Archive pour avril, 2010

Tiepolo: Presentazione del Cristo al popolo (Ecce Homo)

Tiepolo: Presentazione del Cristo al popolo (Ecce Homo) dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 30 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Maria e Cristo : una relazione asimetrica (J. Galot)

dal sito:

http://www.mariedenazareth.com/14555.0.html?&L=4

Maria e Cristo : una relazione asimetrica (J. Galot)

Alla pubblicazione di un volume collettivo destinato a sostenere un movimento in favore della proclamazione del dogma della mediazione di Maria, avevamo reagito formulando qualche difficoltà o interrogativo.[1] Ecco, un secondo volume, con lo stesso Curatore ma con collaboratori diversi, uscito sotto lo stesso titolo[2]. Ed ecco la nostra reazione. 

La mediazione di Maria non può essere presentata come parallela a quella di Cristo. L’attività mediatrice di Maria, come Sposa dello Spirito Santo e madre spirituale degli uomini, dev’essere riconosciuta come frutto dell’opera redentrice di Cristo. E questa attività si dispiega sempre in dipendenza della mediazione fondamentale di Cristo.

A proposito di questa dipendenza si pone il problema della relazione di Maria con Cristo nella cooperazione alla Redenzione.  

Nel suo studio su Maria corredentrice nella Sacra Scrittura, S. M. Manelli afferma che la corredenzione « colloca la Beata Vergine Maria non fra Cristo e noi – come avviene nella mediazione delle grazie – ma fra Dio e noi. » In tale prospettiva, Maria « è una con il Cristo Redentore che si trova fra Dio e noi, giustamente come Adamo ed Eva nell’atto di prevaricazione si trovano fra Dio e noi. »[3]  

Ma Maria non è semplicemente unita con Cristo come Eva era unita a Adamo. Il nuovo Adamo è il Figlio di Dio incarnato, che è l’unico redentore ; la nuova Eva gli è associata come Cooperatrice alla Redenzione ma in una dipendenza totale, e così si trova fra Dio e l’umanità in virtù del rapporto del Salvatore con tutti gli uomini.

Maria non ricollega direttamente gli uomini con Dio ; ha soltanto l’accesso a Dio per mezzo del Cristo Redentore, e apre l’accesso alla misericordia divina attraverso la mediazione fondamentale di Cristo.

Le due proprietà della cooperazione di Maria all’opera del suo Figlio « sotto di lui » e « con lui » [Lumen gentium 56, cf. LG 60.62]  sono inseparabili. C’è tra la madre e Gesù l’unione più intima, quella della madre predestinata con colui che ha dato al mondo la vita eterna (LG 56), ma entro una subordinazione totale nei suoi riguardi, perché egli è la fonte unica dei beni della Salvezza. Quando Maria esercita un’azione che tende a unire l’umanità a Dio, è sempre nel quadro dell’opera compiuta da Cristo ; ci fa trovare Dio attraverso Cristo, unico principio della riconciliazione. Quando Maria è collocata fra Dio e noi, è nello stesso tempo collocata anche fra Cristo e noi.

Publié dans:Maria Vergine |on 30 avril, 2010 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister: Passione di Cristo, passione dell’uomo

dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1343134

Passione di Cristo, passione dell’uomo

È il motto dell’ostensione della Sindone, in corso a Torino. Ai milioni di pellegrini da tutto il mondo si unisce il 2 maggio anche il papa. In parallelo, una grande mostra sul corpo e il volto di Gesù nell’arte

di Sandro Magister

ROMA, 30 aprile 2010 – Tra due giorni, quinta domenica di Pasqua, Benedetto XVI si recherà a Torino. Dove nel pomeriggio, nella cattedrale, si inginocchierà davanti alla Sindone, il venerato telo con le misteriose impronte di un uomo crocifisso, di un corpo con tutti i segni della passione di Gesù.

Dal 10 aprile, da quando la Sindone è esposta al pubblico – e lo sarà fino al 23 maggio –, stanno accorrendo a vederla un numero interminabile di persone. Anche non cristiani, anche lontani da Dio, attratti comunque da quel mistero che è la persona di Gesù, il suo corpo, il suo volto.

