Archive pour le 11 avril, 2010

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di Gianfranco Ravasi : Tra Prometeo e Giacobbe

dal sito:

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Tra Prometeo e Giacobbe

Il termine “sfida” è la negazione della fede cristiana? Una riflessione del prefetto della Biblioteca Ambrosiana

di Gianfranco Ravasi  
 
      A prima vista il termine “sfida” sembra essere, a livello etimologico, la negazione della fede: non è forse, “dis-fida”, cioè una “fiducia/fede” negata dal prefisso dis che, nella sua matrice greca, indica negatività e ostilità? Dopo tutto, l’hybris, cioè la sfida di Prometeo, reiterata in molte culture, è il tentativo di occupare il trono divino, sostituendosi al Re trascendente. Eppure, la fede – se colta nella sua struttura costitutiva più intima – si rivela anch’essa come sfida, rischiosa ma esaltante. Scriveva il filosofo Sören Kierkegaard: «La fede è la più alta passione dell’uomo. Ci sono forse in ogni generazione uomini che non arrivano fino ad essa. Ma nessuno va oltre». A questo sforzo di giungere al livello vertiginoso del credere noi dedicheremo ora non tanto un’analisi quanto piuttosto una rappresentazione emblematica per quadri o scene, in una sorta di trattazione “impressionistica”.
      
      Come Giacobbe e Davide…
      Inizieremo con un notturno: la celebre lotta di Giacobbe, il patriarca ebreo, contro un essere misterioso, identificato dalla tradizione con un angelo, simbolo comunque del divino. Il racconto di Genesi 32, 23-33 vede il protagonista solitario lungo le rive del fiume Jabbok, un affluente orientale del Giordano. Le acque impetuose e la notte sono segno del nulla, del caos, del dramma. «Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora» (32,25). Quando sorge l’alba, Giacobbe avanza zoppicante, ferito all’articolazione del femore, e il suo nome non è più quello tribale di Giacobbe ma è “Israele”, che significa “contende con Dio”: dall’incontro-lotta con Dio non si esce indenni ma trasformati e trasfigurati. L’esperienza di fede consegna alla persona un compito, una missione, una vocazione, per Giacobbe quella di essere il progenitore, il capostipite e l’archetipo di un popolo.
      Il credere, perciò, come era accaduto già ad Abramo costretto dal Signore a sacrificargli il figlio Isacco (Genesi 22), non è una pacifica acquisizione di benedizioni, ma è una sorta di incontro-scontro col mistero. Credere è rischio e il suo percorso si snoda su un sentiero d’altura, come lo era il monte Moria per Abramo, o lungo un fiume impetuoso, come accade a Giacobbe. Ma ci sono altre sfide che attendono il credente, dopo la sua lotta con Dio.
      Ecco, allora, l’altro quadro che vorremmo evocare. La scena ora è solare: siamo in campo aperto, davanti a una platea di spettatori incuriositi. Si stanno confrontando in un duello due personaggi del tutto antitetici. Da un lato, si erge l’eroe filisteo Golia che enfaticamente è descritto dalla Bibbia – nel racconto del capitolo 17 del primo Libro di Samuele – con un’imponenza di «sei cubiti e un palmo», quasi 2,80 metri, capace di reggere una corazza a piastre di 5000 sicli di bronzo, cioè di una trentina di chili. Dall’altro lato, avanza Davide, un «ragazzo fulvo di capelli e di bell’aspetto», armato solo di una fionda e di cinque ciottoli lisci di fiume.
      È l’eterna sfida tra la corpulenza becera e muscolosa dell’arroganza, del potere, della forza bruta contro la bellezza, la delicatezza, l’intelligenza, la verità. A prima vista il confronto sembra essere impari; ma l’esito è alla fine sorprendente perché i valori dello spirito sono ben più resistenti e decisivi e non possono essere piegati dalla mera brutalità quantitativa. Essi partecipano dell’eternità e dell’infinito ed è per questo che è impossibile metterli in gara con realtà che poggiano solo sulla materialità, di sua natura caduca e finita. La fede è un invito permanente a schierarsi dalla parte della “debolezza”, della “fragilità”, del Bello, del Vero, del Giusto, dell’Amore.
      
