ulivo secolare (domani vi raconto qualcosa sull’ulivo)

dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100427
Martedì della IV settimana di Pasqua : Jn 10,22-30
Meditazione del giorno
Beata Teresa di Calcutta (1910-1997), fondatrice delle Suore Missionarie della Carità
No Greater Love
« Le mie pecore ascoltano la mia voce »
Riterrai difficile pregare, se non sai come fare. Ognuno di noi deve aiutare se stesso a pregare: in primo luogo, ricorrendo al silenzio; non possiamo infatti metterci in presenza di Dio se non pratichiamo il silenzio, sia interiore che esteriore. Fare silenzio dentro di sè non è facile, eppure è uno sforzo indispensabile; solo nel silenzio troveremo una nuova potenza e una vera unità. La potenza di Dio diverrà nostra per compiere ogni cosa come conviene; lo stesso sarà riguardo all’unità dei nostri pensieri con i suoi pensieri, all’unità delle nostre preghiere con le sue preghiere, all’unità delle nostre azioni con le sue azioni, della nostra vita con la sua vita. L’unità è il frutto della preghiera, dell’umiltà, dell’amore.
Nel silenzio del cuore, Dio parla; se starai davanti a Dio nel silenzio e nella preghiera, Dio ti parlerà. E saprai allora che non sei nulla. Soltanto quando riconoscerai il tuo non essere, la tua vacuità, Dio potrà riempirti con se stesso. Le anime dei grandi oranti sono delle anime di grande silenzio.
Il silenzio ci fa vedere ogni cosa diversamente. Abbiamo bisogno del silenzio per toccare le anime degli altri. L’essenziale non è quello che diciamo, bensì quello che Dio dice – quello che dice a noi, quello che dice attraverso di noi. In un tale silenzio, egli ci ascolterà; in un tale silenzio, parlerà alla nostra anima, e udremo la sua voce.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100426
Lunedì della IV settimana di Pasqua : Jn 10,1-10
Meditazione del giorno
Teodoro di Mopsuestia ( ?-428), vescovo di Mopsuestia in Cilicia e teologo / Commento su Giovanni ; CSCO 115-116
« Chi entra per la porta, è il pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce »
Il guardiano di questo ovile, è il beato Mosè, che lo stabilì sui precetti della Legge per permettere a coloro che conducono la loro esistenza secondo queste norme di vivervi al sicuro. Il pastore… conduce gli uomini come delle pecore ai pascoli della retta dottrina, mostrando loro il cibo delle parole, quelle di cui devono nutrirsi prima, quelle di cui devono nutrirsi dopo. Mostra loro quale è il senso profondo di queste parole, come occorre capire le Scritture, e anche da quali dottrine ci si deve allontanare, dottrine che altri forse insegneranno per ingannarli, per la dispersione delle pecore…
«Ricerchiamo dunque, dice il Signore ai farisei, chi, di voi o di me, entra per la porta prescritta dalla Legge, chi compie con zelo i precetti della Legge, a chi Mosè, guardiano dell’ovile, apre veramente la porta, a chi concede lode e onore a motivo delle sue opere, chi viene dichiarato vero pastore. Se nel suo libro Mosè fa l’elogio di chi compie le precetti della Legge, certamente il compimento di questi precetti non si trova in voi bensì in me…
«Senza fare nulla di ciò che è utile alle pecore, ricercate solo il vostro vantaggio. Per questo motivo, non avete nessuna autorità per cacciare qualcuno… Io, a buon diritto e a giusto titolo, sono chiamato pastore, poiché prima ho osservato la Legge con cura; poi sono entrato per la porta prescritta dalla Legge, che mi è stata mostrata dal guardiano in persona; in fine ho compiuto con zelo quanto occorre fare per il bene delle pecore.»