E al desiderio di « vedere » questo mistero va incontro una mostra d’arte studiata proprio per accompagnare l’ostensione della Sindone. La mostra è nella reggia di Venaria, poco a nord di Torino, e ha per titolo: « Gesù. Il corpo, il volto nell’arte ».

Tra le 180 opere esposte vi sono capolavori di autori come Donatello, Mantegna, Bellini, Giorgione, Correggio, Veronese, Tintoretto. C’è anche il meraviglioso Crocifisso ligneo scolpito da Michelangelo per la basilica fiorentina del Santo Spirito.

In molte di queste opere la Sindone appare. Ad esempio nel Cristo risorto di Pieter Paul Rubens riprodotto qui sopra, del 1615, conservato a Firenze a Palazzo Pitti. Un Gesù atletico, col corpo ancora in parte avvolto dal telo, assiso trionfante sul sepolcro vuoto. Come canta la sequenza della messa di Pasqua: « Mors et vita duello conflixere mirando, dux vitae mortuus regnat vivus ». Morte e vita si sono affrontate in prodigioso duello; il Signore della vita era morto, ma ora vivo trionfa.

Qui di seguito, ecco una guida alla visione del corpo e del volto di Gesù, scritta dal curatore della mostra Timothy Verdon, americano, storico dell’arte, sacerdote dell’arcidiocesi di Firenze e direttore dell’ufficio diocesano per la catechesi attraverso l’arte.

Il testo è tratto dal capitolo introduttivo del catalogo della mostra e da una conferenza dello stesso Verdon nel duomo di Torino, lo scorso 26 aprile.

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GESÙ. IL CORPO, IL VOLTO NELL’ARTE

di Timothy Verdon

A Torino, dove da secoli si conserva e si venera il grande telo noto come la Sindone, è naturale riflettere sul corpo e sul volto di Gesù. La Sindone sottolinea il convincimento che Gesù sia realmente vissuto e morto, ma invita a credere che egli sia anche risorto. Sarebbe in effetti il segno del suo passaggio alla vita nuova, il lenzuolo abbandonato al momento di risorgere.

La possibilità dell’esistenza di una simile reliquia è specialmente significativa per l’arte, perché conferma la visibilità e quindi la rappresentabilità dell’uomo che si diceva Figlio dell’invisibile Dio d’Israele.

Scriveva nel secolo VIII san Giovanni Damasceno, evocando il divieto biblico di ogni raffigurazione della divinità: « Un tempo non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico. Ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini, così che è lecito fare un’immagine di quanto è stato visto di Dio », cioè dell’uomo Gesù. Scrivendo nel contesto della proibizione delle immagini da parte dell’imperatore di Bisanzio, l’iconoclasta Leone III, questo autore – nato cristiano in una Damasco allora sotto controllo musulmano – vedeva un nesso tra il dogma teologico dell’incarnazione e l’uso ecclesiastico di immagini, soprattutto quelle raffiguranti Gesù stesso.

La mostra mette in evidenza la continuità di queste idee nell’era medievale e moderna. Porta l’attenzione sull’uomo Gesù, il cui corpo e volto sarebbero tracciati sul venerabile telo, suggerendo come pittori e scultori di vari periodi l’abbiano visualizzato.

Il cristianesimo ha sempre raffigurato il corpo alla luce della propria idea dell’essere umano. A differenza dei miti pagani, che presentavano gli dei con tutti i difetti degli uomini, la cultura biblica giudeo-cristiana ritiene che l’uomo debba aspirare alla perfezione di Dio, e soprattutto alla sua misericordia. « Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso », ha detto infatti Gesù (Luca 6, 36), e questa misericordia caratteristica dell’essere umano aveva una singolare componente corporea. Già nell’Antico Testamento molte parole del Dio incorporeo lo mostrano sensibile al tremore della pelle del povero. Nello stesso spirito Gesù descrive come, nel giudizio finale, il Figlio dell’uomo premierà quanti avranno avuto cura corporale del prossimo: « Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo mi avete vestito » (Matteo 25, 35-36).