      «Resistere
      nel giorno malvagio»
      Ma possiamo procedere oltre, verso un’altra e più inquietante sfida che è ambientata in un interno. Siamo in una sinagoga e Gesù è da poco entrato, creando scompiglio soprattutto in un ebreo fino a quel momento quietamente assiso sul suo scranno. Agitandosi sotto l’irruzione di «uno spirito immondo», egli si mette a urlare: «Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Tu sei venuto a rovinarci! Lo so chi tu sei: il Santo di Dio!». Nella narrazione del capitolo 1 del Vangelo di Marco lo scontro ha il suo acme quando Cristo si rivolge non all’uomo ma allo “spirito immondo” che lo possiede. «Taci! Esci da quest’uomo!». E l’esito è immediato: «Lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui».
      In questo episodio di forte tensione è idealmente rappresentata una sfida che non coinvolge solo Cristo ma ogni credente: siamo costantemente posti in conflitto col male morale e metafisico, siamo in perenne confronto con l’oscurità della storia, con l’ombra di Dio, col grumo incandescente della perversione, con la potenza tenebrosa della morte. Per usare un’espressione di Bernanos, siamo spesso «sotto il sole di satana», un sole “nero” che scandisce molti tempi della storia e che ci costringe – come dice san Paolo – ad essere attrezzati con «l’armatura di Dio perché possiamo resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di carne e di sangue, ma contro principati e potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male. Prendiamo, perciò, l’armatura di Dio, perché possiamo resistere nel giorno malvagio e restare in piedi…» (Ef 6,11-13).
      Questa, però, non è una sfida che si consuma solo all’esterno, nell’orizzonte e nello scenario della storia. Essa celebra i suoi atti più terribili e subdoli all’interno di noi stessi, nello spazio intimo della libertà. È ciò che Paolo dipinge in modo mirabile nel capitolo 7 della Lettera ai Romani: «Quando voglio fare il bene, è il male che mi è accanto. Aderirei alla legge di Dio ma nelle mie membra vedo un’altra legge che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo». Lo sbocco sembra essere inevitabile e approdare alle sabbie mobili del peccato e della “carne”, come ama dire l’Apostolo.
      
      Forte come
      la Morte è l’Amore
      In realtà, l’uomo in questa lotta intima non è solitario. La mano di Dio si stende ed effonde in noi «le primizie dello Spirito, così che gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo, perché nella speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8,23-24). Il verbo “gemere” è quello delle doglie del parto: siamo, quindi, di fronte a una sfida estrema che non produce morte bensì genera una ri-creazione, una nuova vita, una rinascita, compiuta dalla grazia divina.
      È in questa luce che appare l’ultima sfida, l’estrema, quella con la morte che ha il suo emblema nella risurrezione di Cristo, ma che è già anticipata nella proclamazione della donna del Cantico dei Cantici: «Forte come la Morte è l’Amore… Le sue vampe sono ardenti, una fiamma del Signore!» (8,6). Affidandosi ad alcuni passi profetici, san Paolo introduce il duello supremo tra Vita e Morte e ne esalta l’esito finale: «La morte è stata ingoiata per la vittoria./ Dov’è, o morte, la tua vittoria? / Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?
      Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (1Cor 15,54-57).
      La fede si rivela, perciò, come un confronto aperto a tutto campo, che non teme di inoltrarsi anche sui terreni più incerti e ignoti. Come scriveva ancora Bernanos, «la fede è un rischio da correre. È addirittura il rischio dei rischi». Come ha insegnato Pascal, non è, però, una sfida insensata né solitaria. Il suo itinerario è motivato, i suoi risultati sono vigorosi, il suo tracciato è tormentato eppure nitido, il cammino è seguito da una Presenza. La sfida della fede è pesante ma anche gloriosa, è ardua ma anche serena, ed è un’esperienza aperta a tutti, anche a chi è agnostico. È ciò che suggeriva Turoldo in questi versi dei Canti ultimi (Oltre la foresta):
      
      «Fratello ateo, nobilmente pensoso
      alla ricerca di un Dio che io non so darti,
      attraversiamo insieme il deserto.
      Di deserto in deserto andiamo
      oltre la foresta delle fedi
      liberi e nudi verso
      il nudo Essere
      e là
      dove la Parola muore
      abbia fine il nostro cammino
».

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BRANI dai discorsi e dagli scritti di PAPA LUCIANI: «Io rischio di dire uno sproposito…

dal sito:

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BRANI dai discorsi e dagli scritti di PAPA LUCIANI
«Io rischio di dire uno sproposito…

…ma lo dico. Il Signore ama tanto l’umiltà che a volte permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili». (Udienza generale, 6 settembre 1978).

