dal sito:
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LITURGIA DEL PERDONO. AZIONE UMANA E DIVINA NEL SACRAMENTO
Adele Colombo
Poiché[1] «il sacramento è un’azione umana alla quale, secondo la fede cristiana, si congiunge l’azione divina»[2], possiamo considerare della liturgia penitenziale la dimensione umana dell’azione simbolico-rituale co-costitutiva del sacramento della penitenza-riconciliazione; l’importanza di «rivivere» ritualmente il senso umano di colpevolezza necessario al senso religioso di peccato; l’azione simbolico-rituale che attiva il senso di colpa, rivela il senso del peccato e attua il pentimento e il perdono sacramentale.
1. La dimensione umana dell’azione simbolico-rituale co-costitutiva della sacramento della penitenza-riconciliazione
È una conquista teologica acquisita il fatto che «dell’oggettività sacramentale […] viene a far parte integrante la “soggettività” della disposizione pratica dell’uomo, il suo orientarsi ad un agire simbolico»[3] proprio del rito sacramentale.
L’atto rituale sacramentale è dato «dall’azione simbolica in esercizio», che opera la sintesi tra evento reale e significato[4], più precisamente, opera la sintesi tra l’evento reale vissuto da Cristo, che diventa momento significativo del rito, e l’attuazione di tale realtà significata appunto nel rito[5]. Infatti i «simboli in esercizio» nel rito sono azioni storico-salvifiche di Cristo che, compiuti come rito liturgico-memoriale, si attualizzano in presenza attuandosi nel loro significato, «irriducibile alla pura fattività empirica», e istituendo la relazione credente. Essi sono anche azioni dell’uomo che – in risposta di fede-amore – partecipa attivamente all’azione simbolico-rituale e, agendo in tal modo, condivide l’evento reale salvifico significato dal rito, evento che si attua non solo in presenza nel sacramento, ma anche nel credente stesso. È così che la Chiesa rende propri i misteri salvifici, non solo agendo «insieme» a Cristo, ma compiendo effettivamente con lui un «unico» atto sacramentale-salvifico[6].
Gli eventi, in quanto azioni storico-salvifiche compiute da Cristo, sono tutti incentrati nel compimento della Pasqua: passione, morte, risurrezione, ascensione al Padre. Agendoli simbolicamente, il rito liturgico ne fa il memoriale in quanto «momento significativo» rivelato dalla Parola (momento di annuncio-rivelazione) e in quanto «momento attuativo» come presenza «incorporata» nel simbolo della realtà rivelata significativamente. In tal modo si attua la liturgia sacramentale che postula l’azione della Chiesa e, in essa, l’azione credente del soggetto interpellato e agente simbolicamente nel rito, la cui partecipazione e condivisione, come suddetto, è necessaria all’attuazione piena del sacramento.
Emblematicamente così avviene nell’eucaristia, «sacramento del sacrificio pasquale» di Cristo[7]. Poiché «il simbolo è azione», il pane e il vino, già simboli dell’azione creatrice di Dio e dell’azione antropologica propria dell’uomo che offre l’obbedienza dominativa del creato, divengono, per l’azione memoriale di quella Parola che fa esistere ogni realtà, «simboli reali» del corpo di Cristo sacrificato e del suo sangue versato per l’alleanza, nei quali Cristo, sommo sacerdote e Kyrios, «incorpora» il suo sacrificio teologico-spirituale, quale fu essenzialmente la sua morte in croce[8]. Pertanto, per la Parola-azione di Cristo, per l’azione dello Spirito e per l’azione di tutta la comunità ecclesiale nei differenti ruoli specifici, quei simboli, accolti in quanto costituenti la risposta del credente all’ascolto della Parola, divengono nel rito liturgico azione simbolica che attua l’evento pasquale di Cristo partecipato, e quindi sua presenza «in me» perché in presenza negli stessi simboli sacramentali che, pertanto, «incorporano» il sacrificio spirituale-teologico di Cristo e della Chiesa, comunità sacerdotale. L’«incorporazione» del sacrificio teologico spirituale di Cristo avviene in quel «corpo» nel suo «passaggio» a divenire «carne [s???] per la vita del mondo» (Gv 6,51), anzi la carne del nostro passaggio. Passaggio reale, sostiene Vidalin, così che «la transustanziazione non è solamente la conversione di una sostanza in un’altra […]. Si tratta di un passaggio reale da un livello d’essere in cui le cose sono ancora nella schiavitù della corruzione (Rm 8,21) al livello radicale dell’ontologia, dell’ipseità del Figlio nel quale […] i figli di Dio vengono generati (Gv 1,12-13)»[9], e per cui il Verbo si è fatto carne [s???] (Gv 1,14).
