San Paolo a Malta

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http://www.zenit.org/article-22077?l=italian
Visitando la Grotta di San Paolo a Malta
Incontro con padre Louis Suban, arciprete della Chiesa di San Paolo
di Serena Sartini
LA VALLETTA, venerdì, 16 aprile 2010 (ZENIT.org).- La prima tappa che compirà il Papa a Malta, se si esclude la visita al presidente della Repubblica, sarà l’omaggio alla Grotta di San Paolo a Rabat, piccola cittadina di 14mila abitanti a una decina di chilometri da Valletta, dove la tradizione vuole che l’Apostolo delle Genti fu imprigionato.
Una piccola celletta di pochi metri quadrati, con la statua di San Paolo e la targa della visita di Giovanni Paolo II nel 1990. Qui, nella Grotta, Benedetto XVI si fermerà in preghiera silenziosa per qualche istante. Ed eccezionalmente potrà venerare anche la reliquia del braccio di San Paolo, custodita in una teca che viene esposta solamente una volta all’anno.
L’arciprete della Chiesa di San Paolo, padre Louis Suban, ci mostra il tragitto che compirà il Papa durante la sua visita che durerà circa un’ora. “Benedetto XVI arriverà sabato pomeriggio, intorno alle 19.45. Dopo il saluto del sindaco della città – dice a ZENIT – bacerà la croce simbolo della missionarietà della chiesa. Poi entrerà nella Chiesa di San Paolo e davanti all’altare sosterà qualche momento per la preghiera silenziosa”.
“Successivamente – spiega – si recherà alla grotta di San Paolo. Insieme all’arcivescovo di Malta, al vescovo di Gozo, e al cardinale Tarcisio Bertone reciterà una preghiera”.
“A seguire – prosegue poi – il Papa incontrerà il capitolo, composto da 11 sacerdoti e un seminarista, nel cimitero della collegiata e firmerà il libro d’oro dei visitatori. Riceverà in dono una piccola scultura in argento raffigurante San Paolo e una papalina. Infine, Benedetto XVI saluterà i fedeli radunati nella piazza della chiesa”.
“Siamo fieri e felici di poter accogliere il Papa – prosegue padre Louis – lo dico non solamente per ciò che provo personalmente ma a nome di tutta la Chiesa di San Paolo a Rabat. La parrocchia è molto felice di avere la visita del Successore di Pietro. La sua visita conferma la devozione e la radice cristiana di Malta”.
La Chiesa di San Paolo, di stile barocco con mattoni romani, può contenere circa 400 persone. Fu costruita nell’antica città di Melita, nel 1675 da Cosmana Navarra.
L’arciprete, da sette anni a Rabat, è stato ordinato il 29 giugno 1984, festa del martirio di San Paolo e Pietro.
“Sono nato e vissuto nel sud di Malta, a Marsaskala – racconta –. Ho frequentato il collegio dei frati di San Giovanni La Salle e poi ho insegnato geografia, religione e storia nel seminario di Rabat. Sono stato viceparroco nella collegiata della Cottoniera, nel sud di Malta e poi nominato cappellano di una parrocchia a Msida. E da 7 anni sono arciprete a Rabat”.
Come mai il Papa visita proprio Rabat? “Perché la Grotta di San Paolo è considerato il più importante Santuario di San Paolo nell’Isola. Ogni giorno viene visitato da centinaia di pellegrini, possiamo dire circa 300, specialmente dall’estero. E sabato pomeriggio, di pellegrino, ne arriverà uno davvero speciale”.
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http://www.qumran2.net/ritagli/ritaglio.pax?id=5482
Così il padre ci ama
(Cardinal Newman)
Il Padre ci vede e ci conosce tutti, uno ad uno.
Chiunque tu sia egli ti vede individualmente,
egli ti chiama con il tuo nome,
egli ti comprende quale realmente ti ha fatto.
Egli conosce ciò che è in te,
tutti i tuoi sentimenti e pensieri più intimi,
le tue disposizioni e preferenze,
la tua forza e la tua debolezza.
Egli ti guarda nel giorno della gioia e nel giorno della tristezza,
ti ama nella speranza e nella tua tentazione,
s’interessa di tutte le tue ansietà, di tutti i tuoi ricordi,
di tutti gli alti e bassi del tuo spirito.
