Archive pour le 21 avril, 2010

Je crois en Dieu…Io credo in Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra.

Je crois en Dieu...Io credo in Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra. dans immagini sacre 01

Je crois en Dieu, le Père Tout-Puissant, Créateur du ciel et de la terre.
 
 Regardez les oiseaux du ciel : ils ne font ni semailles ni moisson, ils ne font pas de réserves dans des greniers, et votre Père céleste les nourrit. Ne valez-vous pas beaucoup plus qu’eux ? D’ailleurs, qui d’entre vous, à force de souci, peut prolonger tant soit peu son existence ? Et au sujet des vêtements, pourquoi se faire tant de souci ? Observez comment poussent les lis des champs : ils ne travaillent pas , ils ne filent pas. Si Dieu habille ainsi l’herbe des champs, qui est là aujourd’hui, et qui demain sera jetée au feu, ne fera-t-il pas bien davantage pour vous, hommes de peu de foi ? (Mt 6,26-28.30)

http://www.evangile-et-peinture.org/static/vernissage_10_2003/index.htm

L’umiltà, una virtù sospetta

 dal sito:

http://oratoriotirano.wordpress.com/ritagli-dello-spirito/

L’umiltà, una virtù sospetta

Enzo Bianchi

L’umiltà è una virtù sospetta. Questa parola ci giunge carica del peso di un’eredità che l’ha resa virtù individuale, meta della ricerca di autoperfezionamento del singolo. Inoltre essa appare sinonimo di auto annientamento della creatura di fronte al Dio che è tutto e di diminuzione di sé di fronte agli altri, ciò che oggi è sentito come atteggiamento non più adeguato al Dio che non schiaccia l’umano, ma lo assume e lo valorizza. A volte, poi, sembra riferirsi a un atteggiamento posticcio, un mostrarsi da meno di quel che si è e si vale, Gli psicologi vi preferiscono certamente il vocabolo «autenticità»(tutto sommato non distante dal significato del termine antico humilitas). Nietzsche colloca l’umiltà nell’alveo della ricerca religiosa di consolazione della propria impotenza. Ma l’umiltà non è solo sospetta, forse è anche pericolosa. È pericoloso predicare l’umiltà e fame una legge, perché occorre valutare la ricezione che di essa possono avere le diverse persone. Probabilmente essa rischierebbe di non scalfire mai chi ha un «super io» e di trovare una non equilibrata accoglienza in chi si nutre di un «io minimo».

Ma soprattutto ci dobbiamo chiedere: che cos’è l’umiltà? Le molteplici definizioni che la tradizione cristiana ne ha dato ci orientano a coglierne il carattere relativo: relativo cioè alla diversità delle persone e delle libertà personali. La stessa definizione più attestata, e che meglio coglie il suo carattere proprio, la vede non tanto come una virtù, ma come il fondamento e la possibilità di tutte le altre virtù. «L’umiltà è la madre, la radice, la nutrice, il fondamento, il legame di tutte le altre virtù», dice Giovanni Crisostomo, e in questo senso si comprende che Agostino possa vedere «in essa sola, l’intera disciplina cristiana» (Sermo 351,3,4). Occorre pertanto sottrarre l’umiltà alla soggettività e al devozionalismo e ricordare che essa nasce dal Cristo che è il magister humilitatis (maestro dell’umiltà), come lo chiama Agostino. Ma Cristo è maestro di umiltà in quanto «ci insegna a vivere» (Tito 2,12) guidandoci a una realistica conoscenza di noi stessi. Ecco, l’umiltà è la coraggiosa conoscenza di sé davanti a Dio e davanti al Dio che ha manifestato la sua umiltà nell’ abbassamento del Figlio, nella kénosi fino alla morte di croce. Ma in quanto autentica conoscenza di sé, l’umiltà è una ferita portata al proprio narcisismo, perché ci riconduce a ciò che siamo in realtà, al nostro humus, alla nostra creaturalità, e così ci guida nel cammino della nostra umanizzazione, del nostro divenire homo. Ecco l’humilitas: «O uomo, riconosci di essere uomo; tutta la tua umiltà consista nel conoscerti» (Agostino) .

