ABRAMO, NOSTRO PADRE NELLA FEDE
dal sito:
HTTP://WWW.SACROCUOREAIGEROLOMINI.IT/DOCUMENTI/ABRAMO.DOC
ABRAMO, NOSTRO PADRE NELLA FEDE
Abramo è il cercatore di Dio che accetta di fidarsi perdutamente di Lui: così diventa il padre dei credenti, riconosciuto tale da ebrei, cristiani, musulmani. “Guardate la rupe da cui siete stati tagliati, la gola del pozzo da cui siete stati estratti. Guardate Abramo vostro padre” (Is 51,1s). “Figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede” (Gal 3,7). “Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia” (Rom 4,3).
La fede connota tutta la sua figura: “Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso… Per questo da un uomo solo, e inoltre gia segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia innumerevole che si trova lungo la spiaggia del mare… Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo”(Eb 11,8-10. 12. 17-19).
1. Da dove è partito Abramo? Da quale conoscenza di Dio?
Secondo le fonti rabbiniche (cf. Robert Martin Achar, Actualité d’Abraham) Abramo conosce Dio a un anno (dunque, per puro dono dall’alto…), a tre anni (dono e ambiente familiare), a 48 anni (attraverso un cammino di maturazione…).
In realtà, viene da una famiglia “che serviva altri dei” (Gios 24,2), figlio di Terach, da Ur dei Caldei, al di là del fiume… Umanamente, non aveva nessun requisito per essere il padre dei credenti. Tutto gli è dato, tutto è accolto perché ha fede in Dio…
È avanti negli anni quanto Dio lo chiama (75 anni: Gen 12,4), come pure Sara, e non hanno figli. Ha tutti i timori di un uomo: anzitutto, il timore della morte che emerge davanti ai pericoli circostanti, tanto da presentare la bella Sara come sua sorella per non correre rischi in Egitto: “Quando fu sul punto di entrare in Egitto, disse alla moglie Sarai: ‘Vedi, io so che tu sei donna di aspetto avvenente. Quando gli Egiziani ti vedranno, penseranno: Costei è sua moglie, e mi uccideranno, mentre lasceranno te in vita. Dì dunque che tu sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva per riguardo a te”: Gen 12,10-20. Ha poi paura di svanire nel nulla, in quanto non aveva discendenza in un mondo che non credeva nella vita dopo la morte: questo timore lo porta al compromesso, tanto che pur amando Sara accetta di avere un figlio da Agar la schiava, con tutte le gelosie che ciò comporterà (cf. Gen 16,1-6). In queste paure, in questo ricorrere a vie di mezzo, Abramo appare così simile a tutti noi…
2. La prima chiamata di Abramo è quella delle promesse, che corrispondono totalmente al suo desiderio: la pienezza di benedizione, la discendenza, la terra (a lui senza figli e nomade: Gen 12,1-5). È però entusiasta, ricco di Dio, e perciò generoso: così, con Lot e con il re di Sodoma (13,1-18 e 14,1-16). Insegue il sogno della sua vita seguendo la chiamata di Dio… È un uomo che parla poco, ascolta molto, prega portando a Dio tutto se stesso, anche i lamenti (15; 17,16ss), e intercedendo per gli altri (Gen 18). Accoglie lo straniero e così è visitato da Dio (Gen 18). Cammina con Dio in ogni circostanza…
3. La seconda chiamata è quella dell’ “aqedah” di Isacco, la prova della fede: Gen 22,1-18, il comando, l’esecuzione, il colloquio tra Abramo e Isacco, il giuramento. Tutto avviene al “terzo giorno” (v. 4). Da quel giorno – secondo Kierkegaard (Timore e tremore, 44) – Abramo divenne vecchio, non poté più dimenticare quello che Dio gli aveva chiesto (sei vecchio quando hai un passato che ti segna per sempre…). Non rifiuta il suo figlio, l’unico, l’amato (vv. 12. 16).“Ora so che temi Dio” (Gen 22,12). La prova della fede è per Abramo capire che Dio è diverso da come l’aveva capito… e fidarsi di Lui (cf. Eb 11,8-12; 17-19). Kierkegaard mette in cuore ad Abramo queste parole: “Signore del cielo, è meglio che egli mi creda un mostro, piuttosto che perda la fede in Te” (ib.). E aggiunge: “Ciascuno diventa grande in rapporto alla sua attesa. Uno è diventato grande con l’attendere il possibile; un altro con l’attendere l’eterno; ma colui che attese l’impossibile, divenne più grande di tutti” (46). Abramo “lasciò la sua intelligenza terrena e prese con sé la fede” (ib.): credette nell’impossibile possibilità di Dio. Capì che “nessun sacrificio è troppo duro quando è Dio che lo vuole” (49). “Dio è colui che esige amore assoluto” (75). “Abramo ama Isacco con tutta l’anima, e quando Dio glielo domanda egli lo ama, se fosse possibile, ancora di più e solo così egli può farne il sacrificio” (75). Questo amore è inesprimibile a parole: perciò “Abramo non può parlare” (96).
