è la vita stessa dei santi; il loro bell’esempio e la loro intercessione ci incoraggiano a percorre una strada così impegnativa, che agli occhi di tanti è da “perdenti”… ma è la via autentica, quella della libertà, della felicità, della vita!
La gioia di servire i poveri
Un pensiero di San Vincenzo de’ Paoli che ci richiama la quarta beatitudine : «L’uomo è felice nell’esercitare la carità. Fra tutte le opere di carità nessuna dà maggiore consolazione della visita ai poveri». Lo stesso San Vincenzo ci narra l’incontro con suor Andreina non molto tempo prima della sua morte: «Ad una domanda che le avevo fatto, suor Andreina mi aveva risposto: “Non ho alcuna pena, né alcun rimorso, se non di aver troppo goduto nel servire i poveri”. E siccome domandai: “Sorella, non c’è nulla nel passato che non vi faccia temere?”, essa aggiunse: “No, signore, nulla affatto, se non che provavo troppa soddisfazione quando andavo nei villaggi a trovare quella buona gente; volavo, talmente ero felice di servirli» (3).
Inseguendo l’Amato
San Giovanni della Croce ci è maestro anzitutto per la sua esperienza di fede. Egli ci mostra come anche l’incomprensione e il rifiuto da parte degli stessi confratelli carmelitani, proprio da coloro con i quali ha condiviso gli ideali profondi della propria esistenza, può divenire – quando è vissuto nella fede, a motivo di Cristo e in unione con Lui – il luogo della “rinascita”.Già tra il 1575-1576 San Giovanni della Croce era stato per breve tempo prigioniero dai Calzati di Avila. Invece il 2 dicembre 1577 è preso e strappato nella notte dalla sua casetta presso il Convento dell’Incarnazione, delle Carmelitane di Avila, e condotto prigioniero nel convento dei Calzati a Toledo. Vi giunge di notte, bendato, forse 1’8 dicembre e vi resterà fino al 17 agosto 1578. Conosciamo le condizioni disumane del suo carcere toledano e il pressing psicologico e spirituale esercitato su di lui con infinite astuzie.
È stato scritto che, in modo simbolico, «Toledo è il Tabor di Spagna» (4). Nei suoi scritti torna sovente questa espressione «noche sosegada». In spagnolo «sosiego» significa calma, serenità, pace, tranquillità. Un’immagine marina può aiutarci: quando il mare è in tempesta, e tanto più le onde sono gigantesche, le acque al fondo sono tanto più tranquille. Quella di Toledo è una traversata interiore ove l’inseguimento dell’Amato si acuisce talmente che sembra quasi giungere alla consumazione definitiva. Si tratta di una vera macina, che accentua a livelli altissimi l’opera di trasfigurazione che è in atto in Giovanni da lungo tempo. Egli è come cesellato, rifinito dallo scalpello dell’Amato, anzitutto nel cuore della sua fede, ma con incidenza di prim’ordine in tutte le dimensioni del suo vissuto: spirituale, psicologico, mistico, estetico. Denudandolo, quell’esperienza di fede, lo restituisce a sé stesso rinnovato. Egli rinasce. Il carcere non è un grembo materno, che lo rigenera, ma è il modo in cui assume ed elabora il carcere che lo rende uomo nuovo.Il criterio vale per lui e per tutti noi! Non è la croce che ha significato in sé, ma è Cristo che glielo imprime. Non è la croce che genera salvezza, ma l’amore di Colui che acconsente a esservi inchiodato.
Imprigionato, Giovanni è un uomo libero. Sperimenta come la libertà non consiste nel fare quello che si vuole, ma nel volere quello che si fa. Non ha cercato o voluto il carcere, e ne fuggirà appena possibile, ma per il tempo che vi rimane, quello è lo spazio di un appuntamento da non mancare, come lo fu Babilonia per gli ebrei, la croce per Gesù. Tanto più che i suoi carcerieri, verso i quali ha sempre parole di bontà, sono convinti di operare per il bene. In quei nove mesi toledani – il tempo di una gestazione – egli non abdica alla propria intelligenza: pensa, immagina, crea, progetta e, quando gli è reso possibile, scrive. Le sue opere poetiche (circa 970 versi), in molte delle loro espressioni più alte e raffinate, risalgono a questo periodo. Qui Giovanni della Croce ci appare nella sua autentica statura di discepolo del Signore. Non dobbiamo dimenticare che il percorso di Giovanni della Croce è stato lungo: è uno spirito provato, fin dalla più tenera infanzia. Le percosse della vita lo hanno lentamente forgiato, reso indomito. Lentamente si è trovato a non sottrarsi più a disagi, precarietà, emarginazioni, ma ad amarli. Diremmo che li preferisce come luoghi privilegiati per amare. Egli sa fin dall’adolescenza che il suo Signore abita il disagio: nel povero, nell’afflitto, nell’infermo, nel carcerato, in chi è solo, nell’angosciato. Giunto a maggiore età, preferisce alla carriera ecclesiastica l’Ordine carmelitano, nell’Ordine chiede per sé la regola non mitigata, divenuto sacerdote non più l’Ordine ma la Certosa, poi non la Certosa ma le fatiche della riforma. Progressivamente si è fatta strada in lui la consapevolezza – già colta come prefigurazione simbolica nella sua vita di fanciullo e di adolescente – che la sventura può diventare epifania di grazia. Il suo vissuto testimonia che la croce guarisce, come il serpente elevato da Mosè nel deserto (cf Gv 3, 14), e rigenera. Il suo metodo di vita e il suo criterio di scelta è radicale: ritiene che ove è necessario più impegno, lavoro, rischio, sofferenza, quello è il luogo ove meglio essere assimilato a Cristo crocifisso, suo sposo.