Per i credenti in lui, Gesù, Figlio di Dio, è diventato quel povero a cui bisogna rendere il mantello prima di notte: l’affamato, l’assetato, l’escluso, il senza tetto, l’ignudo da coprire. Dice un teologo greco del IV secolo, il vescovo san Macario: « Il contadino, quando si accinge a lavorare la terra, sceglie gli strumenti più adatti e veste anche l’abito più acconcio al genere di lavoro. Così Cristo, re dei cieli e vero agricoltore, prese un corpo umano, e, portando la croce come strumento di lavoro, dissodò l’anima arida e incolta, ne strappò via le spine e i rovi degli spiriti malvagi, divise il loglio del male e gettò al fuoco tutta la paglia dei peccati. La lavorò così col legno della croce e piantò in lei il giardino amenissimo dello Spirito. Esso produce ogni genere di frutti soavi e squisiti per Dio, che ne è il padrone ».

Ecco, l’immagine di Dio contemplata nel corpo sofferente di Gesù implica questa dinamica di purificazione e crescita. Implica anche un processo in cui il soggetto umano scopre e comprende se stesso, come suggerisce un padre della Chiesa, Pietro Crisologo, quando immagina Gesù crocifisso che invita i credenti a riconoscere nel suo corpo sacrificato il senso morale della loro vita. « Vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, il vostro cuore, il vostro sangue, ci dice Gesù. O immensa dignità del sacerdozio cristiano! L’uomo è divenuto vittima e sacerdote per se stesso. Non cerca fuori di sé ciò che deve immolare a Dio ma porta con sé e in sé ciò che sacrifica. Sii, o uomo, sacrificio e sacerdote, fa del tuo cuore un altare, e così presenta con ferma fiducia il tuo corpo come vittima a Dio. Dio cerca la fede, non la morte. Ha sete della tua preghiera, non del tuo sangue. Viene placato dalla volontà, non dalla morte ».

Sono citazioni, queste, utili per capire la concezione di corporeità e di personalità elaborata nei secoli attraverso immagini di Gesù: l’idea del corpo come luogo di una dignità insita nell’essere umano – di una capacità « sacerdotale » di offrirsi – e del volto come specchio di libertà consapevole. Le opere in mostra infatti mettono lo spettatore nelle condizioni di quelle donne e di quegli uomini descritti nel Nuovo Testamento, per cui il corpo e volto di Gesù erano luoghi di sorprendente, anche scandalosa, scoperta.

Quando ad esempio Gesù tornò dal deserto al suo paese, Nazaret, e nella sinagoga lesse ad alta voce i versetti messianici di Isaia, l’evangelista Luca narra che « gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui »  (Luca 4, 16-24). Alle parole d’Isaia, infatti, Gesù aggiunse altre parole, inaspettate e per i presenti certamente incomprensibili: « Oggi – disse – si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi ». Gli occhi dei presenti stavano sopra di lui, fissi sul suo corpo e sul volto, perché la sua affermazione « oggi si è adempiuta questa Scrittura » li obbligava ad associare le antiche promesse di una futura era benedetta con questo giovane uomo seduto in mezzo a loro: con lui come presenza fisica, con il suo corpo, con l’espressione del suo volto. « Non è costui il figlio di Giuseppe? », chiedono subito, incapaci di vedere in Gesù più di quanto credevano di conoscere, così che egli commenta: « Nessun profeta è bene accetto nella sua patria ».

Un’occasione analoga, assai più drammatica, è narrata nel sesto capitolo del Vangelo di Giovanni. Due giorni dopo la sua miracolosa moltiplicazione di pani e pesci per sfamare una folla immensa, Gesù spiega che il vero pane offerto dal Padre all’umanità – il pane disceso dal cielo – era lui stesso. Di nuovo allora i suoi ascoltatori si chiedono: « Costui non è Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come può dire: Sono disceso dal cielo?”. Ma egli insiste: « Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita dell’uomo ». E ancora: « Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita, perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui ». L’evangelista Giovanni descrive la negativa reazione a queste parole da parte degli ascoltatori, e come « da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui », e non si fa fatica a capirli, perché Gesù pretendeva che vedessero il suo corpo come alimento, e così pure il suo volto: « Questa infatti è la volontà del Padre: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno ». Molte opere in mostra prendono luce da questi asserti, anche perché originalmente fatte per altari, dove il corpo e il volto di Gesù raffigurati dall’artista erano visti in prossimità al pane e vino dell’eucaristia, corpo e sangue del Signore.

