Archive pour avril, 2010

Bruno Forte: Confessio Fidei – Narratio amoris

dal sito:

http://www.qumran2.net/ritagli/ritaglio.pax?id=6286

Confessio Fidei – Narratio amoris

(Bruno Forte, Confessare la fede narrando l’Amore)

Una confessione di fede cristiana non è altro che la «sanctae Trinitatis relata narratio» (Concilio XI di Toledo: DS 528): il racconto dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cui abbiamo creduto sulla parola dei testimoni delle nostre origini, trasmessa nella vivente tradizione ecclesiale («relata narratio»). Chi confessa la fede, parla di Dio raccontando l’Amore, così come si è rivelato nell’evento trinitario di Pasqua:

Credo in Te, Padre,
Dio di Gesù Cristo,
Dio dei nostri Padri e nostro Dio:
Tu, che tanto hai amato il mondo
da non risparmiare
il Tuo Figlio Unigenito
e da consegnarlo per i peccatori,
sei il Dio, che è Amore.
Tu sei il Principio senza principio dell’Amore,
Tu che ami nella pura gratuità,
per la gioia irradiante di amare.
Tu sei l’Amore che eternamente inizia,
la sorgente eterna da cui scaturisce
ogni dono perfetto.
Ti ci hai fatti per Te,
imprimendo in noi la nostalgia del Tuo Amore,
e contagiandoci la Tua carità
per dare pace al nostro cuore inquieto.

Credo in Te, Signore Gesù Cristo,
Figlio eternamente amato,
mandato nel mondo per riconciliare
i peccatori col Padre.
Tu sei la pura accoglienza dell’Amore,
Tu che ami nella gratitudine infinita,
e ci insegni che anche il ricevere è divino,
e il lasciarsi amare non meno divino
che l’amare.
Tu sei la Parola eterna uscita dal Silenzio
nel dialogo senza fine dell’Amore,
l’Amato che tutto riceve e tutto dona.
I giorni della Tua carne,
totalmente vissuti in obbedienza al Padre,
il silenzio di Nazaret, la primavera di Galilea,
il viaggio a Gerusalemme,
la storia della passione,
la vita nuova della Pasqua di Resurrezione,
ci contagiano il grazie dell’amore,
e fanno di noi, nella sequela di Te,
coloro che hanno creduto all’Amore,
e vivono nell’attesa della Tua venuta.

Credo in Te, Spirito Santo,
Signore e datore di vita,
che Ti libravi sulle acque
della prima creazione,
e scendesti sulla Vergine accogliente
e sulle acque della nuova creazione.
Tu sei il vincolo della carità eterna,
l’unità e la pace
dell’Amato e dell’Amante,
nel dialogo eterno dell’Amore.
Tu sei l’estasi e il dono di Dio,
Colui in cui l’amore infinito
si apre nella libertà
per suscitare e contagiare
amore.
La Tua presenza ci fa Chiesa,
popolo della carità,
unità che è segno e profezia
per l’unità del mondo.
Tu ci fai Chiesa della libertà,
aperti al nuovo
e attenti alla meravigliosa varietà
da Te suscitata nell’amore.
Tu sei in noi ardente speranza,
Tu che unisci il tempo e l’eterno,
la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste,
Tu che apri il cuore di Dio
all’accoglienza dei senza Dio,
e il cuore di noi, poveri e peccatori,
al dono dell’Amore, che non conosce tramonto.
In Te ci è data l’acqua della vita,
in Te il pane del cielo,
in Te il perdono dei peccati
in Te ci è anticipata e promessa
la gioia del secolo a venire.

Credo in Te, unico Dio d’Amore,
eterno Amante, eterno Amato,
eterna unità e libertà dell’Amore.
In Te vivo e riposo,
donandoti il mio cuore,
e chiedendoti di nascondermi in Te
e di abitare in me.
Amen!

Publié dans:Bruno Forte, preghiere |on 22 avril, 2010 |Pas de commentaires »

IL MINISTERO PRESBITERALE COME “IMPEGNO d’AMORE” (“Amoris officium”) (Sant’Agostino)

dal sito:

http://www.preticattolici.it/Teologia%20spirituale.htm

IL MINISTERO PRESBITERALE COME  “IMPEGNO d’AMORE” (“Amoris officium”)

(S. Agostino, Commento a Giovanni, 123,5)

4. Quand’ebbero fatto colazione, Gesù dice a Simon Pietro: Simone di Giovanni, mi ami più di questi? Gli risponde: Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene. Gli dice: Pasci i miei agnelli. Gli dice di nuovo: Simone di Giovanni, mi ami tu? Gli risponde: Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene. Gli dice: Pasci i miei agnelli. Gli dice per la terza volta: Simone figlio di Giovanni, mi vuoi bene? Pietro si rattristò che per la terza volta Gesù gli dicesse: Mi vuoi bene? E rispose: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene. Gesù gli disse: Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi da te stesso, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vorresti. E questo gli disse indicando la morte con la quale avrebbe glorificato Dio (Gv 21, 15-19).

Così chiuse la vita terrena l’apostolo che lo aveva rinnegato e lo amava. La presunzione lo aveva innalzato, il rinnegamento lo aveva umiliato, le lacrime lo avevano purificato; superò la prova della confessione, ottenne la corona del martirio. E così ottenne, nel suo perfetto amore, di poter morire per il nome del Signore, insieme al quale, con disordinata impazienza, si era ripromesso di morire. Sostenuto dalla risurrezione del Signore, egli farà quanto nella sua debolezza aveva prematuramente promesso. Bisognava infatti che prima Cristo morisse per la salvezza di Pietro, perché Pietro a sua volta potesse morire per la predicazione di Cristo. Del tutto intempestivo fu quanto aveva intrapreso l’umana presunzione, dato che questo ordine era stato stabilito dalla stessa verità. Pietro credeva di poter dare la sua vita per Cristo (cf. Gv 13, 37): colui che doveva essere liberato sperava di poter dare la sua vita per il suo liberatore, mentre Cristo era venuto per dare la sua vita per tutti i suoi, tra i quali era anche Pietro. Ed ecco che questo è avvenuto. Ora ci è consentito di affrontare per il nome del Signore anche la morte con fermezza d’animo, con quella vera che egli stesso dona, non con quella falsa che nasce dalla nostra vana presunzione. Noi non dobbiamo più temere la perdita di questa vita, dal momento che il Signore, risorgendo, ci ha offerto in se stesso la prova dell’altra vita. Ora è il momento, Pietro, in cui non devi temere più la morte, perché è vivo colui del quale piangevi la morte, colui al quale, nel tuo amore istintivo, volevi impedire di morire per noi (cf. Mt 16, 21-22). Tu hai preteso di precedere il condottiero, e hai avuto paura del suo persecutore; ora che egli ha pagato il prezzo per te, è il momento in cui puoi seguire il redentore, e seguirlo senza riserva fino alla morte di croce. Hai udito la parola di colui che ormai hai riconosciuto verace; predisse che lo avresti rinnegato, ora predice la tua passione.