4. Così nasce nel mondo la fede: credere nell’impossibile possibilità di Dio… Amare Dio più delle consolazioni che umanamente si chiederebbero a Dio. Abramo ama Dio di amore oblativo, non captativo: l’atto della totale sottomis¬sione alla volontà divina espresso nell’accettare perfino la dannazione eterna se Dio volesse questo, è per la tradizione spirituale il segno di un amore veramente puro, di una fede veramente viva, e perciò di una giustizia che – donataci dall’alto – ormai già opera in noi: è l’atto umano – certo impossibile senza la grazia – che ci dà la certezza dell’essere salvi: “Nessuno sa se egli ami Dio in modo puro, a meno che non sperimenti in sé che non desidera neppure essere salvato e non ri¬fiuta nemmeno d’essere dannato, se ciò piacesse a Dio” [1]. La “resignatio ad infernum” è il cammino di purificazione, che assicura di essere nel¬la giustificazione della fede: “Non c’è purificazione, se non ci si ras¬segna all’inferno. Ma i santi per¬fetti, proprio perché in loro sovrabbonda la ca¬rità, compiono questa rassegna¬zione senza grande mestizia. Infatti, a causa d’un intensissimo amore per Dio, presumono che tutto sia possibile, anche sopportare l’inferno. Grazie a tale prontezza, essi evitano im¬mediatamente una pena di questo genere. Infatti non c’è da temere che siano dannati, poiché si sottomet¬tono volentieri e con amore alla danna¬zione per Dio. Piuttosto sono dannati coloro che rifuggono dall’essere dannati. Infatti, anche Cristo è stato condannato e abbandonato più di tutti i santi” [2].
5. La “aqedah” di Isacco è così figura della scommessa di Dio per l’uomo, che giunge fino alla consegna del Figlio sulla Croce: Rom 8,32 può essere letto come un “midrash” di Gen 22. Gesù è il nuovo Isacco, il figlio di Abramo (Mt 1,1), più grande di lui (Gv 8,53), per portarci nel seno di Abramo (Lc 16,22)…
Abramo è dunque l’eletto da Dio (tradizione jahvista): la sua fede è rispondere alla chiamata di Dio caricandola del desiderio… È il provato da Dio, fedele nella prova (tradizione elohista): la sua fede è fidarsi e affidarsi perdutamente a Dio, anche se ti appare come il “Deus contra Deum”. È il padre nella fede per molti popoli (tradizione sacerdotale): la sua fede è vivere nella fedeltà di Dio.
Credo in Dio? Credo perché inseguo il desiderio del mio cuore? O sono pronto ad offrire a Dio tutto? Qual è l’Isacco del mio cuore? Sono pronto ad offrirlo in sacrificio a Dio? Mi fido perdutamente di Lui?
ABRAMO, NOSTRO PADRE NELLA FEDE
Chiediamo allo Spirito di illuminare le nostre menti e i nostri cuori per entrare nella fede di Abramo. Perché Abramo? Perché Abramo è il Padre della fede di ebrei, cristiani e musulmani. A Gerusalemme, sulla spianata del Tempio, sotto la cosiddetta Cupola della roccia, nella moschea di Omar, c’è una roccia che secondo la tradizione è la roccia del monte Moria, dove Abramo andò per sacrificare Isacco, suo figlio, l’unico, l’amato, per dire così a Dio di amare Lui più di tutto, persino più dell’amatissimo figlio. Ed è in questa offerta senza condizione del proprio figlio che Abramo introduce nella storia un atteggiamento assolutamente nuovo, inesistente prima di lui. Questo atteggiamento è la fede, una fede così radicale, così totale che nel libro del profeta Isaia viene detto, al capitolo 51: «Guardate la rupe da cui siete stati tagliati, la gola del pozzo da cui siete stati estratti! Guardate Abramo, vostro padre…». Con la sua fede Abramo è la roccia, su cui noi appoggiamo la nostra fede, è la sorgente di acqua viva, il pozzo da cui noi attingiamo l’acqua della nostra fede.
Nel Nuovo Testamento Paolo non esita a dire, nella Lettera a Galati, al capitolo 3, che « figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede », generati dalla fede. La fede non è qualcosa che è prodotta dal nostro cuore, la fede ci genera, ci produce, è dono dall’alto. In Romani 4,3, poi, si dice che « Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia ». Essere giusti davanti a Dio è l’unica cosa che conta nella vita. Ebbene, quest’unico necessario non è possibile senza la fede e il modello di questa fede è Abramo.
Chi è Abramo? Qual è stata la sua storia, quale il suo cammino? Che cosa è stata la sua fede? Ecco quello che cercheremo di capire. Ascolteremo dapprima due brani che sono i testi classici della fede di Abramo, il capitolo 12 del Libro della Genesi e il capitolo 22 dello stesso Libro; la vocazione di Abramo e la akedà, termine ebraico significa « legamento », il legamento di Isacco, cioè la scena del sacrificio del monte Moria. Questi testi ci consentiranno di rispondere alle domande poste: Chi era Abramo? Che cosa è stata la sua fede? Come egli l’ha vissuta? Quali tappe ha percorso? Quale prezzo d’amore ha pagato? Quali doni ha ricevuto?