Brani dai discorsi e dagli scritti di Albino Luciani

      Io sono la pura e povera polvere
      «Non so che cosa abbia pensato il Signore, che cosa abbia pensato il Papa, che cosa abbia pensato la divina Provvidenza di me. Sto pensando in questi giorni che con me il Signore attua il suo vecchio sistema: prende i piccoli dal fango della strada e li mette in alto, prende la gente dai campi, dalle reti del mare, del lago e ne fa degli apostoli. È il suo vecchio sistema. Certe cose il Signore non le vuole scrivere né sul bronzo, né sul marmo, ma addirittura nella polvere, affinché se la scrittura resta, non scompaginata, non dispersa dal vento, sia bene chiaro che tutto è opera e tutto è merito del solo Signore. Io sono il piccolo di una volta, io sono colui che viene dai campi, io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto la dignità episcopale dell’illustre diocesi di Vittorio Veneto. Se qualche cosa mai di buono salterà fuori da tutto questo, sia ben chiaro fin da adesso: è solo frutto della bontà, della grazia, della misericordia del Signore».
      (Omelia del 6 gennaio 1959, a Canale d’Agordo)      
     
      Il catechismo
      «Messo da parte il catechismo non saprete che mezzi adoperare per fare buoni piccoli e grandi. Tirerete in campo la “dignità umana”? I piccoli non capiscono che cosa sia, i grandi se ne infischiano. Metterete avanti “l’imperativo categorico”? Peggio che peggio… Si dice che anche la filosofia e la scienza sono capaci di far buoni e nobili gli uomini. Ma non c’è neppure confronto col catechismo, che insegna in breve la sapienza di tutte le biblioteche, risolve i problemi di tutte le filosofie e soddisfa alle ricerche più penose e difficili dello spirito umano».
      (Catechetica in briciole, 1949)      
     
      Da formule che sembravano aride, una fiammante santità
      «Stiamo uniti nell’insegnare le stesse cose: non opinioni più o meno rispettabili, ma ciò che il Magistero della Chiesa propone… Il criterio del catechizzare è dunque il depositum custodi di san Paolo, non l’altro, talora usato: “Che cosa piace? che cosa è oggi alla moda? che cosa mi farà apparire aggiornato e brillante?”… Con il Papa, esorto a non nutrire troppi pregiudizi contro l’uso sapiente e moderato sia delle formule che della memorizzazione. D’accordo, sapere a memoria non è sapere… Tuttavia una formula capita e ricordata a memoria è come un attaccapanni al quale, nonostante il passare degli anni, restano appese le cognizioni religiose più importanti. Certe formule di chimica e di algebra, alcuni articoli fondamentali del codice, perché esigono precisione, sono appresi a memoria al liceo e all’università. Ora, c’è codice più impegnativo delle verità religiose e dei precetti morali? Sono aride, si dice, le formule. Anche il cerino sembra arido ma, strofinato, si fa fiamma. Qui nel Veneto, noi abbiamo il caso di santa Bertilla Boscardin, che conobbe quasi soltanto il catechismo a formule. Gliel’aveva dato il parroco, quand’era fanciulla; se l’è portato in convento; lo leggeva e rileggeva continuamente; lo trovarono nella tasca della sua veste dopo la morte. Era quasi consunto, ma la santa da quelle formule, che sembravano aride, aveva saputo far scaturire una fiammante santità».
      (Omelia ai catechisti, Venezia, 29 ottobre 1977)      
     
      Marco sembra aver visto
      «San Marco, come sintassi, vocabolario, costruzione e tornitura di periodo, è un povero scrittore. Ma è vivace, è pittoresco: per questo piace. Solo Marco riporta tali e quali, in aramaico, certe frasi pronunciate da Gesù. Questa per esempio: “Talitha qoum”, “Figliolina, alzati su!”. Quest’altra: “Eloi, lama sabacthani?”, “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Tutto ciò aiuta a vedere e sentire l’ambiente palestinese. Più che insegnare, Marco descrive: sembra aver visto».
      (Omelia per la festa di san Marco, Venezia, 25 aprile 1974)      
     