Anche il sacramento del battesimo si attua nella sintesi di azione divina e azione umana. Il «momento simbolico significativo» dell’azione rituale annuncia – nel triplice ritus scrutiniorum del nuovo Ordo initiationis christianae – che le azioni salvifiche di Cristo «si attuano, non come tali, ma nella loro realtà significata e nel loro valore». Infatti, i tre «significanti» non annunciano soltanto ciò che è avvenuto nel passato, ma attuano nel presente la realtà significata dagli eventi cristologici, per cui «il catecumeno è di volta in volta, la samaritana che riceve acqua viva; è il cieco nato che riceve la vista; è Lazzaro che viene sciolto dai vincoli di morte»[10]. Il «momento attuativo» dell’azione simbolico-rituale che attinge all’evento pasquale di Cristo, segue l’azione di «ascolto-risposta-accettazione» dell’evento salvifico di Cristo – che dà inizio alla relazione credente e filiale con Dio Padre – agìta ritualmente dal battezzando con la Chiesa popolo sacerdotale e ministero sacerdotale.
Così avviene nel sacramento della penitenza-riconciliazione. In Cristo, più compiutamente che in Es 19,3-8 e Es 24,7-8, l’azione umana dell’agire rituale simbolico del popolo sacerdotale precede l’azione divina nel rito, sebbene la priorità sia di Dio che la suscita e la sostiene allo scopo di riesprimere l’adesione e riprendere il cammino di fedeltà all’alleanza con Dio in Cristo.
2. L’importanza di «rivivere» ritualmente il senso umano di colpevolezza necessario al senso religioso di peccato
Analogamente all’azione del profeta Natan (2Sam 12,1-13) che, non solo non ha direttamente «ricordato» al re Davide quel grave doppio peccato che difensivamente questi teneva rimosso nell’inconscio per non esserne disturbato, ma, per impedirne una misconoscenza pericolosa, glielo ha fatto «rivivere» inconsapevolmente proiettato in un soggetto altro da sé e in modo che, non soltanto la mente, ma tutte le dimensioni della sua persona fossero progressivamente coinvolte: coscienza dell’irrazionalità del fatto; sentimenti di disapprovazione; emozioni davanti a una grave ingiustizia commessa; pulsioni di sdegno per le conseguenze che intaccano la persona umana e le sue relazioni con le cose, con gli uomini, con Dio, e, infine, identificazione con il colpevole-peccatore della parabola agìta. Così dovrebbe essere l’azione simbolico-rituale della penitenza pubblica per riuscire adeguata nell’agire l’autenticità del rapporto peccato-pentimento-perdono-ripresa della relazione credente, nonché per essere curativa e preventiva. Infatti, se i simboli, come le parabole evangeliche, compiono il passaggio dai «significanti» e «significati» della dimensione antropologica a quella teologica unendole nel soggetto attivo, la liturgia, in quanto simbolo in azione, lo compie anche nell’ordine dell’azione umano-divina: essa rivela e contiene la realtà ontologica significata dal simbolo[11].
Un contributo in questo senso sembra proprio venire da A. Vergote, il quale, parlando delle «dimensioni umane co-costitutive del sacramento» in quanto «il sacramento è azione umana alla quale si congiunge l’azione divina»[12], evidenzia che la coscienza dell’errore è una realtà psicologica universale, detta «sentimento di colpevolezza» che costituisce il fondamento umano sul quale si fonda il senso del peccato: così già nella religione biblica; ed evidenzia pure che tale substrato, oltre a essere un elemento della salute psichica, è necessario perché possa svilupparsi il senso teologico di peccato[13]. Infatti si può comprendere la differenza e il rapporto tra senso di colpa e senso del peccato considerando che «la coscienza morale si forma sull’appoggio della stima di sé, che in fondo è amore di sé»[14]. L’amore di sé, che è una parte essenziale del senso della propria dignità personale, si elabora – dice Vergote – nella formazione dell’ideale morale che si desidera realizzare, e comporta anche il desiderio di essere apprezzati, persino ammirati anche per le qualità morali dei comportamenti. In questa situazione, la colpa è doppiamente penosa in virtù del senso della dignità umana: essa rivela la propria persona sminuita ai propri occhi e a quelli degli altri. Ne risulta, da una parte l’inclinazione spontanea a restaurare la propria dignità umana e morale di fronte a sé e agli altri, dall’altra emerge una tendenza a non riconoscere la colpa poiché questa ferisce l’amor proprio. Tale misconoscimento impedisce di perdonare se stessi, fa entrare in un senso di colpa patologico che conduce a colpevolizzare gli altri e impedisce di porsi nella condizione di autenticità necessaria per accogliere l’efficacia del perdono di Dio[15].