La vera e perfetta letizia
San Francesco spiega a frate Leone cos’è la vera e perfetta letizia. Non si tratta dell’esaltazione di un momento, di euforia, ma è la profonda serenità interiore di chi realizza l’esperienza di san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Un giorno Francesco, presso Santa Maria degli Angeli, chiamò frate Leone e gli disse: «Frate Leone, scrivi». Quegli rispose: “Eccomi, sono pronto». «Scrivi – disse – cosa è la vera letizia». «Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure che sono entrati nell’Ordine tutti i prelati d’Oltr’Alpe, arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia e il Re d’Inghilterra; scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, oppure che io abbia ricevuto da Dio tanta grazia sa sanar gli infermi e da far molti miracoli; ebbene io dico: neppure qui è vera letizia».
«Ma cosa è la vera letizia?».
«Ecco, tornando io da Perugia nel mezzo della notte, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, all’estremità della tonaca, si formano dei ghiacciuoli d’acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: “Chi sei?” Io rispondo: “Frate Francesco”. E quegli dice: “Vattene, non è ora decente questa di arrivare, non entrerai”. E mentre io insisto, l’altro risponde: “Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. E io sempre resto davanti alla porta e dico: “Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte”. E quegli risponde: “Non lo farò. Vattene dai Crociferi e chiedi là”.Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell’anima» (5).
Alcune domande per la riflessione.
1. Sono io nel numero dei miti che vincono con la perseveranza della bontà, con la forza della pazienza, dell’amore che non si stanca mai? Ripudio ogni forma di violenza, anche solo verbale? Indosso forse abitualmente la toga di giudice severo?
2. Beati gli uomini che sono giustificati da Dio e diventano a lui graditi! Comprendiamo che il vangelo non deve essere solo ammirato, ma vissuto? Che la vera giustizia, secondo la misura di Dio, è la perfetta carità: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48)? Siamo convinti che c’è una sola, vera, grande tristezza nel mondo: quella di non essere santi?
3. Sono convinto che la giustizia di Dio è il suo amore, e quindi la sua misericordia? Sono disposto a perdonare di vero cuore al mio fratello/sorella? “Il giudizio di Dio – afferma Giacomo – sarà senza misericordia, per chi non avrà usato misericordia” (2,13)…
4. La purità della sesta beatitudine riguarda la sincerità del cuore, la purezza d’intenzione, la lealtà, la rettitudine. Amo lo schietto candore della verità, non solo delle parole, ma anche della vita, come dice Paolo di Cristo: “Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, non fu ‘sì’ e ‘no’; ma in lui c’è stato il ‘sì’” ? (2Cor 1,19-20). Cammino nella purità di cuore, percorrendo il faticoso cammino della liberazione interiore? Sono innamorato di Cristo, sapendo che sarò puro di cuore solo se ho Gesù nella mente, nel cuore, nelle meni, in tutto me stesso?
5. Frutto dello Spirito di Gesù è la gioia e la pace. Personalmente siamo in pace nel nostro intimo, evitando tutto ciò che può turbare la pace del cuore: il peccato ad occhi aperti, l’egoismo, la mancanza di carità? Se amiamo la pace del cuore, cerchiamo di diffonderla nei nostri fratelli? Abbiamo in orrore qualsiasi forma di violenza? Rifuggiamo dalle contese, dispute, polemiche? Quando uno alza la voce, siamo pronti ad abbassarla fino a tacere? Evitiamo qualsiasi forma di aggressività, conservando la calma in noi stessi e favorendola negli altri?
6. Nelle prove della vita aderiamo alle tre condizioni: andare a Gesù, accettare la croce, abbandonarsi a Lui con cuore mite e umile? Siamo convinti che solo così si realizza la promessa della consolazione, perché non siamo soli a portare la croce, ma Gesù la porta con noi?
——————————————————————————–
1 Perfezione evangelica. Tutto il pensiero di San Vincenzo de’ Paoli esposto con le sue parole, Ed. Vincenziane, Roma 1967, p. 394.
2 Fonti francescane, Assisi 1978, n. 1653.
3 Perfezione evangelica, cit., p. 272.
4 F. Ruiz, Notte e aurora,in AAVV, Dio parla nella notte. Vita, parola, ambiente di San Giovanni della Croce, Il Messaggero del S. Bambino Gesù di Praga – Edizioni OCD, Arenzano (Genova) – Roma 990, p. 159.
5 Fonti francescane, Assisi 1978, n. 278.
Vous pouvez laisser une réponse.
Laisser un commentaire
Vous devez être connecté pour rédiger un commentaire.