La mostra invita quindi a riscoprire la particolare intensità con cui i credenti d’altri tempi – i committenti materiali e gli originali fruitori delle opere esposte – guardavano un corpo e un volto ritenuti “vero cibo” e “vera bevanda”; un corpo e un volto che, interiorizzati, li avrebbero trasformati col dono della “vita eterna”. Quest’esperienza, forse pienamente accessibile solo alla fede, può essere immaginata anche da chi non crede; anzi, deve essere immaginata, perché costituisce il normale contesto di comprensione di simili opere d’arte, una componente imprescindibile del loro messaggio.

Imprescindibile è anche la tensione morale che doveva condizionare la lettura originaria di molte delle opere esposte nella mostra. In immagini legate all’eucaristia, infatti, come nella stessa celebrazione della messa, il credente cerca, oltre ciò che vede, qualche cosa di più, e ogni immagine associata al rito si pone come « epifania » ed « apocalisse », come manifestazione e rivelazione di una futura trasformazione. L’arte nel luogo di culto infatti illumina l’attesa dei cristiani, e nei personaggi ed eventi che essa illustra le immagini sacre si offrono come specchi dell’Immagine in cui i fedeli sperano di essere trasformati, Gesù Cristo.

La mostra copre il periodo corrispondente alla fine del Medioevo, al Rinascimento e al Barocco, in cui il corpo e il volto della persona umana tornano ad essere nell’arte occidentale primari portatori di significato. Questi elementi figurativi, perfezionati dai greci cinque secoli prima di Cristo, in un primo periodo erano stati rifiutati dalla nascente cultura cristiana, che al naturalismo pagano preferiva un linguaggio meno ambiguo, col corpo presentato come segno e col volto trasfigurato dalla fede. Tale rifiuto della fisicità e della personalità, che rifletteva anche il severo giudizio cristiano sull’amoralità e sull’individualismo del mondo pagano, fu tra le cause della perdita d’interesse per il corpo e il volto come soggetti d’arte tra il V e l’XI secolo.

Fu la nuova spiritualità incentrata sull’uomo – la spiritualità di stampo francescano del Duecento e del Trecento – a far riscoprire l’arte greco-romana così adatta a descrivere il corpo e le emozioni. Grazie a questo nuovo dialogo con l’antica civiltà pagana, la cristianità europea elaborò anche un diverso rapporto con la storia, in cui valori ritenuti propedeutici alla fede in Gesù verranno considerati componenti di un’unica rivelazione affidata all’essere umano a prescindere dall’origine culturale e religiosa. Contenuto centrale di quest’unica rivelazione è l’umanità stessa, riconoscibile nell’eloquente bellezza e nella vulnerabilità del corpo, nel dolore e nella gioia scritti sul volto; a dimostrare la sua legittimità è la convinzione che lo stesso Figlio di Dio si è fatto uomo.

Le sette aree del percorso espositivo suggeriscono queste idee: il corpo e la persona; Dio prende un corpo; l’uomo Gesù; un corpo dato per amore; il corpo risorto; il corpo mistico; il corpo sacramentale. L’allestimento mira a suggerire il contesto d’uso iniziale della quasi totalità delle opere, il luogo liturgico cattolico, ricollocando i dipinti, le sculture, le oreficerie e i paramenti sacri in spazi che ricordano chiese. La forma delle sale, l’illuminazione e il sottofondo musicale che accompagna la visita sono state pensate in funzione di questo obiettivo, con uno scopo però più scientifico che religioso: quello di riabilitare come dato storico il messaggio teologico ed emotivo inteso dagli artisti e dai committenti delle opere. Alcuni dipinti sono addirittura allestiti sopra altari per evocare il rapporto visivo tra immagine e rito: diverso infatti è l’impatto di una Deposizione o Pietà vista in un museo e quello della stessa opera sopra una mensa eucaristica; nel secondo caso la percezione del corpo di Cristo raffigurato è condizionata dalla fede che lo stesso corpo sia realmente presente, seppur invisibile, nel pane e vino consacrati.