      L’evidenza dei fatti
      «Dice san Paolo: “Fu seppellito… risuscitò il terzo giorno… apparve a Cefa, quindi ai Dodici, poi apparve in una volta sola a più di cinquecento fratelli, dei quali i più rimangono sino ad oggi… Inoltre apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli; ultimo fra tutti apparve anche a me” (1 Cor 15, 4-9). Quattro volte qui Paolo adopera il verbo apparve, insistendo sulla percezione visiva; ora, l’occhio non vede qualcosa di interno, ma di esterno a noi, una realtà distinta da noi, che ci si impone dal di fuori. Ciò allontana la tesi di un’allucinazione, di cui, del resto, gli apostoli furono i primi ad aver paura. Essi pensarono infatti dapprima di vedere uno spirito, non il vero Gesù, tanto che questi li dovette rassicurare: “Perché siete sconvolti? Guardate le mie mani e i miei piedi, ché sono proprio io. Toccatemi e guardate, poiché uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che ho io!” (Lc 24, 38). Essi non credevano ancora e Gesù disse loro: “‘Avete qui qualcosa da mangiare?’. Gli misero davanti un pezzo di pesce arrostito. E davanti ai loro occhi lo prese e lo mangiò” (Lc 24, 41-43). L’incredulità iniziale, dunque, non fu del solo Tommaso, ma di tutti gli apostoli, gente sana, robusta, realista, allergica a ogni fenomeno di allucinazione, che s’è arresa solo davanti all’evidenza dei fatti.
      Con un materiale umano siffatto era anche improbabilissimo il passare dall’idea di un Cristo meritevole di rivivere spiritualmente nei cuori all’idea di una risurrezione corporale a forza di riflessione e di entusiasmo. Tra l’altro, al posto dell’entusiasmo, dopo la morte di Cristo, c’era negli apostoli solo sconforto e delusione. Mancò poi il tempo: non è in quindici giorni che un forte gruppo di persone, non abituate a speculare, cambia in blocco mentalità senza il sostegno di solide prove!».
      (Omelia per la veglia pasquale, Venezia, 21 aprile 1973)      
     
      Di vecchia gnosi si tratta
      «“Teologia nuova?”. Ben venga! A volte, però, ci si illude: non di nuova teologia si tratta, ma di vecchia gnosi. Riemerge, infatti, spesso, la mentalità presuntuosa degli antichi gnostici: “Noi diamo spiegazioni a livello di altissima scienza; noi ce le mangiamo le povere, viete e superate spiegazioni del Magistero!”. Ritorna anche il metodo della gnosi: prendere cioè i temi ed i termini della fede cattolica, ma solo parzialmente, arrogandosi il diritto di setacciarli e selezionarli, di intenderli a modo proprio, di mescolarli a ideologie estranee e di fondare l’adesione alla fede non più sull’autorità divina, ma su motivi umani; per esempio, su questa o quella opzione filosofica, sul combaciare di un dato tema con determinate scelte politiche abbracciate in antecedenza».
      (Omelia su Cristo liberatore, Venezia, 7 marzo 1973)      
     
      Quietismo e pelagianesimo
      «…non ho nessun desiderio di fare l’eresiologo; a volte, tuttavia, è forte in me la tentazione di segnalare tracce di quietismo e di semiquietismo, di pelagianesimo e di semipelagianesimo in scritti e discorsi, che o descrivono il lavoro pastorale come tutto dipendesse dagli uomini o dalle tecniche sociologiche, o parlano di noi poveri uomini come non avessimo più nulla a che vedere con il peccato».
      (Invito al clero per gli esercizi spirituali, Venezia, 5 agosto 1974)      
     
      L’amore alla Tradizione
      «Lo studio e la lettura devota (che non è studio) della Bibbia non occorre raccomandarli oggi: per fortuna, l’uno e l’altra sono entrati nei cuori dopo il Concilio. Vi raccomando invece l’amore alla Tradizione: non siate di coloro che, abbagliati e accecati, più che illuminati, da qualche lampo, pensano che ora soltanto è nato il sole e vogliono tutto rovesciare e cambiare».
      (Inizio d’anno del seminario, Venezia, 20 settembre 1977)      
     
      Solo Dio può toccare il cuore
      «Uno dei più brillanti vescovi è stato san Paolo apostolo, il quale diceva della propria predicazione fatta a Corinto: “Io ho gettato il seme, ma nulla sarebbe successo se Dio non l’avesse sviluppato e fatto sbocciare”. Non è questione di correre; è questione soltanto di misericordia e di delicatezza di Dio. Io vescovo e i miei sacerdoti possiamo istruire, illuminare, convincere anche, ma non di più; solo Dio può toccare il cuore e convertirvi».
      (Prima omelia in Cattedrale, Vittorio Veneto, 11 gennaio 1959)      
     
      Il peccato commesso diventa quasi un gioiello
      «A Pasqua, Dio aspetta. Un disperso che ritorna gli procura più consolazione che novantanove rimasti fedeli; data la sua infinita misericordia, mentre un peccato ancora da commettere va evitato a costo di qualunque sacrificio, il peccato già commesso diventa nelle nostre mani quasi un gioiello, che gli possiamo regalare, per procurarGli la consolazione di perdonare. Proviamo! Si fa i signori. Quando si regalano i gioielli».
      (Lettera ai fedeli di Vittorio Veneto, 7 febbraio 1959)      
     
