Archive pour le 8 mai, 2010

The last supper_La Cene

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http://www.artbible.net/3JC/-Mat-26,26_The%20last%20supper_La%20Cene/2nd_15th_Siecle/index5.html

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Dai «Commenti sui salmi» di sant’Agostino, vescovo: L’alleluia pasquale

dal sito:

http://www.maranatha.it/Ore/pas/pas5/letSABpage.htm

UFFICIO DELLE LETTURE DI SABATO 8 MAGGIO 2010

Seconda Lettura
Dai «Commenti sui salmi» di sant’Agostino, vescovo
(Sal. 148, 1-2; CCL 40, 2165-2166)

L’alleluia pasquale

La meditazione della nostra vita presente deve svolgersi nella lode del Signore, perché l’eterna felicità della nostra vita futura consisterà nella lode di Dio; e nessuno sarà atto alla vita futura, se ora non si sarà preparato. Perciò lodiamo Dio adesso, ma anche innalziamo a lui la nostra supplica. La nostra lode racchiude gioia, la nostra supplica racchiude gemito. Infatti ci è stato promesso ciò che attualmente non possediamo; e poiché è verace colui che ha promesso, noi ci rallegriamo nella speranza, anche se, non possedendo ancora quello che desideriamo, il nostro desiderio appare come un gemito. E’ fruttuoso per noi perseverare nel desiderio fino a quando ci giunga ciò che è stato promesso e così passi il gemito e gli subentri solo la lode. La storia del nostro destino ha due fasi: una che trascorre ora in mezzo alle tentazioni e tribolazioni di questa vita, l’altra che sarà nella sicurezza e nella gioia eterna. Per questo motivo è stata istituita per noi anche la celebrazione dei due tempi, cioè quello prima di Pasqua e quello dopo Pasqua. Il tempo che precede la Pasqua raffigura la tribolazione nella quale ci troviamo; invece quello che segue la Pasqua, rappresenta la beatitudine che godremo. Ciò che celebriamo prima di Pasqua, è anche quello che operiamo. Ciò che celebriamo dopo Pasqua, indica quello che ancora non possediamo. Per questo trascorriamo il primo tempo in digiuni e preghiere. L’altro, invece, dopo la fine dei digiuni lo celebriamo nella lode. Ecco perché cantiamo: alleluia.
Infatti in Cristo, nostro capo, è raffigurato e manifestato l’uno e l’altro tempo. La passione del Signore ci presenta la vita attuale con il suo aspetto di fatica, di tribolazione e con la prospettiva certa della morte. Invece la risurrezione e la glorificazione del Signore sono annunzio della vita che ci verrà donata.
Per questo, fratelli, vi esortiamo a lodare Dio; ed è questo che noi tutti diciamo a noi stessi quando proclamiamo: alleluia. Lodate il Signore, tu dici a un altro. E l’altro replica a te la stessa cosa.
Impegnatevi a lodare con tutto il vostro essere: cioè non solo la vostra lingua e la vostra voce lodino Dio, ma anche la vostra coscienza, la vostra vita, le vostre azioni.
Noi lodiamo il Signore in chiesa quando ci raduniamo. Al momento in cui ciascuno ritorna alle proprie occupazioni, quasi cessa di lodare Dio. Non bisogna invece smettere di vivere bene e di lodare sempre Dio. Bada che tralasci di lodare Dio quando ti allontani dalla giustizia e da ciò che a lui piace. Infatti se non ti allontani mai dalla vita onesta, la tua lingua tace, ma la tua vita grida e l’orecchio di Dio è vicino al tuo cuore. Le nostre orecchie sentono le nostri voci, le orecchie di Dio si aprono ai nostri pensieri.

