Archive pour avril, 2010

Santa Caterina da Siena

Santa Caterina da Siena dans immagini sacre

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 28 avril, 2010 |Pas de commentaires »

29 aprile, Santa Caterina da Siena Vergine e dottore della Chiesa, patrona d’Italia

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/20900

Santa Caterina da Siena Vergine e dottore della Chiesa, patrona d’Italia

29 aprile
 
Siena, 25 marzo 1347 – Roma, 29 aprile 1380

«Niuno Stato si può conservare nella legge civile in stato di grazia senza la santa giustizia»: queste alcune delle parole che hanno reso questa santa, patrona d’Italia, celebre. Nata nel 1347 Caterina non va a scuola, non ha maestri. I suoi avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua «  »cella »" di terziaria domenicana (o Mantellata, per l’abito bianco e il mantello nero). La stanzetta si fa cenacolo di artisti e di dotti, di religiosi, di processionisti, tutti più istruiti di lei. Li chiameranno «  »Caterinati »". Lei impara a leggere e a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi lei parla a papi e re, a donne di casa e a regine, e pure ai detenuti. Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali che dà inizio allo scisma di Occidente. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d’Italia con Francesco d’Assisi. (Avvenire)

Patronato: Italia, Europa (Giovanni Paolo II, 1/10/99)
Etimologia: Caterina = donna pura, dal greco
Emblema: Anello, Giglio

Martirologio Romano: Festa di Santa Caterina da Siena, vergine e dottore della Chiesa, che, preso l’abito delle Suore della Penitenza di San Domenico, si sforzò di conoscere Dio in se stessa e se stessa in Dio e di rendersi conforme a Cristo crocifisso; lottò con forza e senza sosta per la pace, per il ritorno del Romano Pontefice nell’Urbe e per il ripristino dell’unità della Chiesa, lasciando pure celebri scritti della sua straordinaria dottrina spirituale.
Lo si dice oggi come una scoperta: « Se è in crisi la giustizia, è in crisi lo Stato ». Ma lo diceva già nel Trecento una ragazza: « Niuno Stato si può conservare nella legge civile in stato di grazia senza la santa giustizia ». Eccola, Caterina da Siena. Ultima dei 25 figli (con una gemella morta quasi subito) del rispettato tintore Jacopo Benincasa e di sua moglie Lapa Piacenti, figlia di un poeta. Caterina non va a scuola, non ha maestri. Accasarla bene e presto, ecco il pensiero dei suoi, che secondo l’uso avviano discorsi di maritaggio quando lei è sui 12 anni. E lei dice di no, sempre, anche davanti alle rappresaglie. E la spunta. Del resto chiede solo una stanzetta che sarà la sua “cella” di terziaria domenicana (o Mantellata, per l’abito bianco e il mantello nero).
La stanzetta si fa cenacolo di artisti e di dotti, di religiosi, di processionisti, tutti più istruiti di lei. E tutti amabilmente pilotati da lei. Li chiameranno “Caterinati”. Lei impara faticosamente a leggere, e più tardi anche a scrivere, ma la maggior parte dei suoi messaggi è dettata. Con essi lei parla a papi e re, a cuoiai e generali, a donne di casa e a regine. Anche ai « prigioni di Siena », cioè ai detenuti, che da lei non sentono una parola di biasimo per il male commesso. No, Caterina è quella della gioia e della fiducia: accosta le loro sofferenze a quelle di Gesù innocente e li vuole come lui: « Vedete come è dolcemente armato questo cavaliero! ». Nel vitalissimo e drammatico Trecento, tra guerra e peste, l’Italia e Siena possono contare su Caterina, come ci contano i colpiti da tutte le sventure, e i condannati a morte: ad esempio, quel perugino, Nicolò di Tuldo, selvaggiamente disperato, che lei trasforma prima del supplizio: « Egli giunse come uno agnello mansueto, e vedendomi, cominciò a ridere; e volse ch’io gli facessi il segno della croce ».
Va ad Avignone, ambasciatrice dei fiorentini per una non riuscita missione di pace presso papa Gregorio XI. Ma dà al Pontefice la spinta per il ritorno a Roma, nel 1377. Parla chiaro ai vertici della Chiesa. A Pietro, cardinale di Ostia, scrive: « Vi dissi che desideravo vedervi uomo virile e non timoroso (…) e fate vedere al Santo Padre più la perdizione dell’anime che quella delle città; perocché Dio chiede l’anime più che le città ». C’è pure chi la cerca per ammazzarla, a Firenze, trovandola con un gruppo di amici. E lei precipitosamente si presenta: « Caterina sono io! Uccidi me, e lascia in pace loro! ». Porge il collo, e quello va via sconfitto. Deve poi recarsi a Roma, chiamata da papa Urbano VI dopo la ribellione di una parte dei cardinali che dà inizio allo scisma di Occidente. Ma qui si ammala e muore, a soli 33 anni. Sarà canonizzata nel 1461 dal papa senese Pio II. Nel 1939 Pio XII la dichiarerà patrona d’Italia con Francesco d’Assisi. E nel 1970 avrà da Paolo VI il titolo di dottore della Chiesa.
La festa delle stigmate di S. Caterina è, per il solo ordine domenicano, il 1° aprile.

Autore: Domenico Agasso

Udienza Generale di Paolo VI, 1964 (anche Santa Caterina da Siena)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/audiences/documents/hf_p-vi_aud_19640429_it.html

UDIENZA GENERALE DI PAOLO VI

Mercoledì, 29 aprile 1964

(anche Santa Caterina da Siena) 

Diletti Figli e Figlie!

Il sentimento, che nasce nel Nostro cuore alla visione della vostra presenza – anche oggi quanto numerosa, quanto varia, e quanto affettuosa! – è quello della riconoscenza: grazie, grazie, diciamo a ciascuno di voi per essere venuto a visitarci, a procurarci il piacere di conoscervi, di salutarvi, di pregare con voi, di benedirvi. Voi capite come questo sentimento cresce in proporzione della devozione che qua vi conduce, dei disagi e delle spese del vostro pellegrinaggio, della distanza, che voi avete superata per avvicinarvi alle tombe degli Apostoli ed a Noi; così quelli che vengono da più lontano Ci sono ora più vicini!

Questo Nostro ringraziamento, carissimi Figli e Figlie, non è soltanto l’espressione doverosa e consueta della cortesia di chi è visitato ai suoi visitatori; è qualche cosa di più: è la voce della carità, di cui vive la Chiesa, è la vibrazione dei vincoli che uniscono il Padre ai suoi figli a lui stretti d’intorno, è la prova dell’unità spirituale, che a questo incontro esteriore mostra l’interiore, rete di rapporti che tutti ci fa fratelli in Cristo, e tutti variamente imparentati nella compagine organica e visibile del suo mistico Corpo: voi Figli e Figlie, e Noi, in Cristo, vostro Padre; voi discepoli, e Noi per suo mandato, maestro vostro; voi gregge del Signore, e Noi, nel suo nome, vostro Pastore.

Comprendete perciò come un’udienza, pia e domestica come questa, è per Noi come una festa di famiglia, una consolazione dello spirito, una celebrazione del mistero della Chiesa. Perciò vi siamo grati della vostra venuta; perciò accogliamo con umile gioia le vostre acclamazioni, non fermate alla Nostra Persona, ma rivolte al ministero, che esercitiamo, e al Signore, che rappresentiamo. Vi diremo di più: la vostra adesione è la Nostra letizia, la Nostra speranza nelle tante apprensioni, nelle tante necessità, nelle tante pene, che fanno grave – voi lo potete ben credere – il Nostro servizio apostolico. Voi Ci confortate al pensiero, nascente della vostra fedeltà, che la forza del Papa è l’amore dei suoi figli. Qui, ora, quasi Ce ne fate gustare l’esperienza; Noi ve ne siamo, Figli e Figlie, gratissimi.

Sì, la forza del Papa è l’amore dei suoi figli, è l’unione della comunità ecclesiastica, è la carità dei fedeli che sotto la guida formano un Cuor solo e un’anima sola. Questo contributo di energie spirituali, che viene dal popolo cattolico alla Gerarchia della Chiesa, dal singolo cristiano fino al Papa, Ci fa pensare alla Santa, che domani la Chiesa onorerà con festa speciale, Santa Caterina da Siena, l’umile, sapiente, impavida vergine domenicana, che, voi tutti sapete, amò il Papa e la Chiesa, come non si sa che altri facesse con pari altezza e pari vigore di spirito.