Risulta evidente lo stretto legame tra la dimensione umana della colpa, che è tale davanti a sé e agli altri, e la dimensione del peccato che differisce nelle motivazioni e nella realtà della relazione credente con Dio in Cristo. Legame che non si può ignorare, perché «l’analisi della dimensioni antropologiche del sacramento mostra in primo luogo che la contrizione è messa in movimento dal dolore affettivo dei sentimenti di colpevolezza sui quali la fede aggancia la coscienza delle responsabilità davanti a Dio»[16].
Se è vero che, agendo simbolicamente, le «disposizioni diventano realtà», è pertanto fondamentale l’importanza del ruolo dell’azione simbolico-rituale nell’attivare adeguatamente e primariamente il senso di colpevolezza, poi il senso del peccato, sua parte integrante e, quindi, il pentimento proprio del sacramento della penitenza-riconciliazione.
La colpevolezza vista davanti a Dio nella relazione credente con lui, viene dunque illuminata nella sua piena verità, non più soltanto naturalmente morale, bensì religiosa e più precisamente teologica di peccato. Il peccato consiste nella trasgressione della nuova alleanza fondata sulla redenzione realizzata da Cristo, e quindi nell’infedeltà a tale alleanza salvifica già accolta nella scelta battesimale.
Vergote sottolinea che: a) «il riconoscimento dei peccati deve essere il risultato – non di un breve esame di coscienza – bensì di un processo umanamente e religiosamente autentico», il solo che nella confessione dei peccati operi un cambiamento di vita; b) «l’uomo perviene a riconoscere i propri peccati soltanto a partire dall’ascolto della rivelazione di Dio avvenuta in Cristo, sua Parola creatrice e redentrice, giacché si tratta di riprendere la dimensione della relazione con Dio Padre che si congiunge all’umanità etica»[17]. Il luogo più adeguato per vivere questi eventi di ripresa della corretta relazione con le cose, con le persone, con Dio, è quello dell’azione sacramentale propria della liturgia penitenziale, a partire da quella pubblica.
3. L’azione simbolico-rituale attiva il senso di colpevolezza, rivela il senso del peccato, attua il pentimento e il perdono sacramentale
3.1. Attivazione simbolico-rituale del senso di colpevolezza
Alla luce di quanto detto, la liturgia penitenziale è chiamata a compiere dapprima un’azione rituale che, attivando l’esperienza delle colpe umane, faccia cogliere il nesso tra l’azione colpevole che intacca il bene della creazione, dell’uomo, della società, e le conseguenze di denigrazione e involuzione che intaccano la propria persona chiamata invece già naturalmente all’evoluzione umana, fondata sui valori inseparabili di amore solidale, giustizia, uguaglianza, verità e libertà.
Visto che ogni soggetto umano, oltre che a desiderare di «restaurare» la propria dignità umana e morale di fronte a se stesso e agli altri, è spinto naturalmente a rifiutare il riconoscimento della colpa commessa, perché ferisce l’amor proprio, è necessario che il ministro celebrante, prima ancora di agire come mediatore del perdono di Dio, si faccia mediatore degli uomini assumendosi ritualmente le colpe di tutti. Ne deriva la necessità di trasferire le colpe oggettualizzandole su di una figura significativa e autorevole con cui i penitenti possano identificarsi. Pertanto il celebrante deve elencare progressivamente i peccati che l’umanità compie nelle relazioni con l’universo cosmico, con gli uomini singoli e con la società. Lo stesso celebrante, ispirandosi al modello comportamentale di papa Giovanni Paolo II nel chiedere perdono in quanto rappresentante dell’umanità, oltre che della Chiesa, deve esprimere questa assunzione di responsabilità e questo riconoscimento di essere colpevole in quanto innanzitutto umano tra gli umani, che condivide; il dispiacere della colpe storicamente commesse; la richiesta di perdono alla comunità che rappresenta la società; il desiderio di riprendere il cammino di attuazione dei valori fondamentali dell’umanità. L’assemblea penitente, immedesimandosi nel celebrante, deve poi coralmente esprimere anch’essa lo stesso riconoscimento, dispiacere, richiesta di perdono, lo stesso desiderio e proposito.
La posizione più significativa del celebrante in questo momento del rito, è quella di porsi seduto come l’assemblea, di fronte ad essa e sullo stesso piano, poiché egli non è il giudicante, ma il peccatore tra i peccatori che in ciò si pone in prima fila.
