Dietrich Bonhoeffer, lettere dal carcere
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Dietrich Bonhoeffer, lettere dal carcere
By Rai Vaticano | Giugno 16, 2009
Un martire del XX secolo fatto giustiziare da Hitler. Amato sia dai cattolici che dai protestanti. Il pastore luterano Dietrich Bonhoeffer fu un insigne teologo e uno degli esponenti di spicco della Chiesa confessante, la minoranza di evangelici che si dissociò dalla Chiesa ufficiale opponendosi al nazismo.
Bonhoeffer era nato a Breslavia il 4 febbraio 1906. E si era formato alla scuola di Karl Barth. Il regime hitleriano non solo gli tolse l’incarico universitario a Berlino, ma gli impose anche la rinuncia all’insegnamento. All’inizio della Seconda guerra mondiale entrò nella Resistenza con il gruppo dell’ammiraglio Canaris (costituitosi dentro l’Abwehr, il servizio di sicurezza dell’esercito).
Dietrich Bonhoeffer era consapevole, fin dall’inizio, che l’adesione al gruppo di Canaris «lo avrebbe condotto a misurarsi fino in fondo con i problemi della responsabilità politica del cristiano, compreso quello dell’uccisione del tiranno», affermava Alberto Gallas, curatore dell’edizione italiana di “Resistenza e resa” (il capolavoro di Bonhoeffer). Egli divenne «martire rendendosi colpevole, di fronte alla legge, di una trasgressione “politica”, motivata dall’adesione alla causa di Cristo».
Difese e aiutò molti ebrei a fuggire dalla Germania. Venne arrestato dalla Gestapo nella primavera del ’43 e rinchiuso nel carcere berlinese di Tegel, da dove invierà lettere e scritti ai cari, alla fidanzata Maria e a Eberhard Bethge, allievo e amico. Aveva 37 anni e poteva già contare su una vasta e profonda formazione scientifica ed ecclesiale.
Nell’ambito della produzione teologica del Novecento, aggiungeva Gallas, «solo l’“Epistola ai Romani” di Karl Barth può essere paragonata a “Resistenza e resa” per fortuna, risonanza, effetti sullo sviluppo della ricerca teologica, discussioni provocate. Se poi si considerano il genere letterario e le circostanze in cui ha preso forma, “Resistenza e resa” diventa un caso unico». Un libro a dir poco stupefacente, denso e ricco di spunti ma anche toccante, che ci consente quasi di scrutare l’anima del grande teologo.
Per il volere di Dio, scriveva Dietrich Bonhoeffer alla fidanzata, sembra ora «che io debba arrecarti dolore e sofferenza… in modo tale che il nostro reciproco cuore possa acquisire le giuste basi e la giusta capacità di resistenza». La conobbe alla vigilia dell’arresto ed era convinto che Dio avesse favorito quell’incontro.
A Eberhard e alla nipote Renate, per il loro matrimonio, Bonhoeffer inviò un sermone di nozze: «Vivete insieme perdonandovi a vicenda i vostri peccati, senza di che non può sussistere alcuna comunità umana, e tanto meno un matrimonio. Non siate autoritari fra di voi, non giudicatevi e non condannatevi, non sovrastatevi, non attribuitevi la colpa l’un l’altra, ma accoglietevi per quello che siete, e perdonatevi vicendevolmente ogni giorno, di cuore». Riflettendo poi sul comportamento di certi cristiani, diceva: «Io temo che i cristiani che stanno sulla terra con un solo piede, staranno con un solo piede anche in paradiso».
Osservava inoltre che «non dobbiamo attribuire a Dio il ruolo di tappabuchi nei confronti dell’incompletezza delle nostre conoscenze», ma Lo dobbiamo trovare «in ciò che conosciamo: non in ciò che non conosciamo. Dio vuole esser colto da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte. Questo vale per la relazione tra Dio e la conoscenza scientifica. Ma vale anche per le questioni umane in generale, quelle della morte, della sofferenza e della colpa».
Ai suoi genitori non poté «lasciare nulla, soltanto ringraziarli. Scrivo queste righe con la grata consapevolezza di aver vissuto una vita ricca e piena, nella certezza del perdono, e nella preghiera di intercessione per tutti coloro che sono qui nominati», così nel breve e asciutto testamento del 20 settembre 1943.
In una famosa lettera del 30 aprile 1944, affrontava invece il problema di un mondo non più religioso: «Stiamo andando incontro ad un tempo completamente non-religioso – rilevava –; gli uomini, così come ormai sono, semplicemente non possono più essere religiosi. Anche coloro che si definiscono sinceramente “religiosi”, non lo mettono in pratica in nessun modo; presumibilmente, con “religioso” essi intendono qualcosa di completamente diverso». Di qui l’esigenza di trovare un nuovo linguaggio per annunciare Cristo.
Dopo 18 mesi nel carcere di Tegel, lo trasferirono in quello della Gestapo in Prinz-Albrecht-Strasse. Venne poi internato nel campo di concentramento di Buchenwald.
La lotta al Terzo Reich la pagò con la vita: giudicato colpevole di cospirazione contro il Führer, il 9 aprile 1945 fu impiccato nel lager di Flossenbürg. Le sue ultime parole erano state: «È la fine – per me l’inizio della vita». Il medico del campo, poco prima, nella cella preparatoria, lo vide inginocchiarsi e pregare: «Nella mia attività medica di quasi cinquant’anni – disse – non ho mai visto un uomo morire con tanta fiducia in Dio». In una poesia aveva scritto: «Libertà, a lungo ti cercammo nella disciplina, nell’azione e nella sofferenza. Morendo, te riconosciamo ora nel volto di Dio».
Patrizio Ciotti
“Dio è Padre non perché esaudisce tutti i nostri desideri, ma perché mantiene le Sue promesse

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