Alla ricerca delle radice – l’identità ebraica di Martin Buber (stralcio)

dal sito:

http://www.nostreradici.it/identit%C3%A0-Buber.htm#nref10

Alla ricerca delle radice – l’identità ebraica di Martin Buber (stralcio)

Clara Levi Coen

 Costruire la pace è completare la creazione        

    Dopo le terribili e meravigliose esperienze di morte e di vita, subite e realizzate da Israele, con la Shoà e con la ricostruzione dello Stato ebraico, il mondo aspetta qualcosa da Buber, dal suo più profondo contenuto spirituale. Egli, parlando a New York nel 1951(10), indicava questa «domanda silenziosa» rivolta dal mondo d’oggi all’Ebraismo, come un fenomeno nuovo nella storia. Per secoli, infatti, il più profondo contenuto spirituale dell’Ebraismo o era rimasto sconosciuto, o aveva ricevuto scarsa attenzione, per la ragione, forse, che durante il periodo dei Ghetti la realtà sottomessa della vita ebraica era intravista a stento dal mondo esterno, mentre, durante il periodo dell’emancipazione, gli Ebrei soltanto e non l’Ebraismo, apparvero a scena aperta.

    Il terribile massacro di milioni di Ebrei, l’avviarsi al martirio di tanti di loro nel nome del Signore, sorretti nell’inumano destino dai cantici della fede e della speranza e, d’altra parte, il rifiorire nella terra dei Padri di un novello stato ebraico, opera umana apparentemente miracolosa, dovuta alla tenace e faticata volontà ed all’azione dei pionieri, tutto questo ha contribuito a far sì che il mondo abbia gradualmente iniziato a percepire che dentro l’Ebraismo vi è qualcosa che ha a che fare, in un modo speciale, con i bisogni spirituali del mondo presente.

    Si può intendere ciò solo considerando l’Ebraismo nella sua interezza e nel suo totale percorso spirituale. Ma «questa interezza, queste fondamentali tendenze e la loro evoluzione – diceva ancora Buber nel 1951 – sono per la maggior parte non riconosciute dagli stessi Ebrei, perfino da coloro che cercano ardentemente il sentiero della verità(11). E portava l’esempio di ebrei spiritualmente importanti come Henry Bergson e Simone Weil:

    Tutti e due, Bergson e Weil, erano ebrei. Tutti e due erano convinti che nel misticismo cristiano avrebbero trovato la verità religiosa che stavano cercando. Bergson ancora vedeva nei profeti d’Israele i precursori della Cristianità, mentre S. Weil semplicemente si sbarazzò tanto di Israele quanto dell’Ebraismo. Nessuno dei due si convertì al Cristianesimo. Bergson, probabilmente perché andava contro le sue inclinazioni lasciare la comunità degli oppressi e perseguitati, e S. Weil per ragioni derivanti dal suo concetto di religione(12).

    Ambedue, secondo Buber, cercavano e credevano di avere trovato nel Cristianesimo la risposta religiosa che stavano cercando e respingevano l’Ebraismo perché non lo conoscevano nella sua interezza:

    Non è vero che Israele non abbia dedicato all’intimità spirituale il suo posto di diritto; piuttosto, non si è accontentato di questo. I suoi maestri contestano l’autosufficienza dell’anima. L’interna verità deve divenire vita reale, altrimenti non rimane verità. Una goccia di realizzazione messianica deve essere mescolata con ogni ora, altrimenti l’ora è priva di Dio, a dispetto di ogni pietà e devozione. Di conseguenza, quello che può essere chiamato il principio sociale della religione d’Israele… ha rapporto con l’umanità sociale, perché la società umana è qui legittimata soltanto se fondata su relazioni reali tra i suoi membri; e l’umanità è considerata nel suo significato religioso. perché la reale relazione con Dio non può essere compiuta sulla terra se mancano le relazioni con il mondo e con l’umanità(13) .

    L’uomo nell’accettare la creazione dalle mani di Dio s.impegna a collaborare all’opera ancora incompiuta: «La creazione è incompleta perché i regni dentro di essa sono ancora discordi e la pace può emergere soltanto dal creato». Nella tradizione ebraica. colui che effettua la pace è chiamato «il compagno di Dio nell’opera della creazione… in nessun luogo l’azione essenziale dell’uomo è così strettamente legata al mistero dell’Essere»(14).