La sintesi di tali «eventi e significati», costituisce il simbolo rituale in risposta di fedeltà al Dio creatore[18].
3.2. Attivazione simbolico-rituale del senso del peccato, del pentimento e della richiesta di perdono
Il compito della fede è quello di «assumere» il dolore affettivo dei sentimenti di colpevolezza messi in movimento dalla contrizione e di «trasformare» questi in coscienza della responsabilità davanti a Dio[19]. Per il cristiano, Dio è non soltanto creatore ma è anche colui che ci ha redento in Cristo con quell’amore che Cristo stesso ha modellato su Dio Padre. La redenzione compiuta da Cristo nella sua Pasqua e liberamente accolta nel sacramento del mistero pasquale dal credente e vissuta come fedeltà di alleanza contratta nel sacramento del battesimo, determina per l’uomo perdono e liberazione dal peccato, ma anche dono della vita di Dio attraverso lo Spirito che comporta l’essere figli nel Figlio in comunione con il Padre per sempre. Il peccato non offende né denigra Dio, bensì intacca l’essere dell’uomo, poiché, essendo infedeltà a quell’alleanza fondata in Cristo e già accolta nella fede, costituisce un disprezzo dell’amore di Dio e del dono di se stesso: pertanto, ciò va a scapito non solo della realizzazione umana dell’uomo creato potenzialmente a immagine di Dio, ma anche delle sue relazioni nelle loro conseguenze e della meta cui è chiamato, ossia di gioia eterna, la cui intensità è in rapporto appunto all’evoluzione secondo Dio e, pertanto, alla pienezza di comunione con lui nel suo regno eterno.
La consapevolezza della responsabilità davanti a Dio non deriva dalla naturalità della coscienza umana, ma dalla parola di Dio rivelata e dalla redenzione operata da Cristo che ci ha così introdotti in una dimensione nuova: nella vita di relazione con Dio. Pertanto, la meta non è soltanto un’umanità naturalmente evoluta e fondata sui valori umani, ma congiuntamente, è la comunione con Dio Padre in Cristo, quindi l’evoluzione richiesta è quella dell’essere figli di Dio nel Figlio che, come rivela il Nuovo Testamento, vivendo in ogni pur diversa situazione storica (l’amore, la giustizia, la verità, la libertà) a imitazione di Dio Padre, è divenuto fondamento e modello dell’umanità credente. Meta, pertanto, impossibile alle sole forze umane e alla moralità naturale, ma è possibile in Cristo e nell’azione di quello Spirito che egli ci ha donato con la sua morte e risurrezione. Così la dimensione dell’umanità etica si congiunge con la dimensione teologica della relazione di comunione con Dio.
Questa realtà attuata da Cristo in se stesso come primizia per noi, va attinta sacramentalmente per essere accolta, vissuta ed, eventualmente appunto, ripristinata. L’azione simbolico-rituale deve esprimere e attuare nell’oggi questa realtà. Pertanto, il sacerdote ministeriale, immedesimandosi con i penitenti, si volge ora verso il Crocifisso che, nel frattempo è stato posto accanto o sull’altare, ed esprime verbalmente e posturalmente, insieme alla comunità sacerdotale, il riconoscimento che le colpe commesse sono peccati davanti a Dio redentore, sapendo che questi sono tanto più gravi quanto più grande è la distanza dalla misura e dalla qualità dell’amore vissuto da Cristo; poi esprime la richiesta di perdono, il desiderio e il proposito di riprendere il cammino di alleanza in Cristo, agendo, appunto come il modello, secondo la volontà di Dio.
3.3. Memoria e attuazione simbolico-rituale degli eventi del perdono di Dio
Se l’acqua è il simbolo che la Parola rivelata sceglie per evocare la purificazione e che, insieme al dono e all’azione dello Spirito, attinge per annunciare e attuare la nuova nascita alla vita divina e alla relazione con Dio, realtà che si attualizza attuandosi nella liturgia battesimale (Mt 3,11.16; Mc 1,8.10; cf. anche il dialogo con Nicodemo: Gv 3,1-8 e con la Samaritana: Gv 4,14, nonché l’evento del costato di Cristo in croce: Gv 19,34); invece riguardo il perdono dei peccati, la Parola rivelata adopera simboli di rinnovamento. Si può dire che, a tal fine, essa evoca almeno due realtà significative e correlate: la «rivelazione» delle viscere paterne di Dio: Gv 1,1-18; 3,16 verso l’umanità e, in particolare, verso il peccatore pentito: Lc 15,11-32; e l’«attuazione» del perdono, la cui realtà di rinnovamento, oltre a costituire un anticipo di risurrezione poiché rivela il potere di salvezza che Cristo opera nella totalità dell’essere umano, corpo e spirito, è messa in evidenza dal rapporto tra perdono-guarigione (Mt 9,2-7; Mc 2,3-12; Lc 5,18-25)[20]: la visibile guarigione del corpo costituisce un simbolo rivelatore di ciò che invisibilmente, ma realmente, avviene nello spirito dell’uomo con il perdono dei peccati.