Nel primo brano, tratto dal Libro della Genesi, al capitolo 12, incontriamo il racconto della vcazione di Abramo, la sua prima chiamata:
«Il Signore disse ad Abram: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che io ti indicherò, farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e coloro che ti malediranno, maledirò. E in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra. Allora, Abram partì come gli aveva ordinato il Signore e con lui partì Lot. Abram aveva 75 anni quando lasciò Carran. Abram, dunque, prese la moglie Sarai e Lot, figlio di suo fratello e tutti i beni che aveva acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso il paese di Carran. Arrivarono al paese di Canaan, e Abram attraversò il paese fino alla località di Sichem presso la quercia di More. Nel paese si trovavano allora i Cananei. Il Signore apparve ad Abram e gli disse: Alla tua discendenza io darò questo paese. Allora Abram costruì in quel posto un altare al Signore che gli era apparso. Di là passò sulle montagne a Oriente di Betel e piantò la tenda, avendo Betel ad Occidente e Ai ad Oriente. Lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore. Poi, Abram levò la tenda per accamparsi nel Negheb ».
Chi è dunque Abramo quando viene chiamato da Dio? Da dove nasce la sua storia? Qual è la conoscenza di Dio che lui aveva all’inizio del suo cammino? E quando ha conosciuto il Signore?
Secondo le fonti rabbiniche, che parlano a lungo e intensamente di Abramo (come attesta il libro di Robert Martin Achar, Actualitè d’Abraham, raccolta di racconti rabbinici sulla figura d’Abramo), ci sono tre diverse risposte a questa domanda. Alcuni rabbini dicono che Abramo ha conosciuto Dio quando aveva un anno; altri dicono che Lo ha conosciuto quando aveva 3 anni; e, altri che ha conosciuto Dio quando aveva 48 anni. Che significano queste tre tradizioni?
Secondo la prima Abramo conosce Dio a un anno: a quell´età non si ha nessuno strumento concettuale e intellettuale per conoscere Dio. Dunque, secondo questa tradizione, la conoscenza di Dio in Abramo è stata totalmente un dono, una grazia; tutto è venuto dall’alto. A un anno un bambino può conoscere Dio soltanto se Dio lo inonda della sua luce e lo rende capace di una conoscenza e di un amore che gli uomini da soli non si sarebbero mai potuti dare. Ecco allora il significato di questa prima tradizione, molto bella, che accentua l’assoluto primato dell´iniziativa di Dio.
Secondo un’altra tradizione, Abramo conosce Dio a 3 anni. A 3 anni già si capisce qualcosa e soprattutto si fa già sentire l’influenza dell’ambiente familiare, di quelli che ci stanno formando, che ci stanno insegnando a parlare, che ci fanno scoprire le cose del mondo. Secondo questa tradizione la conoscenza di Dio in Abramo è frutto di due elementi: da una parte, il dono di Dio, perché a 3 anni occorre una grazia particolare per conoscere Dio come lo ha conosciuto Abramo. E tuttavia c´è spazio anche, in qualche modo, per una certa risposta di Abramo e del suo ambiente. Dunque, la conoscenza che Abramo ha di Dio sarebbe il frutto di un incontro di umano e divino, dove certamente l’ambiente circostante ha avuto influenza.
La terza tradizione è però forse la più bella. Abramo conosce Dio a 48 anni. Perché proprio 48? Perché i 48 anni sono gli anni della piena maturità della vita. Sono gli anni, qualcuno dice, del disincanto. Quando si è giovani ci sono molti sogni, molti progetti. Poi, la vita porta a fare anche l’amara esperienza della delusione, ridimensiona i sogni e i progetti: ci scontriamo con la realtà che tante volte è dura, è pesante, forse proprio lì dove meno te lo saresti aspettato. Ed allora sarebbe in questo momento della vita, in cui cadono i progetti umani, in cui i sogni si ridimensionano, in cui c’è la grande tentazione di vivere nell’amarezza del rimpianto e della delusione, che Abramo, nell’assoluta povertà del suo cuore, scopre per dono l’assoluto primato di Dio. In altre parole, questa tradizione accentua nella maniera più bella, da una parte il dono di Dio, dall’altra il fatto che tu scopri veramente Dio quando hai conosciuto l’uomo, quando hai fatto esperienza del dolore del mondo: allora capisci che cos’è veramente il dono di Dio. Allora Dio non è più per te una consolazione umana, il rifugio dei tuoi sogni, la proiezione dei tuoi desideri: allora, Dio è Dio e tu ti affidi a Lui perdutamente perché sai che nessuna forza umana, neanche quella in cui tu tanto avevi confidato, sarà mai capace di darti la verità e la pace del cuore. È la scelta di Dio nel tempo della maturità, nel tempo della verità della vita, nel segno della profondità degli affetti, ma anche dei dolori umani.
In realtà, Abramo viene da una famiglia che serviva altri dei; questo ce lo dice il libro di Giosuè, al capitolo 24, versetto 2, parlando di lui come del « figlio di un certo Terach di Ur dei Caldei, al di là del fiume ». Dunque, Abramo dal punto di vista delle sue origini familiari, non ha nulla che lo predisponga a diventare l’eletto di Dio. La sua è una famiglia nomade, e i nomadi non hanno sicurezze: il loro tetto è il cielo, il loro futuro è la sorpresa di ogni giorno. La sua è una famiglia idolatrica. Secondo alcune tradizioni rabbiniche, il papà di Abramo faceva il fabbricante di idoli. Costruiva le statuette di terracotta che si vendevano presso i templi delle varie divinità pagane e girava poi di santuario in santuario a vendere la sua mercanzia.