Le molte opere in mostra suggeriscono inoltre qualcosa della densità iconografica tipica delle chiese cattoliche del passato. Tale affollamento di immagini conferiva un carattere visionario a questi luoghi, dove raffigurazioni di Cristo, di Maria e dei santi davano colore e interesse umano ai personaggi e agli eventi di cui parlano le Scritture e la tradizione, offrendo un’immersione così totale che il fedele si percepiva circondato dai personaggi e partecipe degli eventi, membro dell’unica comunione dei santi e parte dell’unica storia della salvezza.

Tuttavia il soggetto dell’esperienza estetica, come dell’esperienza cultuale, rimane l’uomo. È a lui e alla sua corporeità che parlano i colori e le forme. L’arte che fa vedere Cristo – insieme a veri « specchi del suo Vangelo » quale la Sindone – invita a contemplare Cristo che prende forma in noi, speranza di gloria, bellezza di vita eterna. E in lui visto e conosciuto e amato comprenderemo finalmente che il senso della nostra vita anche corporea, della nostra carne, degli affetti, dei ricordi, e del sangue, suo e nostro, di ogni persona umana tradita, sacrificata, uccisa. Il poco sangue della Sindone si rivelerà allora un Mar Rosso attraverso cui Cristo ci conduce alla terra promessa.

Publié dans:Sandro Magister |on 30 avril, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno horse2
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San Bonaventura: « Io sono la Via, la Verità e la Vita »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100430

Venerdì della IV settimana di Pasqua : Jn 14,1-6
Meditazione del giorno
San Bonaventura (1221-1274), francescano, dottore della Chiesa
Itinerario della mente a Dio, VII, 1-2,4,6

« Io sono la Via, la Verità e la Vita »

        Chi si rivolge a Cristo, con dedizione assoluta, fissando lo sguardo sul crocifisso Signore mediante la fede, la speranza, la carità, la devozione, l’ammirazione, l’esultanza, la stima, la lode e il giubilo del cuore, fa con lui la Pasqua, cioè il passaggio ; attraversa con la verga della croce il Mare Rosso, uscendo dall’Egitto per inoltrarsi nel deserto. Qui gusta la manna nascosta, riposa con Cristo nella tomba come morto esteriormente, ma sente, tuttavia, per quanto lo consenta la condizione di pellegrini, ciò che in croce fu detto al buon ladrone, tanto vicino a Cristo con l’amore : « Oggi sarai con me nel paradiso » (Lc 23, 43).

        Ma perché questo passaggio sia perfetto, è necessario che sospesa l’attività intellettuale, ogni affetto del cuore sia integralmente trasformato e trasferito in Dio. È questo un fatto mistico e staordinario che nessuno conosce se non chi lo riceve (Ap 2, 17)… Se poi vuoi sapere come avvenga tutto ciò, interroga la grazia, non la scienza, il desiderio non l’intelletto, il sospiro della preghiera non la brama del leggere, lo Sposo non il maestro, Dio non l’uomo.

Day 7 Shabbat, the rest of God and man

Day 7 Shabbat, the rest of God and man  dans immagini sacre 14%20MENABUOI%20CREATION%20DU%20MONDE%20FRESQUE%20PADOUE%20SAN%20G
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Publié dans:immagini sacre |on 29 avril, 2010 |Pas de commentaires »

CHRISTIAN CANNUYER, Dio è nei cieli? (2002)

dal sito:

http://www.disf.org/AltriTesti/Cannuyer.asp

CHRISTIAN CANNUYER, Dio è nei cieli? (2002)

Come molte religioni, la Bibbia fa del cielo il dominio di Dio, il suo santuario, il suo regno. Questa collocazione ha attraversato tutto l’immaginario ebraico e cristiano sino a lasciare tracce profonde nella nostra religiosità attuale, malgrado il «disincanto» del cielo cui hanno portato la scienza e l’esegesi moderna: come i cristiani dei primi secoli, non continuiamo a pregare ogni giorno «Padre nostro, che sei nei cieli»?

Prima della creazione Dio Padre circondato da angeli, ms. fr. 50, fol. 13 dello Specchio della storia di Vincent de Beauvais, XV secolo. Parigi, Biblioteca Nazionale di Francia, dipartimento dei Manoscritti.