Fra le tante e immense cose che questa devotissima figlia della Chiesa c’insegna, due ne possiamo ricordare quasi a conferma di quanto vi stiamo dicendo; e cioè: anche una povera donna, una figliola del popolo, può amare e quindi servire la Chiesa ed il Papato con grandezza d’animo superlativa e con effetti benefici, che solo la Provvidenza, per verità, può disporre e calcolare. Cioè tutti, come del resto voi fate in questo momento, devono amare la Chiesa, e tutti possono renderle così un grande dono: quello del cuore. E poi: la Chiesa ed il Papato si possono e si devono amare, S. Caterina ce lo insegna, anche se il loro volto fosse velato da umane infermità: la testimonianza di fedeltà e di carità sarà allora più grande, più intelligente, più meritoria; ed è forse questa la lezione di cui tanti moderni, che pur si dicono cattolici, bene non comprendono, intenti come sono, e quasi appassionati a cercare difetti nella Chiesa e nella Curia Romana, formulando critiche non sempre serene e .talora non oggettive. Gesù una volta ebbe a dire: «Beato colui che non si sarà scandalizzato di me» (Matth. 11, 6); è parola, che la storia della Chiesa ci fa meditare; e che il figlio della Chiesa, che abbia di essa l’intelligenza vera e che ad essa dia tributo di carità vera, ancor oggi troverà, come Gesù l’annunciò, sorgente di beatitudine. 

Publié dans:Papa Paolo VI |on 28 avril, 2010 |Pas de commentaires »

LITURGIA DEL PERDONO. AZIONE UMANA E DIVINA NEL SACRAMENTO

dal sito:

http://www.rivistaliturgica.it/upload/2005/articolo5_702.asp

LITURGIA DEL PERDONO. AZIONE UMANA E DIVINA NEL SACRAMENTO
 
Adele Colombo

Poiché[1] «il sacramento è un’azione umana alla quale, secondo la fede cristiana, si congiunge l’azione divina»[2], possiamo considerare della liturgia penitenziale la dimensione umana dell’azione simbolico-rituale co-costitutiva del sacramento della penitenza-riconciliazione; l’importanza di «rivivere» ritualmente il senso umano di colpevolezza necessario al senso religioso di peccato; l’azione simbolico-rituale che attiva il senso di colpa, rivela il senso del peccato e attua il pentimento e il perdono sacramentale.

1. La dimensione umana dell’azione simbolico-rituale co-costitutiva della sacramento della penitenza-riconciliazione

È una conquista teologica acquisita il fatto che «dell’oggettività sacramentale […] viene a far parte integrante la “soggettività” della disposizione pratica dell’uomo, il suo orientarsi ad un agire simbolico»[3] proprio del rito sacramentale.

L’atto rituale sacramentale è dato «dall’azione simbolica in esercizio», che opera la sintesi tra evento reale e significato[4], più precisamente, opera la sintesi tra l’evento reale vissuto da Cristo, che diventa momento significativo del rito, e l’attuazione di tale realtà significata appunto nel rito[5]. Infatti i «simboli in esercizio» nel rito sono azioni storico-salvifiche di Cristo che, compiuti come rito liturgico-memoriale, si attualizzano in presenza attuandosi nel loro significato, «irriducibile alla pura fattività empirica», e istituendo la relazione credente. Essi sono anche azioni dell’uomo che – in risposta di fede-amore – partecipa attivamente all’azione simbolico-rituale e, agendo in tal modo, condivide l’evento reale salvifico significato dal rito, evento che si attua non solo in presenza nel sacramento, ma anche nel credente stesso. È così che la Chiesa rende propri i misteri salvifici, non solo agendo «insieme» a Cristo, ma compiendo effettivamente con lui un «unico» atto sacramentale-salvifico[6].

Gli eventi, in quanto azioni storico-salvifiche compiute da Cristo, sono tutti incentrati nel compimento della Pasqua: passione, morte, risurrezione, ascensione al Padre. Agendoli simbolicamente, il rito liturgico ne fa il memoriale in quanto «momento significativo» rivelato dalla Parola (momento di annuncio-rivelazione) e in quanto «momento attuativo» come presenza «incorporata» nel simbolo della realtà rivelata significativamente. In tal modo si attua la liturgia sacramentale che postula l’azione della Chiesa e, in essa, l’azione credente del soggetto interpellato e agente simbolicamente nel rito, la cui partecipazione e condivisione, come suddetto, è necessaria all’attuazione piena del sacramento.

Emblematicamente così avviene nell’eucaristia, «sacramento del sacrificio pasquale» di Cristo[7]. Poiché «il simbolo è azione», il pane e il vino, già simboli dell’azione creatrice di Dio e dell’azione antropologica propria dell’uomo che offre l’obbedienza dominativa del creato, divengono, per l’azione memoriale di quella Parola che fa esistere ogni realtà, «simboli reali» del corpo di Cristo sacrificato e del suo sangue versato per l’alleanza, nei quali Cristo, sommo sacerdote e Kyrios, «incorpora» il suo sacrificio teologico-spirituale, quale fu essenzialmente la sua morte in croce[8]. Pertanto, per la Parola-azione di Cristo, per l’azione dello Spirito e per l’azione di tutta la comunità ecclesiale nei differenti ruoli specifici, quei simboli, accolti in quanto costituenti la risposta del credente all’ascolto della Parola, divengono nel rito liturgico azione simbolica che attua l’evento pasquale di Cristo partecipato, e quindi sua presenza «in me» perché in presenza negli stessi simboli sacramentali che, pertanto, «incorporano» il sacrificio spirituale-teologico di Cristo e della Chiesa, comunità sacerdotale. L’«incorporazione» del sacrificio teologico spirituale di Cristo avviene in quel «corpo» nel suo «passaggio» a divenire «carne [s???] per la vita del mondo» (Gv 6,51), anzi la carne del nostro passaggio. Passaggio reale, sostiene Vidalin, così che «la transustanziazione non è solamente la conversione di una sostanza in un’altra […]. Si tratta di un passaggio reale da un livello d’essere in cui le cose sono ancora nella schiavitù della corruzione (Rm 8,21) al livello radicale dell’ontologia, dell’ipseità del Figlio nel quale […] i figli di Dio vengono generati (Gv 1,12-13)»[9], e per cui il Verbo si è fatto carne [s???] (Gv 1,14).

Anche il sacramento del battesimo si attua nella sintesi di azione divina e azione umana. Il «momento simbolico significativo» dell’azione rituale annuncia – nel triplice ritus scrutiniorum del nuovo Ordo initiationis christianae – che le azioni salvifiche di Cristo «si attuano, non come tali, ma nella loro realtà significata e nel loro valore». Infatti, i tre «significanti» non annunciano soltanto ciò che è avvenuto nel passato, ma attuano nel presente la realtà significata dagli eventi cristologici, per cui «il catecumeno è di volta in volta, la samaritana che riceve acqua viva; è il cieco nato che riceve la vista; è Lazzaro che viene sciolto dai vincoli di morte»[10]. Il «momento attuativo» dell’azione simbolico-rituale che attinge all’evento pasquale di Cristo, segue l’azione di «ascolto-risposta-accettazione» dell’evento salvifico di Cristo – che dà inizio alla relazione credente e filiale con Dio Padre – agìta ritualmente dal battezzando con la Chiesa popolo sacerdotale e ministero sacerdotale.

Così avviene nel sacramento della penitenza-riconciliazione. In Cristo, più compiutamente che in Es 19,3-8 e Es 24,7-8, l’azione umana dell’agire rituale simbolico del popolo sacerdotale precede l’azione divina nel rito, sebbene la priorità sia di Dio che la suscita e la sostiene allo scopo di riesprimere l’adesione e riprendere il cammino di fedeltà all’alleanza con Dio in Cristo.

2. L’importanza di «rivivere» ritualmente il senso umano di colpevolezza necessario al senso religioso di peccato

Analogamente all’azione del profeta Natan (2Sam 12,1-13) che, non solo non ha direttamente «ricordato» al re Davide quel grave doppio peccato che difensivamente questi teneva rimosso nell’inconscio per non esserne disturbato, ma, per impedirne una misconoscenza pericolosa, glielo ha fatto «rivivere» inconsapevolmente proiettato in un soggetto altro da sé e in modo che, non soltanto la mente, ma tutte le dimensioni della sua persona fossero progressivamente coinvolte: coscienza dell’irrazionalità del fatto; sentimenti di disapprovazione; emozioni davanti a una grave ingiustizia commessa; pulsioni di sdegno per le conseguenze che intaccano la persona umana e le sue relazioni con le cose, con gli uomini, con Dio, e, infine, identificazione con il colpevole-peccatore della parabola agìta. Così dovrebbe essere l’azione simbolico-rituale della penitenza pubblica per riuscire adeguata nell’agire l’autenticità del rapporto peccato-pentimento-perdono-ripresa della relazione credente, nonché per essere curativa e preventiva. Infatti, se i simboli, come le parabole evangeliche, compiono il passaggio dai «significanti» e «significati» della dimensione antropologica a quella teologica unendole nel soggetto attivo, la liturgia, in quanto simbolo in azione, lo compie anche nell’ordine dell’azione umano-divina: essa rivela e contiene la realtà ontologica significata dal simbolo[11].