Imparata da colui che è «mite e umile di cuore» (Matteo 11,29), l’umiltà fa dell’uomo il terreno su cui la grazia può sviluppare la sua fecondità. Poiché l’uomo conosce la propria creaturalità, i propri limiti creaturali, ma poi anche il proprio essere peccatore, e contemporaneamente sa di aver tutto ricevuto da Dio e di essere amato anche nella propria limitatezza e negatività, l’umiltà diviene in lui volontà di sottomissione a Dio e ai fratelli nell’ amore e nella gratitudine. Sì, l’umiltà è relativa all’amore, alla carità. «Là dov’è l’umiltà, là è anche la carità» afferma Agostino, e un filosofo contemporaneo gli fa eco: «L’umiltà dispone e apre alla grazia, ma non l’umiltà è questa grazia, bensì solo la carità» (V. Jankélévitch). In questo senso essa è anche elemento essenziale alla vita in comune, e non a caso nel Nuovo Testamento risuona costantemente l’invito dell’ apostolo ai membri delle sue comunità a «rivestirsi di umiltà nei rapporti reciproci» (I Pietro 5,5; Colossesi 3,12), a «stimare gli altri, con tutta umiltà, superiori a se stessi» (Filippesi 2,3), a «non cercare cose alte, ma piegarsi a quelle umili» (Romani 12,16): solo così può avvenire l’edificazione comunitaria, che è sempre condivisione delle debolezze e delle povertà di ciascuno. Solo così viene combattuto e sconfitto l’orgoglio, che è «il grande peccato» (Salmo 19,14), o forse, meglio, il grande accecamento che impedisce di vedere in verità se stessi, gli altri e Dio. Più che sforzo di auto diminuzione, l’umiltà èallora evento che sgorga dall’incontro fra il Dio manifestato in Cristo e una precisa creatura. Nella fede, l’umiltà di Dio svelata da Cristo (cfr. Filippesi 2,8: «umiliò se stesso») diviene umiltà dell’uomo.
Certo, perché nasca la vera umiltà, perché l’umiltà sia anche, verità, perché si giunga ad aderire alla realtà obbedendo con riconoscenza a Dio, spesso occorre l’esperienza dell’umiliazione. Per noi umiliarci, in libertà e per amore, è operazione difficile, e compierla in modo puro è quasi impossibile: c’è infatti un’umiltà che è un pretesto per una vanagloria raddoppiata… Per questo l’umiltà non è tanto una virtù da acquistare, quanto un abbassamento da subire; dunque l’umiltà è anzitutto umiliazione. Umiliazione che viene dagli altri, soprattutto i più vicini a noi, umiliazione che viene dalla vita che ci contraddice e ci sconfigge, umiliazione che viene da Dio che con la sua grazia è capace di umiliarci e di innalzarci come nessun altro può farlo. Più che mai l’umiliazione è luogo per conoscere se stessi in verità e imparare l’obbedienza, come Cristo «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Ebrei 5,8), e tra queste «l’infamia e la vergogna» (cfr. Ebrei 12,2; 13,13). L’umiliazione è l’evento in cui si va a fondo del proprio abisso frantumando il cuore (cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies, Salmo 51,19). Allora, grazie a questa esperienza, si possono ripetere con verità le parole del Salmista: «Bene per me essere stato umiliato, ho imparato i tuoi comandamenti» (Salmo 119,71).