Nel 1922, il grande storico delle religioni Raffaele Pettazzoni (1883-1959) pubblicò L’essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi, in cui metteva in evidenza che, nella maggior parte delle «visioni del mondo» definite primitive, l’immensità del cielo, la sua influenza sulla fertilità del suolo, la sua luce splendente, la sua inaccessibilità avevano portato alla sua personificazione mitica, identificandolo insomma con quell’Essere supremo di cui l’etnologo tedesco Wilhelm Schmidt (1868-1954) aveva creduto di riconoscere l’importanza alle origini del pensiero religioso di una quantità di popoli arcaici.

All’origine del sentimento religioso c’è lo stupore di fronte al cielo?

Mircea Eliade (1907-1986), nel suo Trattato di storia delle religioni, ha cercato di perfezionare questi approcci, mostrando che il cielo, per la sua grandezza, la sua forza, la sua immutabilità, ha potuto all’inizio essere per l’uomo il luogo di un’espressione simbolica della trascendenza, una rivelazione del sacro o del divino (ierofania) offerta allo spirito stupito in modo immediato, non in seguito ad una riflessione speculativa., come avrebbe voluto Schmidt, né di un’affabulazione mitica e prelogica, come affermava Pettazzoni. Per Eliade, questa potenza simbolica della ierofania uranica è un dato primordiale della religiosità. È il motivo per cui gli dèi buoni, eterni, immutabili, e, al di sopra di loro, il più grande, il Creatore, demiurgo o Essere supremo, sono collocati nel cielo, ovvero identificati con esso.  Paradossalmente, questi dèi o Essere celesti supremi, onnipotenti e onniscienti. sembrano tanto distanti da scomparire dalla vita quotidiana, dal culto comune, dalla consapevolezza immediata: sono degli dèi «ritirati» o «inattisi» (dei otiosi), in riposo nell’eterno splendore dell’empireo; persino il Dio della Bibbia non si riposa dopo tutta la fatica dei «Sette giorni» della creazione? In numerose religioni «arcaiche», come in Australia o nell’Africa nera, i grandi dèi celesti primordiali cedono il posto a dèi più accessibili, più vicini agli umani, anche più dinamici, attori di una mitologia in crescita e multiforme. Indipendentemente dalla pertinenza delle con conclusioni di Eliade – alle quali certamente oggi si rimprovera un eccesso di dogmatismo e di generalizzazioni affrettate – esse sembrano aver messo il dito su un aspetto dell’esperienza «arcaica» del sentimento «religioso»: il fascino abbagliante di fronte alla bellezza, all’immensità, alla luce incomparabile dell’azzurro. Ciascuno di noi non prova questo a partire dalla sua prima infanzia?

Il Cielo-dio: una credenza universalmente diffusa

Sulle rocce della Val Camonica, in Lombardia, a nord di Brescia, dei graffiti rupestri risalenti al 5000-3000 a.C. rappresentano uomini in preghiera, con le braccia alzate verso il cielo. Non è che un esempio tra gli altri dell’importanza del cielo nelle religioni della preistoria. Parecchie religioni conservano almeno la traccia di un culto antichissimo al Dio cielo o a un Essere supremo che vi risiede: così presso le popolazioni turco-mongoliche dell’Asia centrale, il grande dio nazionale e imperiale Tengri non è altro che il Köke Möngke Tenri, «Eterno Cielo Blu», che è elevato (uze) sovrano e forte (kütch), ma allo stesso tempo inaccessibile e spesso ozioso, al quale solo il khan e i grandi rendono culto. Il caso più conosciuto è quello della Cina dove, a partire dall’VII secolo a.C., la dinastia dei Chou ha formalizzato la religione del «Sovrano dell’ Alto del vasto cielo» (Hao-t’ien Chang-ti), cioè del Cielo stesso (t’ien), di cui l’imperatore era considerato come il Figlio, solo abilitato a venerare il Padre nella capitale, su una collinetta a forma di volta celeste. La nostra stessa parola per dio, dal latino deus, viene dalla radice diu-, dei-, «brillare», che traduce la natura celeste del grande dio comune a tutti gli Indoeuropei e ha dato origine anche al nome del giorno (latino dies, di dove, in italiano, «diurno», o le finali in -di dei nomi dei giorni della settimana); presso i Greci Zeus (al genitivo Dios), e in indo Dyauh-Pitâ (Dio padre), analogo al Dius-pater («dio padre», cioè Jupiter) dei Romani, il dio celeste Diêvas o Dievs delle antiche religioni lituana e lettone, e sino al dio Tyr degli Scandinavi. Georges Dumézil ha ben dimostrato che gli dèi sovrani Varuna e Mitra, che occupano il primo posto nella trifunzionalità del pantheon indoeuropeo, sono in origine degli dèi del cielo. La stessa considerazione vale per il dio supremo degli Iranici, Ahura Mazda, al quale la riforma monoteista di Zarathustra (Zoroastro) conserverà gli attributi di un dio uranico, luminoso, sapiente e bello.