Un contributo in questo senso sembra proprio venire da A. Vergote, il quale, parlando delle «dimensioni umane co-costitutive del sacramento» in quanto «il sacramento è azione umana alla quale si congiunge l’azione divina»[12], evidenzia che la coscienza dell’errore è una realtà psicologica universale, detta «sentimento di colpevolezza» che costituisce il fondamento umano sul quale si fonda il senso del peccato: così già nella religione biblica; ed evidenzia pure che tale substrato, oltre a essere un elemento della salute psichica, è necessario perché possa svilupparsi il senso teologico di peccato[13]. Infatti si può comprendere la differenza e il rapporto tra senso di colpa e senso del peccato considerando che «la coscienza morale si forma sull’appoggio della stima di sé, che in fondo è amore di sé»[14]. L’amore di sé, che è una parte essenziale del senso della propria dignità personale, si elabora – dice Vergote – nella formazione dell’ideale morale che si desidera realizzare, e comporta anche il desiderio di essere apprezzati, persino ammirati anche per le qualità morali dei comportamenti. In questa situazione, la colpa è doppiamente penosa in virtù del senso della dignità umana: essa rivela la propria persona sminuita ai propri occhi e a quelli degli altri. Ne risulta, da una parte l’inclinazione spontanea a restaurare la propria dignità umana e morale di fronte a sé e agli altri, dall’altra emerge una tendenza a non riconoscere la colpa poiché questa ferisce l’amor proprio. Tale misconoscimento impedisce di perdonare se stessi, fa entrare in un senso di colpa patologico che conduce a colpevolizzare gli altri e impedisce di porsi nella condizione di autenticità necessaria per accogliere l’efficacia del perdono di Dio[15].

Risulta evidente lo stretto legame tra la dimensione umana della colpa, che è tale davanti a sé e agli altri, e la dimensione del peccato che differisce nelle motivazioni e nella realtà della relazione credente con Dio in Cristo. Legame che non si può ignorare, perché «l’analisi della dimensioni antropologiche del sacramento mostra in primo luogo che la contrizione è messa in movimento dal dolore affettivo dei sentimenti di colpevolezza sui quali la fede aggancia la coscienza delle responsabilità davanti a Dio»[16].

Se è vero che, agendo simbolicamente, le «disposizioni diventano realtà», è pertanto fondamentale l’importanza del ruolo dell’azione simbolico-rituale nell’attivare adeguatamente e primariamente il senso di colpevolezza, poi il senso del peccato, sua parte integrante e, quindi, il pentimento proprio del sacramento della penitenza-riconciliazione.

La colpevolezza vista davanti a Dio nella relazione credente con lui, viene dunque illuminata nella sua piena verità, non più soltanto naturalmente morale, bensì religiosa e più precisamente teologica di peccato. Il peccato consiste nella trasgressione della nuova alleanza fondata sulla redenzione realizzata da Cristo, e quindi nell’infedeltà a tale alleanza salvifica già accolta nella scelta battesimale.

Vergote sottolinea che: a) «il riconoscimento dei peccati deve essere il risultato – non di un breve esame di coscienza – bensì di un processo umanamente e religiosamente autentico», il solo che nella confessione dei peccati operi un cambiamento di vita; b) «l’uomo perviene a riconoscere i propri peccati soltanto a partire dall’ascolto della rivelazione di Dio avvenuta in Cristo, sua Parola creatrice e redentrice, giacché si tratta di riprendere la dimensione della relazione con Dio Padre che si congiunge all’umanità etica»[17]. Il luogo più adeguato per vivere questi eventi di ripresa della corretta relazione con le cose, con le persone, con Dio, è quello dell’azione sacramentale propria della liturgia penitenziale, a partire da quella pubblica.

3. L’azione simbolico-rituale attiva il senso di colpevolezza, rivela il senso del peccato, attua il pentimento e il perdono sacramentale

3.1. Attivazione simbolico-rituale del senso di colpevolezza

Alla luce di quanto detto, la liturgia penitenziale è chiamata a compiere dapprima un’azione rituale che, attivando l’esperienza delle colpe umane, faccia cogliere il nesso tra l’azione colpevole che intacca il bene della creazione, dell’uomo, della società, e le conseguenze di denigrazione e involuzione che intaccano la propria persona chiamata invece già naturalmente all’evoluzione umana, fondata sui valori inseparabili di amore solidale, giustizia, uguaglianza, verità e libertà.

Visto che ogni soggetto umano, oltre che a desiderare di «restaurare» la propria dignità umana e morale di fronte a se stesso e agli altri, è spinto naturalmente a rifiutare il riconoscimento della colpa commessa, perché ferisce l’amor proprio, è necessario che il ministro celebrante, prima ancora di agire come mediatore del perdono di Dio, si faccia mediatore degli uomini assumendosi ritualmente le colpe di tutti. Ne deriva la necessità di trasferire le colpe oggettualizzandole su di una figura significativa e autorevole con cui i penitenti possano identificarsi. Pertanto il celebrante deve elencare progressivamente i peccati che l’umanità compie nelle relazioni con l’universo cosmico, con gli uomini singoli e con la società. Lo stesso celebrante, ispirandosi al modello comportamentale di papa Giovanni Paolo II nel chiedere perdono in quanto rappresentante dell’umanità, oltre che della Chiesa, deve esprimere questa assunzione di responsabilità e questo riconoscimento di essere colpevole in quanto innanzitutto umano tra gli umani, che condivide; il dispiacere della colpe storicamente commesse; la richiesta di perdono alla comunità che rappresenta la società; il desiderio di riprendere il cammino di attuazione dei valori fondamentali dell’umanità. L’assemblea penitente, immedesimandosi nel celebrante, deve poi coralmente esprimere anch’essa lo stesso riconoscimento, dispiacere, richiesta di perdono, lo stesso desiderio e proposito.

La posizione più significativa del celebrante in questo momento del rito, è quella di porsi seduto come l’assemblea, di fronte ad essa e sullo stesso piano, poiché egli non è il giudicante, ma il peccatore tra i peccatori che in ciò si pone in prima fila.

La sintesi di tali «eventi e significati», costituisce il simbolo rituale in risposta di fedeltà al Dio creatore[18].

3.2. Attivazione simbolico-rituale del senso del peccato, del pentimento e della richiesta di perdono

Il compito della fede è quello di «assumere» il dolore affettivo dei sentimenti di colpevolezza messi in movimento dalla contrizione e di «trasformare» questi in coscienza della responsabilità davanti a Dio[19]. Per il cristiano, Dio è non soltanto creatore ma è anche colui che ci ha redento in Cristo con quell’amore che Cristo stesso ha modellato su Dio Padre. La redenzione compiuta da Cristo nella sua Pasqua e liberamente accolta nel sacramento del mistero pasquale dal credente e vissuta come fedeltà di alleanza contratta nel sacramento del battesimo, determina per l’uomo perdono e liberazione dal peccato, ma anche dono della vita di Dio attraverso lo Spirito che comporta l’essere figli nel Figlio in comunione con il Padre per sempre. Il peccato non offende né denigra Dio, bensì intacca l’essere dell’uomo, poiché, essendo infedeltà a quell’alleanza fondata in Cristo e già accolta nella fede, costituisce un disprezzo dell’amore di Dio e del dono di se stesso: pertanto, ciò va a scapito non solo della realizzazione umana dell’uomo creato potenzialmente a immagine di Dio, ma anche delle sue relazioni nelle loro conseguenze e della meta cui è chiamato, ossia di gioia eterna, la cui intensità è in rapporto appunto all’evoluzione secondo Dio e, pertanto, alla pienezza di comunione con lui nel suo regno eterno.