5. Ma prima il Signore domanda a Pietro ciò che già sapeva. Domanda, non una sola volta, ma una seconda e una terza, se Pietro gli vuol bene; e altrettante volte niente altro gli affida che il compito di pascere le sue pecore. Così alla sua triplice negazione corrisponde la triplice confessione d’amore, in modo che la sua lingua non abbia a servire all’amore meno di quanto ha servito al timore, e in modo che la testimonianza della sua voce non sia meno esplicita di fronte alla vita, di quanto lo fu di fronte alla minaccia della morte. Sia dunque impegno di amore pascere il gregge del Signore, come fu indice di timore negare il pastore. Coloro che pascono le pecore di Cristo con l’intenzione di volerle legare a sé, non a Cristo, dimostrano di amare se stessi, non Cristo, spinti come sono dalla cupidigia di gloria o di potere o di guadagno, non dalla carità che ispira l’obbedienza, il desiderio di aiutare e di piacere a Dio. Contro costoro, ai quali l’Apostolo rimprovera, gemendo, di cercare i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo (cf. Fil 2, 21), si leva forte e insistente la voce di Cristo. Che altro è dire: Mi ami tu? Pasci le mie pecore, se non dire: Se mi ami, non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua; il mio dominio, non il tuo; il mio guadagno e non il tuo; se non vuoi essere del numero di coloro che appartengono ai tempi difficili, i quali sono amanti di se stessi, con tutto quel che deriva da questa sorgente d’ogni male. L’Apostolo infatti, dopo aver detto: Vi saranno uomini amanti di se stessi, così prosegue: saranno amanti del denaro, vanagloriosi, arroganti, bestemmiatori, disobbedienti ai genitori, ingrati, scellerati, empi, senz’amore, calunniatori, incontinenti, spietati, non amanti del bene, traditori, protervi, accecati dai fumi dell’orgoglio, amanti del piacere più che di Dio; gente che ha l’apparenza di pietà, ma che ne ha rinnegato la forza (2 Tim 3, 1-5). Tutti questi mali derivano, come da loro fonte, da quello che per primo l’Apostolo ha citato: saranno amanti di se stessi. Giustamente il Signore chiede a Pietro: Mi ami tu?, e alla sua risposta: Certo che ti amo, egli replica: Pasci i miei agnelli; e questo, una seconda e una terza volta. Dove anche si dimostra che amare [diligere] è lo stesso che voler bene [amare]; l’ultima volta, infatti, il Signore non dice: Mi ami?, ma: Mi vuoi bene? Non amiamo dunque noi stessi, ma il Signore, e nel pascere le sue, pecore, non cerchiamo i nostri interessi, ma i suoi. Non so in quale inesplicabile modo avvenga che chi ama se stesso e non Dio, non ama se stesso, mentre chi ama Dio e non se stesso, questi ama se stesso. Poiché chi non può vivere di se stesso, non può non morire amando se stesso: non ama dunque se stesso, chi si ama in modo da non vivere. Quando invece si ama colui da cui si ha la vita, non amando se stesso uno si ama di più, appunto perché invece di amare se stesso ama colui dal quale attinge la vita. Non siano dunque amanti di se stessi coloro che pascono le pecore di Cristo, per non pascerle come proprie, ma come di Cristo. E non cerchino di trarre profitto da esse, come fanno gli amanti del denaro; né di dominarle come i vanagloriosi o vantarsi degli onori che da esse possono ottenere, come gli arroganti; né come i bestemmiatori presumere di sé al punto da creare eresie; né, come i disobbedienti ai genitori, siano indocili ai santi padri; né, come gli ingrati, rendano male per bene a quanti vogliono correggerli per salvarli; né, come gli scellerati, uccidano l’anima propria e quella degli altri; né come gli empi, strazino le viscere materne della Chiesa; né, come i disamorati, disprezzino i deboli; né, come i calunniatori, attentino alla fama dei fratelli; né, come gli incontinenti, si dimostrino incapaci di tenere a freno le loro perverse passioni; né, come gli spietati, siano portati a litigare; né, come chi è senza benignità, si dimostrino incapaci a soccorrere; né, come fanno i traditori, rivelino agli empi ciò che si deve tenere segreto; né, come i procaci, turbino il pudore con invereconde esibizioni; né, come chi è accecato dai fumi dell’orgoglio, si rendano incapaci d’intendere quanto dicono e sostengono (cf. 1 Tim 1, 7); né, come gli amanti del piacere più che di Dio, antepongano i piaceri della carne alle gioie dello spirito. Tutti questi e altri simili vizi, sia che si trovino riuniti in uno stesso uomo, sia che si trovino sparsi qua e là, pullulano tutti dalla stessa radice, cioè dall’amore egoistico di sé. Il male che più d’ogni altro debbono evitare coloro che pascono le pecore di Cristo, è quello di cercare i propri interessi, invece di quelli di Gesù Cristo, asservendo alle proprie cupidigie coloro per i quali fu versato il sangue di Cristo. L’amore per Cristo deve, in colui che pasce le sue pecore, crescere e raggiungere tale ardore spirituale da fargli vincere quel naturale timore della morte a causa del quale non vogliamo morire anche quando vogliamo vivere con Cristo. Lo stesso Apostolo ci dice infatti che brama essere sciolto dal corpo per essere con Cristo (cf. Fil 1, 23). Egli geme sotto il peso del corpo, ma non vuol essere spogliato, ma piuttosto sopravvestito, affinché ciò che è mortale in lui sia assorbito dalla vita (cf. 2 Cor 5, 4). E il Signore a Pietro che lo amava predisse: quando sarai vecchio stenderai le tue mani, e un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vorresti. E questo gli disse indicando la morte con la quale avrebbe glorificato Dio. Stenderai le tue mani, dice il Signore, cioè sarai crocifisso; ma per giungervi un altro ti cingerà e ti porterà non dove tu vuoi, ma dove tu non vorresti. Prima predice il fatto, poi il modo. Non è dopo la crocifissione, ma quando lo portano alla croce che Pietro è condotto dove non vorrebbe; perché una volta crocifisso, non è più condotto dove non vorrebbe, ma al contrario, va dove desidera andare. Egli desiderava essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, ma, se fosse stato possibile, avrebbe voluto entrare nella vita eterna evitando le angosce della morte. E’ contro il suo volere che lo costringono a subire queste angosce, mentre è secondo il suo desiderio che ne viene liberato. Egli va alla morte con ripugnanza, e la vince secondo il suo desiderio, e si libera dal timore della morte, talmente naturale che neppure la vecchiaia vale a liberarne Pietro, tanto che di lui dice il Signore: Quando sarai vecchio, verrai portato dove tu non vorresti. Per nostra consolazione il Salvatore stesso volle provare in sé anche questo sentimento, dicendo: Padre, se è possibile passi da me questo calice (Mt 26, 39), lui che era venuto proprio per morire, e per il quale la morte non era una necessità, ma un atto della sua volontà, e in suo potere era dare la sua vita e riprenderla di nuovo. Ma per quanto grande sia l’orrore per la morte, deve essere vinto dalla forza dell’amore verso colui che, essendo la nostra vita, ha voluto sopportare per noi anche la morte. Del resto, se la morte non comportasse alcun orrore, non sarebbe grande, com’è, la gloria dei martiri. Se il buon pastore, che offrì la sua vita per le sue pecore (cf. Gv 10, 18 11), ha potuto suscitare per sé tanti martiri da queste medesime pecore, con quanto maggiore ardore devono lottare per la verità fino alla morte, e fino a versare il proprio sangue combattendo contro il peccato, coloro ai quali il Signore affidò le sue pecore da pascere, cioè da formare e da guidare? E, di fronte all’esempio della sua passione, chi non vede che i pastori debbono stringersi maggiormente al Pastore e imitarlo, proprio perché già tante pecore hanno seguito l’esempio di lui, cioè dell’unico Pastore sotto il quale non c’è che un solo gregge, e nel quale anche i pastori sono pecore? Egli ha fatto sue pecore tutti coloro per i quali accettò di patire, e al fine di patire per tutti si è fatto egli stesso pecora.