L’umiltà, una virtù sospetta

Enzo Bianchi

L’umiltà è una virtù sospetta. Questa parola ci giunge carica del peso di un’eredità che l’ha resa virtù individuale, meta della ricerca di autoperfezionamento del singolo. Inoltre essa appare sinonimo di auto annientamento della creatura di fronte al Dio che è tutto e di diminuzione di sé di fronte agli altri, ciò che oggi è sentito come atteggiamento non più adeguato al Dio che non schiaccia l’umano, ma lo assume e lo valorizza. A volte, poi, sembra riferirsi a un atteggiamento posticcio, un mostrarsi da meno di quel che si è e si vale, Gli psicologi vi preferiscono certamente il vocabolo «autenticità»(tutto sommato non distante dal significato del termine antico humilitas). Nietzsche colloca l’umiltà nell’alveo della ricerca religiosa di consolazione della propria impotenza. Ma l’umiltà non è solo sospetta, forse è anche pericolosa. È pericoloso predicare l’umiltà e fame una legge, perché occorre valutare la ricezione che di essa possono avere le diverse persone. Probabilmente essa rischierebbe di non scalfire mai chi ha un «super io» e di trovare una non equilibrata accoglienza in chi si nutre di un «io minimo».

Ma soprattutto ci dobbiamo chiedere: che cos’è l’umiltà? Le molteplici definizioni che la tradizione cristiana ne ha dato ci orientano a coglierne il carattere relativo: relativo cioè alla diversità delle persone e delle libertà personali. La stessa definizione più attestata, e che meglio coglie il suo carattere proprio, la vede non tanto come una virtù, ma come il fondamento e la possibilità di tutte le altre virtù. «L’umiltà è la madre, la radice, la nutrice, il fondamento, il legame di tutte le altre virtù», dice Giovanni Crisostomo, e in questo senso si comprende che Agostino possa vedere «in essa sola, l’intera disciplina cristiana» (Sermo 351,3,4). Occorre pertanto sottrarre l’umiltà alla soggettività e al devozionalismo e ricordare che essa nasce dal Cristo che è il magister humilitatis (maestro dell’umiltà), come lo chiama Agostino. Ma Cristo è maestro di umiltà in quanto «ci insegna a vivere» (Tito 2,12) guidandoci a una realistica conoscenza di noi stessi. Ecco, l’umiltà è la coraggiosa conoscenza di sé davanti a Dio e davanti al Dio che ha manifestato la sua umiltà nell’ abbassamento del Figlio, nella kénosi fino alla morte di croce. Ma in quanto autentica conoscenza di sé, l’umiltà è una ferita portata al proprio narcisismo, perché ci riconduce a ciò che siamo in realtà, al nostro humus, alla nostra creaturalità, e così ci guida nel cammino della nostra umanizzazione, del nostro divenire homo. Ecco l’humilitas: «O uomo, riconosci di essere uomo; tutta la tua umiltà consista nel conoscerti» (Agostino) .