Dal punto di vista umano, secondo i dati storici che abbiamo, Abramo non aveva nessun presupposto per diventare il nostro padre nella fede. Io credo che questo sia un aspetto molto bello, perché ci fa capire che la fede non si trasmette in eredità, la fede non è qualcosa di scontato; si arriva alla fede, ognuno pagando il proprio prezzo, vivendo il proprio amore, soffrendo la propria avventura. Il fatto di essere figli di genitori credenti non dà assolutamente per scontato che tu sia credente e, viceversa, il fatto che tu venga da una famiglia di idolatri o di nomadi, come Abramo, non dà assolutamente per scontato che tu non possa conoscere Dio. Com’è bello questo! Nulla umanamente ci garantisce o ci preclude la conoscenza di Dio. La conoscenza di Dio è un incontro di grazia e di libertà. Il dono assoluto di Dio è la libertà del cuore che lo accoglie. Non vale davanti a Dio nessun titolo di grandezza umana o di presunta elezione del proprio popolo, della propria storia, della propria tribù. Davanti a Dio siamo tutti dei poveri, bisognosi del suo amore.
Ma, c’è un altro aspetto su cui dobbiamo fermarci, e cioè che tutta la grande avventura di Abramo, secondo il racconto che abbiamo appena ascoltato da Genesi 12, comincia quando Abramo aveva 75 anni. Come vedete, non è mai troppo tardi per cominciare. Dice Genesi 12, 4: « Abramo aveva 75 anni quando lasciò Carraan ». Settantacinque anni, anche in quel tempo, era l’età della vecchiaia, anche se, secondo le tradizioni dei patriarchi, si viveva più a lungo. Non solo, ma Abramo è un uomo pieno di paure: questo è un altro aspetto che io trovo di grande bellezza! Non è affatto un eroe a prima vista, ma è uno che ha le paure che abbiamo tutti noi, in modo particolare due paure che sono così profonde nel cuore dell’uomo: la prima è la paura del pericolo, la paura della morte che diventa paura del pericolo. Pensate, che quando Abramo va in Egitto, secondo il racconto di Genesi 12, 10_20 e va con sua moglie Sara, che era avanti negli anni eppure continuava ad essere bella, Abramo si inventa che Sara non è sua moglie, ma sua sorella, perché così, se il faraone o qualche potente dell’Egitto avesse messo gli occhi su Sara, non lo avrebbe ucciso per liberarsi del concorrente scomodo. Come vedete, Abramo era furbo e aveva quelle paure che sono caratteristiche di ogni essere umano. Non solo! Ma lui ha un’altra paura, se volete, un altro dolore. Dovete pensare che ai tempi di Abramo, non esisteva la fede nell’immortalità. La vita, secondo il giudizio comune, era quella che si vive in questo mondo, chiusa fra il grido della nascita e il grido della morte. Questa era la vita secondo la concezione comune in quel tempo. Dunque, tutto ciò che un uomo poteva dare o ricevere, doveva darlo o riceverlo negli anni della sua vita mortale. Né più, né meno. Ebbene, Abramo in questo contesto sente l’influenza profonda della mentalità del suo tempo. Qual è l’unico modo di sopravvivere in una concezione della vita dove la morte è l’ultima parola? Avere dei figli. Chi non ha un figlio morirà due volte; morirà con la sua morte, ma morirà anche perché non ci sarà nessuno che continuerà a pronunciare il suo nome con amore. Non ci sarà chi, come dice la tradizione ebraica, preghi il qadish, la preghiera dei morti, una preghiera di benedizione che il figlio deve recitare per il proprio padre defunto. Dunque, Abramo desidera ardentemente un figlio. Per lui è questione veramente di vita o di morte, perché non avere un figlio, significa veramente morire due volte. E, a tal punto desidera avere un figlio, che si lascia convincere ad avere un figlio dalla schiava, Agar. Secondo Genesi 16, 1_6, Agar darà un figlio ad Abramo. Questo figlio sarà Ismaele. Il rapporto fra arabi e israeliani si radica su questa tradizione biblica, perché mentre gli ebrei si considerano i discendenti di Isacco, gli arabi si considerano i discendenti di Ismaele, che per gli ebrei è il figlio della schiava, mentre nella tradizione islamica è il figlio della promessa, essendo Agar comunque un’eletta come Sara. Dunque, il rapporto di odio_amore che c’è fra ebrei e arabi nasce nella memoria biblica proprio nella storia di Abramo e di Agar: nasce, cioè, dalle paure di Abramo.