La stessa rivelazione e attuazione, nel suo valore essenziale, è affidata, a partire dalla risurrezione di Cristo, all’azione simbolico-rituale della comunità sacerdotale (ad esempio agìta fin qui) e all’azione simbolico-rituale del sacerdozio ministeriale che vi si «congiunge» quale mediazione del perdono di Dio: Gv 20,22-23. Questa sintesi di azione simbolico-rituale umana e divina «rivela» e «attua» il sacramento del perdono-riconciliazione.
4. Conclusione
– Annuncio rituale-liturgico del perdono di Dio. Poiché Dio ha perdonato per primo tutta l’umanità con la redenzione operata da Cristo, ogni uomo deve imitarlo se vuole accogliere sacramentalmente e personalmente il perdono di Dio. Diversamente le conseguenze sono essenzialmente quelle stesse riservate al servo spietato della parabola: Mt 18,23-35. Pertanto, il perdono è sempre da donare: «Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”» (Mt 18,21-22).
«Rifiutare il perdono significa identificare la persona con il male che ha fatto»[21]. Inoltre, il primo beneficiario del perdono dato è la persona stessa che lo concede, perché in tal modo essa evolve la propria umanità, e perché le sue azioni vengono compiute nella libertà anziché nella reazione e nel rancore che intristisce e toglie la pace dello spirito. Inoltre, il perdonare costituisce obbedienza alla volontà di Dio che vuole essere imitato.
Il perdono di Dio è dunque da chiedere e accogliere. Dio ci ha amati dall’eternità e ci ha generati come figli in Cristo: Gv 1,1-18; 3,16. «Cristo infatti è apparso non soltanto per togliere i peccati»: 1Gv 3,5, ma anche per «dare la sua vita», non solo quella umana, ma anche quella divina: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»: Gv 10,10. «Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto, ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa» 1Gv 1,9. Infatti, come rivela la parabola evangelica: Lc 15,11.32, prima ancora che il pentimento del prodigo peccatore sia perfetto, il Padre lo riaccoglie come figlio inserendolo di nuovo, pienamente e con tutti i benefici, nella relazione paterna e fraterna.
La caratteristica del perdono di Dio, non è tanto quella di «dimenticare» l’ingratitudine e l’infedeltà del peccatore verso l’alleanza con lui, già accettata nel battesimo, ma è un perdono dell’essere, un rinnovamento della persona umana nelle sue dimensioni e relazioni. Poiché tale realtà non è immediatamente evidente se non alla lunga nelle sue conseguenze, sembra proprio che Cristo abbia voluto rivelarla nella guarigione del paralitico: Mc 2,1-12. Infatti dicendo: «Ti sono perdonati i tuoi peccati», ne ha sanato lo spirito; dicendo: «Alzati e cammina», ne ha guarito il corpo[22]. Dunque ha sanato l’uomo nella sua totalità come segno anticipatore della risurrezione, evidenziando così l’unità inscindibile del soggetto umano, e ha così pure evidenziato la guarigione del corpo come simbolo rivelatore del risanamento dello spirito e della sua riabilitazione ad agire liberamente – insieme alla libertà fisica – nella vita di relazione orizzontale e verticale.
Cristo ha perdonato: Lc 7,47-48; 23,34, e, risorgendo, ha affidato il suo perdono – poste le suddette premesse di interazione sacramentale da parte del soggetto credente, altrimenti anch’egli non ha potuto perdonare (cf. Mt 18,21-35) – alla mediazione sacramentale propria del sacerdozio ministeriale: Gv 20,22-23; Mt 16,18-19; Mt 18,19.
– Attuazione del perdono sacramentale. Alla Chiesa «ministeriale» spetta il compito di agire l’«oggettività sacramentale» del perdono di Dio nella simbolicità del rito, e lo fa dopo aver valutato le premesse della «soggettività» integrante il sacramento della riconciliazione, pena l’invalidità.