La consapevolezza della responsabilità davanti a Dio non deriva dalla naturalità della coscienza umana, ma dalla parola di Dio rivelata e dalla redenzione operata da Cristo che ci ha così introdotti in una dimensione nuova: nella vita di relazione con Dio. Pertanto, la meta non è soltanto un’umanità naturalmente evoluta e fondata sui valori umani, ma congiuntamente, è la comunione con Dio Padre in Cristo, quindi l’evoluzione richiesta è quella dell’essere figli di Dio nel Figlio che, come rivela il Nuovo Testamento, vivendo in ogni pur diversa situazione storica (l’amore, la giustizia, la verità, la libertà) a imitazione di Dio Padre, è divenuto fondamento e modello dell’umanità credente. Meta, pertanto, impossibile alle sole forze umane e alla moralità naturale, ma è possibile in Cristo e nell’azione di quello Spirito che egli ci ha donato con la sua morte e risurrezione. Così la dimensione dell’umanità etica si congiunge con la dimensione teologica della relazione di comunione con Dio.

Questa realtà attuata da Cristo in se stesso come primizia per noi, va attinta sacramentalmente per essere accolta, vissuta ed, eventualmente appunto, ripristinata. L’azione simbolico-rituale deve esprimere e attuare nell’oggi questa realtà. Pertanto, il sacerdote ministeriale, immedesimandosi con i penitenti, si volge ora verso il Crocifisso che, nel frattempo è stato posto accanto o sull’altare, ed esprime verbalmente e posturalmente, insieme alla comunità sacerdotale, il riconoscimento che le colpe commesse sono peccati davanti a Dio redentore, sapendo che questi sono tanto più gravi quanto più grande è la distanza dalla misura e dalla qualità dell’amore vissuto da Cristo; poi esprime la richiesta di perdono, il desiderio e il proposito di riprendere il cammino di alleanza in Cristo, agendo, appunto come il modello, secondo la volontà di Dio.

3.3. Memoria e attuazione simbolico-rituale degli eventi del perdono di Dio

Se l’acqua è il simbolo che la Parola rivelata sceglie per evocare la purificazione e che, insieme al dono e all’azione dello Spirito, attinge per annunciare e attuare la nuova nascita alla vita divina e alla relazione con Dio, realtà che si attualizza attuandosi nella liturgia battesimale (Mt 3,11.16; Mc 1,8.10; cf. anche il dialogo con Nicodemo: Gv 3,1-8 e con la Samaritana: Gv 4,14, nonché l’evento del costato di Cristo in croce: Gv 19,34); invece riguardo il perdono dei peccati, la Parola rivelata adopera simboli di rinnovamento. Si può dire che, a tal fine, essa evoca almeno due realtà significative e correlate: la «rivelazione» delle viscere paterne di Dio: Gv 1,1-18; 3,16 verso l’umanità e, in particolare, verso il peccatore pentito: Lc 15,11-32; e l’«attuazione» del perdono, la cui realtà di rinnovamento, oltre a costituire un anticipo di risurrezione poiché rivela il potere di salvezza che Cristo opera nella totalità dell’essere umano, corpo e spirito, è messa in evidenza dal rapporto tra perdono-guarigione (Mt 9,2-7; Mc 2,3-12; Lc 5,18-25)[20]: la visibile guarigione del corpo costituisce un simbolo rivelatore di ciò che invisibilmente, ma realmente, avviene nello spirito dell’uomo con il perdono dei peccati.

La stessa rivelazione e attuazione, nel suo valore essenziale, è affidata, a partire dalla risurrezione di Cristo, all’azione simbolico-rituale della comunità sacerdotale (ad esempio agìta fin qui) e all’azione simbolico-rituale del sacerdozio ministeriale che vi si «congiunge» quale mediazione del perdono di Dio: Gv 20,22-23. Questa sintesi di azione simbolico-rituale umana e divina «rivela» e «attua» il sacramento del perdono-riconciliazione.

4. Conclusione

– Annuncio rituale-liturgico del perdono di Dio. Poiché Dio ha perdonato per primo tutta l’umanità con la redenzione operata da Cristo, ogni uomo deve imitarlo se vuole accogliere sacramentalmente e personalmente il perdono di Dio. Diversamente le conseguenze sono essenzialmente quelle stesse riservate al servo spietato della parabola: Mt 18,23-35. Pertanto, il perdono è sempre da donare: «Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”» (Mt 18,21-22).

«Rifiutare il perdono significa identificare la persona con il male che ha fatto»[21]. Inoltre, il primo beneficiario del perdono dato è la persona stessa che lo concede, perché in tal modo essa evolve la propria umanità, e perché le sue azioni vengono compiute nella libertà anziché nella reazione e nel rancore che intristisce e toglie la pace dello spirito. Inoltre, il perdonare costituisce obbedienza alla volontà di Dio che vuole essere imitato.

Il perdono di Dio è dunque da chiedere e accogliere. Dio ci ha amati dall’eternità e ci ha generati come figli in Cristo: Gv 1,1-18; 3,16. «Cristo infatti è apparso non soltanto per togliere i peccati»: 1Gv 3,5, ma anche per «dare la sua vita», non solo quella umana, ma anche quella divina: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»: Gv 10,10. «Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto, ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa» 1Gv 1,9. Infatti, come rivela la parabola evangelica: Lc 15,11.32, prima ancora che il pentimento del prodigo peccatore sia perfetto, il Padre lo riaccoglie come figlio inserendolo di nuovo, pienamente e con tutti i benefici, nella relazione paterna e fraterna.

La caratteristica del perdono di Dio, non è tanto quella di «dimenticare» l’ingratitudine e l’infedeltà del peccatore verso l’alleanza con lui, già accettata nel battesimo, ma è un perdono dell’essere, un rinnovamento della persona umana nelle sue dimensioni e relazioni. Poiché tale realtà non è immediatamente evidente se non alla lunga nelle sue conseguenze, sembra proprio che Cristo abbia voluto rivelarla nella guarigione del paralitico: Mc 2,1-12. Infatti dicendo: «Ti sono perdonati i tuoi peccati», ne ha sanato lo spirito; dicendo: «Alzati e cammina», ne ha guarito il corpo[22]. Dunque ha sanato l’uomo nella sua totalità come segno anticipatore della risurrezione, evidenziando così l’unità inscindibile del soggetto umano, e ha così pure evidenziato la guarigione del corpo come simbolo rivelatore del risanamento dello spirito e della sua riabilitazione ad agire liberamente – insieme alla libertà fisica – nella vita di relazione orizzontale e verticale.

Cristo ha perdonato: Lc 7,47-48; 23,34, e, risorgendo, ha affidato il suo perdono – poste le suddette premesse di interazione sacramentale da parte del soggetto credente, altrimenti anch’egli non ha potuto perdonare (cf. Mt 18,21-35) – alla mediazione sacramentale propria del sacerdozio ministeriale: Gv 20,22-23; Mt 16,18-19; Mt 18,19.

– Attuazione del perdono sacramentale. Alla Chiesa «ministeriale» spetta il compito di agire l’«oggettività sacramentale» del perdono di Dio nella simbolicità del rito, e lo fa dopo aver valutato le premesse della «soggettività» integrante il sacramento della riconciliazione, pena l’invalidità.

In virtù del ritorno alle fonti biblico-teologiche della parola di Dio, cui la Chiesa è pervenuta con il Vaticano II, sembra di poter affermare che la cosiddetta «penitenza», che «segue» il riconoscimento-pentimento-confessione dei peccati e l’impegno di riprendere il cammino dell’alleanza con Dio e che «precede» l’assoluzione-perdono sacramentale, dovrebbe consistere, poiché non deve neppure simbolicamente ripristinare «l’idea più pagana che biblica del sacrificio espiatorio per i peccati»[23], nell’assegnazione di una lettura biblica, in modo che la parola di Dio sia di luce e di forza corrispondenti alle necessità del penitente, lasciando che sia questi a tradurla adeguatamente nelle varie situazioni della sua storia.

——————————————————————————–

[1] Per il punto della situazione cf. L. Ligier, Il sacramento della penitenza secondo la tradizione orientale, in «Rivista Liturgica» 54 (1967) 597-627; A. Nocent, La riconciliazione dei penitenti nella Chiesa del VI e X secolo, in «Rivista Liturgica» 54 (1967) 628-642; J. Ramos-Regidor, Il sacramento della penitenza, evento ecclesiale, in «Rivista Liturgica» 54 (1967) 706-757; E. Ruffini, Teologia della penitenza e nuovo rito della penitenza sacramento, in «Rivista Liturgica» 62 (1975) 7-23; E. Mazza, La riforma del rito della penitenza. Elementi per una reinterpretazione, in «Rivista Liturgica» 78 (1991) 507-532.