Abramo è dunque un uomo avanti negli anni, un uomo nomade, che viene da una famiglia idolatrica, un uomo pieno di paure, soprattutto la paura della morte, la paura del pericolo, la paura di non lasciare una discendenza: tanto simile a noi. Abramo è come noi, con tutte le nostre fragilità così umane, con tutte le nostre incertezze, con tutti i nostri dubbi, con tutte le nostre domande. Che cosa succede a quest’uomo? Anzitutto, gli arriva la prima chiamata da parte di Dio. Ci sono infatti come due chiamate di Abramo, due vocazioni, che è importante distinguere: Genesi 12 e Genesi 22. In Genesi 12 – come abbiamo visto – il Signore chiama Abramo, dicendogli di lasciare la sua terra, le sue certezze, e questo è certamente qualcosa che costa. Dobbiamo, quindi, prendere sul serio questa chiamata. Lasciare le proprie sicurezze costa sempre e costa ancora di più quando si è avanti negli anni, quando si diventa più abitudinari, più legati alle proprie certezze, come il cane che difende il suo piccolo osso. Abramo non fa eccezione: dover lasciare Ur dei Caldei, quel suo piccolo mondo fatto di idoli, di commerci, di nomadismo, di insicurezze, di paure, non è una cosa facile. Noi amiamo tanto la nostra prigione! Dio gli promette, però, qualcosa di molto bello. Dio gli promette la pienezza della benedizione, la discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia che è sulla riva del mare. A uno che non aveva figli una promessa del genere appare un sogno. E gli promette la terra, a lui che era un nomade! Dunque, la promessa è di una sicurezza, di una stabilità per sempre. Insomma, la chiamata è troppo bella per non essere accolta. Abramo, in un sussulto di libertà decide di obbedire alla voce di Dio. Ecco perché parte, lasciando la sua terra verso la terra della promessa di Dio. Tuttavia, in questa maniera Abramo risponde a un Dio che gli promette esattamente quello che lui voleva. In altre parole, Abramo, rispondendo a Dio nella sua prima chiamata, insegue il suo sogno, il suo desiderio. La chiamata di Genesi 12 è la proiezione del desiderio di Abramo. Se tu desideri profondamente una cosa bella, vera, importante e Dio te la promette, allora dici sì alla volontà di Dio perché è esattamente quello che tu vuoi. Dunque, l’entusiasmo di Abramo è comprensibile. Anche le rinunce, abbandonare la propria terra, la propria patria, quando sono viste in quest’ottica di desiderio del cuore, sono accettabili perché il gioco vale la candela.
Questo spiega anche il comportamento di Abramo: dopo la sua chiamata parte e diventa ricco di Dio, generoso con tutti. Per esempio quando si tratta di dividere la terra anche con Lot e con il re di Sodoma, Abramo dice loro di scegliersi quello che vogliono ed essi naturalmente si scelgono la parte migliore e lasciano a lui quella peggiore, perché essendo lui ormai l’uomo che ha ricevuto la promessa, l’uomo che sa che avrà una discendenza e una terra, allora tutto il resto diventa secondario. Io penso che tutti noi abbiamo nella nostra memoria i tempi del primo entusiasmo della nostra vocazione dove ogni abbandono, ogni lascito ci sembrava bello e giusto perché è talmente bello seguire Dio inseguendo il proprio sogno, che qualunque rinuncia diventa secondaria: Abramo è così! Insegue il sogno della sua vita che corrisponde alla chiamata di Dio e dunque è pronto a lasciare tutto quello che è meno di Dio. È un uomo che parla poco, ascolta molto, prega, portando a Dio tutto se stesso. Abramo in questa fase della sua vita piena di entusiasmo sa portare a Dio anche il proprio lamento, si sa lamentare con Dio. Genesi 15 o Genesi 17,16ss, mostrano come Abramo porti a Dio non solo le cose belle. Nella preghiera egli sa anche lamentarsi come ci si lamenta soltanto con quelli che amiamo. Secondo Genesi 17, 16 ss « Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: a uno di cento anni, può nascere un figlio? E Sara, all’età di novant’anni, potrà partorire? Abramo disse a Dio: se almeno Ismaele potesse vivere davanti a te!».
Nonostante la promessa, Abramo continua ad essere uno che con Dio ha i suoi dubbi, si lamenta e vuol giocare almeno a salvare il salvabile. Dio però gli dice: ”No, Sara, tua moglie ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco. Stabilirò la mia alleanza con lui, come alleanza perenne, per essere il Dio suo e della sua discendenza dopo di lui ». Abramo anche nel tempo dell’entusiasmo porta tutte le sue mediocrità, porta a Dio i suoi lamenti, contratta con Dio, crede in Dio, poi qualche volta si dimentica di credere in Dio, e cerca, almeno, di accontentarsi di quello che ha! Abramo però sa anche intercedere per gli altri: al cap. 18 del Libro della Genesi intercede per evitare la distruzione di Sodoma. Qui s affaccia la sua antica professione di commerciante di idoli, che tira sul prezzo con il Signore per salvare Sodoma: il dialogo fra Abramo e Dio in Genesi 18 andrebbe benissimo con uno dei venditori ambulanti. Quello gli spara un prezzo e lui, mano, mano cerca di tirarlo sempre più in basso. Dice: se ci sono 50 giusti, tu distruggerai la città? Va bene, per 50 giusti… E così via, fino ad arrivare al minimo possibile. Dunque, l’indole commerciale di Abramo si fa sentire tutta in questo dialogo. Ma quello che importa è che è un dialogo che Abramo sta facendo per salvare la città. Dunque, è un uomo che intercede per gli altri. L’aver seguito Dio lo ha aperto all’amore per gli altri.
C’è anche un’altra scena molto bella sempre nel capitolo 18, dove Abramo accoglie con amore gli stranieri e proprio così viene visitato da Dio. La scena si svolge alla quercia di Mamre quando arrivano tre misteriosi ospiti e Abramo li accoglie e prepara per loro il banchetto ed essi si rivelano alla fine come la presenza di Dio. Difatti, il banchetto viene consumato dal fuoco e Abramo si accorge di essere stato visitato da Dio. Questa scena bellissima viene letta nella grande tradizione teologico_spirituale come una rivelazione della Trinità, tanto che Rubliov, il grande Santo iconografo della tradizione russa, dipinge la Trinità con i tre angeli apparsi ad Abramo!