Imparata da colui che è «mite e umile di cuore» (Matteo 11,29), l’umiltà fa dell’uomo il terreno su cui la grazia può sviluppare la sua fecondità. Poiché l’uomo conosce la propria creaturalità, i propri limiti creaturali, ma poi anche il proprio essere peccatore, e contemporaneamente sa di aver tutto ricevuto da Dio e di essere amato anche nella propria limitatezza e negatività, l’umiltà diviene in lui volontà di sottomissione a Dio e ai fratelli nell’ amore e nella gratitudine. Sì, l’umiltà è relativa all’amore, alla carità. «Là dov’è l’umiltà, là è anche la carità» afferma Agostino, e un filosofo contemporaneo gli fa eco: «L’umiltà dispone e apre alla grazia, ma non l’umiltà è questa grazia, bensì solo la carità» (V. Jankélévitch). In questo senso essa è anche elemento essenziale alla vita in comune, e non a caso nel Nuovo Testamento risuona costantemente l’invito dell’ apostolo ai membri delle sue comunità a «rivestirsi di umiltà nei rapporti reciproci» (I Pietro 5,5; Colossesi 3,12), a «stimare gli altri, con tutta umiltà, superiori a se stessi» (Filippesi 2,3), a «non cercare cose alte, ma piegarsi a quelle umili» (Romani 12,16): solo così può avvenire l’edificazione comunitaria, che è sempre condivisione delle debolezze e delle povertà di ciascuno. Solo così viene combattuto e sconfitto l’orgoglio, che è «il grande peccato» (Salmo 19,14), o forse, meglio, il grande accecamento che impedisce di vedere in verità se stessi, gli altri e Dio. Più che sforzo di auto diminuzione, l’umiltà èallora evento che sgorga dall’incontro fra il Dio manifestato in Cristo e una precisa creatura. Nella fede, l’umiltà di Dio svelata da Cristo (cfr. Filippesi 2,8: «umiliò se stesso») diviene umiltà dell’uomo.
Certo, perché nasca la vera umiltà, perché l’umiltà sia anche, verità, perché si giunga ad aderire alla realtà obbedendo con riconoscenza a Dio, spesso occorre l’esperienza dell’umiliazione. Per noi umiliarci, in libertà e per amore, è operazione difficile, e compierla in modo puro è quasi impossibile: c’è infatti un’umiltà che è un pretesto per una vanagloria raddoppiata… Per questo l’umiltà non è tanto una virtù da acquistare, quanto un abbassamento da subire; dunque l’umiltà è anzitutto umiliazione. Umiliazione che viene dagli altri, soprattutto i più vicini a noi, umiliazione che viene dalla vita che ci contraddice e ci sconfigge, umiliazione che viene da Dio che con la sua grazia è capace di umiliarci e di innalzarci come nessun altro può farlo. Più che mai l’umiliazione è luogo per conoscere se stessi in verità e imparare l’obbedienza, come Cristo «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Ebrei 5,8), e tra queste «l’infamia e la vergogna» (cfr. Ebrei 12,2; 13,13). L’umiliazione è l’evento in cui si va a fondo del proprio abisso frantumando il cuore (cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies, Salmo 51,19). Allora, grazie a questa esperienza, si possono ripetere con verità le parole del Salmista: «Bene per me essere stato umiliato, ho imparato i tuoi comandamenti» (Salmo 119,71).

L’umiltà, una virtù sospetta

Enzo Bianchi

L’umiltà è una virtù sospetta. Questa parola ci giunge carica del peso di un’eredità che l’ha resa virtù individuale, meta della ricerca di autoperfezionamento del singolo. Inoltre essa appare sinonimo di auto annientamento della creatura di fronte al Dio che è tutto e di diminuzione di sé di fronte agli altri, ciò che oggi è sentito come atteggiamento non più adeguato al Dio che non schiaccia l’umano, ma lo assume e lo valorizza. A volte, poi, sembra riferirsi a un atteggiamento posticcio, un mostrarsi da meno di quel che si è e si vale, Gli psicologi vi preferiscono certamente il vocabolo «autenticità»(tutto sommato non distante dal significato del termine antico humilitas). Nietzsche colloca l’umiltà nell’alveo della ricerca religiosa di consolazione della propria impotenza. Ma l’umiltà non è solo sospetta, forse è anche pericolosa. È pericoloso predicare l’umiltà e fame una legge, perché occorre valutare la ricezione che di essa possono avere le diverse persone. Probabilmente essa rischierebbe di non scalfire mai chi ha un «super io» e di trovare una non equilibrata accoglienza in chi si nutre di un «io minimo».

Ma soprattutto ci dobbiamo chiedere: che cos’è l’umiltà? Le molteplici definizioni che la tradizione cristiana ne ha dato ci orientano a coglierne il carattere relativo: relativo cioè alla diversità delle persone e delle libertà personali. La stessa definizione più attestata, e che meglio coglie il suo carattere proprio, la vede non tanto come una virtù, ma come il fondamento e la possibilità di tutte le altre virtù. «L’umiltà è la madre, la radice, la nutrice, il fondamento, il legame di tutte le altre virtù», dice Giovanni Crisostomo, e in questo senso si comprende che Agostino possa vedere «in essa sola, l’intera disciplina cristiana» (Sermo 351,3,4). Occorre pertanto sottrarre l’umiltà alla soggettività e al devozionalismo e ricordare che essa nasce dal Cristo che è il magister humilitatis (maestro dell’umiltà), come lo chiama Agostino. Ma Cristo è maestro di umiltà in quanto «ci insegna a vivere» (Tito 2,12) guidandoci a una realistica conoscenza di noi stessi. Ecco, l’umiltà è la coraggiosa conoscenza di sé davanti a Dio e davanti al Dio che ha manifestato la sua umiltà nell’ abbassamento del Figlio, nella kénosi fino alla morte di croce. Ma in quanto autentica conoscenza di sé, l’umiltà è una ferita portata al proprio narcisismo, perché ci riconduce a ciò che siamo in realtà, al nostro humus, alla nostra creaturalità, e così ci guida nel cammino della nostra umanizzazione, del nostro divenire homo. Ecco l’humilitas: «O uomo, riconosci di essere uomo; tutta la tua umiltà consista nel conoscerti» (Agostino) .