[2] A. Vergote, Le sacrement de pénitence et de réconciliation, in «Nouvelle Revue Théologique» 118 (1996) 653 (653-670). Sottolinea Vergote: «Les dimensions humaines sont co-costitutives du sacrement [...]. Les deux initiatives (l’action divine et l’action humaine) se nouent si étroitement qu’on peut inverser l’ordre de la proposition: un sacrement est une action divine qui, en la suscitant et en la soutenant, se joint à une action humaine»: pp. 653-654. Vergote evidenzia che il simbolo sacramentale è tale se contiene la realtà antropologica e teologica come processo che opera un «passaggio» senza soluzione di continuità, cf. p. 653.

[3] A. Bozzolo, Mistero, simbolo e rito in Odo Casel. L’effettività sacramentale della fede (= Monumenta Studia Instrumenta Liturgica, 30), LEV, Città del Vaticano 2003, p. 55. Casel sottolinea che mentre la concezione moderna del cristianesimo si caratterizza per la tendenza a privilegiare il momento istituzionale della fede, «la mens antica [dei Padri], al contrario, presentando il cristianesimo come “mistero”, ritrova proprio nel sacramento il luogo di riconoscimento tanto della precedenza dell’azione di Dio, quanto della possibilità e necessità dell’azione dell’uomo, perché indica nella libera disposizione di sé richiesta dall’atto liturgico il luogo decisivo per attingere l’attualità dell’evento cristologico. “Mistero” è infatti l’azione divina, ma in quanto essa si dà nella forma umana dell’azione “di Gesù” e in quanto essa suscita e disegna lo spazio che rende possibile e necessaria l’azione “della Chiesa”»: pp. 98-99.

[4] Bozzolo, Mistero, simbolo e rito, cit., pp. 383, 386. Il rito «è simbolo in quanto partecipa della realtà che in esso si mostra»: p. 94, e «il sacramento è simbolo reale», azione memoriale attualizzante l’azione salvifica di Cristo: pp. V, VII, 51-52; cf. anche O. Casel, Fede, gnosi e mistero. Saggio di teologia del culto cristiano (= «Caro Salutis Cardo». Studi/Testi, 14), EMP-Abbazia di S. Giustina, Padova 2001, pp. 51-52, 57.

[5] S. Marsili, Il simbolismo della iniziazione cristiana alla luce della teologia liturgica, in G. Farnedi (ed.), I simboli dell’iniziazione cristiana. Atti del 1° Congresso Internazionale di Liturgia, Pontificio Istituto Liturgico 25-28 Maggio 1982 (= Studia Anselmiana, 87. Analecta Liturgica, 7), PIL, Roma 1983, p. 276 (259-280). «Il rito liturgico non è solo “significante” – che rimanda alla storia della salvezza compiuta da Cristo –, ma “contiene” già, in quanto “simbolo” della storia della salvezza, la realtà volta per volta “significata”»: p. 275.

[6] Bozzolo, Mistero, simbolo e rito, cit., p. 386 e pp. 162-167; cf. O. Casel, Il mistero del culto cristiano, Borla, Roma 1985, p. 42.

[7] Casel definisce l’eucaristia «sacramento del sacrificio della croce» (Casel, Fede, gnosi e mistero, cit., pp. 117; 109; 197); Marsili definisce l’eucaristia «sacramento del sacrificio spirituale», poiché «la morte di Cristo sulla croce fu sacrificio spirituale», giacché fu essenzialmente obbedienza e imitazione di Dio Padre (S. Marsili, Teologia della celebrazione dell’eucaristia, in S. Marsili – A. Nocent – M. Augé – A.J. Chupungco [edd.], La liturgia, eucaristia: teologia e storia della celebrazione [= Anàmnesis, 3/2], Marietti, Casale M. 1983, pp. 176; 178-186 [9-186]), del resto è la definizione del testo conciliare di Trento nella sua riproposizione superante la distinzione di sacramento e sacrificio: pp. 120, 121.

[8] L’idea marsiliana di «trasferimento» del sacrificio spirituale nei simboli ha il vantaggio di considerare i simboli del corpo sacrificato di Cristo, il pane, e del suo sangue versato per l’alleanza, il vino, come «“contenitori” e “comunicatori” di tale presenza perciò sacramentale» (Marsili, Teologia della celebrazione, cit., p. 184); tuttavia mi sembra che l’idea di «incorporazione» del sacrificio teologico-spirituale della croce in tali simboli evidenzi ancor meglio quella che Casel chiama «la sintesi di “evento-reale e significato” propria dei simboli sacramentali» (Bozzolo, Mistero, simbolo e rito, cit., pp. 94, 383, 386), come pure evidenzi l’unità con la materia che, come nell’incarnazione, non è solo «strumento» passivo della realtà divina, ma è trasformata con in unità agente. È illuminante in proposito quanto ha affermato Casel dicendo che: come «l’umanità del Signore è simbolo della sua divinità», così i sacramenti sono azioni simbolico-salvifiche della sua divinità; e che «l’unicità del contenuto teologico che lega il sacramento e l’evento è fondata sul fatto che nel simbolo l’evento realizza il proprio senso, irriducibile alla fatticità empirica, senza per questo perdere il carattere storico della propria attuazione»: pp. 205, 167; cf. anche Casel, Fede, gnosi e mistero, cit., pp. 137, 138.

[9] Cf. A. Vidalin, Le corps de la présence réelle. Une réflexion théologique sur l’eucharistie a partir de M. Henry, in «Nouvelle revue thèologique» 125 (3/2003) 422, 424, 427 (418-428).

[10] Marsili, Il simbolismo della iniziazione, cit., pp. 274-275.

[11] Cf. L. Zak, Il simbolo come via teologica. Spunti di riflessione sul simbolismo di Pavel Florenskij, in «Humanitas» 58 (4/2003) 602, 610-611 (598-614).

[12] Vergote, Le sacrement, cit. p. 653.

[13] Ibid., p. 656. Nel cristianesimo, sottolinea Vergote, «il soprannaturale si articola sulla natura psichica», così come salute e malattia si giocano dentro l’attività simbolica della psiche. Ciò trova supporto nell’individuazione «in san Paolo dell’analogia tra i segni di salute psichica e le qualità che la fede deve avere»; perciò viene messo a punto il ruolo e le caratteristiche sia dell’educazione poggiante non su moralismi, ma sul desiderio che, per effetto dei significanti religiosi, si apre all’amore di Dio; sia del rito liturgico come azione simbolica, affinché il soggetto possa beneficiare contemporaneamente di equilibrio psichico e di fede autentica e possa realizzarsi in rapporto col Dio vivente. Nell’azione simbolica della liturgia – evidenzia dunque Vergote – il soggetto viene salvato nella sua integrità: cf. M.-J. De Pauw, «Dette et désire» de A. Vergote, in «Revue théologique de Louvain» 10 (4/1979) 456, 460ss. (454-462).

[14] Vergote, Le sacrement, cit., p. 656.

[15] Ibid., p. 657; «Il cammino sacramentale non può che essere il compimento […] L’angoscia di colpevolezza può essere patologica […] Se essa non è un’angoscia morbida davanti al giudizio di Dio, essa si nasconde per lo più del tempo in una sorta di sintomi nevrotici e psicosomatici. L’assenza – invece – della capacità di provare sentimenti di colpa rappresenta, essa stessa, una forma di patologia. Essa testimonia sia la non formazione psicologica della coscienza morale, sia la psicosi paranoica dove l’idea delirante della propria grandezza nutre costantemente l’accusa degli altri»: p. 657.

[16] Ibid., pp. 661-662.

[17] Ibid., pp. 662-663.

[18] Cf. A. Wenin, L’umanità e il creato: dominio e mitezza, in A.N. Terrin (ed.), Ecologia e liturgia (= «Caro Salutis Cardo». Contributi, 19), EMP-Abbazia di S. Giustina, Padova 2003, pp. 23-47, riguardo l’impegno dell’uomo, maschio e femmina, chiamato ad agire a immagine di Dio, sviluppando la propria personalità e i propri talenti mentre scopre i segreti e le risorse dell’universo da destinare a ogni uomo in quanto creato come vertice della creazione; riguardo il ridimensionamento dei consumi a favore dell’uguaglianza e dell’amore solidale; riguardo la necessità e lo scopo del riposo; ecc.