In virtù del ritorno alle fonti biblico-teologiche della parola di Dio, cui la Chiesa è pervenuta con il Vaticano II, sembra di poter affermare che la cosiddetta «penitenza», che «segue» il riconoscimento-pentimento-confessione dei peccati e l’impegno di riprendere il cammino dell’alleanza con Dio e che «precede» l’assoluzione-perdono sacramentale, dovrebbe consistere, poiché non deve neppure simbolicamente ripristinare «l’idea più pagana che biblica del sacrificio espiatorio per i peccati»[23], nell’assegnazione di una lettura biblica, in modo che la parola di Dio sia di luce e di forza corrispondenti alle necessità del penitente, lasciando che sia questi a tradurla adeguatamente nelle varie situazioni della sua storia.
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[1] Per il punto della situazione cf. L. Ligier, Il sacramento della penitenza secondo la tradizione orientale, in «Rivista Liturgica» 54 (1967) 597-627; A. Nocent, La riconciliazione dei penitenti nella Chiesa del VI e X secolo, in «Rivista Liturgica» 54 (1967) 628-642; J. Ramos-Regidor, Il sacramento della penitenza, evento ecclesiale, in «Rivista Liturgica» 54 (1967) 706-757; E. Ruffini, Teologia della penitenza e nuovo rito della penitenza sacramento, in «Rivista Liturgica» 62 (1975) 7-23; E. Mazza, La riforma del rito della penitenza. Elementi per una reinterpretazione, in «Rivista Liturgica» 78 (1991) 507-532.
[2] A. Vergote, Le sacrement de pénitence et de réconciliation, in «Nouvelle Revue Théologique» 118 (1996) 653 (653-670). Sottolinea Vergote: «Les dimensions humaines sont co-costitutives du sacrement [...]. Les deux initiatives (l’action divine et l’action humaine) se nouent si étroitement qu’on peut inverser l’ordre de la proposition: un sacrement est une action divine qui, en la suscitant et en la soutenant, se joint à une action humaine»: pp. 653-654. Vergote evidenzia che il simbolo sacramentale è tale se contiene la realtà antropologica e teologica come processo che opera un «passaggio» senza soluzione di continuità, cf. p. 653.
[3] A. Bozzolo, Mistero, simbolo e rito in Odo Casel. L’effettività sacramentale della fede (= Monumenta Studia Instrumenta Liturgica, 30), LEV, Città del Vaticano 2003, p. 55. Casel sottolinea che mentre la concezione moderna del cristianesimo si caratterizza per la tendenza a privilegiare il momento istituzionale della fede, «la mens antica [dei Padri], al contrario, presentando il cristianesimo come “mistero”, ritrova proprio nel sacramento il luogo di riconoscimento tanto della precedenza dell’azione di Dio, quanto della possibilità e necessità dell’azione dell’uomo, perché indica nella libera disposizione di sé richiesta dall’atto liturgico il luogo decisivo per attingere l’attualità dell’evento cristologico. “Mistero” è infatti l’azione divina, ma in quanto essa si dà nella forma umana dell’azione “di Gesù” e in quanto essa suscita e disegna lo spazio che rende possibile e necessaria l’azione “della Chiesa”»: pp. 98-99.
[4] Bozzolo, Mistero, simbolo e rito, cit., pp. 383, 386. Il rito «è simbolo in quanto partecipa della realtà che in esso si mostra»: p. 94, e «il sacramento è simbolo reale», azione memoriale attualizzante l’azione salvifica di Cristo: pp. V, VII, 51-52; cf. anche O. Casel, Fede, gnosi e mistero. Saggio di teologia del culto cristiano (= «Caro Salutis Cardo». Studi/Testi, 14), EMP-Abbazia di S. Giustina, Padova 2001, pp. 51-52, 57.
[5] S. Marsili, Il simbolismo della iniziazione cristiana alla luce della teologia liturgica, in G. Farnedi (ed.), I simboli dell’iniziazione cristiana. Atti del 1° Congresso Internazionale di Liturgia, Pontificio Istituto Liturgico 25-28 Maggio 1982 (= Studia Anselmiana, 87. Analecta Liturgica, 7), PIL, Roma 1983, p. 276 (259-280). «Il rito liturgico non è solo “significante” – che rimanda alla storia della salvezza compiuta da Cristo –, ma “contiene” già, in quanto “simbolo” della storia della salvezza, la realtà volta per volta “significata”»: p. 275.
[6] Bozzolo, Mistero, simbolo e rito, cit., p. 386 e pp. 162-167; cf. O. Casel, Il mistero del culto cristiano, Borla, Roma 1985, p. 42.