    E proprio per questa ragione la risposta alla domanda silente posta dal mondo contemporaneo in maniera inconscia e non riconosciuta, ma suggerita dai più intimi recessi del cuore, «là dove dimora la disperazione». la domanda di un insegnamento di fede nella realtà, nelle verità dell’esistenza. «cosicché la vita abbia qualche scopo e l’esistenza abbia qualche significato», la domanda rivolta alle religioni storiche, non nei loro dogmi ne nei loro rituali, ma nella intrinseca realtà di fede, appare a Buber come essenzialmente rivolta all’Ebraismo.

      Ma vorrà l’Ebraismo stesso – egli si domanda – rendersi conto che proprio la sua esistenza dipende dal rifiorire della sua esistenza religiosa? Lo stato ebraico può assicurare – egli dice – il futuro di una nazione di Ebrei, anche dotata di una cultura sua propria. ma l’Ebraismo vivrà soltanto se legherà ancora alla vita la primitiva relazione ebraica con Dio, con il mondo e con l’umanità. I profeti di Israele servirono lo spirito, nel mondo umano, generazione dopo generazione, con aggressività, lottando contro chi non attuava «la verità divina nella pienezza della vita di ogni giorno, evadendo così nel puramente formale e rituale, vale a dire nel non impegnativo», limitando il servizio di Dio alla sfera puramente sacrale.

    Il principio religioso-normativo d’Israele è essenzialmente storico. A differenza delle altre religioni, la sua rivelazione è un fatto di storia nazionale. Con questa fede storica, ad un tempo realistica e messianica, il popolo ebreo andò nel mondo, nel suo esilio universale. Il principio della nostra fede, la verità e la giustizia di Dio, l’amore tra gli uomini nella luce della realtà divina: «Ama il prossimo tuo come te stesso. lo sono il Signore tuo Dio» (Lv 19,18), questo principio tentò di attuarsi nel dominio della vita e della storia umane. Ma noi abbiamo negato a noi stessi l’attuarsi del nostro principio nel mondo. L’idea messianica si perse in furiose estasi collettive o in tardive speculazioni gnostiche. E, tuttavia, pur nell’epoca dei ghetti e dei pogrom, si attuò, nel seno delle comunità ebraiche, il principio dell’amore per Dio, per gli uomini e per il mondo, soprattutto nel hassidismo che animò di puro fervore l’intrinseca realtà di fede.

    Quando camminammo nel mondo fuori dal ghetto, ci capitò il peggio. Una spaccatura, sempre più profonda, lacerò l’unità di popolo e religione. E questa spaccatura è presente anche nello stato ebraico. Israele e il principio del suo essere procedono separati. La frattura si può saldare solo nell’adempimento di verità, giustizia, amore di Dio sulla terra. Impresa tremendamente difficile. Nella diaspora, «ancora vigorosamente viva a dispetto della immensa distruzione e devastazione» da nessuna parte vi è un potente sforzo di rinsaldare la frattura.