Abramo è dunque un uomo che parla poco, ascolta molto, prega, portando a Dio i lamenti, ma sapendo anche intercedere per gli altri. È un uomo che accoglie gli altri con amore, come lo straniero che lo visita e così viene visitato da Dio. Insomma, Abramo già nel tempo della sua prima vocazione è uno che cammina con Dio in ogni circostanza della sua vita. Dunque, non si deve sminuire l’importanza di Genesi 12, che è in realtà un inseguire il sogno e il desiderio del proprio cuore, ma è anche un vivere con amore l’amicizia con Dio.
Però, se tutto si fermasse qui, Abramo non sarebbe il nostro padre nella fede. Che cosa significa questo? Che perché ci sia fede non basta l’entusiasmo di seguire Dio quando Lui ti promette le cose che tu vuoi. Perché ci sia fede non basta la felicità e la gioia di un Dio che compie la tua volontà! Perché ci sia fede, occorre qualcosa di altro, di diverso, qualcosa che cambia profondamente il tuo cuore, che lo segna per sempre, qualcosa che ti sconvolge la vita, che ti porta solo davanti a Dio solo, a vivere l’offerta più difficile, il dolore più grande, l’amore più profondo. Questo è ciò che succede in Genesi 22, la seconda chiamata di Abramo, la chiamata che nella tradizione ebraica viene chiamata la aqedà, il « legamento » di Isacco. Che cosa succede? Leggiamo il testo:
«Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: Abramo, Abramo!. Rispose: Eccomi!. Riprese: Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò. Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il terzo giorno, Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi servi: Fermatevi qui con l’asino, io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi. Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: Padre mio. Rispose: Eccomi, figlio mio! Riprese: Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?. Abramo rispose: Dio stesso provvederà all’agnello per l’olocausto, figlio mio! Proseguirono tutti e due insieme, così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato. Qui, Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. L’Angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: Abramo, Abramo! Rispose: Eccomi! L’Angelo disse: Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio! Allora, Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo Il Signore provvede. Perciò oggi si dice Sul monte il Signore provvede. Poi l’Angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: Giuro per me stesso, oracolo del Signore perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà della città dei nemici, saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra perché tu hai obbedito alla mia voce. Poi Abramo tornò dai suoi servi, insieme si misero in cammino verso Bersabea e Abramo abitò a Bersabea»
Genesi 22, 1_18 narrra la prova della fede. C´è anzitutto il comando da parte di Dio: Abramo praticamente non dice niente. Abramo tace. Il Dio che lo ha chiamato, che gli ha promesso quanto desiderava dal profondo del cuore e glielo ha donato, dandogli la gioia del suo Isacco, quello stesso Dio gli chiede di privarsi di Isacco. C’è da impazzire! Com’è possibile che Dio neghi le promesse di Dio? Che lo stesso Dio che gli ha fatto lasciare tutto, per dargli il tutto del suo desiderio, ora venga da lui e gli chieda di sacrificare tutto, anzi, di sacrificare l’unica cosa che per lui veramente conta nella sua vita? Questa è la prova di Abramo! È la prova della sconfitta di Dio, di un Dio cioè che nega se stesso, che ti aveva dato ed ora ti toglie: come è possibile? Si capisce perché Abramo non ha parole!
Il più bel commento a questo testo di Genesi 22 lo ha scritto forse Søren Kierkegaard, il filosofo danese del secolo XIX. È un piccolo libro che si intitola ”Timore e tremore », nient’altro che un commento a Genesi 22. Che cosa dice Kierkegaard? “Da quel giorno, cioè dal momento in cui Dio gli chiese di sacrificare Isacco, Abramo divenne vecchio”. Quando si diventa vecchi? Non quando gli anni passano, ma quando c’è qualcosa che tu non potrai mai più dimenticare per tutto il resto della tua vita, qualcosa che ti ha lacerato l’anima in un modo che ha cambiato per sempre la tua vita. Tu diventi vecchio nel senso in cui dice Kierkegaard quando hai conosciuto il passaggio, il guado della fede. Finché vivi dei tuoi entusiasmi e dei tuoi sogni, sei giovane, ma quando arriva quel momento in cui tu a Dio devi dare la lacerazione dell’anima tua, cioè, quanto di più profondo, di più vero hai dentro, quello è il momento in cui la tua vita cambia per sempre. In questo caso diventare vecchi non è qualcosa di negativo, è semplicemente fare un salto di qualità, entrare in una nuova dimensione della vita, non poter più dimenticare quello che Dio ti ha chiesto. Quindi, c’è il comando, c’è l’esecuzione del comando: Abramo parte! È impressionante! Non fa commenti! Semplicemente mette in azione quello che Dio gli ha chiesto!