[19] Vergote, Le sacrement, cit., pp. 661-662; già sant’Ambrogio, quando divenne vescovo di Milano, «ogni volta che qualcuno gli confessava i suoi peccati per riceverne la penitenza, piangeva a tal punto da ridurre al pianto il penitente: si considerava infatti peccatore col peccatore»: Messa della vigilia del 7 dicembre, in Messale ambrosiano quotidiano, vol. I, p. 1020. Cf. anche G.L. Brena, Ecologia e teologia: presupposti per una convergenza, in Terrin (ed.), Ecologia e liturgia, cit., pp. 49-68. Vergote (in Id., Dette et désire. Deux axes chrétiens et la dérive pathologique, Seuil, Paris 1978) ha messo a punto le caratteristiche che il rito, come azione simbolica, deve avere affinché il soggetto possa beneficiare contemporaneamente di equilibrio psichico e di fede autentica e possa realizzarsi in rapporto col Dio vivente; De Pauw (in Id., «Dette et désire» de A. Vergote, cit.) ne sottolinea alcune dicendo che la liturgia, mentre decentra il soggetto, deve: a) liberare il soggetto dall’idea che le pulsioni siano colpevolizzanti, e non deve esaltare le virtù di obbedienza, di rinuncia e di umiltà in modo da inibire quello spirito di iniziativa, di audacia e di capacità di rischiare che reprime l’autonomia, la libertà di pensiero e l’assunzione di responsabilità; b) liberare dalla colpevolizzazione che, spronando il desiderio verso la perfezione assoluta, raddoppia il narcisismo; c) liberare il soggetto dal legalismo, poiché esso rivela una ricerca di amore accompagnata da intolleranza, autoritarismo e presunzione. Il legalismo agisce, per mezzo delle sue proprie azioni, come se producesse lui stesso il dono dell’Altro e non lascia spazio al desiderio (p. 458); d) presentare e vivere il sacrificio, non come mutilazione, ma come scambio che opera un legame di amore nella differenza riconosciuta (p. 459); e) puntare non sul moralismo, ma sul Cristo vita come lo presenta la parola di Dio che interpella e struttura il desiderio, proprio mentre affascina l’intelligenza con la sua luce trascendente (pp. 458-459); f) favorire l’identificazione, il cui scacco comporta il ripiegamento nel narcisismo; perciò occorre stimolare l’apertura e il mantenimento dello «sguardo» ai segni-simboli della presenza del Signore affinché il soggetto, rispondendo senza condizionamenti e con tutto il proprio essere a questi segni-simboli, coinvolga anche le forze oscure che abitano il suo psichismo (p. 460). L’autenticità religiosa e la salute psichica devono estendersi e attualizzarsi anche nella comunità ecclesiale, affinché il soggetto ne sia garantito (p. 460). Questi aspetti dell’agire umano riguardanti il cammino della salute psichica e del vivere autenticamente la fede e che la liturgia è chiamata a favorire, la liturgia penitenziale può trasformarli anche come verifica del cammino di fede, tra cui anche quella di interrogarsi sul vivere o meno dell’uomo a immagine di Dio, nel senso richiesto di non dividere mai tale immagine attiva, ma agire contemporaneamente con intelligenza e amore in qualunque situazione, specie nel dominio dell’universo: cf. B. Maggioni, Uomo e società nella Bibbia, Jaca Book, Milano 1987, e l’enciclica Laborem exercens, nn. 12, 14, 25-27, riguardanti il rapporto dell’uomo con la vita lavorativa e socio-economica, nonché l’amore solidale.

[20] È noto che Gesù ha negato il collegamento di causa-effetto tra peccato e malattia, tra peccato e punizione, cf. quanto dice in proposito al momento del miracolo del cieco nato (Gv 9,1-7).
[21] Vergote, Le sacrement, cit., p. 667.
[22] Gesù non ha certo collegato l’infermità al peccato come sua causa, giacché, in altre occasioni, per esempio quella della guarigione del cieco nato, ha separato le due realtà.
[23] Vergote, Le sacrement, cit., pp. 667-668, 666.

Publié dans:liturgia |on 28 avril, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini sacre animal--trydacna-squamosa

Tridacna squamosa)
Thailand

http://www.naturephoto-cz.com/invertebrates.html

Publié dans:immagini sacre |on 28 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Sant’Anselmo d’Aosta : « Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100428

Mercoledì della IV settimana di Pasqua : Jn 12,44-50
Meditazione del giorno
Sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109), monaco, vescovo, dottore della Chiesa
Meditazioni

« Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre  »

        O buon Signore Cristo Gesù, come sole tu illuminasti me che non ti cercavo né ti pensavo, e mi mostrasti come ero… Hai rimosso il peso che mi opprimeva dall’alto; hai respinto chi mi percuoteva con la tentazione… Tu mi chiamasti con un nome nuovo (Ap 2,17) tratto dal tuo nome e, incurvato com’ero, mi innalzasti fino alla tua visione dicendo: «Non temere, io ti ho riscattato, ho dato per te la mia vita. Se stai unito a me, fuggirai i mali in cui ti trovavi e non precipiterai nell’abisso verso il quale correvi; ma io ti condurrò nel mio regno…»

        Sì, Signore, tutto questo facesti per me. Ero nelle tenebre e non lo sapevo…, scendevo verso gli abissi dell’ingiustizia, ero caduto nella miseria del tempo per cadere ancora più in basso. E nell’ora in cui mi trovavo senza soccorso, illuminasti me mentre non ti cercavo… Nella tua luce, vidi ciò che erano gli altri, e ciò che ero io…; mi desti di credere nella mia salvezza, tu che desti la tua vita per me… Lo riconosco, o Cristo, devo tutta la mia vita al tuo amore.

ulivo secolare

ulivo secolare dans immagini belle ulivo

http://www.cicloamici.it/lecce1000.htm

Publié dans:immagini belle |on 27 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Ulivi, olio di letizia e mistero della croce

dal sito:

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo-rivista.jsp?wi_number=1217&wi_codseq=TS0804

Ulivi, olio di letizia e mistero della croce

di Edoardo Arborio Mella | luglio-agosto 2008

Nel monastero etiope situato su uno dei tetti del Santo Sepolcro a Gerusalemme vi è un ulivo dotato di uno statuto di santità: secondo la tradizione etiopica è l’albero in cui era impigliato l’ariete che Abramo sacrificò al posto del figlio Isacco (Gen 22,13). Niente di bizzarro in quest’identificazione: in vari commentari sia ebraici che cristiani il monte del sacrificio corrisponde a Gerusalemme, e in tutta la tradizione cristiana quell’ariete prigioniero del legno e immolato è figura dell’Agnello di Dio inchiodato alla croce. Un mosaico nel Calvario latino evoca questa allegoria. A pochi metri dal luogo della croce è così stata posta la memoria della sua anticipazione.

Poche centinaia di metri, ed ecco nella parte bassa del monastero armeno una piccola chiesa costruita sul luogo ove la tradizione di lì pone la casa del sommo sacerdote Anna. Accanto ad essa un ulivo, al quale sarebbe stato legato Gesù mentre attendeva di essere interrogato (Gv 18,12-13).

Alcuni chilometri più in là, nella parte ebraica della città vi è un antico monastero dall’aspetto di fortezza oggi appartenente alla chiesa ortodossa; tutt’attorno vi è un vasto oliveto incorporato in un grande parco pubblico. Il monastero viene detto «della croce» perché precisamente dagli ulivi circostanti sarebbe stato ricavato il legno della croce. I vecchi ricordano ancora un’antica abitudine di pellegrinaggio in quel luogo.

Non si pensi tuttavia che l’ulivo sia connesso all’idea del supplizio e della morte. Al contrario: l’ulivo è una delle piante più tipiche della Terra Santa, assieme al fico e alla vite cui si potrebbe aggiungere la palma nella depressione del Mar Morto. Tutte piante fruttifere, segno di benedizione e di prosperità e oggetto di simbologie gioiose. L’ulivo, in particolare, è pianta che non muore mai ma rinasce continuamente da sempre nuove radici. Il suo olio in passato era offerto nelle libazioni e usato per l’unzione sacerdotale e regale, due eventi riassunti nella persona di Gesù, il Cristo, l’Unto. Dono prezioso ricevuto e donato, esso è comunione con Dio, quindi santità e gioia: «olio di letizia», lo chiama il salmo 45. La tradizione cristiana lo metterà in connessione con lo Spirito Santo, unione del cielo con la terra e dei fratelli tra loro. Quando in talune liturgie esso viene posto sulle persone con la sobrietà propria del gesto simbolico, il pensiero non può non correre alla grande unzione di benedizione e di vita di cui canta il salmo 133. Nella parabola del buon samaritano tutto il primo millennio ha visto Gesù chino sull’uomo ferito portando olio (e vino, latore di significati propri): l’Unto unge le nostre piaghe con lo Spirito vivificatore, le accarezza con il suo amore, la sua consolazione, la sua dolcezza. Spesso gli autori antichi hanno giocato su una consonanza di radici in greco fra olio e misericordia: la misericordia di Dio, larga come l’elemento profumato di cui condiamo i nostri cibi, che si diffonde e ricopre ogni cosa. L’olio serve inoltre a far luce: la luce prodotta da quelle lampade di terracotta di cui la Terra Santa è piena, la luce che era sempre accesa davanti alla Presenza ed è un altro degli attributi di Cristo.