Egli ha perfino contato i capelli del tuo capo
e misurato la tua statura,
ti circonda e ti sostiene con le sue braccia
ti solleva e ti depone.
Egli osserva i tratti del tuo volto,
quando piangi e sorridi,
quando sei malato o godi buona salute.
Con tenerezza egli guarda le tue mani e i tuoi piedi,
sente la tua voce, il battito del tuo cuore,
ode perfino il tuo respiro,
tu non ami te stesso più di quanto egli ti ama.
Tu non puoi fremere dinanzi al dolore,
come egli freme vedendolo venire sopra di te,
e se tuttavia te lo impone è perché anche tu se fossi saggio
lo sceglieresti per un maggior bene futuro.
dal sito:
http://raivaticano.blog.rai.it/2009/06/16/dietrich-bonhoeffer-lettere-dal-carcere/
Dietrich Bonhoeffer, lettere dal carcere
By Rai Vaticano | Giugno 16, 2009
Un martire del XX secolo fatto giustiziare da Hitler. Amato sia dai cattolici che dai protestanti. Il pastore luterano Dietrich Bonhoeffer fu un insigne teologo e uno degli esponenti di spicco della Chiesa confessante, la minoranza di evangelici che si dissociò dalla Chiesa ufficiale opponendosi al nazismo.
Bonhoeffer era nato a Breslavia il 4 febbraio 1906. E si era formato alla scuola di Karl Barth. Il regime hitleriano non solo gli tolse l’incarico universitario a Berlino, ma gli impose anche la rinuncia all’insegnamento. All’inizio della Seconda guerra mondiale entrò nella Resistenza con il gruppo dell’ammiraglio Canaris (costituitosi dentro l’Abwehr, il servizio di sicurezza dell’esercito).
Dietrich Bonhoeffer era consapevole, fin dall’inizio, che l’adesione al gruppo di Canaris «lo avrebbe condotto a misurarsi fino in fondo con i problemi della responsabilità politica del cristiano, compreso quello dell’uccisione del tiranno», affermava Alberto Gallas, curatore dell’edizione italiana di “Resistenza e resa” (il capolavoro di Bonhoeffer). Egli divenne «martire rendendosi colpevole, di fronte alla legge, di una trasgressione “politica”, motivata dall’adesione alla causa di Cristo».
Difese e aiutò molti ebrei a fuggire dalla Germania. Venne arrestato dalla Gestapo nella primavera del ’43 e rinchiuso nel carcere berlinese di Tegel, da dove invierà lettere e scritti ai cari, alla fidanzata Maria e a Eberhard Bethge, allievo e amico. Aveva 37 anni e poteva già contare su una vasta e profonda formazione scientifica ed ecclesiale.
Nell’ambito della produzione teologica del Novecento, aggiungeva Gallas, «solo l’“Epistola ai Romani” di Karl Barth può essere paragonata a “Resistenza e resa” per fortuna, risonanza, effetti sullo sviluppo della ricerca teologica, discussioni provocate. Se poi si considerano il genere letterario e le circostanze in cui ha preso forma, “Resistenza e resa” diventa un caso unico». Un libro a dir poco stupefacente, denso e ricco di spunti ma anche toccante, che ci consente quasi di scrutare l’anima del grande teologo.
Per il volere di Dio, scriveva Dietrich Bonhoeffer alla fidanzata, sembra ora «che io debba arrecarti dolore e sofferenza… in modo tale che il nostro reciproco cuore possa acquisire le giuste basi e la giusta capacità di resistenza». La conobbe alla vigilia dell’arresto ed era convinto che Dio avesse favorito quell’incontro.
A Eberhard e alla nipote Renate, per il loro matrimonio, Bonhoeffer inviò un sermone di nozze: «Vivete insieme perdonandovi a vicenda i vostri peccati, senza di che non può sussistere alcuna comunità umana, e tanto meno un matrimonio. Non siate autoritari fra di voi, non giudicatevi e non condannatevi, non sovrastatevi, non attribuitevi la colpa l’un l’altra, ma accoglietevi per quello che siete, e perdonatevi vicendevolmente ogni giorno, di cuore». Riflettendo poi sul comportamento di certi cristiani, diceva: «Io temo che i cristiani che stanno sulla terra con un solo piede, staranno con un solo piede anche in paradiso».