dal sito:
http://www.santiebeati.it/dettaglio/20850
San Marco Evangelista
25 aprile
sec. I
Ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da famiglia benestante. San Pietro, che lo chiama «figlio mio», lo ebbe certamente con sè nei viaggi missionari in Oriente e a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. Oltre alla familiarità con san Pietro, Marco può vantare una lunga comunità di vita con l’apostolo Paolo, che incontrò nel 44, quando Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme la colletta della comunità di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sè il giovane nipote Marco, che più tardi si troverà al fianco di san Paolo a Roma. Nel 66 san Paolo ci dà l’ultima informazione su Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo: «Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi». L’evangelista probabilmente morì nel 68, di morte naturale, secondo una relazione, o secondo un’altra come martire, ad Alessandria d’Egitto. Gli Atti di Marco (IV secolo) riferiscono che il 24 aprile venne trascinato dai pagani per le vie di Alessandria legato con funi al collo. Gettato in carcere, il giorno dopo subì lo stesso atroce tormento e soccombette. Il suo corpo, dato alle fiamme, venne sottratto alla distruzione dai fedeli. Secondo una leggenda due mercanti veneziani avrebbero portato il corpo nell’828 nella città della Venezia. (Avvenire)
Patronato: Segretarie
Etimologia: Marco = nato in marzo, sacro a Marte, dal latino
Emblema: Leone
Martirologio Romano: Festa di san Marco, Evangelista, che a Gerusalemme dapprima accompagnò san Paolo nel suo apostolato, poi seguì i passi di san Pietro, che lo chiamò figlio; si tramanda che a Roma abbia raccolto nel Vangelo da lui scritto le catechesi dell’Apostolo e che abbia fondato la Chiesa di Alessandria.
La figura dell’evangelista Marco, è conosciuta soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di s. Pietro e s. Paolo; non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo, che secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l’arresto nell’orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo; i soldati cercarono di afferrarlo ed egli sfuggì nudo, lasciando il lenzuolo nelle loro mani.
Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l’annesso orto degli ulivi.
Nella grande sala della loro casa, fu consumata l’Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale “mio figlio”.
Discepolo degli Apostoli e martirio
Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò.
Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagnae del Tauro, Giovanni Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà e se ne tornò a Gerusalemme.
Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo.
Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi della figuraccia, volle seguirli di nuovo ad Antiochia; quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco.
In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro salutando i cristiani dell’Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò di seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio, l’apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di “Marco, il nipote di Barnaba” ai Colossesi; e a Timoteo chiese nella sua seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco “perché mi sarà utile per il ministero”.
Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch’egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro, senza elaborarla o adattarla a uno schema personale, cosicché il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza di un racconto popolare.
Affermatosi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo e segretario, ad evangelizzare l’Italia settentrionale; ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e dopo averlo lasciato, s’imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: “Pax tibi Marce evangelista meus” e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell’ultimo giorno.
Secondo un’antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d’Egitto, qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
Nella zona di Alessandria subì il martirio, sotto l’imperatore Traiano (53-117); fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante.
Dopo una notte in carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l’anno 72, secondo gli “Atti di Marco” all’età di 57 anni; ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.
Il Vangelo
Il Vangelo scritto da Marco, considerato dalla maggioranza degli studiosi come “lo stenografo” di Pietro, va posto cronologicamente tra quello di s. Matteo (scritto verso il 40) e quello di s. Luca (scritto verso il 62); esso fu scritto tra il 50 e il 60, nel periodo in cui Marco si trovava a Roma accanto a Pietro.
È stato così descritto: “Marco come fu collaboratore di Pietro nella predicazione del Vangelo, così ne fu pure l’interprete e il portavoce autorizzato nella stesura del medesimo e ci ha per mezzo di esso, trasmesso la catechesi del Principe degli Apostoli, tale quale egli la predicava ai primi cristiani, specialmente nella Chiesa di Roma”.
Il racconto evangelico di Marco, scritto con vivacità e scioltezza in ognuno dei sedici capitoli che lo compongono, seguono uno schema altrettanto semplice; la predicazione del Battista, il ministero di Gesù in Galilea, il cammino verso Gerusalemme e l’ingresso solenne nella città, la Passione, Morte e Resurrezione.
Tema del suo annunzio è la proclamazione di Gesù come Figlio di Dio, rivelato dal Padre, riconosciuto perfino dai demoni, rifiutato e contraddetto dalle folle, dai capi, dai discepoli. Momento culminante del suo Vangelo, è la professione del centurione romano pagano ai piedi di Gesù crocifisso: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”, è la piena definizione della realtà di Gesù e la meta cui deve giungere anche il discepolo.
Le vicende delle sue reliquie – Patrono di Venezia
La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud (680-689).