Tutto ciò si concentra e si rivela con il massimo della pregnanza nel mistero della croce. Quanti hanno fissato quelle tradizioni negli ulivi di Gerusalemme forse si sono ricordati che Gesù ha preso la sua grande decisione di amore in un giardino di ulivi; certo avevano una vista profonda.

Publié dans:NATURA NELLA STORIA DELL'UOMO |on 27 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Sull’olivo e sulla sua origine ci sono miti e leggende.

dal sito:

http://miaplacidusedaltriracconti.blogspot.com/2008/05/l-tra-leggenda-e-realt.html

Sull’olivo e sulla sua origine ci sono miti e leggende.

L’olivo e i suoi generosi raccolti sarebbero stati fatti conoscere all’umanità dalla dea dell’antico Egitto Iside. La mitologia romana attribuisce a Ercole l’introduzione dell’olivo dal Nordafrica; la dea romana Minerva avrebbe insegnato l’arte della coltivazione dell’olivo e dell’estrazione del suo olio. Secondo un’altra leggenda l’olivo risalirebbe al primo uomo; il primo olivo sarebbe cresciuto sulla tomba di Adamo.
Gli antichi greci narrarono di una gara fra il dio del mare Posidone e la dea della pace e della sapienza Atena. La vittoria sarebbe stata assegnata a chi avesse prodotto il dono più utile per la città recentemente costruita nella regione greca dell’Attica. Posidone colpì una roccia col suo tridente e ne scaturì una sorgente. L’acqua cominciò a fluire, e dalla sorgente apparve il cavallo, simbolo di forza e potenza e aiuto prezioso in guerra. Quando venne il turno di Atena, la dea conficcò nel terreno la lancia, che trasformò in un olivo, simbolo di pace e fonte di cibo e di combustibile. Il dono di Atena fu considerato il più grande, e la nuova città fu chiamata in suo onore Atene. L’olivo è tuttora considerato un dono divino. Un olivo cresce ancora sull’Acropoli di Atene.
L’origine geografica dell’olivo è controversa. Resti fossili di quello che si ritiene sia un progenitore dell’olivo moderno sono stati trovati sia in Italia sia in Grecia. La prima coltivazione dell’olivo viene attribuita di solito a Paesi intorno al Mediterraneo orientale: a varie regioni negli attuali stati della Turchia, della Grecia, della Siria, dell’Iran e dell’Iraq. L’olivo domestico, Olea europaea, l’unica specie del genere Olea sfruttata per il suo frutto, è coltivata da almeno cinquemila anni, ma forse anche da settemila.
Dalle rive orientali del Mediterraneo, la coltivazione dell’olivo si diffuse in Palestina e in Egitto. Alcuni esperti credono che la coltivazione abbia avuto inizio a Creta, da dove, intorno al 2000 a.C., un’industria fiorente esportava l’olio in Grecia, in Nordafrica e in Asia Minore. Al crescere delle loro colonie, i greci introdussero l’olivo in Italia, in Francia, in Spagna e in Tunisia. All’espandersi dell’Impero romano, anche la coltivazione dell’olivo si diffuse nell’intero bacino mediterraneo. Per secoli l’olio d’oliva fu la merce più importante per la regione.
Oltre che per la sua funzione ovvia di fornire calorie preziose alla dieta, l’olio d’oliva fu usato in molti altri aspetti della vita quotidiana dei popoli mediterranei. Lampade che usavano come combustibile l’olio d’oliva illuminavano le case di sera. L’olio era usato anche a fini cosmetici; tanto i greci quanto i romani lo usavano per frizionarsi la pelle dopo un bagno. Gli atleti consideravano i massaggi con olio d’oliva essenziali per mantenere sciolti i muscoli. I lottatori aggiungevano sabbia o polvere al loro olio, per impedire la presa ai loro avversari. I rituali dopo le gare comportavano il bagno e altri massaggi con olio d’oliva, per lenire e guarire abrasioni. Le donne usavano olio d’oliva per mantenere giovane la pelle e lucidi i capelli. Si pensava che l’olio aiutasse a prevenire la calvizie e a promuovere la forza. I composti responsabili del profumo e dell’aroma nelle piante sono molto spesso solubili in olio, cosicché alloro, sesamo, rosa, finocchio, menta, ginepro, salvia e altre foglie e fiori venivano messi in infusione in olio d’oliva, producendo miscugli esotici profumati di grande pregio. In Grecia i medici prescrivevano olio d’oliva o alcuni di tali miscugli per numerosi disturbi e malattie, fra cui nausea, colera, ulcere e insonnia. Numerosi riferimenti all’olio d’oliva, assunto per bocca o applicato esternamente, appaiono in antichi testi egizi di medicina. Dell’olivo si usavano persino le foglie per attenuare la febbre e fornire sollievo contro la malaria. Oggi sappiamo che contengono acido salicilico, la stessa molecola, presente nel salice e nell’olmaria, da cui nel 1893 Felix Hofmann sviluppò l’Aspirina.
 L’importanza dell’olio d’oliva per i popoli del Mediterraneo si riflette nei loro scritti e addirittura nelle loro leggi. Il poeta greco Omero lo chiamò « oro liquido ». Il filosofo greco Democrito pensava che una dieta a base di miele e olio d’oliva potesse permettere a un uomo di vivere cento anni, un’età estremamente avanzata in un’epoca in cui la speranza di vita oscillava intorno a quarant’anni. Nel VI secolo a.C. il legislatore ateniese Solone — che promulgò fra l’altro un codice di leggi umano, istituì tribunali popolari e il diritto di assemblea, e fondò un senato — introdusse leggi per la protezione dell’olivo. Da un oliveto si potevano rimuovere ogni anno solo due olivi. La violazione di questa legge comportava sanzioni gravi, fra cui la pena di morte.
Nella Bibbia ci sono più di cento riferimenti alle olive e all’olio di oliva. Per esempio: dopo il diluvio la colomba, uscita dall’arca, porta a Noè un ramoscello d’olivo; Mosè riceve l’istruzione di preparare un unguento di spezie e olio d’oliva; il buon samaritano versa vino e olio sulle ferite della vittima dei predoni; e le vergini sagge tengono le lampade piene d’olio d’oliva. A Gerusalemme c’è il Monte degli Olivi. Il re degli ebrei Davide nominò delle guardie per proteggere i suoi oliveti e i suoi magazzini. L’enciclopedista romano Plinio il Vecchio, nel I secolo a.C., nella Naturalis historia (XV, 1-8) scrisse che l’Italia aveva il migliore olio d’oliva del Mediterraneo. Virgilio elogiò l’olivo:
E tu però, se saggio sei, provvedi, che ne’ tuoi campi numeroso alligni questo caro alla pace arbor fecondo.’
Sulla base di tutte queste informazioni sulle funzioni svolte dall’olivo nella religione, nella mitologia e nella poesia, oltre che nella vita quotidiana, non sorprende che esso sia diventato un simbolo importante per molte culture. Nell’antica Grecia, presumibilmente per il fatto che un’abbondanza d’olio d’oliva per cibo e per lampade implicava una prosperità che mancava negli anni di guerra, l’olivo divenne sinonimo di tempo di pace. Noi parliamo ancora di porgere un ramoscello d’olivo quando intendiamo fare un tentativo di pacificazione. L’olivo fu considerato anche un simbolo di vittoria, e i vincitori dei giochi olimpici ricevevano un serto di foglie d’olivo oltre a un premio in olio. Gli oliveti erano spesso considerati un obiettivo da colpire durante la guerra, poiché la loro distruzione non solo eliminava un’importante fonte di cibo del nemico, ma gli infliggeva anche un colpo psicologico devastante. L’albero dell’olivo rappresentava anche saggezza e rinnovamento; dagli olivi che sembravano distrutti dal fuoco spuntavano spesso nuovi germogli e l’albero tornava poi a dar frutto.
Infine, l’olivo rappresentava la forza (un tronco d’olivo era il bastone di Ercole) e il sacrificio (la croce su cui fu inchiodato Cristo sarebbe stata di olivo). In varie epoche e in varie culture l’olio ha simboleggiato potere e ricchezza, verginità e fertilità. L’olio d’oliva è stato usato per secoli per ungere re, imperatori e vescovi, nella loro incoronazione od ordinazione. Saul, il primo re d’Israele, fu consacrato da Samuele che gli versò un vasetto d’olio sul capo. Centinaia d’anni dopo, dal lato opposto del Mediterraneo, il re dei franchi Clodoveo I fu unto con olio d’oliva alla sua incoronazione. Altri trentaquattro re di Francia furono successivamente unti con olio tratto dalla stessa boccetta in forma di pera, fino alla sua distruzione durante la Rivoluzione francese.
L’olivo è un albero molto resistente. Esso ha bisogno, per dare un raccolto abbondante, di un clima con un breve inverno freddo, senza gelate primaverili che uccidano i fiori. Una lunga estate molto calda e un autunno mite permettono alle olive di maturare. Il Mediterraneo rinfresca le sue coste africane e riscalda le sue rive settentrionali, rendendo la regione idealmente adatta alla coltivazione dell’olivo. L’olivo non cresce nell’interno, lontano dall’effetto mitigante di un grande mare. Gli olivi possono sopravvivere anche in presenza di una piovosità molto scarsa. Le loro lunghe radici a fittone penetrano in profondità per trovare l’acqua, e le foglie sono strette e coriacee con una superficie inferiore opaca e argentea: adattamenti che impediscono la perdita d’acqua per evaporazione. L’olivo può sopravvivere a lunghi periodi di siccità e può crescere su suoli rocciosi e su terrazzature pietrose. Un gelo estremo e tempeste invernali possono strappargli rami e spezzare tronchi, ma anche un olivo apparentemente distrutto dal freddo la primavera seguente si rigenera ed emette nuovi polloni verdi. Non sorprende che coloro che si trovarono a dipendere dall’olivo per migliaia di anni siano giunti a venerarlo.

