Archive pour le 3 mai, 2010

Santi Filippo e Giacomo Apostoli

Santi Filippo e Giacomo Apostoli dans immagini sacre Vetrata%20Ss.Filippo%20e%20Giacomo

Vetrate della chiesa Ss. Filippo e Giacomo in S. Antonio Abate
Questi i soggetti delle vetrate:
nella lunetta centrale della Cappella della Madonna del Carmelo l’antico timbro parrocchiale in bronzo con le figure dei Santi Filippo e Giacomo (San Filippo con la croce e i pani, San Giacomo con la gualchiera1. e i pesci);

Una gualchiera è un macchinario di epoca preindustriale, usato per lo più nella manifattura laniera, ma anche nell’industria della carta

http://www.sfeg.it/le_vetrate.htm

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Aborto: la vera “questione morale del nostro tempo”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22205?l=italian

Aborto: la vera “questione morale del nostro tempo”

di padre Gonzalo Miranda, L.C.*

ROMA, domenica, 25 aprile 2010 (ZENIT.org).- Ad alcuni potrà sembrare fuori luogo dedicare oggi un numero intero (anzi, due) di una rivista di bioetica (Studia Bioethica) al tema dell’aborto. Si pretende che la questione sia ormai superata dal punto di vista etico e bioetico. Addirittura c’è chi spinge affinché l’aborto venga considerato uno tra i diritti umani…
Noi pensiamo invece che valga la pena parlarne. E che oggi, più di alcuni anni fa, si possa affrontare il dibattito in modo ragionato e serio. Non tanto tempo fa proposi agli autori di un’importante trasmissione televisiva nazionale, alla quale avevo appena partecipato, di invitare due donne americane, madre e figlia, che si trovavano in Italia. Si trattava di una bellissima testimonianza di accoglienza della vita e di perdono, dopo un’interruzione di gravidanza fallita. Accolsero subito la proposta, con una condizione: non si doveva menzionare la parola ‘aborto’ – “Sa, siamo in televisione”.
Forse oggi la questione non è più un tabù. Se ne può parlare; se ne parla. Ma lo si fa in modo sporadico, spesso solamente sull’onda di qualche nuovo eclatante episodio o della formazione di qualche lista in vista delle elezioni politiche.
Si tratta invece di una questione che merita di essere sempre vagliata, approfondita, compresa, discussa. Il fatto che una madre ponga fine, con l’intervento del medico e con l’avallo della legge, alla vita del figlio che porta nel proprio seno non potrà mai diventare una questione banale, e neanche “normale”. Al contrario, se non si vuole sfuggire da questo dramma e se teniamo presente la sua imponente dimensione sociale nei nostri giorni, dovremmo riconoscere che si tratta di una vera “questione morale”.
Non riduciamo questo concetto al dibattito politico sulla corruzione all’interno di qualche partito. Ci sono problemi che si dimostrano molto più “questioni” e molto più profondamente e drammaticamente “morali”. Nelson Mandela ebbe a dire che la situazione di conflitto nei territori di Gaza è diventata “la questione morale del nostro tempo”. Se si dovesse fare una classifica, penserei che la vera questione morale del nostro tempo, in Italia e in molti altri Paesi, è piuttosto quella dell’aborto. Milioni di donne nel mondo decidono di porre fine alla vita che cresce nel loro grembo; milioni di piccoli esseri umani vengono eliminati prima di poter vedere la luce del sole; milioni di donne e di famiglie soffrono di questa profonda lacerazione. Una questione nella quale è in gioco il modo in cui noi, esseri umani, vogliamo trattare altri esseri umani. Una questione nella quale, inoltre, è in gioco la nostra stessa concezione dell’essere umano e della sua dignità universale. In fondo, si tratta di una questione morale simile ad alcune tra le più dense e profonde che sono state affrontate dall’umanità lungo i secoli. Davanti a questioni simili non basta far finta di niente e tirare avanti, guardando altrove.
A questo proposito, può essere molto istruttivo richiamare la questione morale della schiavitù come si presentò nel dibattito sociale negli Stati Uniti due secoli or sono.
Nel 1857, la Corte Suprema americana emanò una sentenza (nel caso Dred Scott vs Sanford) che negava ai neri i diritti riconosciuti dalla Costituzione ai cittadini americani. Il testo della sentenza spiega che coloro che scrissero la Costituzione “non consideravano i negri portati come schiavi dall’Africa e i loro discendenti come cittadini, dato che all’epoca venivano ritenuti una classe di esseri subordinata ed inferiore, che era stata soggiogata dalla razza dominante, e, emancipati o meno, rimanevano soggetti alla sua autorità, e non avevano diritti e privilegi se non quelli che coloro che avevano il potere e il Governo volessero offrire loro” (1).