E in questo luogo nell’828, approdarono i due mercanti veneziani Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s’impadronirono delle reliquie dell’Evangelista minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l’arenarsi su una secca.
Le reliquie furono accolte con grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello; e riposte provvisoriamente in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro di San Marco.
Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata a termine nell’832 dal fratello Giovanni suo successore; Dante nel suo memorabile poema scrisse. “Cielo e mare vi posero mano”, ed effettivamente la Basilica di San Marco è un prodigio di marmi e d’oro al confine dell’arte.
Ma la splendida Basilica ebbe pure i suoi guai, essa andò distrutta una prima volta da un incendio nel 976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976) che lì si era rifugiato insieme al figlio; in quell’occasione fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale.
Nel 976-978, il doge Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo che la Basilica; l’attuale ‘Terza San Marco’ fu iniziata invece nel 1063, per volontà del doge Domenico I Contarini e completata nei mosaici e marmi dal doge suo successore, Domenico Selvo (1071-1084).
La Basilica fu consacrata nel 1094, quando era doge Vitale Falier; ma già nel 1071 s. Marco fu scelto come titolare della Basilica e Patrono principale della Serenissima, al posto di s. Teodoro, che fino all’XI secolo era il patrono e l’unico santo militare venerato dappertutto.
Le due colonne monolitiche poste tra il molo e la piazzetta, portano sulla sommità rispettivamente l’alato Leone di S. Marco e il santo guerriero Teodoro, che uccide un drago simile ad un coccodrillo.
La cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell’Evangelista, delle quali non si conosceva più l’ubicazione.
Dopo la Messa celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di un pilastro della navata destra, a lato dell’ambone e comparve la cassetta contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per la Basilica.
Venezia restò indissolubilmente legata al suo Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia un libro con la già citata scritta: “Pax tibi Marce evangelista meus”, divenne lo stemma della Serenissima, che per secoli fu posto in ogni angolo della città ed elevato in ogni luogo dove portò il suo dominio.
San Marco è patrono dei notai, degli scrivani, dei vetrai, dei pittori su vetro, degli ottici; la sua festa è il 25 aprile, data che ha fatto fiorire una quantità di detti e proverbi.
Autore: Antonio Borrelli
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100425
IV Domenica di Pasqua – Anno C : Jn 10,27-30
Meditazione del giorno
Basilio di Seleucia ( ?-circa 468), vescovo
Discorsi, 26, 2 ; PG 85, 299-308
« Io sono il buon pastore » (Gv 10,11)
Abele, il primo pastore provocò l’ammirazione del Signore che accolse volentieri il suo sacrificio e gradì il donatore più ancora del dono che egli gli stava facendo (Gen 4, 4). La Scrittura approva anche Giacobbe, pastore dei greggi di Laban, notando quanto egli si era preso cura di essi : « Di giorno mi divorava il caldo e di notte il gelo » (Gen 31, 40). E Dio ricompensò quell’uomo del suo lavoro. Anche Mosè fu pastore, sui monti di Madian, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio, piuttosto che conoscere i piaceri [nel palazzo di Faraone]. Dio, ammirando questa sua scelta, si lasciò vedere da lui, in compenso (Es 3, 2). E dopo la visione, Mosè non abbandona la sua responsabilità di pastore, ma con il suo bastone, comanda agli elementi (Es 14, 16) e pasce il popolo d’Israele. Anche Davide fu pastore, ma il suo bastone diventò scettro regale ed egli ricevette la corona. Non stupirti che tutti questi buoni pastori siano così vicini a Dio. Il Signore stesso non si vergogna di essere chiamato « pastore » (Sal 22 ; 79). Dio non si vergogna di pascere gli uomini, e nemmeno di averli creati.
Ma guardiamo ora il nostro pastore, Cristo ; guardiamo il suo amore per gli uomini e la sua mansuetudine nel condurli ai pascoli. Gioisce delle pecore che lo circondano e cerca quelle che si smarriscono. Né monti, né foreste gli sono di ostacolo ; corre nella valle dell’ombra per giungere al luogo dove si trova la pecora smarrita… Fu visto negli inferi per dare il segnale del ritorno ; per questa via si prepara a stringere amicizia con le pecore. Ora, ama Cristo chi accoglie con attenzione le sue parole.
dal sito:
http://antoniodipadova.blogspot.com/2010/04/il-buon-pastore-preghiamo-per-le.html
domenica 25 aprile 2010
Dai Sermoni di S. Antonio
Il buon Pastore: preghiamo per le vocazioni sacerdotali
L’odierna domenica è un invito a pregare per le vocazioni al sacerdozio, alla vita pastorale, sull’esempio di Cristo, buon pastore che dà la vita per le pecore. Un ricordo particolare per i tanti buoni pastori e per quelli meno buoni o pessimi, perchè il Signore li converta e li renda pastori secondo il suo cuore.