(S. Agostino, Commento a Giovanni, 123,5)

Publié dans:Padri della Chiesa e Dottori |on 22 avril, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno 7598

Lablab purpureus, Dolichos lablab

http://toptropicals.com/html/toptropicals/catalog/photo_db/L.htm

Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 22 avril, 2010 |Pas de commentaires »

San Pier Damiani : « Questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100422

Giovedì della III settimana di Pasqua : Jn 6,44-51
Meditazione del giorno
San Pier Damiani (1007-1072), eremita poi vescovo, dottore della Chiesa
Discorsi, 45 ; PL 144,743 et 747

« Questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia »

        La Vergine Maria ha dato alla luce Gesù Cristo, l’ha riscaldato nelle sue braccia, l’ha avvolto in fasce e l’ha circondato di cure materne. È proprio lo stesso Gesù di cui riceviamo ora il corpo e beviamo il sangue redentore nel sacramento dell’altare. Questo ritiene vero la fede cattolica, questo insegna fedelmente la Chiesa.

        Nessuna lingua umana potrà mai glorificare abbastanza colei dalla quale ha preso carne, lo sappiamo, « il mediatore fra Dio e gli uomini » (1 Tm 2,5). Nessun omaggio umano è all’altezza di colei il cui grembo purissimo ha dato il frutto che è il cibo delle nostre anime : colui, in altri termini, che rende testimonianza a se stesso con le parole : « Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno ». Infatti, noi che eravamo stati cacciati dal paradiso di delizie a causa di un cibo, per mezzo di un cibo ritroviamo le gioie del paradiso. Eva ha preso un cibo, e siamo stati condannati a un digiuno eterno ; Maria ha dato un cibo, e la porta del banchetto del cielo ci è stata aperta.

Je crois en Dieu…Io credo in Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra.

Je crois en Dieu...Io credo in Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra. dans immagini sacre 01

Je crois en Dieu, le Père Tout-Puissant, Créateur du ciel et de la terre.
 
 Regardez les oiseaux du ciel : ils ne font ni semailles ni moisson, ils ne font pas de réserves dans des greniers, et votre Père céleste les nourrit. Ne valez-vous pas beaucoup plus qu’eux ? D’ailleurs, qui d’entre vous, à force de souci, peut prolonger tant soit peu son existence ? Et au sujet des vêtements, pourquoi se faire tant de souci ? Observez comment poussent les lis des champs : ils ne travaillent pas , ils ne filent pas. Si Dieu habille ainsi l’herbe des champs, qui est là aujourd’hui, et qui demain sera jetée au feu, ne fera-t-il pas bien davantage pour vous, hommes de peu de foi ? (Mt 6,26-28.30)

http://www.evangile-et-peinture.org/static/vernissage_10_2003/index.htm

L’umiltà, una virtù sospetta

 dal sito:

http://oratoriotirano.wordpress.com/ritagli-dello-spirito/

L’umiltà, una virtù sospetta

Enzo Bianchi

L’umiltà è una virtù sospetta. Questa parola ci giunge carica del peso di un’eredità che l’ha resa virtù individuale, meta della ricerca di autoperfezionamento del singolo. Inoltre essa appare sinonimo di auto annientamento della creatura di fronte al Dio che è tutto e di diminuzione di sé di fronte agli altri, ciò che oggi è sentito come atteggiamento non più adeguato al Dio che non schiaccia l’umano, ma lo assume e lo valorizza. A volte, poi, sembra riferirsi a un atteggiamento posticcio, un mostrarsi da meno di quel che si è e si vale, Gli psicologi vi preferiscono certamente il vocabolo «autenticità»(tutto sommato non distante dal significato del termine antico humilitas). Nietzsche colloca l’umiltà nell’alveo della ricerca religiosa di consolazione della propria impotenza. Ma l’umiltà non è solo sospetta, forse è anche pericolosa. È pericoloso predicare l’umiltà e fame una legge, perché occorre valutare la ricezione che di essa possono avere le diverse persone. Probabilmente essa rischierebbe di non scalfire mai chi ha un «super io» e di trovare una non equilibrata accoglienza in chi si nutre di un «io minimo».

Ma soprattutto ci dobbiamo chiedere: che cos’è l’umiltà? Le molteplici definizioni che la tradizione cristiana ne ha dato ci orientano a coglierne il carattere relativo: relativo cioè alla diversità delle persone e delle libertà personali. La stessa definizione più attestata, e che meglio coglie il suo carattere proprio, la vede non tanto come una virtù, ma come il fondamento e la possibilità di tutte le altre virtù. «L’umiltà è la madre, la radice, la nutrice, il fondamento, il legame di tutte le altre virtù», dice Giovanni Crisostomo, e in questo senso si comprende che Agostino possa vedere «in essa sola, l’intera disciplina cristiana» (Sermo 351,3,4). Occorre pertanto sottrarre l’umiltà alla soggettività e al devozionalismo e ricordare che essa nasce dal Cristo che è il magister humilitatis (maestro dell’umiltà), come lo chiama Agostino. Ma Cristo è maestro di umiltà in quanto «ci insegna a vivere» (Tito 2,12) guidandoci a una realistica conoscenza di noi stessi. Ecco, l’umiltà è la coraggiosa conoscenza di sé davanti a Dio e davanti al Dio che ha manifestato la sua umiltà nell’ abbassamento del Figlio, nella kénosi fino alla morte di croce. Ma in quanto autentica conoscenza di sé, l’umiltà è una ferita portata al proprio narcisismo, perché ci riconduce a ciò che siamo in realtà, al nostro humus, alla nostra creaturalità, e così ci guida nel cammino della nostra umanizzazione, del nostro divenire homo. Ecco l’humilitas: «O uomo, riconosci di essere uomo; tutta la tua umiltà consista nel conoscerti» (Agostino) .

Imparata da colui che è «mite e umile di cuore» (Matteo 11,29), l’umiltà fa dell’uomo il terreno su cui la grazia può sviluppare la sua fecondità. Poiché l’uomo conosce la propria creaturalità, i propri limiti creaturali, ma poi anche il proprio essere peccatore, e contemporaneamente sa di aver tutto ricevuto da Dio e di essere amato anche nella propria limitatezza e negatività, l’umiltà diviene in lui volontà di sottomissione a Dio e ai fratelli nell’ amore e nella gratitudine. Sì, l’umiltà è relativa all’amore, alla carità. «Là dov’è l’umiltà, là è anche la carità» afferma Agostino, e un filosofo contemporaneo gli fa eco: «L’umiltà dispone e apre alla grazia, ma non l’umiltà è questa grazia, bensì solo la carità» (V. Jankélévitch). In questo senso essa è anche elemento essenziale alla vita in comune, e non a caso nel Nuovo Testamento risuona costantemente l’invito dell’ apostolo ai membri delle sue comunità a «rivestirsi di umiltà nei rapporti reciproci» (I Pietro 5,5; Colossesi 3,12), a «stimare gli altri, con tutta umiltà, superiori a se stessi» (Filippesi 2,3), a «non cercare cose alte, ma piegarsi a quelle umili» (Romani 12,16): solo così può avvenire l’edificazione comunitaria, che è sempre condivisione delle debolezze e delle povertà di ciascuno. Solo così viene combattuto e sconfitto l’orgoglio, che è «il grande peccato» (Salmo 19,14), o forse, meglio, il grande accecamento che impedisce di vedere in verità se stessi, gli altri e Dio. Più che sforzo di auto diminuzione, l’umiltà èallora evento che sgorga dall’incontro fra il Dio manifestato in Cristo e una precisa creatura. Nella fede, l’umiltà di Dio svelata da Cristo (cfr. Filippesi 2,8: «umiliò se stesso») diviene umiltà dell’uomo.
Certo, perché nasca la vera umiltà, perché l’umiltà sia anche, verità, perché si giunga ad aderire alla realtà obbedendo con riconoscenza a Dio, spesso occorre l’esperienza dell’umiliazione. Per noi umiliarci, in libertà e per amore, è operazione difficile, e compierla in modo puro è quasi impossibile: c’è infatti un’umiltà che è un pretesto per una vanagloria raddoppiata… Per questo l’umiltà non è tanto una virtù da acquistare, quanto un abbassamento da subire; dunque l’umiltà è anzitutto umiliazione. Umiliazione che viene dagli altri, soprattutto i più vicini a noi, umiliazione che viene dalla vita che ci contraddice e ci sconfigge, umiliazione che viene da Dio che con la sua grazia è capace di umiliarci e di innalzarci come nessun altro può farlo. Più che mai l’umiliazione è luogo per conoscere se stessi in verità e imparare l’obbedienza, come Cristo «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Ebrei 5,8), e tra queste «l’infamia e la vergogna» (cfr. Ebrei 12,2; 13,13). L’umiliazione è l’evento in cui si va a fondo del proprio abisso frantumando il cuore (cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies, Salmo 51,19). Allora, grazie a questa esperienza, si possono ripetere con verità le parole del Salmista: «Bene per me essere stato umiliato, ho imparato i tuoi comandamenti» (Salmo 119,71).