Imparata da colui che è «mite e umile di cuore» (Matteo 11,29), l’umiltà fa dell’uomo il terreno su cui la grazia può sviluppare la sua fecondità. Poiché l’uomo conosce la propria creaturalità, i propri limiti creaturali, ma poi anche il proprio essere peccatore, e contemporaneamente sa di aver tutto ricevuto da Dio e di essere amato anche nella propria limitatezza e negatività, l’umiltà diviene in lui volontà di sottomissione a Dio e ai fratelli nell’ amore e nella gratitudine. Sì, l’umiltà è relativa all’amore, alla carità. «Là dov’è l’umiltà, là è anche la carità» afferma Agostino, e un filosofo contemporaneo gli fa eco: «L’umiltà dispone e apre alla grazia, ma non l’umiltà è questa grazia, bensì solo la carità» (V. Jankélévitch). In questo senso essa è anche elemento essenziale alla vita in comune, e non a caso nel Nuovo Testamento risuona costantemente l’invito dell’ apostolo ai membri delle sue comunità a «rivestirsi di umiltà nei rapporti reciproci» (I Pietro 5,5; Colossesi 3,12), a «stimare gli altri, con tutta umiltà, superiori a se stessi» (Filippesi 2,3), a «non cercare cose alte, ma piegarsi a quelle umili» (Romani 12,16): solo così può avvenire l’edificazione comunitaria, che è sempre condivisione delle debolezze e delle povertà di ciascuno. Solo così viene combattuto e sconfitto l’orgoglio, che è «il grande peccato» (Salmo 19,14), o forse, meglio, il grande accecamento che impedisce di vedere in verità se stessi, gli altri e Dio. Più che sforzo di auto diminuzione, l’umiltà èallora evento che sgorga dall’incontro fra il Dio manifestato in Cristo e una precisa creatura. Nella fede, l’umiltà di Dio svelata da Cristo (cfr. Filippesi 2,8: «umiliò se stesso») diviene umiltà dell’uomo.
Certo, perché nasca la vera umiltà, perché l’umiltà sia anche, verità, perché si giunga ad aderire alla realtà obbedendo con riconoscenza a Dio, spesso occorre l’esperienza dell’umiliazione. Per noi umiliarci, in libertà e per amore, è operazione difficile, e compierla in modo puro è quasi impossibile: c’è infatti un’umiltà che è un pretesto per una vanagloria raddoppiata… Per questo l’umiltà non è tanto una virtù da acquistare, quanto un abbassamento da subire; dunque l’umiltà è anzitutto umiliazione. Umiliazione che viene dagli altri, soprattutto i più vicini a noi, umiliazione che viene dalla vita che ci contraddice e ci sconfigge, umiliazione che viene da Dio che con la sua grazia è capace di umiliarci e di innalzarci come nessun altro può farlo. Più che mai l’umiliazione è luogo per conoscere se stessi in verità e imparare l’obbedienza, come Cristo «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Ebrei 5,8), e tra queste «l’infamia e la vergogna» (cfr. Ebrei 12,2; 13,13). L’umiliazione è l’evento in cui si va a fondo del proprio abisso frantumando il cuore (cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies, Salmo 51,19). Allora, grazie a questa esperienza, si possono ripetere con verità le parole del Salmista: «Bene per me essere stato umiliato, ho imparato i tuoi comandamenti» (Salmo 119,71).

