Alla ricerca delle radice – l’identità ebraica di Martin Buber (stralcio)
dal sito:
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Alla ricerca delle radice – l’identità ebraica di Martin Buber (stralcio)
Clara Levi Coen
Costruire la pace è completare la creazione
Dopo le terribili e meravigliose esperienze di morte e di vita, subite e realizzate da Israele, con la Shoà e con la ricostruzione dello Stato ebraico, il mondo aspetta qualcosa da Buber, dal suo più profondo contenuto spirituale. Egli, parlando a New York nel 1951(10), indicava questa «domanda silenziosa» rivolta dal mondo d’oggi all’Ebraismo, come un fenomeno nuovo nella storia. Per secoli, infatti, il più profondo contenuto spirituale dell’Ebraismo o era rimasto sconosciuto, o aveva ricevuto scarsa attenzione, per la ragione, forse, che durante il periodo dei Ghetti la realtà sottomessa della vita ebraica era intravista a stento dal mondo esterno, mentre, durante il periodo dell’emancipazione, gli Ebrei soltanto e non l’Ebraismo, apparvero a scena aperta.
Il terribile massacro di milioni di Ebrei, l’avviarsi al martirio di tanti di loro nel nome del Signore, sorretti nell’inumano destino dai cantici della fede e della speranza e, d’altra parte, il rifiorire nella terra dei Padri di un novello stato ebraico, opera umana apparentemente miracolosa, dovuta alla tenace e faticata volontà ed all’azione dei pionieri, tutto questo ha contribuito a far sì che il mondo abbia gradualmente iniziato a percepire che dentro l’Ebraismo vi è qualcosa che ha a che fare, in un modo speciale, con i bisogni spirituali del mondo presente.
Si può intendere ciò solo considerando l’Ebraismo nella sua interezza e nel suo totale percorso spirituale. Ma «questa interezza, queste fondamentali tendenze e la loro evoluzione – diceva ancora Buber nel 1951 – sono per la maggior parte non riconosciute dagli stessi Ebrei, perfino da coloro che cercano ardentemente il sentiero della verità(11). E portava l’esempio di ebrei spiritualmente importanti come Henry Bergson e Simone Weil:
Tutti e due, Bergson e Weil, erano ebrei. Tutti e due erano convinti che nel misticismo cristiano avrebbero trovato la verità religiosa che stavano cercando. Bergson ancora vedeva nei profeti d’Israele i precursori della Cristianità, mentre S. Weil semplicemente si sbarazzò tanto di Israele quanto dell’Ebraismo. Nessuno dei due si convertì al Cristianesimo. Bergson, probabilmente perché andava contro le sue inclinazioni lasciare la comunità degli oppressi e perseguitati, e S. Weil per ragioni derivanti dal suo concetto di religione(12).
Ambedue, secondo Buber, cercavano e credevano di avere trovato nel Cristianesimo la risposta religiosa che stavano cercando e respingevano l’Ebraismo perché non lo conoscevano nella sua interezza:
Non è vero che Israele non abbia dedicato all’intimità spirituale il suo posto di diritto; piuttosto, non si è accontentato di questo. I suoi maestri contestano l’autosufficienza dell’anima. L’interna verità deve divenire vita reale, altrimenti non rimane verità. Una goccia di realizzazione messianica deve essere mescolata con ogni ora, altrimenti l’ora è priva di Dio, a dispetto di ogni pietà e devozione. Di conseguenza, quello che può essere chiamato il principio sociale della religione d’Israele… ha rapporto con l’umanità sociale, perché la società umana è qui legittimata soltanto se fondata su relazioni reali tra i suoi membri; e l’umanità è considerata nel suo significato religioso. perché la reale relazione con Dio non può essere compiuta sulla terra se mancano le relazioni con il mondo e con l’umanità(13) .
L’uomo nell’accettare la creazione dalle mani di Dio s.impegna a collaborare all’opera ancora incompiuta: «La creazione è incompleta perché i regni dentro di essa sono ancora discordi e la pace può emergere soltanto dal creato». Nella tradizione ebraica. colui che effettua la pace è chiamato «il compagno di Dio nell’opera della creazione… in nessun luogo l’azione essenziale dell’uomo è così strettamente legata al mistero dell’Essere»(14).
E proprio per questa ragione la risposta alla domanda silente posta dal mondo contemporaneo in maniera inconscia e non riconosciuta, ma suggerita dai più intimi recessi del cuore, «là dove dimora la disperazione». la domanda di un insegnamento di fede nella realtà, nelle verità dell’esistenza. «cosicché la vita abbia qualche scopo e l’esistenza abbia qualche significato», la domanda rivolta alle religioni storiche, non nei loro dogmi ne nei loro rituali, ma nella intrinseca realtà di fede, appare a Buber come essenzialmente rivolta all’Ebraismo.