L’umiltà, una virtù sospetta

Enzo Bianchi

L’umiltà è una virtù sospetta. Questa parola ci giunge carica del peso di un’eredità che l’ha resa virtù individuale, meta della ricerca di autoperfezionamento del singolo. Inoltre essa appare sinonimo di auto annientamento della creatura di fronte al Dio che è tutto e di diminuzione di sé di fronte agli altri, ciò che oggi è sentito come atteggiamento non più adeguato al Dio che non schiaccia l’umano, ma lo assume e lo valorizza. A volte, poi, sembra riferirsi a un atteggiamento posticcio, un mostrarsi da meno di quel che si è e si vale, Gli psicologi vi preferiscono certamente il vocabolo «autenticità»(tutto sommato non distante dal significato del termine antico humilitas). Nietzsche colloca l’umiltà nell’alveo della ricerca religiosa di consolazione della propria impotenza. Ma l’umiltà non è solo sospetta, forse è anche pericolosa. È pericoloso predicare l’umiltà e fame una legge, perché occorre valutare la ricezione che di essa possono avere le diverse persone. Probabilmente essa rischierebbe di non scalfire mai chi ha un «super io» e di trovare una non equilibrata accoglienza in chi si nutre di un «io minimo».

Ma soprattutto ci dobbiamo chiedere: che cos’è l’umiltà? Le molteplici definizioni che la tradizione cristiana ne ha dato ci orientano a coglierne il carattere relativo: relativo cioè alla diversità delle persone e delle libertà personali. La stessa definizione più attestata, e che meglio coglie il suo carattere proprio, la vede non tanto come una virtù, ma come il fondamento e la possibilità di tutte le altre virtù. «L’umiltà è la madre, la radice, la nutrice, il fondamento, il legame di tutte le altre virtù», dice Giovanni Crisostomo, e in questo senso si comprende che Agostino possa vedere «in essa sola, l’intera disciplina cristiana» (Sermo 351,3,4). Occorre pertanto sottrarre l’umiltà alla soggettività e al devozionalismo e ricordare che essa nasce dal Cristo che è il magister humilitatis (maestro dell’umiltà), come lo chiama Agostino. Ma Cristo è maestro di umiltà in quanto «ci insegna a vivere» (Tito 2,12) guidandoci a una realistica conoscenza di noi stessi. Ecco, l’umiltà è la coraggiosa conoscenza di sé davanti a Dio e davanti al Dio che ha manifestato la sua umiltà nell’ abbassamento del Figlio, nella kénosi fino alla morte di croce. Ma in quanto autentica conoscenza di sé, l’umiltà è una ferita portata al proprio narcisismo, perché ci riconduce a ciò che siamo in realtà, al nostro humus, alla nostra creaturalità, e così ci guida nel cammino della nostra umanizzazione, del nostro divenire homo. Ecco l’humilitas: «O uomo, riconosci di essere uomo; tutta la tua umiltà consista nel conoscerti» (Agostino) .

Imparata da colui che è «mite e umile di cuore» (Matteo 11,29), l’umiltà fa dell’uomo il terreno su cui la grazia può sviluppare la sua fecondità. Poiché l’uomo conosce la propria creaturalità, i propri limiti creaturali, ma poi anche il proprio essere peccatore, e contemporaneamente sa di aver tutto ricevuto da Dio e di essere amato anche nella propria limitatezza e negatività, l’umiltà diviene in lui volontà di sottomissione a Dio e ai fratelli nell’ amore e nella gratitudine. Sì, l’umiltà è relativa all’amore, alla carità. «Là dov’è l’umiltà, là è anche la carità» afferma Agostino, e un filosofo contemporaneo gli fa eco: «L’umiltà dispone e apre alla grazia, ma non l’umiltà è questa grazia, bensì solo la carità» (V. Jankélévitch). In questo senso essa è anche elemento essenziale alla vita in comune, e non a caso nel Nuovo Testamento risuona costantemente l’invito dell’ apostolo ai membri delle sue comunità a «rivestirsi di umiltà nei rapporti reciproci» (I Pietro 5,5; Colossesi 3,12), a «stimare gli altri, con tutta umiltà, superiori a se stessi» (Filippesi 2,3), a «non cercare cose alte, ma piegarsi a quelle umili» (Romani 12,16): solo così può avvenire l’edificazione comunitaria, che è sempre condivisione delle debolezze e delle povertà di ciascuno. Solo così viene combattuto e sconfitto l’orgoglio, che è «il grande peccato» (Salmo 19,14), o forse, meglio, il grande accecamento che impedisce di vedere in verità se stessi, gli altri e Dio. Più che sforzo di auto diminuzione, l’umiltà èallora evento che sgorga dall’incontro fra il Dio manifestato in Cristo e una precisa creatura. Nella fede, l’umiltà di Dio svelata da Cristo (cfr. Filippesi 2,8: «umiliò se stesso») diviene umiltà dell’uomo.
Certo, perché nasca la vera umiltà, perché l’umiltà sia anche, verità, perché si giunga ad aderire alla realtà obbedendo con riconoscenza a Dio, spesso occorre l’esperienza dell’umiliazione. Per noi umiliarci, in libertà e per amore, è operazione difficile, e compierla in modo puro è quasi impossibile: c’è infatti un’umiltà che è un pretesto per una vanagloria raddoppiata… Per questo l’umiltà non è tanto una virtù da acquistare, quanto un abbassamento da subire; dunque l’umiltà è anzitutto umiliazione. Umiliazione che viene dagli altri, soprattutto i più vicini a noi, umiliazione che viene dalla vita che ci contraddice e ci sconfigge, umiliazione che viene da Dio che con la sua grazia è capace di umiliarci e di innalzarci come nessun altro può farlo. Più che mai l’umiliazione è luogo per conoscere se stessi in verità e imparare l’obbedienza, come Cristo «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Ebrei 5,8), e tra queste «l’infamia e la vergogna» (cfr. Ebrei 12,2; 13,13). L’umiliazione è l’evento in cui si va a fondo del proprio abisso frantumando il cuore (cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies, Salmo 51,19). Allora, grazie a questa esperienza, si possono ripetere con verità le parole del Salmista: «Bene per me essere stato umiliato, ho imparato i tuoi comandamenti» (Salmo 119,71).