Publié dans:NATURA NELLA STORIA DELL'UOMO |on 27 avril, 2010 |Pas de commentaires »

GLI ALBERI DI ULIVO NELLA STORIA DELL’UOMO

dal sito:

http://www.ulivi-online.it/ulivi_storia.htm

GLI ALBERI DI ULIVO NELLA STORIA DELL’UOMO

Cenni storici dalla comparsa della pianta di ulivo sulla Terra all’utilizzo e alla coltivazione nel corso dei secoli 

La pianta di ulivo è stata la prima ad essere selezionata dall’uomo: la sua storia e quella delle civiltà mediterranee si intrecciano da oltre settemila anni.
La coltivazione di queste piante ebbe inizio nei paesi del Mediterraneo orientale. Cinquemila anni fa, in questa zona, la produzione ed il commercio dell’olio divennero una fra le principali risorse economiche. Grazie all’opera dei Micenei, dei Fenici, dei Greci e dei Romani l’olivo giunge ad essere una delle principali colture agricole del Mediterraneo e l’olio fu usato per molti usi quotidiani. L’ulivo venne travolto dalla crisi politica, economica e militare dettata dalla caduta dell’Impero Romano e l’olio tornò ad essere un’elemto raro, prezioso e riservato ad usi religiosi o a pochi privilegiati.
Dal Medio Evo, attraverso i secoli, si sono consolidate le tradizioni delle grandi aree oleicole di oggi e l’albero di ulivo è tornato ad essere uno degli elementi più importanti del paesaggio mediterraneo.

L’olivo si potrebbe quasi definire una pianta immortale grazie alla sua capacità di rigenerarsi dalla ceppaia. Le caratteristiche botaniche, l’aspetto, le varietà diffuse nel Mediterraneo, il portamento, il ciclo vegetativo annuale, l’impianto e le pratiche colturali di un oliveto ci permettono di apprezzare le peculiarità per molti versi eccezionali di questo albero.

L’utilizzo dell’ulivo e dei suoi prodotti è una testimonianza dell’ingegnosità umana oltre che delle straordinarie caratteristiche di questa pianta. Reperti rari e sorprendenti di ogni epoca e paese, descrizioni e passi tratti dalla Bibbia, da Omero, da poeti e scrittori del passato illustrano l’importanza di questo albero nella vita dell’uomo.
L’ulivo ha costituito un contributo ed un elemento indispensabile al benessere quotidiano e ad un raffinato modo di vita. Luce, medicamenti, unguenti e profumi, lubrificanti, alimento, condimento, calore e legno sono i preziosi doni dell’ulivo all’uomo.

Come gli antichi, anche noi possiamo dire che il Mediterraneo inizia e finisce con l’olivo. L’olio d’oliva è da millenni uno dei prodotti e delle merci più preziose del Mediterraneo.
Le aree oleicole lo esportavano, a caro prezzo, verso i popoli che non erano in grado di produrlo e che, ben presto si sforzavano di iniziare la coltivazione dell’olivo.
L’olio e l’olivo si sono quindi diffusi verso occidente in tutto il mondo allora conosciuto, dalle coste di Siria e Palestina fino all’oceano Atlantico. Lungo questo viaggio l’olivo vede nascere alcune delle più importanti civiltà antiche.

L’olivo iniziò dalle città della Fenicia il proprio viaggio, che si svolgeva sotto la protezione del dio Melqart, più tardi identificato con Eracle o Ercole. A bordo delle navi dei mercanti fenici di Tiro l’olivo oltrepassò lo stretto di Gibilterra e a Cadice, in un altro tempio di Melqart fu collocata l’immagine di un olivo che segnava la fine del suo viaggio e del Mediterraneo.

L’ulivo raggiunge molto anticamente la Grecia e già cinquemila anni fa gli abitanti di Creta e del Peloponneso si nutrivano di cibi cotti in olio d’oliva. Quattromila anni fa Minosse di Creta e poi i re micenei furono grandi produttori di olio, che commerciarono in Italia meridionale, in Sicilia e Sardegna.
Nell’Atene classica l’olivo gode di una considerazione eccezionale: l’albero piantato sull’Acropoli dalla stessa Dea Atena è il simbolo della città, ne incarna la sopravvivenza e la prosperità.

L’ulivo fa una prima timida comparsa in Italia tremilacinquecento anni fa, ma si diffonde ad opera dei mercanti fenici, cartaginesi e dei coloni greci soprattutto a partire dal VII secolo a.C. Etruschi ed Italici acquistano l’olio dai mercanti greci e fenici ed iniziano ad apprendere da questi popoli le tecniche di coltivazione dell’olivo e di estrazione olearia.
Autori latini come Catone e Columella scrissero volumi per spiegare come si devono coltivare gli olivi e come produrre l’olio migliore.

L’olio d’oliva e l’olivo arrivano sulle coste iberiche nell’ottavo secolo a.C. ad opera dei mercanti fenici che offrivano le proprie merci alle genti iberiche per avere in cambio i metalli di cui la Spagna era ricca: rame, argento e oro. Da questi contatti nacque una cultura originale, ricca di elementi locali, fenici, greci e cartaginesi. Durante i primi secoli dell’Impero Romano la Spagna divenne la principale provincia olearia mediterranea e le anfore di olio betico importato a Roma per vari secoli, ammucchiate, diedero origine ad un nuovo monte in prossimità del Tevere: il Monte Testaccio.

Le ricerche moderne hanno messo in luce proprietà e principi attivi dell’olio d’oliva che spiegano l’enorme fortuna e la lunga tradizione dei cosmetici a base oleosa tra le civiltà del Mediterraneo.
Fin dagli albori della storia i cosmetici hanno assunto un ruolo che spesso sconfinò nelle pratiche mediche e nei rituali religiosi.
Davanti allo specchio, fra vasetti di olio cosmetico e strumenti studiati per esaltare il fascino e la perfezione del corpo, hanno sorriso i personaggi simbolo di bellezza nel mondo antico: Afrodite, Elena, Cleopatra…

L’ulivo è il simbolo mediterraneo per eccellenza.
Le suggestioni religiose, artistiche, spirituali e letterarie ad esso collegate costituiscono un fenomeno impressionante e antico.
L’olio di oliva ha alimentato i lumi nei templi egizi del Dio Ra, nel Tempio di Salomone a Gerusalemme, nelle chiese e nelle moschee. E’ stato considerato sacro agli dei fenici, ittiti, greci prima ancora che nelle grandi religioni monoteistiche.
Le sue fronde simboleggiano da millenni la pace, l’onore e la vittoria; il suo olio consacra Re, Sacerdoti e Vescovi, unge i credenti, infonde loro forza, speranza e salvezza, scandendo la nascita, la morte ed i momenti più importanti della loro vita.

Publié dans:NATURA NELLA STORIA DELL'UOMO |on 27 avril, 2010 |Pas de commentaires »
12345...14

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31