[7] Casel definisce l’eucaristia «sacramento del sacrificio della croce» (Casel, Fede, gnosi e mistero, cit., pp. 117; 109; 197); Marsili definisce l’eucaristia «sacramento del sacrificio spirituale», poiché «la morte di Cristo sulla croce fu sacrificio spirituale», giacché fu essenzialmente obbedienza e imitazione di Dio Padre (S. Marsili, Teologia della celebrazione dell’eucaristia, in S. Marsili – A. Nocent – M. Augé – A.J. Chupungco [edd.], La liturgia, eucaristia: teologia e storia della celebrazione [= Anàmnesis, 3/2], Marietti, Casale M. 1983, pp. 176; 178-186 [9-186]), del resto è la definizione del testo conciliare di Trento nella sua riproposizione superante la distinzione di sacramento e sacrificio: pp. 120, 121.
[8] L’idea marsiliana di «trasferimento» del sacrificio spirituale nei simboli ha il vantaggio di considerare i simboli del corpo sacrificato di Cristo, il pane, e del suo sangue versato per l’alleanza, il vino, come «“contenitori” e “comunicatori” di tale presenza perciò sacramentale» (Marsili, Teologia della celebrazione, cit., p. 184); tuttavia mi sembra che l’idea di «incorporazione» del sacrificio teologico-spirituale della croce in tali simboli evidenzi ancor meglio quella che Casel chiama «la sintesi di “evento-reale e significato” propria dei simboli sacramentali» (Bozzolo, Mistero, simbolo e rito, cit., pp. 94, 383, 386), come pure evidenzi l’unità con la materia che, come nell’incarnazione, non è solo «strumento» passivo della realtà divina, ma è trasformata con in unità agente. È illuminante in proposito quanto ha affermato Casel dicendo che: come «l’umanità del Signore è simbolo della sua divinità», così i sacramenti sono azioni simbolico-salvifiche della sua divinità; e che «l’unicità del contenuto teologico che lega il sacramento e l’evento è fondata sul fatto che nel simbolo l’evento realizza il proprio senso, irriducibile alla fatticità empirica, senza per questo perdere il carattere storico della propria attuazione»: pp. 205, 167; cf. anche Casel, Fede, gnosi e mistero, cit., pp. 137, 138.
[9] Cf. A. Vidalin, Le corps de la présence réelle. Une réflexion théologique sur l’eucharistie a partir de M. Henry, in «Nouvelle revue thèologique» 125 (3/2003) 422, 424, 427 (418-428).
[10] Marsili, Il simbolismo della iniziazione, cit., pp. 274-275.
[11] Cf. L. Zak, Il simbolo come via teologica. Spunti di riflessione sul simbolismo di Pavel Florenskij, in «Humanitas» 58 (4/2003) 602, 610-611 (598-614).
[12] Vergote, Le sacrement, cit. p. 653.
[13] Ibid., p. 656. Nel cristianesimo, sottolinea Vergote, «il soprannaturale si articola sulla natura psichica», così come salute e malattia si giocano dentro l’attività simbolica della psiche. Ciò trova supporto nell’individuazione «in san Paolo dell’analogia tra i segni di salute psichica e le qualità che la fede deve avere»; perciò viene messo a punto il ruolo e le caratteristiche sia dell’educazione poggiante non su moralismi, ma sul desiderio che, per effetto dei significanti religiosi, si apre all’amore di Dio; sia del rito liturgico come azione simbolica, affinché il soggetto possa beneficiare contemporaneamente di equilibrio psichico e di fede autentica e possa realizzarsi in rapporto col Dio vivente. Nell’azione simbolica della liturgia – evidenzia dunque Vergote – il soggetto viene salvato nella sua integrità: cf. M.-J. De Pauw, «Dette et désire» de A. Vergote, in «Revue théologique de Louvain» 10 (4/1979) 456, 460ss. (454-462).
[14] Vergote, Le sacrement, cit., p. 656.
[15] Ibid., p. 657; «Il cammino sacramentale non può che essere il compimento […] L’angoscia di colpevolezza può essere patologica […] Se essa non è un’angoscia morbida davanti al giudizio di Dio, essa si nasconde per lo più del tempo in una sorta di sintomi nevrotici e psicosomatici. L’assenza – invece – della capacità di provare sentimenti di colpa rappresenta, essa stessa, una forma di patologia. Essa testimonia sia la non formazione psicologica della coscienza morale, sia la psicosi paranoica dove l’idea delirante della propria grandezza nutre costantemente l’accusa degli altri»: p. 657.
[16] Ibid., pp. 661-662.
[17] Ibid., pp. 662-663.