L’umiltà, una virtù sospetta

Enzo Bianchi

L’umiltà è una virtù sospetta. Questa parola ci giunge carica del peso di un’eredità che l’ha resa virtù individuale, meta della ricerca di autoperfezionamento del singolo. Inoltre essa appare sinonimo di auto annientamento della creatura di fronte al Dio che è tutto e di diminuzione di sé di fronte agli altri, ciò che oggi è sentito come atteggiamento non più adeguato al Dio che non schiaccia l’umano, ma lo assume e lo valorizza. A volte, poi, sembra riferirsi a un atteggiamento posticcio, un mostrarsi da meno di quel che si è e si vale, Gli psicologi vi preferiscono certamente il vocabolo «autenticità»(tutto sommato non distante dal significato del termine antico humilitas). Nietzsche colloca l’umiltà nell’alveo della ricerca religiosa di consolazione della propria impotenza. Ma l’umiltà non è solo sospetta, forse è anche pericolosa. È pericoloso predicare l’umiltà e fame una legge, perché occorre valutare la ricezione che di essa possono avere le diverse persone. Probabilmente essa rischierebbe di non scalfire mai chi ha un «super io» e di trovare una non equilibrata accoglienza in chi si nutre di un «io minimo».

Ma soprattutto ci dobbiamo chiedere: che cos’è l’umiltà? Le molteplici definizioni che la tradizione cristiana ne ha dato ci orientano a coglierne il carattere relativo: relativo cioè alla diversità delle persone e delle libertà personali. La stessa definizione più attestata, e che meglio coglie il suo carattere proprio, la vede non tanto come una virtù, ma come il fondamento e la possibilità di tutte le altre virtù. «L’umiltà è la madre, la radice, la nutrice, il fondamento, il legame di tutte le altre virtù», dice Giovanni Crisostomo, e in questo senso si comprende che Agostino possa vedere «in essa sola, l’intera disciplina cristiana» (Sermo 351,3,4). Occorre pertanto sottrarre l’umiltà alla soggettività e al devozionalismo e ricordare che essa nasce dal Cristo che è il magister humilitatis (maestro dell’umiltà), come lo chiama Agostino. Ma Cristo è maestro di umiltà in quanto «ci insegna a vivere» (Tito 2,12) guidandoci a una realistica conoscenza di noi stessi. Ecco, l’umiltà è la coraggiosa conoscenza di sé davanti a Dio e davanti al Dio che ha manifestato la sua umiltà nell’ abbassamento del Figlio, nella kénosi fino alla morte di croce. Ma in quanto autentica conoscenza di sé, l’umiltà è una ferita portata al proprio narcisismo, perché ci riconduce a ciò che siamo in realtà, al nostro humus, alla nostra creaturalità, e così ci guida nel cammino della nostra umanizzazione, del nostro divenire homo. Ecco l’humilitas: «O uomo, riconosci di essere uomo; tutta la tua umiltà consista nel conoscerti» (Agostino) .

Imparata da colui che è «mite e umile di cuore» (Matteo 11,29), l’umiltà fa dell’uomo il terreno su cui la grazia può sviluppare la sua fecondità. Poiché l’uomo conosce la propria creaturalità, i propri limiti creaturali, ma poi anche il proprio essere peccatore, e contemporaneamente sa di aver tutto ricevuto da Dio e di essere amato anche nella propria limitatezza e negatività, l’umiltà diviene in lui volontà di sottomissione a Dio e ai fratelli nell’ amore e nella gratitudine. Sì, l’umiltà è relativa all’amore, alla carità. «Là dov’è l’umiltà, là è anche la carità» afferma Agostino, e un filosofo contemporaneo gli fa eco: «L’umiltà dispone e apre alla grazia, ma non l’umiltà è questa grazia, bensì solo la carità» (V. Jankélévitch). In questo senso essa è anche elemento essenziale alla vita in comune, e non a caso nel Nuovo Testamento risuona costantemente l’invito dell’ apostolo ai membri delle sue comunità a «rivestirsi di umiltà nei rapporti reciproci» (I Pietro 5,5; Colossesi 3,12), a «stimare gli altri, con tutta umiltà, superiori a se stessi» (Filippesi 2,3), a «non cercare cose alte, ma piegarsi a quelle umili» (Romani 12,16): solo così può avvenire l’edificazione comunitaria, che è sempre condivisione delle debolezze e delle povertà di ciascuno. Solo così viene combattuto e sconfitto l’orgoglio, che è «il grande peccato» (Salmo 19,14), o forse, meglio, il grande accecamento che impedisce di vedere in verità se stessi, gli altri e Dio. Più che sforzo di auto diminuzione, l’umiltà èallora evento che sgorga dall’incontro fra il Dio manifestato in Cristo e una precisa creatura. Nella fede, l’umiltà di Dio svelata da Cristo (cfr. Filippesi 2,8: «umiliò se stesso») diviene umiltà dell’uomo.
Certo, perché nasca la vera umiltà, perché l’umiltà sia anche, verità, perché si giunga ad aderire alla realtà obbedendo con riconoscenza a Dio, spesso occorre l’esperienza dell’umiliazione. Per noi umiliarci, in libertà e per amore, è operazione difficile, e compierla in modo puro è quasi impossibile: c’è infatti un’umiltà che è un pretesto per una vanagloria raddoppiata… Per questo l’umiltà non è tanto una virtù da acquistare, quanto un abbassamento da subire; dunque l’umiltà è anzitutto umiliazione. Umiliazione che viene dagli altri, soprattutto i più vicini a noi, umiliazione che viene dalla vita che ci contraddice e ci sconfigge, umiliazione che viene da Dio che con la sua grazia è capace di umiliarci e di innalzarci come nessun altro può farlo. Più che mai l’umiliazione è luogo per conoscere se stessi in verità e imparare l’obbedienza, come Cristo «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Ebrei 5,8), e tra queste «l’infamia e la vergogna» (cfr. Ebrei 12,2; 13,13). L’umiliazione è l’evento in cui si va a fondo del proprio abisso frantumando il cuore (cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies, Salmo 51,19). Allora, grazie a questa esperienza, si possono ripetere con verità le parole del Salmista: «Bene per me essere stato umiliato, ho imparato i tuoi comandamenti» (Salmo 119,71).