Dei del cielo nel mondo biblico

Più vicino al mondo biblico, c’è bisogno di ricordare che il sumerico dingir, corrispondente  all’akkadico ellu, «dio», significa fondamentalmente «ciò che è chiaro, brillante»? Il segno  cuneiforme che descrive queste parole rappresenta una stella e ritorna anche nel termine an, «cielo».         Il capo supremo del pantheon babilonese, Anu, non è altro che il cielo e il suo tempio principale di Uruk portava il nome di E-an-na, «casa del Cielo».

Presso i Cananei, i Fenici e gli Aramei il titolo di Baal-Šamêm, «signore dei cieli», che appare dal II millennio prima della nostra era, fu attribuito a partire dal IX secolo a.C. ad una divinità suprema considerata sempre più come il Creatore per eccellenza. È probabilmente per lui che Gezabele di Tiro, sposa del re Acab di Israele (874-853), aveva introdotto un culto sul monte Carmelo (1 Re 18). concorrenza che suscitò, come è noto, la feroce opposizione della nobile figura del profeta Elia. In epoca ellenistica questo Baal fu identificato dai Greci con Zeus Hypsistos (Altissimo), e sotto l’epiteto di Theos Hagios Ouranios, «Dio Santo Celeste», fu venerato sino al III secolo della nostra era nel tempio tirio di Qadeš, all’estremo nord della Galilea (Tell Qedeš, 10 chilometri a nord del sito di Hazor).

Certo, il Dio d’Israele ha creato il cielo (Gn 1,1), che testimonia la sua gloria (Sal 19), e l’Antico Testamento abolisce l’uranolatria. D’altra parte, anche i cieli dovranno essere rinnovati dal Creatore alla fine dei tempi (Is 65,17; Ap 21,1; 6,14). Il cielo, nella maggioranza dei testi, rimane considerato come la dimora di Dio o il suo santuario, di dove egli osserva gli uomini (Sal 33,13-14; 102,20; Is 63,15). Dio è il Dio del cielo (Ne 1,4). verso il quale si alzano le braccia quando si prega (Es 9,29; cf anche 2 Cr 30,27). «Io ho visto il Signore seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo gli stava intorno, a destra e a sinistra», proclama il profeta Michea, figlio di Yimla, al re Acab, predicendogli la disfatta contro gli Aramei (1 Re 22, 19): alla pari dei Baal cananei, il Dio dell’Antico Testamento è un re celeste circondato da una corte e da un esercito.

Il cielo giunge anche a designare allusivamente Dio in persona: «Levano la loro bocca fino al cielo», dice il salmo 73,9, dei malvagi… E Daniele (4,23) ingiunge al re Nabucodonosor, se vuole conservare la sua regalità, di riconoscere la sovranità del Cielo, cioè quella del Dio Altissimo. A partire dal libro dei Maccabei (scritto verso il 100 a.C.) questa immagine diventerà molto frequente e s’imporrà nel giudaismo (cf 1 Mac 12,15).