Potrebbe sembrare che la questione fosse stata definitivamente chiusa, niente meno che da una sentenza della Corte Suprema in un Paese democratico nel quale le sentenze dettano legge. Quella sentenza, però, non risolse il dibattito sociale sulla schiavitù. L’anno seguente, infatti, ci furono i famosi sette dibattiti pubblici nello Stato dell’Illinois, in vista delle elezioni per il Congresso americano, tra Stephen Douglas e Abraham Lincoln. Il tema centrale fu appunto la schiavitù (2). Non la possibilità o meno di abolirla totalmente. La questione dibattuta era più semplicemente se si dovesse permettere l’estensione legale della schiavitù negli Stati del Nord, nei quali non era ancora stata legalizzata. Douglas accusò ripetutamente Lincoln di essere “abolizionista”, grave insulto all’epoca, che indicava una persona che pretendeva di abolire totalmente la schiavitù. E la prova era che si era permesso di affermare pubblicamente che la Dichiarazione d’Indipendenza americana si applicava tanto ai neri come ai bianchi (affermazione che contrastava evidentemente con la sentenza della Corte Suprema appena citata). Lincoln accusava Douglas di voler “nazionalizzare la schiavitù”, estendendola agli Stati del Nord.
L’argomentazione di Douglas è quanto mai significativa, anche per i nostri tempi: sono i cittadini a dover decidere democraticamente se vogliono o meno legalizzare la schiavitù nel proprio Stato. Era la cosiddetta dottrina della Popular Sovereignty (Sovranità Popolare). In fondo, la schiavitù era legale in molti Stati (era un fatto compiuto); e se i cittadini di altri Stati la volevano, non si vedeva come qualcuno potesse opporsi a questa volontà democraticamente espressa. Tutti gli Stati, dunque, dovevano avere il potere di escludere dall’ordine dei diritti le “razze inferiori”.
Lincoln non argomentò a favore della completa eguaglianza sociale, ma affermò che Douglas ignorava l’umanità basica dei neri e il fatto che gli schiavi avessero lo stesso diritto alla libertà. Disse: “Concordo con il giudice Douglas sul fatto che egli [il negro] non è uguale a me in molti aspetti – certamente non nel colore, e forse neanche nella capacità morale o intellettuale. Ma, nel diritto a mangiare, senza il permesso di nessuno, il pane che guadagna con le proprie mani, lui è uguale a me e uguale al giudice Douglas, e uguale ad ogni uomo vivente”.
E poi caricò con forti espressioni, dicendo che non poteva non odiare lo zelo per diffondere la schiavitù: “Lo odio a causa della mostruosa ingiustizia della schiavitù stessa”. Si chiedeva anche: “Se si fanno eccezioni alla Dichiarazione d’Indipendenza che dichiara il principio che tutti gli uomini sono uguali, dove si finirà? Se un uomo dice che non si applica al negro, perché non potrà dire un altro che non si applica a un altro uomo?”.
Fece anche un’affermazione importante sul futuro del dibattito: la crisi e il conflitto saranno superati solamente quando la schiavitù verrà posta “nella via della definitiva estinzione”. Ebbe anche a dire che la schiavitù doveva essere considerata un male e si doveva impedire la sua espansione: “Questo è il vero problema. Questo è il problema che persisterà nel nostro Paese, quando le lingue del giudice Douglas e la mia siano in silenzio. È l’eterna lotta tra questi due principi – bene e male – nel mondo intero”.
Le elezioni per l’Assemblea Generale dello Stato furono vinte quell’anno dal partito di Stephen Douglas. Evidentemente molti la pensavano come lui. Ma poi, nella corsa per la Presidenza della Nazione, Douglas fu sconfitto da Lincoln. La grave questione morale della schiavitù non si calmò; anzi fu, come sappiamo, uno dei fattori principali dello scoppio della terribile Guerra Civile americana. Solo dopo quella guerra, vinta dai “nordisti” contrari all’estensione della schiavitù, e per l’insistenza del Presidente Lincoln, si arrivò alla sua abolizione, con il XIII emendamento della Costituzione, nel 1865. Solo in quel momento l’aspro dibattito sociale si avviò verso la fine, quando, come aveva detto Lincoln, la schiavitù stessa fu posta “nella via della definitiva estinzione”.
Riflettiamo, dunque. Analizziamo, esaminiamo, meditiamo. Discutiamone. Non c’è sentenza giudiziaria, né piccola né “suprema”, non c’è legge né risoluzione internazionale che possa cancellare la questione morale del nostro tempo. La coscienza umana si può oscurare ma non muore mai.