Publié dans:meditazioni |on 21 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Papa Benedetto: Come san Paolo, sono stato accolto con calore dai maltesi

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22152?l=italian

Come san Paolo, sono stato accolto con calore dai maltesi

Catechesi di Benedetto XVI per l’Udienza generale del mercoledì

ROMA, mercoledì, 21 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sul suo recente Viaggio Apostolico a Malta in occasione del 1950° anniversario del naufragio di San Paolo sull’isola.

* * *

Cari fratelli e sorelle!

Come sapete, sabato e domenica scorsi ho compiuto un viaggio apostolico a Malta, sul quale oggi vorrei brevemente soffermarmi. Occasione della mia visita pastorale è stato il 1950° anniversario del naufragio dell’apostolo Paolo sulle coste dell’arcipelago maltese e della sua permanenza in quelle isole per circa tre mesi. E’ un avvenimento collocabile attorno all’anno 60 e raccontato con abbondanza di particolari nel libro degli Atti degli Apostoli (capp. 27-28). Come accadde a san Paolo, anch’io ho sperimentato la calorosa accoglienza dei Maltesi – davvero straordinaria – e per questo esprimo nuovamente la mia più viva e cordiale riconoscenza al Presidente della Repubblica, al Governo e alle altre Autorità dello Stato, e ringrazio fraternamente i Vescovi del Paese, con tutti coloro che hanno collaborato a preparare questo festoso incontro tra il Successore di Pietro e la popolazione maltese. La storia di questo popolo da quasi duemila anni è inseparabile dalla fede cattolica, che caratterizza la sua cultura e le sue tradizioni: si dice che a Malta vi siano ben 365 chiese, « una per ogni giorno dell’anno », un segno visibile di questa profonda fede!

Tutto ebbe inizio con quel naufragio: dopo essere andata alla deriva per 14 giorni, spinta dai venti, la nave che trasportava a Roma l’apostolo Paolo e molte altre persone si incagliò in una secca dell’Isola di Malta. Per questo, dopo l’incontro molto cordiale con il Presidente della Repubblica, nella capitale La Valletta – che ha avuto la bella cornice del gioioso saluto di tanti ragazzi e ragazze – mi sono recato subito in pellegrinaggio alla cosiddetta « Grotta di San Paolo », presso Rabat, per un momento intenso di preghiera. Lì ho potuto salutare anche un folto gruppo di missionari maltesi. Pensare a quel piccolo arcipelago al centro del Mediterraneo, e a come vi giunse il seme del Vangelo, suscita un senso di grande stupore per i misteriosi disegni della Provvidenza divina: viene spontaneo ringraziare il Signore e anche san Paolo, che, in mezzo a quella violenta tempesta, mantenne la fiducia e la speranza e le trasmise anche ai compagni di viaggio. Da quel naufragio, o, meglio, dalla successiva permanenza di Paolo a Malta, nacque una comunità cristiana fervente e solida, che dopo duemila anni è ancora fedele al Vangelo e si sforza di coniugarlo con le complesse questioni dell’epoca contemporanea. Questo naturalmente non è sempre facile, né scontato, ma la gente maltese sa trovare nella visione cristiana della vita le risposte alle nuove sfide. Ne è un segno, ad esempio, il fatto di aver mantenuto saldo il profondo rispetto per la vita non ancora nata e per la sacralità del matrimonio, scegliendo di non introdurre l’aborto e il divorzio nell’ordinamento giuridico del Paese.

Pertanto, il mio viaggio aveva lo scopo di confermare nella fede la Chiesa che è in Malta, una realtà molto vivace, ben compaginata e presente sul territorio di Malta e Gozo. Tutta questa comunità si era data appuntamento a Floriana, nel Piazzale dei Granai, davanti alla Chiesa di San Publio, dove ho celebrato la Santa Messa partecipata con grande fervore. E’ stato per me motivo di gioia, ed anche di consolazione sentire il particolare calore di quel popolo che dà il senso di una grande famiglia, accomunata dalla fede e dalla visione cristiana della vita. Dopo la Celebrazione, ho voluto incontrare alcune persone vittime di abusi da parte di esponenti del Clero. Ho condiviso con loro la sofferenza e, con commozione, ho pregato con loro, assicurando l’azione della Chiesa.