Ma vorrà l’Ebraismo stesso – egli si domanda – rendersi conto che proprio la sua esistenza dipende dal rifiorire della sua esistenza religiosa? Lo stato ebraico può assicurare – egli dice – il futuro di una nazione di Ebrei, anche dotata di una cultura sua propria. ma l’Ebraismo vivrà soltanto se legherà ancora alla vita la primitiva relazione ebraica con Dio, con il mondo e con l’umanità. I profeti di Israele servirono lo spirito, nel mondo umano, generazione dopo generazione, con aggressività, lottando contro chi non attuava «la verità divina nella pienezza della vita di ogni giorno, evadendo così nel puramente formale e rituale, vale a dire nel non impegnativo», limitando il servizio di Dio alla sfera puramente sacrale.
Il principio religioso-normativo d’Israele è essenzialmente storico. A differenza delle altre religioni, la sua rivelazione è un fatto di storia nazionale. Con questa fede storica, ad un tempo realistica e messianica, il popolo ebreo andò nel mondo, nel suo esilio universale. Il principio della nostra fede, la verità e la giustizia di Dio, l’amore tra gli uomini nella luce della realtà divina: «Ama il prossimo tuo come te stesso. lo sono il Signore tuo Dio» (Lv 19,18), questo principio tentò di attuarsi nel dominio della vita e della storia umane. Ma noi abbiamo negato a noi stessi l’attuarsi del nostro principio nel mondo. L’idea messianica si perse in furiose estasi collettive o in tardive speculazioni gnostiche. E, tuttavia, pur nell’epoca dei ghetti e dei pogrom, si attuò, nel seno delle comunità ebraiche, il principio dell’amore per Dio, per gli uomini e per il mondo, soprattutto nel hassidismo che animò di puro fervore l’intrinseca realtà di fede.
Quando camminammo nel mondo fuori dal ghetto, ci capitò il peggio. Una spaccatura, sempre più profonda, lacerò l’unità di popolo e religione. E questa spaccatura è presente anche nello stato ebraico. Israele e il principio del suo essere procedono separati. La frattura si può saldare solo nell’adempimento di verità, giustizia, amore di Dio sulla terra. Impresa tremendamente difficile. Nella diaspora, «ancora vigorosamente viva a dispetto della immensa distruzione e devastazione» da nessuna parte vi è un potente sforzo di rinsaldare la frattura.
Siamo noi ancora Ebrei, Ebrei nelle nostre vite? È l’Ebraismo ancora vivo? In Erez Israel il dubbio può essere ancora nascosto dalle controversie politiche e dal pericolo.
Ma alla diaspora si presenta nella sua nudità. Ci si rende conto della grande crisi dell’umanità. Qual’è la condizione delle sue radici? Possono essere salvate? Possono ancora produrre un fresco germoglio? Riconosciamo noi stessi nel nostro ebraismo reale. Noi siamo i custodi delle radici: lo siamo? – si domanda Buber – Come possiamo di nuovo ascoltare la voce di Dio? «Egli è uno, il Signore della storia, il Dio che nasconde se stesso e che rivela se stesso». Vi sono delle ore nella storia apparentemente abbandonate da Dio, silenziose. Dopo la Shoà, il nascondimento di Dio è troppo profondo. possono « i Giobbe delle camere a gas » ancora parlare con Dio? Giobbe contese con Dio e lo accusò di ingiustizia. Ricevette una risposta da Lui e la ascoltò, ma la parola di Dio non rispondeva all’accusa, non la toccava nemmeno. E noi? – si domanda ancora Buber – «Noi, e con ciò si intende tutti quelli che non hanno superato quello che è accaduto e non lo supereranno. Come è ciò con noi?.. Dobbiamo rimanere sopraffatti di fronte alla faccia nascosta di Dio, come il tragico eroe dei Greci di fronte al fato senza volto? No, piuttosto sempre noi contendiamo, anche noi, con Dio… Anche con Lui, il Signore dell’Essere che noi una volta, noi qui, abbiamo scelto per nostro Signore. Noi non accettiamo supinamente l’esistenza terrena, noi lottiamo per la sua redenzione e, lottando, ci appelliamo all’aiuto del nostro Signore che è sempre ed ancora nascosto. In tale stato noi aspettiamo la Sua voce, sia che essa venga fuori dalla tempesta, sia che esca dalla calma che segue ad essa. Benché la sua veniente comparsa non assomigli a nulla di precedente, riconosceremo ancora il nostro crudele e misericordioso Signore» (15)
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10. In., The silent question in At the turning, Ed Farrar, Strauss and Young, New York 1952.
11. ID., o. c., pp. 33.34.
12. Ibidem, p. 38.
13. Ibidem, p. 38.
14. Ibidem, p. 39.
15. ID., Dialogue between Heaven and Earth, in At the turning, Ed. Farrar, Strauss and Young, New York 1952, p. 62.

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