    Siamo noi ancora Ebrei, Ebrei nelle nostre vite? È l’Ebraismo ancora vivo? In Erez Israel il dubbio può essere ancora nascosto dalle controversie politiche e dal pericolo.
Ma alla diaspora si presenta nella sua nudità. Ci si rende conto della grande crisi dell’umanità. Qual’è la condizione delle sue radici? Possono essere salvate? Possono ancora produrre un fresco germoglio? Riconosciamo noi stessi nel nostro ebraismo reale. Noi siamo i custodi delle radici: lo siamo? – si domanda Buber – Come possiamo di nuovo ascoltare la voce di Dio? «Egli è uno, il Signore della storia, il Dio che nasconde se stesso e che rivela se stesso». Vi sono delle ore nella storia apparentemente abbandonate da Dio, silenziose. Dopo la Shoà, il nascondimento di Dio è troppo profondo. possono « i Giobbe delle camere a gas » ancora parlare con Dio? Giobbe contese con Dio e lo accusò di ingiustizia. Ricevette una risposta da Lui e la ascoltò, ma la parola di Dio non rispondeva all’accusa, non la toccava nemmeno. E noi? – si domanda ancora Buber – «Noi, e con ciò si intende tutti quelli che non hanno superato quello che è accaduto e non lo supereranno. Come è ciò con noi?.. Dobbiamo rimanere sopraffatti di fronte alla faccia nascosta di Dio, come il tragico eroe dei Greci di fronte al fato senza volto? No, piuttosto sempre noi contendiamo, anche noi, con Dio… Anche con Lui, il Signore dell’Essere che noi una volta, noi qui, abbiamo scelto per nostro Signore. Noi non accettiamo supinamente l’esistenza terrena, noi lottiamo per la sua redenzione e, lottando, ci appelliamo all’aiuto del nostro Signore che è sempre ed ancora nascosto. In tale stato noi aspettiamo la Sua voce, sia che essa venga fuori dalla tempesta, sia che esca dalla calma che segue ad essa. Benché la sua veniente comparsa non assomigli a nulla di precedente, riconosceremo ancora il nostro crudele e misericordioso Signore» (15)

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10. In., The silent question in At the turning, Ed Farrar, Strauss and Young, New York 1952.
11. ID., o. c., pp. 33.34.
12. Ibidem, p. 38.
13. Ibidem, p. 38.
14. Ibidem, p. 39.
15. ID., Dialogue between Heaven and Earth, in At the turning, Ed. Farrar, Strauss and Young, New York 1952, p. 62.

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Pasqua: la Pace viva che zampilla dal fondo dell’anima – VI domenica di Pasqua

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22380?l=italian

Pasqua: la Pace viva che zampilla dal fondo dell’anima

VI Domenica di Pasqua, 9 maggio 2010

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 7 maggio 2010, (ZENIT.org).- “Gli disse Giuda, non l’Iscariota: ‘Signore, com’è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?’. Gli rispose Gesù: ‘Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la da’ il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate’” (Gv 14,23-29).

Il primo messaggio comunicato dal volto dell’Uomo della Sindone, anche a chi lo fissa senza fede, è un arcano senso di pace, definitiva, inalienabile; una pace viva che non sembra provenire dal regno dei morti. Per il credente, questa pace ha il sapore della gioia, poiché egli riconosce nell’Uomo della Sindone il “Vivente”, colui che “era morto, ma ora vive per sempre ed ha potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1,18).

Il primo istante di questo “ora” eterno, è rimasto impresso nella Sindone come traccia luminosa della “Vita oltre la vita”; e come l’angelo Gabriele rallegrò Maria con l’annuncio dell’Incarnazione, così la Sindone rallegra il credente con l’annuncio della Risurrezione. Quest’immagine misteriosa è l’istantanea del ritorno al Padre di Colui che era disceso dal Cielo per abitare trentatre anni e nove mesi in mezzo a noi. Dal volto silenzioso e come addormentato di quest’Uomo, traspare l’abisso insondabile della Vita divina, la Vita tout-court, quella Vita Increata che è all’origine di ogni vita.

In un cadavere umano il volto fa pensare ad un cielo invernale, gelido, plumbeo, ma il Volto della Sindone è simile al cielo in una limpida notte d’estate, fissando il quale l’anima si sente trasportare oltre le stelle, al di là delle galassie, fino agli estremi confini del “Principio”. Tale contemplazione delle schiere celesti, pur essendo di per sé pacificante, non è tuttavia in grado di comunicare la pace a chi l’avesse gravemente perduta.

La contemplazione della Sindone, al contrario, promette questa pace, poiché le labbra ammutolite del Signore sembrano suggerire proprio le parole che Egli dice oggi ai suoi discepoli “Vi lascio la pace vi do la mia pace. Non come la da’ il mondo io la do a voi” (Gv 14,27).

Dicendo “la mia pace”, Gesù non lascia alternative: la sua pace è l’unica in grado di placare qualsiasi turbamento profondo che abbia infranto la nostra fragile pace interiore. Come intendere, allora, questa pace propria ed esclusiva di Gesù?