Publié dans:meditazioni |on 21 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Papa Benedetto: Come san Paolo, sono stato accolto con calore dai maltesi

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22152?l=italian

Come san Paolo, sono stato accolto con calore dai maltesi

Catechesi di Benedetto XVI per l’Udienza generale del mercoledì

ROMA, mercoledì, 21 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sul suo recente Viaggio Apostolico a Malta in occasione del 1950° anniversario del naufragio di San Paolo sull’isola.

* * *

Cari fratelli e sorelle!

Come sapete, sabato e domenica scorsi ho compiuto un viaggio apostolico a Malta, sul quale oggi vorrei brevemente soffermarmi. Occasione della mia visita pastorale è stato il 1950° anniversario del naufragio dell’apostolo Paolo sulle coste dell’arcipelago maltese e della sua permanenza in quelle isole per circa tre mesi. E’ un avvenimento collocabile attorno all’anno 60 e raccontato con abbondanza di particolari nel libro degli Atti degli Apostoli (capp. 27-28). Come accadde a san Paolo, anch’io ho sperimentato la calorosa accoglienza dei Maltesi – davvero straordinaria – e per questo esprimo nuovamente la mia più viva e cordiale riconoscenza al Presidente della Repubblica, al Governo e alle altre Autorità dello Stato, e ringrazio fraternamente i Vescovi del Paese, con tutti coloro che hanno collaborato a preparare questo festoso incontro tra il Successore di Pietro e la popolazione maltese. La storia di questo popolo da quasi duemila anni è inseparabile dalla fede cattolica, che caratterizza la sua cultura e le sue tradizioni: si dice che a Malta vi siano ben 365 chiese, « una per ogni giorno dell’anno », un segno visibile di questa profonda fede!

Tutto ebbe inizio con quel naufragio: dopo essere andata alla deriva per 14 giorni, spinta dai venti, la nave che trasportava a Roma l’apostolo Paolo e molte altre persone si incagliò in una secca dell’Isola di Malta. Per questo, dopo l’incontro molto cordiale con il Presidente della Repubblica, nella capitale La Valletta – che ha avuto la bella cornice del gioioso saluto di tanti ragazzi e ragazze – mi sono recato subito in pellegrinaggio alla cosiddetta « Grotta di San Paolo », presso Rabat, per un momento intenso di preghiera. Lì ho potuto salutare anche un folto gruppo di missionari maltesi. Pensare a quel piccolo arcipelago al centro del Mediterraneo, e a come vi giunse il seme del Vangelo, suscita un senso di grande stupore per i misteriosi disegni della Provvidenza divina: viene spontaneo ringraziare il Signore e anche san Paolo, che, in mezzo a quella violenta tempesta, mantenne la fiducia e la speranza e le trasmise anche ai compagni di viaggio. Da quel naufragio, o, meglio, dalla successiva permanenza di Paolo a Malta, nacque una comunità cristiana fervente e solida, che dopo duemila anni è ancora fedele al Vangelo e si sforza di coniugarlo con le complesse questioni dell’epoca contemporanea. Questo naturalmente non è sempre facile, né scontato, ma la gente maltese sa trovare nella visione cristiana della vita le risposte alle nuove sfide. Ne è un segno, ad esempio, il fatto di aver mantenuto saldo il profondo rispetto per la vita non ancora nata e per la sacralità del matrimonio, scegliendo di non introdurre l’aborto e il divorzio nell’ordinamento giuridico del Paese.

Pertanto, il mio viaggio aveva lo scopo di confermare nella fede la Chiesa che è in Malta, una realtà molto vivace, ben compaginata e presente sul territorio di Malta e Gozo. Tutta questa comunità si era data appuntamento a Floriana, nel Piazzale dei Granai, davanti alla Chiesa di San Publio, dove ho celebrato la Santa Messa partecipata con grande fervore. E’ stato per me motivo di gioia, ed anche di consolazione sentire il particolare calore di quel popolo che dà il senso di una grande famiglia, accomunata dalla fede e dalla visione cristiana della vita. Dopo la Celebrazione, ho voluto incontrare alcune persone vittime di abusi da parte di esponenti del Clero. Ho condiviso con loro la sofferenza e, con commozione, ho pregato con loro, assicurando l’azione della Chiesa.

Se Malta dà il senso di una grande famiglia, non bisogna pensare che, a causa della sua conformazione geografica, sia una società « isolata » dal mondo. Non è così, e lo si vede, ad esempio, dai contatti che Malta intrattiene con vari Paesi e dal fatto che in molte Nazioni si trovano sacerdoti maltesi. Infatti, le famiglie e le parrocchie di Malta hanno saputo educare tanti giovani al senso di Dio e della Chiesa, così che molti di loro hanno risposto generosamente alla chiamata di Gesù e sono diventati presbiteri. Tra questi, numerosi hanno abbracciato l’impegno missionario ad gentes, in terre lontane, ereditando lo spirito apostolico che spingeva san Paolo a portare il Vangelo là dove ancora non era arrivato. E’ questo un aspetto che volentieri ho ribadito, che cioè « la fede si rafforza quando viene offerta agli altri » (Enc. Redemptoris missio, 2). Sul ceppo di questa fede, Malta si è sviluppata ed ora si apre a varie realtà economiche, sociali e culturali, alle quali offre un apporto prezioso.

E’ chiaro che Malta ha dovuto spesso difendersi nel corso dei secoli – e lo si vede dalle sue fortificazioni. La posizione strategica del piccolo arcipelago attirava ovviamente l’attenzione delle diverse potenze politiche e militari. E tuttavia, la vocazione più profonda di Malta è quella cristiana, vale a dire la vocazione universale della pace! La celebre croce di Malta, che tutti associano a quella Nazione, ha sventolato tante volte in mezzo a conflitti e contese; ma, grazie a Dio, non ha mai perso il suo significato autentico e perenne: è il segno dell’amore e della riconciliazione, e questa è la vera vocazione dei popoli che accolgono e abbracciano il messaggio cristiano!