Ecco il terzo momento, il colloquio fra Abramo ed Isacco. È commovente, perché Isacco si rivolse al padre Abramo e disse”Padre mio », e sentirsi chiamare così dal figlio amato, dal figlio della promessa, tocca le fibre più profonde dell’anima. Abramo rispose: “Eccomi, figlio mio!”. Notate la tenerezza di queste parole! Riprese Isacco: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” Abramo rispose: “Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio”. Abramo non dice niente! Perché? Kierkegaard mette in bocca ad Abramo questa preghiera segreta: “Signore del cielo è meglio che egli mi creda un mostro, piuttosto che perda la fede in Te ». Abramo capisce che se dicesse ad Isacco che Dio lo vuole far sacrificare, Isacco bestemmierebbe, non potrebbe più credere in Dio. Allora, Abramo preferisce che il figlio pensi che lui sia un mostro, piuttosto che perda la fede in Dio. Fino a questo punto Abramo ama Dio, fino al punto che non solo è pronto a sacrificargli l’amato del suo cuore, ma è pronto ad essere giudicato un mostro dall’amato del suo cuore, piuttosto che Isacco perda la fede in Dio. Ecco perché Kierkegaard aggiunge queste parole: “Ciascuno diventa grande in rapporto alla sua attesa; uno diventa grande con l’attendere il possibile, un altro con l’attendere l’eterno, ma colui che attese l’impossibile, divenne più grande di tutti ». Abramo scommette sull’impossibile possibilità di Dio, cioè sul fatto che lo stesso Dio che ha dato e che ha tolto, è il Dio del quale bisogna fidarsi. Dio ha sempre una possibilità impossibile, Dio, dirà Gesù, può far nascere dei figli ad Abramo dalle pietre. Abramo si fida di Dio anche nel tempo della sconfitta di Dio e del silenzio di Dio. Questa è la grandezza di Abramo, cioè fidarsi di Dio non solo quando tutto va bene, quando Lui fa la tua volontà, ma fidarsi di Dio quando Lui ti toglie tutto, quando sembra che l’Isacco del tuo cuore debba essere sacrificato. Kierkegaard aggiunge a proposito di Abramo: “Lasciò la sua intelligenza terrena e prese con sé la fede ». Abramo non ragiona più ormai in termini di calcolo umano: do questo e riceverò quest’altro. Abramo crede, si fida…
Aggiunge ancora Kierkegaard: “Dio è colui che esige amore assoluto ». Tu non ami Dio quando ami le consolazioni di Dio, tu ami Dio, quando ami qualunque cosa Dio voglia per te. In proposito, la grande tradizione mistica parla della rassegnazione all’inferno: “Se tu ami veramente Dio, devi amarlo fino al punto di amarlo amerai anche se Dio ti volesse mandare all’inferno » (Santa Teresa). Lutero usa lo stesso esempio, però a differenza di santa Teresa aggiunge una parola di consolazione: “Però se tu veramente desideri questo per amore di Dio, andrai certamente in Paradiso ». Santa Teresa è più rigorosa, si ferma, e dice “che dobbiamo amare Dio anche se Dio ci volesse mandare all’inferno, perché noi non lo amiamo per le sue consolazioni, noi lo amiamo perché Dio. E Dio esige un amore assoluto”. Kierkegaard afferma: “Nessun sacrificio è troppo duro quando Dio lo vuole ». Noi che siamo sempre pronti a lamentarci per le prove che ci vengono, dovremmo ricordarci di queste parole. Se le prove ci vengono da Dio, nessun sacrificio è troppo duro quando Dio lo vuole. Occorre, poi, capire che tu non sacrifichi quello che non ami. Sacrificare quello che uno non ama, è facile, liberarsi di qualche ricchezza, di qualche bene terreno, di qualcosa che tutto sommato non aggiunge e non toglie niente al nostro cuore, è facile! Ma, offrire a Dio l’amore vero della nostra vita, questo è difficile! Dice Kierkegaard: “Abramo ama Isacco con tutta l’anima e quando Dio glielo domanda, lo ama se fosse possibile ancora di più e solo così può farne il sacrificio ». Abramo può sacrificare Isacco solo perché ama Isacco infinitamente. A Dio non si offre lo scarto del cuore, a Dio si offre l’amore più grande. Solo se tu ami infinitamente, puoi offrire a Dio l’amore più grande. Allora, la grande verità è che si entra nella vita di fede, quando si offre a Dio l’unico, l’amato del proprio cuore: ognuno di noi ha un Isacco del suo cuore. Fede è capire qual è questo Isacco e metterlo sull’altare del sacrificio al terzo giorno, cioè nel giorno di Dio: Gesù risorge al terzo giorno, perché nella tradizione biblica il terzo giorno è il giorno in cui si compiono le opere di Dio. Offrire l’Isacco del proprio cuore, l’unico, l’amato, al terzo giorno, è offrirlo a Dio, perché solo Dio è degno di quest’offerta e solo Dio può essere amato così: questa è la fede. Fede significa morire per nascere.
In Genesi 12, Abramo non era morto, aveva lasciato la sua terra, ma rispetto a ciò che lo aspettava era niente. In Genesi 22, Abramo muore ai suoi sogni, ai suoi desideri perché è pronto a dare a Dio il suo Isacco, ad amare Dio più di tutte le consolazioni di Dio, ad affidarsi perdutamente a Dio. Allora, Dio gli può dire in Genesi 22, 12: “Ora so che temi Dio », perché ora Abramo ha offerto a Dio l’Isacco del suo amore. ”Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio ». Com’è bello questo! Com’è esigente! Com’è vero, e che dramma porta con sé! Ci sono dei pittori che hanno saputo esprimere questo in una maniera straordinaria. Ad esempio di Rembrandt ci sono due scene del sacrificio di Isacco, dipinte rispettivamente quando era giovane, e si trova all’Hermitage di San Pietroburgo, e da vecchio, e si trova al museo l’Alt Pinakoteke di Monaco di Baviera. Nella scena del sacrificio di Isacco dipinta da Rembrandt giovane, la scena rappresenta Abramo che tiene il coltello nella mano, e con l’altra mano nasconde lo sguardo: è la reazione del giovane che non vuol vedere l’atrocità che deve compiere. Nella scena di Isacco dipinta da Rembrandt vecchio Abramo guarda in alto, come fa chi ha capito che tutto bisogna aspettarsi da Dio, bisogna affidarsi a Dio senza riserve: solo quando avrai offerto a Dio l’Isacco del tuo cuore e sarai stato pronto a ricevere da Dio qualunque cosa Dio voglia per te, allora sarai un uomo, una donna di fede, allora nascerai nella fede.