[18] Cf. A. Wenin, L’umanità e il creato: dominio e mitezza, in A.N. Terrin (ed.), Ecologia e liturgia (= «Caro Salutis Cardo». Contributi, 19), EMP-Abbazia di S. Giustina, Padova 2003, pp. 23-47, riguardo l’impegno dell’uomo, maschio e femmina, chiamato ad agire a immagine di Dio, sviluppando la propria personalità e i propri talenti mentre scopre i segreti e le risorse dell’universo da destinare a ogni uomo in quanto creato come vertice della creazione; riguardo il ridimensionamento dei consumi a favore dell’uguaglianza e dell’amore solidale; riguardo la necessità e lo scopo del riposo; ecc.
[19] Vergote, Le sacrement, cit., pp. 661-662; già sant’Ambrogio, quando divenne vescovo di Milano, «ogni volta che qualcuno gli confessava i suoi peccati per riceverne la penitenza, piangeva a tal punto da ridurre al pianto il penitente: si considerava infatti peccatore col peccatore»: Messa della vigilia del 7 dicembre, in Messale ambrosiano quotidiano, vol. I, p. 1020. Cf. anche G.L. Brena, Ecologia e teologia: presupposti per una convergenza, in Terrin (ed.), Ecologia e liturgia, cit., pp. 49-68. Vergote (in Id., Dette et désire. Deux axes chrétiens et la dérive pathologique, Seuil, Paris 1978) ha messo a punto le caratteristiche che il rito, come azione simbolica, deve avere affinché il soggetto possa beneficiare contemporaneamente di equilibrio psichico e di fede autentica e possa realizzarsi in rapporto col Dio vivente; De Pauw (in Id., «Dette et désire» de A. Vergote, cit.) ne sottolinea alcune dicendo che la liturgia, mentre decentra il soggetto, deve: a) liberare il soggetto dall’idea che le pulsioni siano colpevolizzanti, e non deve esaltare le virtù di obbedienza, di rinuncia e di umiltà in modo da inibire quello spirito di iniziativa, di audacia e di capacità di rischiare che reprime l’autonomia, la libertà di pensiero e l’assunzione di responsabilità; b) liberare dalla colpevolizzazione che, spronando il desiderio verso la perfezione assoluta, raddoppia il narcisismo; c) liberare il soggetto dal legalismo, poiché esso rivela una ricerca di amore accompagnata da intolleranza, autoritarismo e presunzione. Il legalismo agisce, per mezzo delle sue proprie azioni, come se producesse lui stesso il dono dell’Altro e non lascia spazio al desiderio (p. 458); d) presentare e vivere il sacrificio, non come mutilazione, ma come scambio che opera un legame di amore nella differenza riconosciuta (p. 459); e) puntare non sul moralismo, ma sul Cristo vita come lo presenta la parola di Dio che interpella e struttura il desiderio, proprio mentre affascina l’intelligenza con la sua luce trascendente (pp. 458-459); f) favorire l’identificazione, il cui scacco comporta il ripiegamento nel narcisismo; perciò occorre stimolare l’apertura e il mantenimento dello «sguardo» ai segni-simboli della presenza del Signore affinché il soggetto, rispondendo senza condizionamenti e con tutto il proprio essere a questi segni-simboli, coinvolga anche le forze oscure che abitano il suo psichismo (p. 460). L’autenticità religiosa e la salute psichica devono estendersi e attualizzarsi anche nella comunità ecclesiale, affinché il soggetto ne sia garantito (p. 460). Questi aspetti dell’agire umano riguardanti il cammino della salute psichica e del vivere autenticamente la fede e che la liturgia è chiamata a favorire, la liturgia penitenziale può trasformarli anche come verifica del cammino di fede, tra cui anche quella di interrogarsi sul vivere o meno dell’uomo a immagine di Dio, nel senso richiesto di non dividere mai tale immagine attiva, ma agire contemporaneamente con intelligenza e amore in qualunque situazione, specie nel dominio dell’universo: cf. B. Maggioni, Uomo e società nella Bibbia, Jaca Book, Milano 1987, e l’enciclica Laborem exercens, nn. 12, 14, 25-27, riguardanti il rapporto dell’uomo con la vita lavorativa e socio-economica, nonché l’amore solidale.
[20] È noto che Gesù ha negato il collegamento di causa-effetto tra peccato e malattia, tra peccato e punizione, cf. quanto dice in proposito al momento del miracolo del cieco nato (Gv 9,1-7).
[21] Vergote, Le sacrement, cit., p. 667.
[22] Gesù non ha certo collegato l’infermità al peccato come sua causa, giacché, in altre occasioni, per esempio quella della guarigione del cieco nato, ha separato le due realtà.
[23] Vergote, Le sacrement, cit., pp. 667-668, 666.