Osservava inoltre che «non dobbiamo attribuire a Dio il ruolo di tappabuchi nei confronti dell’incompletezza delle nostre conoscenze», ma Lo dobbiamo trovare «in ciò che conosciamo: non in ciò che non conosciamo. Dio vuole esser colto da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte. Questo vale per la relazione tra Dio e la conoscenza scientifica. Ma vale anche per le questioni umane in generale, quelle della morte, della sofferenza e della colpa».
Ai suoi genitori non poté «lasciare nulla, soltanto ringraziarli. Scrivo queste righe con la grata consapevolezza di aver vissuto una vita ricca e piena, nella certezza del perdono, e nella preghiera di intercessione per tutti coloro che sono qui nominati», così nel breve e asciutto testamento del 20 settembre 1943.
In una famosa lettera del 30 aprile 1944, affrontava invece il problema di un mondo non più religioso: «Stiamo andando incontro ad un tempo completamente non-religioso – rilevava –; gli uomini, così come ormai sono, semplicemente non possono più essere religiosi. Anche coloro che si definiscono sinceramente “religiosi”, non lo mettono in pratica in nessun modo; presumibilmente, con “religioso” essi intendono qualcosa di completamente diverso». Di qui l’esigenza di trovare un nuovo linguaggio per annunciare Cristo.
Dopo 18 mesi nel carcere di Tegel, lo trasferirono in quello della Gestapo in Prinz-Albrecht-Strasse. Venne poi internato nel campo di concentramento di Buchenwald.
La lotta al Terzo Reich la pagò con la vita: giudicato colpevole di cospirazione contro il Führer, il 9 aprile 1945 fu impiccato nel lager di Flossenbürg. Le sue ultime parole erano state: «È la fine – per me l’inizio della vita». Il medico del campo, poco prima, nella cella preparatoria, lo vide inginocchiarsi e pregare: «Nella mia attività medica di quasi cinquant’anni – disse – non ho mai visto un uomo morire con tanta fiducia in Dio». In una poesia aveva scritto: «Libertà, a lungo ti cercammo nella disciplina, nell’azione e nella sofferenza. Morendo, te riconosciamo ora nel volto di Dio».
Patrizio Ciotti
“Dio è Padre non perché esaudisce tutti i nostri desideri, ma perché mantiene le Sue promesse
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Meditazione di Benedetto XVI sul ministero del sacerdote
In occasione dell’Udienza generale del mercoledì
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 14 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale in piazza San Pietro, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, avvicinandosi la conclusione dell’Anno Sacerdotale, il Papa ha incentrato la sua meditazione sul ministero del sacerdote.
* * *
Cari amici,
in questo periodo pasquale, che ci conduce alla Pentecoste e ci avvia anche alle celebrazioni di chiusura dell’Anno Sacerdotale, in programma il 9, 10 e 11 giugno prossimo, mi è caro dedicare ancora alcune riflessioni al tema del Ministero ordinato, soffermandomi sulla realtà feconda della configurazione del sacerdote a Cristo Capo, nell’esercizio dei tria munera che riceve, cioè dei tre uffici di insegnare, santificare e governare.
Per capire che cosa significhi agire in persona Christi Capitis – in persona di Cristo Capo – da parte del sacerdote, e per capire anche quali conseguenze derivino dal compito di rappresentare il Signore, specialmente nell’esercizio di questi tre uffici, bisogna chiarire anzitutto che cosa si intenda per « rappresentanza ». Il sacerdote rappresenta Cristo. Cosa vuol dire, cosa significa « rappresentare » qualcuno? Nel linguaggio comune, vuol dire – generalmente – ricevere una delega da una persona per essere presente al suo posto, parlare e agire al suo posto, perché colui che viene rappresentato è assente dall’azione concreta. Ci domandiamo: il sacerdote rappresenta il Signore nello stesso modo? La risposta è no, perché nella Chiesa Cristo non è mai assente, la Chiesa è il suo corpo vivo e il Capo della Chiesa è lui, presente ed operante in essa. Cristo non è mai assente, anzi è presente in un modo totalmente libero dai limiti dello spazio e del tempo, grazie all’evento della Risurrezione, che contempliamo in modo speciale in questo tempo di Pasqua.