      Il conclave
      «Uno scritto di san Bernardo venne utilizzato una volta in un modo ben curioso. Avvenne durante un conclave per l’elezione del papa e i cardinali erano molto indecisi sulla scelta. Uno di essi domandò la parola e fece la seguente riflessione: “Cari colleghi, il criterio da usare in questo momento venne esposto già con chiarezza e limpidezza da san Bernardo nella lettera tale e tale. Vi si legge: ‘Se qualcuno è sapiente, ci dia buone lezioni; se ha pietà, preghi per noi; se è prudente, questi ci governi’. Inchiniamoci dunque davanti a quelli che tra noi sono sapienti e hanno pietà, ma eleggiamo colui che è dotato di prudenza”».
      (Elogio della prudenza. Discorso all’Università Federale di Santa Maria, in Brasile, novembre 1975).      
     
      Roma e i poveri
      «Alcune delle sue parole [del sindaco di Roma] m’hanno fatto venire in mente una delle preghiere che, fanciullo, recitavo con la mamma. Suonava così: “I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio, sono… opprimere i poveri, defraudare la giusta mercede agli operai”. A sua volta, il parroco mi interrogava alla scuola di catechismo: “I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, perché sono dei più gravi e funesti?”. Ed io rispondevo col catechismo di Pio X: “… perché direttamente contrari al bene dell’umanità e odiosissimi, tanto che provocano, più degli altri, i castighi di Dio”. Roma sarà una vera comunità cristiana, se Dio vi sarà onorato non solo con l’affluenza dei fedeli alle chiese, non solo con la vita privata vissuta morigeratamente, ma anche con l’amore ai poveri. Questi – diceva il diacono romano Lorenzo – sono i veri tesori della Chiesa; vanno, pertanto, aiutati da chi può, ad avere e ad essere di più senza venire umiliati ed offesi con ricchezze ostentate, con denaro sperperato in cose futili e non investito – quando possibile – in imprese di comune vantaggio».
      (Basilica di San Giovanni in Laterano, 23 settembre 1978)

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buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno Bambini-con-cielo-stellato

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Attribuita a San Cirillo di Gerusalemme: « Ricevete lo Spirito Santo »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100411

II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia – Anno C : Jn 20,19-31
Meditazione del giorno
Attribuita a San Cirillo di Gerusalemme (313-350), vescovo di Gerusalemme, dottore della Chiesa
Catechesi 21, 1-3

« Ricevete lo Spirito Santo »

        Fratelli, battezzati in Cristo, rivestiti di Cristo (Gal 3, 27), siete stati configurati al Figlio di Dio. Infatti, Dio, che ci ha predestinati all’adozione (Rm 8, 29), ci ha plasmati (Gen 2, 7) sul modello del corpo glorioso di Cristo… Siete divenuti dei « cristi » poiché siete stati segnati con lo Spirito Santo. Tutto quello che vi è successo è immagine di quello che è successo a Cristo, del quale siete l’immagine (Gen 1, 27).

        Quando, dopo esser stato immerso nelle acque del Giordano, … Cristo ne è uscito, lo Spirito Santo in persona è sceso su di lui. Così, anche voi, usciti dal fonte battesimale, avete ricevuto la cresima ; anche voi siete stati unti con il sacro crisma. Questo segno con il quale Cristo stesso è stato unto è lo Spirito Santo… Infatti, Cristo non è stato cresimato, né è stato unto dagli uomini. Il Padre in persona lo ha stabilito Salvatore di tutto l’universo e unto con lo Spirito Santo, come ha proclamato il profeta Davide : « Dio, il tuo Dio ti ha consacrato con olio di letizia, a preferenza dei tuoi eguali » (Sal 44, 8).

        Come Cristo che è stato veramente crocifisso, sepolto e risuscitato, anche a voi, mediante il battesimo, è stato concesso di partecipare simbolicamente alla sua croce, al suo sepolcro e alla sua risurrezione. Ed è lo stesso per la cresima : Come Cristo è stato unto con olio di letizia dallo spirito Santo…, perché esso è fonte di gioia spirituale, anche voi siete stati unti con un olio santo, dal quale siete stati resi partecipi e compagni di Cristo. Siete stati dapprima unti sulla fronte per essere liberati dall’onta del primo Adamo e poter contemplare, a viso scoperto, come in uno specchio (2 Cor 3, 18), la gloria di Cristo.

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