Può darcene l’idea il disastro ecologico di questi giorni nel Golfo del Messico. Cito al riguardo le parole di un esperto: “Questo è un fiume di petrolio in piena che scorre dal fondo dell’oceano e non sappiamo quando si fermerà” (intervista riportata da “Avvenire”, 1 maggio).

Leggendole, m’è venuto in mente un passo del profeta Isaia, di segno diametralmente opposto rispetto a quello della marea nera, ma metaforicamente utile alla riflessione sulla pace di Gesù, se sostituiamo alla menzione dell’oceano il fondo della coscienza, e all’esplosione della piattaforma petrolifera un evento drammatico come quello dell’aborto, che costituisce un vero e proprio “disastro” dell’anima.

In questo capitolo il profeta si rivolge alla nuova comunità che sta risorgendo in Gerusalemme dopo il terribile disastro della distruzione del tempio, seguito dalla deportazione in esilio. Come in un sogno, Isaia descrive ciò che vede: una carovana esultante che avanza verso la Città santa, formata dagli Israeliti che tornano dall’esilio e da una moltitudine di popoli attratti, come i Magi, dalla luce che rifulge sul colle di Sion. Rivolgendosi a Gerusalemme come ad una persona, le dice: “A quella vista sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché le ricchezze del mare si riverseranno su di te, verranno a te i beni dei popoli” (Is 60,5).

E’ finito il tempo del lamento ed è iniziato quello della gioia e della speranza!

Veniamo ora al giorno e al momento del “disastro” dell’aborto, pensando in particolare alla mamma che sta ingoiando la famigerata pillola RU 486, che ella sa benissimo essere un veleno mortale per il suo bambino. Posato il bicchiere, nel profondo della sua coscienza si apre una ferita dalla quale, come un fiume di petrolio, si riversa in tutta la sua persona l’inquinamento spirituale per ciò che ha fatto.

Ne è segno la morsa d’angoscia che comincia a stringerle il cuore, spingendola poi a rimedi palliativi la cui inutilità fa pensare a quelli messi in opera dai tecnici del Golfo per arginare la marea nera. Tali sono le misure di ordine umano, psicologico, farmacologico, ecc., con le quali si cercherà di darle sollievo, le quali sono però sostanzialmente insufficienti, poiché non vanno e non possono andare efficacemente al luogo profondo dell’“esplosione”, cioè alla coscienza della donna davanti a Dio, ferita dal pungiglione mortale del peccato.

Infatti, come l’unica soluzione reale al disastro petrolifero consiste nel fermare la fuoriuscita del veleno oleoso dal fondo dell’oceano (e ciò non basta a riparare i danni irreversibili inferti all’ecosistema), così la pace del cuore della mamma che ha abortito può essere ritrovata solo se la ferita della sua coscienza viene sanata in profondità, senza lasciare cicatrici, vale a dire con la “restitutio ad integrum” dell’intero “ecosistema” della sua persona: “spirito, anima e corpo”(1 Ts 5,23) .

In verità, il fiume di turbamento che la memoria non cessa di far scaturire dal fondo del cuore, può essere fermato solamente se nello stesso punto la donna lascerà zampillare la sorgente purissima dell’“acqua viva” promessa da Gesù alla donna samaritana (Gv 4,13), l’unico rimedio in grado di rigenerare la vita interiore e far rifiorire la persona, una volta che si è riconciliata con Dio: “perché queste acque dove giungono risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà” (Ez 47,9).

Sì, quest’acqua divina è il “dono di Dio” (Gv 4,10) che Gesù vuol dare ad ogni donna che ha abortito, “samaritana” in quanto assetata di verità, di amore vero, di perdono e di pace. Dovrà solo incontrare ed ascoltare molte volte il Maestro divino che la sta attendendo al pozzo dell’anima.

Ora comprendiamo il significato profondo di queste parole del Signore: “Non come la da’ il mondo io la do a voi” (Gv 14,27).