Studia Bioethica ha dedicato due numeri a questa riflessione (http://www.uprait.org/sb/index.php/bioethica/issue/view/4). Il tema e il numero dei testi pervenuti ci hanno convinto a raccogliere il materiale in un solo quaderno.
Dopo un percorso storico nel quale vengono smascherati alcuni falsi luoghi comuni sulla pratica e il pensiero in materia di aborto, si presenta uno studio della situazione attuale di questa pratica in Italia dal punto di vista demografico. Ci si addentra poi nell’analisi della legge italiana. Innanzitutto proponiamo una considerazione sull’origine storica dei contenuti e sugli effetti della legge 194 del 1978 sulla società italiana. Si studia poi il problema relativo all’applicazione effettiva di quella legge, nei suoi molteplici aspetti. Viene finalmente offerta una prospettiva di reale e possibile miglioramento della legge in vigore.
Viene proposta poi un’analisi critica dell’assunto assai comune che stabilisce una relazione inversamente proporzionale tra pratica della contraccezione e aborto. Due psicologi offrono uno studio sulle conseguenze dell’aborto volontario sull’altra vittima di questa pratica: la donna.
Si amplia ulteriormente l’orizzonte, evidenziando le recenti strategie pro-aborto nel dibattito parlamentare in Inghilterra e fornendo una panoramica della presenza attuale della nostra tematica in una delle vetrine principali della cultura odierna: il cinema.
Finalmente, tre contributi più brevi: uno studio sull’aborto nel pensiero femminista e femminile; un’indagine su alcuni termini molto utilizzati nel contesto culturale attuale che si prestano ad usi ambigui e manipolatori; un rapido sguardo al servizio lodevole ed efficace che prestano in tutta Italia i “Centri di Aiuto alla Vita”.
Altre tematiche, alcune in qualche modo correlate, vengono affrontate nella “Sezione aperta” della rivista. Insieme a quella monografica e alle numerose recensioni di pubblicazioni recenti in materia di bioetica, offrono uno strumento interessante per l’approfondimento e la riflessione personale.
Riflessione che non dobbiamo mai dare per esaurita, soprattutto su un problema come quello dell’aborto, vera questione morale del nostro tempo.
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(1) Si può consultare il testo della Sentenza in http://www.pbs.org/wgbh/aia/part4/4h2933t.html (Ultima consultazione il 4-2-09). Traduzione mia.
(2) Si può trovare un resoconto dei dibattiti in http://en.wikipedia.org/wiki/Lincoln-Douglas_debates_of_1858 (Ultima consultazione il 4-2-09). Traduzione mia.

* P.Gonzalo Miranda dal 1993 al 2001 è stato Segretario Operativo del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Roma. Nel 2001 ha fondato la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA). Dal 2001 fino al 2006 è stato Decano della Facoltà di Bioetica della stessa Università. Professore ordinario di Bioetica e di Teologia Morale nelle Facoltà di Bioetica e di Teologia dell’APRA, è membro del Comitato Direttivo del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Membro onorario del Consejo de Bioética della Conferenza Episcopale Messicana, è membro del Consiglio Direttivo della Federazione Internazionale di Centri di Bioetica di Ispirazione Personalista (FIBIP) e del Comitato Di Bioetica della Federazione Internazionale di Facoltà di Medicina Cattoliche (AIFMC). E’ inoltre membro del Comitato Direttivo delle riviste “Medicina e Morale” (Roma), “Medicina y Ética” (Messico) e “Vida y Ética” (Argentina).