Alla luce dei fatti tristi e scandalosi che hanno colpito la Chiesa in questo periodo, addirittura tra le file dei pastori in campo, i vescovi, leggiamo le parole di ammonimento di Sant’Antonio, che invita i pastori a riformare la propria vita, e consiglia alle pecorelle maltrattate di rifugiarsi presso Pietro (il Papa) a cui, prima di tutti, Cristo ha consegnato il gregge:
Dai Sermoni di S. Antonio:
«Pasci i miei agnelli» (Gv 21,15-16). Fa’ attenzione al fatto che per ben tre volte è detto: «pasci», e neppure una volta «tosa» o «mungi». Se ami me per me stesso, e non te per te stesso, «pasci i miei agnelli» in quanto miei, non come fossero tuoi. Ricerca in essi la mia gloria e non la tua, il mio interesse e non il tuo, perché l’amore verso Dio si prova con l’amore verso il prossimo. Guai a colui che non pasce neppure una volta e poi invece tosa e munge tre o quattro volte. A costui «il re di Sodoma», cioè il diavolo, «dice: Dammi le anime, tutto il resto prendilo per te» (Gn 14,21), tieni cioè per te la lana e il latte, la pelle e le carni, le decime e le primizie. A un tale pastore, anzi lupo, che pasce se stesso, il Signore minaccia: «Guai al pastore, simulacro di pastore, che abbandona il gregge: una spada sta sopra il suo braccio e sul suo occhio destro; tutto il suo braccio si inaridirà e il suo occhio destro resterà accecato» (Zc 11,17).
Il pastore che abbandona il gregge affidatogli, è nella chiesa un simulacro di pastore, come Dagon, posto presso l’Arca del Signore (cf. 1Re 5,2); era un idolo, un simulacro: aveva cioè l’apparenza di un dio, ma non la realtà. Perché dunque occupa quel posto? Costui è veramente un idolo, un dio falso, perché ha gli occhi rivolti alle vanità del mondo, e non vede le miserie dei poveri; ha gli orecchi attenti alle adulazioni dei suoi ruffiani e non sente i lamenti e le grida dei poveri; tiene le narici sulle boccettine dei profumi, come una donna, ma non sente il profumo del cielo e il fetore della geenna; adopera le mani per accumulare ricchezze e non per accarezzare le cicatrici delle ferite di Cristo; usa i piedi per correre a rinforzare le sue difese e riscuotere i tributi, e non per andare a predicare la parola del Signore; e nella sua gola non c’è il canto di lode né la voce della confessione. Quale rapporto ci può essere tra la chiesa di Cristo e questo idolo marcio? «Cos’ha a che fare la paglia con il grano?» (Ger 23,28). «Quale intesa ci può mai essere tra Cristo e Beliar?» (2Cor 6,15).
Tutto il braccio di quest’idolo s’inaridirà per opera della spada del giudizio divino, perché non possa più fare il bene. E il suo occhio destro, cioè la conoscenza della verità, si oscurerà, perché non possa più distinguere la via della giustizia né per sé, né per gli altri. E questi due castighi, provocati dai loro peccati, si abbattono oggi su quei pastori della chiesa che sono privi del valore delle opere buone e non hanno la conoscenza della verità. E allora, ahimè, il lupo, cioè il diavolo, disperde il gregge (cf. Gv 10,12), e il predone, cioè l’eretico, lo rapisce.
Invece il Buon Pastore, che ha dato la vita per il suo gregge (cf. Gv 10,15), di esso sempre sollecito, avendolo comprato a sì caro prezzo, lo affida a Pietro dicendo: «Pasci i miei agnelli». Pascili con la parola della sacra predicazione, con l’aiuto della preghiera fervorosa e con l’esempio della santa vita ». (SS. Pietr. e Paol., §4)