Pertanto, il sacerdote che agisce in persona Christi Capitis e in rappresentanza del Signore, non agisce mai in nome di un assente, ma nella Persona stessa di Cristo Risorto, che si rende presente con la sua azione realmente efficace. Agisce realmente e realizza ciò che il sacerdote non potrebbe fare: la consacrazione del vino e del pane perché siano realmente presenza del Signore, l’assoluzione dei peccati. Il Signore rende presente la sua propria azione nella persona che compie tali gesti. Questi tre compiti del sacerdote – che la Tradizione ha identificato nelle diverse parole di missione del Signore: insegnare, santificare e governare – nella loro distinzione e nella loro profonda unità sono una specificazione di questa rappresentazione efficace. Essi sono in realtà le tre azioni del Cristo risorto, lo stesso che oggi nella Chiesa e nel mondo insegna e così crea fede, riunisce il suo popolo, crea presenza della verità e costruisce realmente la comunione della Chiesa universale; e santifica e guida.
Il primo compito del quale vorrei parlare oggi è il munus docendi, cioè quello di insegnare. Oggi, in piena emergenza educativa, il munus docendi della Chiesa, esercitato concretamente attraverso il ministero di ciascun sacerdote, risulta particolarmente importante. Viviamo in una grande confusione circa le scelte fondamentali della nostra vita e gli interrogativi su che cosa sia il mondo, da dove viene, dove andiamo, che cosa dobbiamo fare per compiere il bene, come dobbiamo vivere, quali sono i valori realmente pertinenti. In relazione a tutto questo esistono tante filosofie contrastanti, che nascono e scompaiono, creando una confusione circa le decisioni fondamentali, come vivere, perché non sappiamo più, comunemente, da che cosa e per che cosa siamo fatti e dove andiamo. In questa situazione si realizza la parola del Signore, che ebbe compassione della folla perché erano come pecore senza pastore. (cfr Mc 6, 34). Il Signore aveva fatto questa costatazione quando aveva visto le migliaia di persone che lo seguivano nel deserto perché, nella diversità delle correnti di quel tempo, non sapevano più quale fosse il vero senso della Scrittura, che cosa diceva Dio. Il Signore, mosso da compassione, ha interpretato la parola di Dio, egli stesso è la parola di Dio, e ha dato così un orientamento. Questa è la funzione in persona Christi del sacerdote: rendere presente, nella confusione e nel disorientamento dei nostri tempi, la luce della parola di Dio, la luce che è Cristo stesso in questo nostro mondo. Quindi il sacerdote non insegna proprie idee, una filosofia che lui stesso ha inventato, ha trovato o che gli piace; il sacerdote non parla da sé, non parla per sé, per crearsi forse ammiratori o un proprio partito; non dice cose proprie, proprie invenzioni, ma, nella confusione di tutte le filosofie, il sacerdote insegna in nome di Cristo presente, propone la verità che è Cristo stesso, la sua parola, il suo modo di vivere e di andare avanti. Per il sacerdote vale quanto Cristo ha detto di se stesso: « La mia dottrina non è mia » (Gv, 7, 16); Cristo, cioè, non propone se stesso, ma, da Figlio, è la voce, la parola del Padre. Anche il sacerdote deve sempre dire e agire così: « la mia dottrina non è mia, non propago le mie idee o quanto mi piace, ma sono bocca e cuore di Cristo e rendo presente questa unica e comune dottrina, che ha creato la Chiesa universale e che crea vita eterna ».
Questo fatto, che il sacerdote cioè non inventa, non crea e non proclama proprie idee in quanto la dottrina che annuncia non è sua, ma di Cristo, non significa, d’altra parte, che egli sia neutro, quasi come un portavoce che legge un testo di cui, forse, non si appropria. Anche in questo caso vale il modello di Cristo, il quale ha detto: Io non sono da me e non vivo per me, ma vengo dal Padre e vivo per il Padre. Perciò, in questa profonda identificazione, la dottrina di Cristo è quella del Padre e lui stesso è uno col Padre. Il sacerdote che annuncia la parola di Cristo, la fede della Chiesa e non le proprie idee, deve anche dire: Io non vivo da me e per me, ma vivo con Cristo e da Cristo e perciò quanto Cristo ci ha detto diventa mia parola anche se non è mia. La vita del sacerdote deve identificarsi con Cristo e, in questo modo, la parola non propria diventa, tuttavia, una parola profondamente personale. Sant’Agostino, su questo tema, parlando dei sacerdoti, ha detto: « E noi che cosa siamo? Ministri (di Cristo), suoi servitori; perché quanto distribuiamo a voi non è cosa nostra, ma lo tiriamo fuori dalla sua dispensa. E anche noi viviamo di essa, perché siamo servi come voi » (Discorso 229/E, 4).