Se Malta dà il senso di una grande famiglia, non bisogna pensare che, a causa della sua conformazione geografica, sia una società « isolata » dal mondo. Non è così, e lo si vede, ad esempio, dai contatti che Malta intrattiene con vari Paesi e dal fatto che in molte Nazioni si trovano sacerdoti maltesi. Infatti, le famiglie e le parrocchie di Malta hanno saputo educare tanti giovani al senso di Dio e della Chiesa, così che molti di loro hanno risposto generosamente alla chiamata di Gesù e sono diventati presbiteri. Tra questi, numerosi hanno abbracciato l’impegno missionario ad gentes, in terre lontane, ereditando lo spirito apostolico che spingeva san Paolo a portare il Vangelo là dove ancora non era arrivato. E’ questo un aspetto che volentieri ho ribadito, che cioè « la fede si rafforza quando viene offerta agli altri » (Enc. Redemptoris missio, 2). Sul ceppo di questa fede, Malta si è sviluppata ed ora si apre a varie realtà economiche, sociali e culturali, alle quali offre un apporto prezioso.

E’ chiaro che Malta ha dovuto spesso difendersi nel corso dei secoli – e lo si vede dalle sue fortificazioni. La posizione strategica del piccolo arcipelago attirava ovviamente l’attenzione delle diverse potenze politiche e militari. E tuttavia, la vocazione più profonda di Malta è quella cristiana, vale a dire la vocazione universale della pace! La celebre croce di Malta, che tutti associano a quella Nazione, ha sventolato tante volte in mezzo a conflitti e contese; ma, grazie a Dio, non ha mai perso il suo significato autentico e perenne: è il segno dell’amore e della riconciliazione, e questa è la vera vocazione dei popoli che accolgono e abbracciano il messaggio cristiano!

Crocevia naturale, Malta è al centro di rotte di migrazione: uomini e donne, come un tempo san Paolo, approdano sulle coste maltesi, talvolta spinti da condizioni di vita assai ardue, da violenze e persecuzioni, e ciò comporta, naturalmente, problemi complessi sul piano umanitario, politico e giuridico, problemi che hanno soluzioni non facili, ma da ricercare con perseveranza e tenacia, concertando gli interventi a livello internazionale. Così è bene che si faccia in tutte le Nazioni che hanno i valori cristiani nelle radici delle loro Carte Costituzionali e delle loro culture.

La sfida di coniugare nella complessità dell’oggi la perenne validità del Vangelo è affascinante per tutti, ma specialmente per i giovani. Le nuove generazioni infatti la avvertono in modo più forte, e per questo ho voluto che anche a Malta, malgrado la brevità della mia visita, non mancasse l’incontro con i giovani. E’ stato un momento di profondo e intenso dialogo, reso ancora più bello dall’ambiente in cui si è svolto – il porto di Valletta – e dall’entusiasmo dei giovani. A loro non potevo non ricordare l’esperienza giovanile di san Paolo: un’esperienza straordinaria, unica, eppure capace di parlare alle nuove generazioni di ogni epoca, per quella radicale trasformazione seguita all’incontro con Cristo Risorto. Ho guardato dunque ai giovani di Malta come a dei potenziali eredi dell’avventura spirituale di san Paolo, chiamati come lui a scoprire la bellezza dell’amore di Dio donatoci in Gesù Cristo; ad abbracciare il mistero della sua Croce; ad essere vincitori proprio nelle prove e nelle tribolazioni, a non avere paura delle « tempeste » della vita, e nemmeno dei naufragi, perché il disegno d’amore di Dio è più grande anche delle tempeste e dei naufragi.