Questa è la fede: credere nell’impossibile possibilità di Dio, fidarsi di Dio nonostante tutto, fidarsi di Dio anche nel tempo del silenzio di Dio o addirittura della sconfitta di Dio. Certe volte noi ci guardiamo intorno, ci sembra che questo mondo vada a rotoli, ci sembra che ci sia tanta superficialità, tanta corruzione! L’uomo di fede confida in Dio anche nel tempo della sconfitta di Dio, sa che Dio è Dio, di Dio bisogna fidarsi incondizionatamente. Ecco perché in Romani 8,32, Paolo riprenderà la scena di Genesi 22, con gli stessi verbi del testo greco dei Settanta (la traduzione greca dell’Antico Testamento, usata dall’ebraismo) con la differenza che in Romani 8,32 Abramo sarà Dio_Padre e Isacco sarà Gesù, e che mentre l’Isacco di Genesi 22 non muore l’Isacco di Romani 8,32 muore per amore nostro. Ecco il sacrificio di Isacco realizzato in pienezza da Gesù nella sua vita, ed ecco perché Abramo diventa il Padre nostro nella fede, perché ha saputo credere contro ogni evidenza, sperare contro ogni speranza. A tal punto Abramo diventa il simbolo della fede che Gesù dirà che ”il Paradiso è entrare nel seno di Abramo », cioè si entra in Paradiso quando si è percorsa la porta stretta della fede anche nella sconfitta di Dio, nel silenzio di Dio, quando ci si è fidati dell’impossibile possibilità di Dio.
Chi è dunque Abramo? Possiamo dire che Abramo è l’eletto da Dio, secondo la tradizione Jahvista, cioè è colui che risponde alla chiamata di Dio caricandola del suo desiderio, come avviene in Genesi 12, una tappa della vita che probabilmente tutti noi abbiamo vissuto: l’entusiasmo della giovinezza, del sogno, dell’inseguire il nostro desiderio riconoscendovi la volontà di Dio, una piacevole volontà di Dio. Secondo la tradizione Eloista di Genesi 22 Abramo è il provato da Dio, è l’uomo della “akedà”, colui che conosce la prova ed è fedele nella prova. La sua fede è affidarsi perdutamente a Dio anche quando ti appare come il Dio che nega le promesse di Dio: Abramo si fida totalmente di Dio, anche quando Dio nasconde la sua faccia. Finalmente, e proprio per questo, Abramo diventa il Padre nella fede per molti popoli, secondo la tradizione sacerdotale, cioè colui che avendo creduto così, avendo amato Dio più delle promesse di Dio, avendo raggiunto il punto di sacrificare l’Isacco del suo cuore è ormai talmente povero di sé, da essere ricco di Dio, ricco di una moltitudine di figli, che saranno tutti coloro che nella storia crederanno nella fedeltà di Dio anche nel tempo dell’apparente sconfitta di Dio o del suo silenzio.
Le domande che a questo punto potremmo porre sono queste:
_ Credo in Dio perché Lui realizza i desideri del mio cuore o credo in Dio perché Dio è Dio? Lo amo per le sue consolazioni o lo amo perché è il Dio della mia vita, del mio cuore?
_ Qual è l’Isacco del mio cuore? Qual è il bene più grande, la perla preziosa, ciò a cui più ho tenuto o tengo nella mia vita? L’Isacco del mio cuore non è quello esteriore che a volte può apparire, è quello più profondo, spesso è semplicemente il nostro io che vuole essere al centro di tutto: quando io capisco qual è l’Isacco del mio cuore, sono pronto ad offrirlo a Dio, a metterlo sull’altare del sacrificio, amando Dio più della ricompensa e della consolazione di Dio? Accetto di vivere non nella mia fedeltà ma nella fedeltà di Dio? Vivere nella fedeltà di Dio significa credere che Dio è fedele anche quando sul monte ti chiede il sacrificio di Isacco, quando la mia fedeltà ormai umanamente sembra non farcela più e io mi affido lo stesso alla fedeltà di Dio perché ciò che conta non è che la mia volontà si compia, ma che si compia la Sua. Ecco perché il vero Isacco, il vero Abramo è Gesù: “Padre, se è possibile passi da me questo calice, tuttavia non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi Tu ».
Soltanto chi è stato pronto di dare a Dio il proprio Isacco è pronto per credere in Lui e dargli tutta la propria vita: a Dio non si può offrire lo scarto del nostro cuore, a Dio si deve offrire quanto di più vero e di più bello noi abbiamo. Allora potremmo dirlo di averlo amato e di amarlo, allora potremmo dire di vivere di fede. Come Abramo, nostro padre nella fede…
Vous pouvez laisser une réponse.
Laisser un commentaire
Vous devez être connecté pour rédiger un commentaire.