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Meditazione del Papa dopo l’atto di venerazione della Sindone: Icona del mistero del Sabato Santo

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22304?l=italian

Meditazione del Papa dopo l’atto di venerazione della Sindone

Icona del mistero del Sabato Santo

TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la meditazione pronunciata questa domenica da Benedetto XVI dopo l’atto di venerazione della Sindone nel Duomo di Torino, nel salutare le monache di clausura di diversi monasteri della diocesi e i membri del Comitato della Sindone presenti.

* * *

Cari amici,

questo è per me un momento molto atteso. In un’altra occasione mi sono trovato davanti alla sacra Sindone, ma questa volta vivo questo pellegrinaggio e questa sosta con particolare intensità: forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria Icona; forse, e direi soprattutto, perché sono qui come Successore di Pietro, e porto nel mio cuore tutta la Chiesa, anzi, tutta l’umanità. Ringrazio Dio per il dono di questo pellegrinaggio, e anche per l’opportunità di condividere con voi una breve meditazione, che mi è stata suggerita dal sottotitolo di questa solenne Ostensione: “Il mistero del Sabato Santo”. Si può dire che la Sindone sia l’Icona di questo mistero, l’Icona del Sabato Santo. Infatti essa è un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio.

Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr Mc 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di San Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato.

Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio, come si legge in un’antica Omelia: “Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme … Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi” (Omelia sul Sabato Santo, PG 43, 439). Nel Credo, noi professiamo che Gesù Cristo “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, e il terzo giorno risuscitò da morte”.

Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità.

E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza. E questo mi fa pensare al fatto che la sacra Sindone si comporta come un documento “fotografico”, dotato di un “positivo” e di un “negativo”. E in effetti è proprio così: il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini. Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale. In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui.

Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. E’ successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”.

Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa; e io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore. Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati – “Passio Christi. Passio hominis” – promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio. Come parla la Sindone? Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.

Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità. Grazie.

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buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno rhododendron_ponticum_4b7

Rhododendron ponticum

http://www.floralimages.co.uk/index2.htm

Sant’Agostino : Santi Filippo e Giacomo, apostoli, fondamenta della città santa (Ap 21,19)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100503

Santi Filippo e Giacomo (il Minore) apostoli, festa : Jn 14,6-14
Meditazione del giorno
Sant’Agostino (354-430), vescovo d’Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Esposizioni sui salmi, Sal 86

Santi Filippo e Giacomo, apostoli, fondamenta della città santa (Ap 21,19)

        «Le sue fondamenta sono sui monti santi. Il Signore ama le porte di Sion» (Sal 86, 1-2)… «Voi siete concittadini dei santi, familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli Apostoli e dei Profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Gesù Cristo» (Ef 2,19-20)… Ebbene, questa pietra angolare e i monti (che sono gli Apostoli e i grandi Profeti) reggono la costruzione di questa città e costituiscono un edificio vivente. Grida ora dai vostri cuori questo edificio? È la magistrale mano di Dio che compie tutto questo per mezzo della nostra lingua, affinché siate squadrati e immessi nella struttura di quell’edificio…

        Guardate alla forma d’una pietra squadrata: il cristiano deve essere simile ad essa! Di fronte a qualsiasi tentazione il cristiano non cade. Anche se è spinto e, quasi, capovolto, egli non cade. Una pietra di forma quadrata, infatti, da qualunque parte tu la giri, sta dritta… Siate, dunque, squadrati in questo modo, cioè pronti a qualsiasi tentazione. Qualunque cosa vi colpisca, non abbia a rovesciarvi!…

        Quanto, poi, al crescere in questo edificio, lo si fa con affetto devoto, con sincera religione, con la fede, la speranza e la carità. La città celeste viene edificata mediante i suoi stessi cittadini: i cittadini ne sono le pietre. Essi, infatti, sono pietre viventi. Dice l’apostolo Pietro: «Voi, come pietre viventi, siate edificati in una dimora spirituale» (1 Pt 2,5)… Ma, perché sono fondamenta gli Apostoli e i Profeti? Perché la loro autorità sorregge la nostra debolezza. Perché attraverso loro noi entriamo nel regno di Dio: sono essi che ce lo annunciano. E, quando noi entriamo attraverso loro, entriamo attraverso Cristo, dato che egli è la porta (Gv 10,9).

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