Cari amici, questo, in sintesi, è stato il messaggio che ho portato a Malta. Ma, come accennavo, è stato tanto ciò che io stesso ho ricevuto da quella Chiesa, da quel popolo benedetto da Dio, che ha saputo collaborare validamente con la sua grazia. Per intercessione dell’apostolo Paolo, di san Giorgio Preca, sacerdote, primo santo maltese, e della Vergine Maria, che i fedeli di Malta e Gozo venerano con tanta devozione, possa sempre progredire nella pace e nella prosperità.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i parroci e gli altri sacerdoti della diocesi di Roma, accompagnati dal Cardinale Agostino Vallini e dai Vescovi Ausiliari, qui convenuti di ritorno dal pellegrinaggio ad Ars, promosso in occasione dell’Anno Sacerdotale. Cari sacerdoti romani, vi ringrazio della vostra presenza, segno di affetto e di vicinanza spirituale. Colgo questa opportunità per esprimere la mia stima e la mia viva riconoscenza a voi e ai sacerdoti che in tutto il mondo si dedicano con zelo apostolico al servizio del popolo di Dio, testimoniando la carità di Cristo. Sull’esempio di san Giovanni Maria Vianney, siate pastori pazienti e solleciti del bene delle anime. Saluto le postulanti e le novizie partecipanti all’incontro promosso dall’USMI ed auguro che cresca in ciascuna il desiderio di servire con gioia Gesù e il Vangelo.

Saluto i tanti studenti di ogni ordine e grado, che ringrazio per la loro così numerosa partecipazione, con un pensiero particolare per l’Istituto « Nazareth » di Roma, e li incoraggio a perseverare nel generoso impegno di testimonianza cristiana nel mondo della scuola. Uno speciale pensiero va, infine, agli altri giovani, ai malati ed agli sposi novelli. Domenica prossima, quarta del tempo di Pasqua, si celebra la Giornata di preghiera per le vocazioni. Auguro a voi, cari giovani, di trovare nel dialogo con Dio la vostra personale risposta al suo disegno di amore; invito voi, cari malati, ad offrire le vostre sofferenze perché maturino numerose e sante vocazioni. E voi, cari sposi novelli, attingete dalla preghiera quotidiana la forza per costruire un’autentica famiglia cristiana.

buona notte

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carnivouros plants

http://www.morguefile.com/archive/browse/#/?display=135624

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Beato Giovanni XXIII: « Chi viene a me non avrà più fame »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100421

Mercoledì della III settimana di Pasqua : Jn 6,35-40
Meditazione del giorno
Beato Giovanni XXIII (1881-1963), papa
OR 20/09/59

« Chi viene a me non avrà più fame »

        Il problema economico costituisce l’incognita terribile della nostra epoca. Il problema del pane quotidiano, del benessere, è l’incertezza angosciosa che ci opprime in mezzo alle folle agitate ed insoddisfatte, ed a volte, purtroppo, affamate. È per noi un dovere unire i nostri sforzi, fare i sacrifici necessari secondo la dottrina cattolica nata dal Vangelo e le istruzioni chiare e solenni della Chiesa, per contribuire alla ricerca di una soluzione giusta per tutti. Ma invano ci sforzeremo di riempire di pane gli stomaci e di soddisfare gli altri desideri, a volte sfrenati, se non riusciremo a nutrire le anime col pane di vita, pane vero, sostanziale, divino ; a nutrirle cioè di Cristo, del quale hanno fame e per mezzo del quale soltanto, si potrà riprendere il cammino « fino al monte di Dio » (1 Re 19, 8).

        Invano chiederemo agli economisti e ai legislatori nuove forme di vita sociale, se sottraiamo agli occhi del popolo, il sorriso dolce e materno di Maria, le cui braccia sono aperte per accogliere tutti i suoi figli. Sul suo seno, la superbia si abbassa, i cuori si placano nella santa poesia della pace cristiana e dell’amore. Congiungiamo i nostri sforzi affinché non siano mai separati dal cuore dell’uomo ciò che Dio, nella dottrina cattolica e nella storia del mondo, ha così meravigliosamente unito : l’eucaristia e la Vergine.

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