Gesù vuole aiutare tutti coloro che sono angosciati dal ricordo di un evento doloroso ed irreversibile (sia che si tratti di un peccato commesso, sia di un fatto accaduto senza volerlo) e che non sanno (e non possono) darsi pace.

La vera pace, infatti, non è quella che ci si può dare in un modo o nell’altro, cercando qualcuno o qualcun altro, ma è quella che Dio solo può e vuole dare. Essa dipende dall’armonia interiore della persona, cioè dalla sua amicizia con Dio in Gesù “via, verità e vita” dell’anima.

Ogni volta che tale comunione vitale è colpevolmente interrotta (come nel peccato di aborto volontario), dal fondo dell’anima si spande in tutta la persona come una morte spirituale, segnalata dal turbamento del rimorso che solo la grazia sacramentale della Confessione può dissolvere, donando insieme la pace propria di Gesù, la pace nel suo sangue, come annuncia Paolo: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete divenuti vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia,..per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace (Ef 2,13-1). Paolo la chiama anche “la pace di Dio che supera ogni intelligenza”(Fil 4,7), vale a dire che non ha spiegazione umana, né può essere ottenuta da risorse umane.

Il salmo 46/45 la descrive splendidamente come un fiume: “Un fiume e i suoi canali rallegrano la santa città di Dio…Dio è in mezzo ad essa: non potrà vacillare. Perciò non temiamo se trema la terra, se vacillano i monti nel fondo del mare. Fremano, si gonfino le sue acque, si scuotano i monti per i suoi flutti” (vv. 3-5).

Il turbamento del cuore è come il mare in tempesta: quando il vento cessa, le onde non si placano all’istante, ma continuano a perturbare la superficie e a far ballare le imbarcazioni, fino al giorno dopo.

Questa è anche la dinamica della Confessione. Gesù lo sa bene, per questo dice: “abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1). L’atto di fede che compio inginocchiandomi, confidando ciecamente nella Misericordia del Padre ed in Gesù, mi sottrae già dall’occhio del ciclone interiore, ma non elimina ancora il turbamento.

Per possedere la pace totale di Gesù, come un mare tranquillo che ricolma l’anima, dovrò attendere, continuare a navigare con Gesù senza timore, trovando sempre rifugio sotto la protezione materna della Regina della Pace.

——-

* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

buona notte

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Marsh Yellow-cress

http://www.floralimages.co.uk/index2.htm

San Cipriano : « Poiché non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100508

Sabato della V settimana di Pasqua : Jn 15,18-21
Meditazione del giorno
San Cipriano (circa 200-258), vescovo di Cartagine e martire
Lettere,  58, 1-9

« Poiché non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia »

        Il Signore ha voluto che ci rallegrassimo ed esultassimo quando siamo perseguitati (Mt 5, 12), perché quando vengono le persecuzioni, allora si ricevono le corone della fede (Gc 1, 12), i soldati di Cristo mostrano le proprie capacità, e i cieli si aprono per i suoi testimoni. Non siamo stati impegnati nella milizia di Dio allo scopo di pensare solo alla tranquillità, di sottrarci al nostro servizio, mentre il Maestro dell’umiltà, della pazienza e della sofferenza ha compiuto in prima persona, prima di noi, lo stesso servizio. Ciò che ha insegnato, egli ha cominciato col adempierlo, e ci esorta a tener duro perché lui stesso ha sofferto prima di noi, e per noi.

        Prima di partecipare alle gare dello stadio, uno si esercita, si allena, e si considera poi molto onorato se, sotto gli occhi della folla, ha la fortuna di ricevere il premio. Ma ecco una prova molto più nobile e lampante : mentre lottiamo e combattiamo la battaglia della fede, Dio ci guarda, noi che siamo i suoi figli, e lui in persona ci dà la corona di gloria (1 Cor 9, 25). Ci guardano i suoi angeli e Cristo ci assista. Perciò armiamoci, fratelli carissimi, raccogliamo tutte le forze e disponiamoci alla battaglia con animo integro, con fede piena e con virtù solide.

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