L’insegnamento che il sacerdote è chiamato ad offrire, le verità della fede, devono essere interiorizzate e vissute in un intenso cammino spirituale personale, così che realmente il sacerdote entri in una profonda, interiore comunione con Cristo stesso. Il sacerdote crede, accoglie e cerca di vivere, prima di tutto come proprio, quanto il Signore ha insegnato e la Chiesa ha trasmesso, in quel percorso di immedesimazione con il proprio ministero di cui san Giovanni Maria Vianney è testimone esemplare (cfr Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale). « Uniti nella medesima carità – afferma ancora sant’Agostino – siamo tutti uditori di colui che è per noi nel cielo l’unico Maestro » (Enarr. in Ps. 131, 1, 7).
Quella del sacerdote, di conseguenza, non di rado potrebbe sembrare « voce di uno che grida nel deserto » (Mc 1,3), ma proprio in questo consiste la sua forza profetica: nel non essere mai omologato, né omologabile, ad alcuna cultura o mentalità dominante, ma nel mostrare l’unica novità capace di operare un autentico e profondo rinnovamento dell’uomo, cioè che Cristo è il Vivente, è il Dio vicino, il Dio che opera nella vita e per la vita del mondo e ci dona la verità, il modo di vivere.
Nella preparazione attenta della predicazione festiva, senza escludere quella feriale, nello sforzo di formazione catechetica, nelle scuole, nelle istituzioni accademiche e, in modo speciale, attraverso quel libro non scritto che è la sua stessa vita, il sacerdote è sempre « docente », insegna. Ma non con la presunzione di chi impone proprie verità, bensì con l’umile e lieta certezza di chi ha incontrato la Verità, ne è stato afferrato e trasformato, e perciò non può fare a meno di annunciarla. Il sacerdozio, infatti, nessuno lo può scegliere da sé, non è un modo per raggiungere una sicurezza nella vita, per conquistare una posizione sociale: nessuno può darselo, né cercarlo da sé. Il sacerdozio è risposta alla chiamata del Signore, alla sua volontà, per diventare annunciatori non di una verità personale, ma della sua verità.
Cari confratelli sacerdoti, il Popolo cristiano domanda di ascoltare dai nostri insegnamenti la genuina dottrina ecclesiale, attraverso la quale poter rinnovare l’incontro con Cristo che dona la gioia, la pace, la salvezza. La Sacra Scrittura, gli scritti dei Padri e dei Dottori della Chiesa, il Catechismo della Chiesa Cattolica costituiscono, a tale riguardo, dei punti di riferimento imprescindibili nell’esercizio del munus docendi, così essenziale per la conversione, il cammino di fede e la salvezza degli uomini. « Ordinazione sacerdotale significa: essere immersi [...] nella Verità » (Omelia per la Messa Crismale, 9 aprile 2009), quella Verità che non è semplicemente un concetto o un insieme di idee da trasmettere e assimilare, ma che è la Persona di Cristo, con la quale, per la quale e nella quale vivere e così, necessariamente, nasce anche l’attualità e la comprensibilità dell’annuncio. Solo questa consapevolezza di una Verità fatta Persona nell’Incarnazione del Figlio giustifica il mandato missionario: « Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura » (Mc 16,15). Solo se è la Verità è destinato ad ogni creatura, non è una imposizione di qualcosa, ma l’apertura del cuore a ciò per cui è creato.