Crocevia naturale, Malta è al centro di rotte di migrazione: uomini e donne, come un tempo san Paolo, approdano sulle coste maltesi, talvolta spinti da condizioni di vita assai ardue, da violenze e persecuzioni, e ciò comporta, naturalmente, problemi complessi sul piano umanitario, politico e giuridico, problemi che hanno soluzioni non facili, ma da ricercare con perseveranza e tenacia, concertando gli interventi a livello internazionale. Così è bene che si faccia in tutte le Nazioni che hanno i valori cristiani nelle radici delle loro Carte Costituzionali e delle loro culture.

La sfida di coniugare nella complessità dell’oggi la perenne validità del Vangelo è affascinante per tutti, ma specialmente per i giovani. Le nuove generazioni infatti la avvertono in modo più forte, e per questo ho voluto che anche a Malta, malgrado la brevità della mia visita, non mancasse l’incontro con i giovani. E’ stato un momento di profondo e intenso dialogo, reso ancora più bello dall’ambiente in cui si è svolto – il porto di Valletta – e dall’entusiasmo dei giovani. A loro non potevo non ricordare l’esperienza giovanile di san Paolo: un’esperienza straordinaria, unica, eppure capace di parlare alle nuove generazioni di ogni epoca, per quella radicale trasformazione seguita all’incontro con Cristo Risorto. Ho guardato dunque ai giovani di Malta come a dei potenziali eredi dell’avventura spirituale di san Paolo, chiamati come lui a scoprire la bellezza dell’amore di Dio donatoci in Gesù Cristo; ad abbracciare il mistero della sua Croce; ad essere vincitori proprio nelle prove e nelle tribolazioni, a non avere paura delle « tempeste » della vita, e nemmeno dei naufragi, perché il disegno d’amore di Dio è più grande anche delle tempeste e dei naufragi.

Cari amici, questo, in sintesi, è stato il messaggio che ho portato a Malta. Ma, come accennavo, è stato tanto ciò che io stesso ho ricevuto da quella Chiesa, da quel popolo benedetto da Dio, che ha saputo collaborare validamente con la sua grazia. Per intercessione dell’apostolo Paolo, di san Giorgio Preca, sacerdote, primo santo maltese, e della Vergine Maria, che i fedeli di Malta e Gozo venerano con tanta devozione, possa sempre progredire nella pace e nella prosperità.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i parroci e gli altri sacerdoti della diocesi di Roma, accompagnati dal Cardinale Agostino Vallini e dai Vescovi Ausiliari, qui convenuti di ritorno dal pellegrinaggio ad Ars, promosso in occasione dell’Anno Sacerdotale. Cari sacerdoti romani, vi ringrazio della vostra presenza, segno di affetto e di vicinanza spirituale. Colgo questa opportunità per esprimere la mia stima e la mia viva riconoscenza a voi e ai sacerdoti che in tutto il mondo si dedicano con zelo apostolico al servizio del popolo di Dio, testimoniando la carità di Cristo. Sull’esempio di san Giovanni Maria Vianney, siate pastori pazienti e solleciti del bene delle anime. Saluto le postulanti e le novizie partecipanti all’incontro promosso dall’USMI ed auguro che cresca in ciascuna il desiderio di servire con gioia Gesù e il Vangelo.

Saluto i tanti studenti di ogni ordine e grado, che ringrazio per la loro così numerosa partecipazione, con un pensiero particolare per l’Istituto « Nazareth » di Roma, e li incoraggio a perseverare nel generoso impegno di testimonianza cristiana nel mondo della scuola. Uno speciale pensiero va, infine, agli altri giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Domenica prossima, quarta del tempo di Pasqua, si celebra la Giornata di preghiera per le vocazioni. Auguro a voi, cari giovani, di trovare nel dialogo con Dio la vostra personale risposta al suo disegno di amore; invito voi, cari malati, ad offrire le vostre sofferenze perché maturino numerose e sante vocazioni. E voi, cari sposi novelli, attingete dalla preghiera quotidiana la forza per costruire un’autentica famiglia cristiana.

buona notte

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http://www.morguefile.com/archive/browse/#/?display=135624

Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 21 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Beato Giovanni XXIII: « Chi viene a me non avrà più fame »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100421

Mercoledì della III settimana di Pasqua : Jn 6,35-40
Meditazione del giorno
Beato Giovanni XXIII (1881-1963), papa
OR 20/09/59

« Chi viene a me non avrà più fame »

        Il problema economico costituisce l’incognita terribile della nostra epoca. Il problema del pane quotidiano, del benessere, è l’incertezza angosciosa che ci opprime in mezzo alle folle agitate ed insoddisfatte, ed a volte, purtroppo, affamate. È per noi un dovere unire i nostri sforzi, fare i sacrifici necessari secondo la dottrina cattolica nata dal Vangelo e le istruzioni chiare e solenni della Chiesa, per contribuire alla ricerca di una soluzione giusta per tutti. Ma invano ci sforzeremo di riempire di pane gli stomaci e di soddisfare gli altri desideri, a volte sfrenati, se non riusciremo a nutrire le anime col pane di vita, pane vero, sostanziale, divino ; a nutrirle cioè di Cristo, del quale hanno fame e per mezzo del quale soltanto, si potrà riprendere il cammino « fino al monte di Dio » (1 Re 19, 8).

        Invano chiederemo agli economisti e ai legislatori nuove forme di vita sociale, se sottraiamo agli occhi del popolo, il sorriso dolce e materno di Maria, le cui braccia sono aperte per accogliere tutti i suoi figli. Sul suo seno, la superbia si abbassa, i cuori si placano nella santa poesia della pace cristiana e dell’amore. Congiungiamo i nostri sforzi affinché non siano mai separati dal cuore dell’uomo ciò che Dio, nella dottrina cattolica e nella storia del mondo, ha così meravigliosamente unito : l’eucaristia e la Vergine.

21 aprile – Sant’Anselmo

21 aprile - Sant'Anselmo dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 20 avril, 2010 |Pas de commentaires »
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