Cari fratelli e sorelle, il Signore ha affidato ai Sacerdoti un grande compito: essere annunciatori della Sua Parola, della Verità che salva; essere sua voce nel mondo per portare ciò che giova al vero bene delle anime e all’autentico cammino di fede (cfr 1Cor 6,12). San Giovanni Maria Vianney sia di esempio per tutti i Sacerdoti. Egli era uomo di grande sapienza ed eroica forza nel resistere alle pressioni culturali e sociali del suo tempo per poter condurre le anime a Dio: semplicità, fedeltà ed immediatezza erano le caratteristiche essenziali della sua predicazione, trasparenza della sua fede e della sua santità. Il Popolo cristiano ne era edificato e, come accade per gli autentici maestri di ogni tempo, vi riconosceva la luce della Verità. Vi riconosceva, in definitiva, ciò che si dovrebbe sempre riconoscere in un sacerdote: la voce del Buon Pastore.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Saluto cordialmente i pellegrini di lingua italiana, in particolare, sono lieto di accogliere il gruppo di Sacerdoti amici della Comunità di Sant’Egidio e i Cappellani dell’Aviazione civile provenienti da varie parti del mondo. Cari Fratelli nel Sacerdozio, invoco su ciascuno di voi i doni dello Spirito Santo, affinché possiate essere sempre gioiosi testimoni dell’amore di Cristo. Saluto i partecipanti al raduno internazionale del Movimento Eucaristico, legato alla spiritualità delle Suore Dorotee Figlie dei Sacri Cuori, e li esorto ad intensificare la dimensione orante, affinché dall’incontro con Cristo nella preghiera siano incoraggiati all’impegno ecclesiale e sociale. Saluto i fedeli della diocesi di Sessa Aurunca, accompagnati dal loro Pastore Mons. Antonio Napoletano. Cari amici, proseguite con slancio apostolico il vostro cammino di evangelizzatori della speranza cristiana in famiglia, nella Chiesa e nella comunità civile. Saluto gli ufficiali e i militari provenienti da Caserta, che incoraggio a perseverare nel generoso impegno di testimonianza cristiana anche nel mondo militare.
Mi rivolgo infine ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La gioia del Signore Risorto ispiri rinnovato ardore alla vostra vita, cari giovani, perché siate suoi fedeli discepoli; sia d’incoraggiamento per voi, cari malati, perché possiate affrontare con coraggio ogni prova e sofferenza; sostenga il vostro mutuo amore, cari sposi novelli, affinché nella vostra casa regni sempre la pace di Cristo.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100416
Venerdì della II settimana di Pasqua : Jn 6,1-15
Meditazione del giorno
Giovanni Paolo II
Lettera apostolica per l’Anno dell’Eucaristia : Mane nobiscum domine, § 15-16
« Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie li distribuì loro »
Non c’è dubbio che la dimensione più evidente dell’Eucaristia sia quella del convito. L’Eucaristia è nata, la sera del Giovedì Santo, nel contesto della cena pasquale. Essa pertanto porta inscritto nella sua struttura il senso della convivialità: «Prendete e mangiate… Poi prese il calice e… lo diede loro dicendo: Bevetene tutti…» (Mt 26, 26.27). Questo aspetto ben esprime il rapporto di comunione che Dio vuole stabilire con noi e che noi stessi dobbiamo sviluppare vicendevolmente.
Non si può tuttavia dimenticare che il convito eucaristico ha anche un senso profondamente e primariamente sacrificale. In esso Cristo ripresenta a noi il sacrificio attuato una volta per tutte sul Golgota. Pur essendo presente in esso da risorto, Egli porta i segni della sua passione, di cui ogni Santa Messa è «memoriale», come la Liturgia ci ricorda con l’acclamazione dopo la consacrazione: «Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione…». Al tempo stesso, mentre attualizza il passato, l’Eucaristia ci proietta verso il futuro dell’ultima venuta di Cristo, al termine della storia. Questo aspetto «escatologico» dà al Sacramento eucaristico un dinamismo coinvolgente, che infonde al cammino cristiano il passo della speranza.
Tutte queste dimensioni dell’Eucaristia si rannodano in un aspetto che più di tutti mette alla prova la nostra fede: è il mistero della presenza «reale». Con tutta la tradizione della Chiesa, noi crediamo che, sotto le specie eucaristiche, è realmente presente Gesù… Proprio la sua presenza dà alle altre dimensioni — di convito, di memoriale della Pasqua, di anticipazione escatologica — un significato che va ben al di là di un puro simbolismo. L’Eucaristia è mistero di presenza, per mezzo del quale si realizza in modo sommo la promessa di Gesù di restare con noi fino alla fine del mondo.