Il Dio del cielo nel Nuovo Testamento

La maggior parte di questi concetti sono ripresi nel Nuovo Testamento (cf At 7,49). Dio è il Dio del cielo (ho Theòs lou ouranou: Ap 11,13). «Chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso», dice Gesù agli scribi e ai farisei ipocriti (Mt 23,22). L’uso di sostituire il nome del cielo a quello di Dio si generalizza; là dove Matteo parla di «regno dei cieli», Luca e Marco usano «regno di Dio» (es. Mc 1,15 e Mt 4,17). Gesù stesso intrattiene col cielo una relazione molto stretta. Figlio del Padre che è nei cieli (Mt 12,50; 18,19), da lì è venuto e li ritornerà. «Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dai cielo», egli confida al fariseo Nicodemo (Gv 3,12-13). È il motivo per cui il cielo stesso riconosce autentica la missione di Cristo aprendosi per lui (Mt 3,6) e mandandogli lo Spirito (Gv 1,32). La risurrezione esalta Gesù nel più alto dei cieli (Eb 4,14; 7,26), dove gli è affidata ogni autorità (Mt 28,1 8), nella Gerusalemme celeste incastonata in uno scrigno cosmico rischiarato da un cielo rinnovato (Ap 3,12; 21,5). Alla fine dei tempi, il Signore «discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti. saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria» (1Ts 4,16-17).

Tuttavia abbastanza presto l’insistenza del monoteismo di Israele sulla trascendenza divina portò a riflettere sui limiti provocati da un’associazione troppo stretta di Dio con lo spazio celeste, soprattutto il «nostro» cielo visibile. Il «cielo di Dio» doveva, evidentemente, trovarsi al di là del firmamento, in altri «cieli» che il nostro. Invitava a concludere in questo senso il fatto che nell’ebraico biblico la parola «cielo» si presenta in genere sotto una forma di plurale irregolare (šâmayim, «i cieli»). Forse sotto l’influsso dell’astronomia babilonese, si giunse a concepire una molteplicità di cieli, l’esistenza di un «cielo dei cieli» (Ne 9,6; Dt 10,14); il salmo 108,5-6 sviluppa l’idea di una grandezza di Dio che sorpassa ampiamente i cieli: «La tua bontà è grande fino ai cieli e la tua verità fino alle nubi. Innalzati, Dio, sopra i cieli, su tutta la terra la tua gloria». E in 1 Re 8,27, la straordinaria preghiera di Salomone, che afferma l’onnipotenza e la trascendenza di Dio, arriva a mettere in discussione qualsiasi «localizzazione» del Creatore, che sia nel Tempio di Gerusalemme o in questi «spazi ultrasiderali»: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!».

Dio più alto del cielo, Dio fuori del cielo

L’immagine di una molteplicità di cieli per tradurre la trascendenza divina ha conosciuto un grande favore nella letteratura apocalittica ebraica tardiva. Nell’Apocalisse e di Albramo (scritta in ebraico verso la fine del I secolo d.C., ma conservata in antico slavo e in rumeno), il patriarca  trasportato al settimo cielo, contempla Dio che vi dirige la creazione, «immagine del cielo e di ciò che contiene». Nella seconda lettera ai Corinzi (12,2). Paolo dice a sua volta di avere conosciuto l’esperienza di un’elevazione sino al «terzo» cielo, immagine del paradiso. Così il cielo in cui Dio sta in trono non è il «nostro» cielo immediato «il più scuro, poiché vede tutte le ingiustizie degli uomini (Testamento di Levi, 3, 1).

Per gli gnostici il cielo è male e non vi si trova Dio

Tra i primi ad aver lanciato un’offensiva ben più radicale contro una collocazione di Dio in cielo si pongono probabilmente gli gnostici. Lo gnosticismo, corrente religiosa nata nel II secolo d.C. in Siria-Palestina e in Egitto, alla periferia del giudaismo e del cristianesimo, si caratterizza per una posizione violentemente anticosmica: il mondo materiale, visibile, è male, è opera di un  demiurgo pericoloso, di un falso dio nato da una tragica decadenza in seno al divino stesso. Questo dio ingannatore e malvagio, identificato da numerosi gnostici col Dio ebraico, quello dell’Antico Testamento, è all’origine della chiusura delle anime, particelle della luce divina, nei corpi. Egli abita nel cielo che ha creato e dal quale comanda il cosmo empio per mezzo di «Potenze», gli Arconti, la cui tirannide ricorda l’impietosa autorità delle divinità celesti dell’astrologia mesopotamica. Anche il cielo, che appartiene al creato. non è per gli gnostici che un grottesco surrogato della dimora luminosa del vero Padre, del Pro-principe, del vero Dio di cui il demiurgo nasconde all’uomo l’esistenza presentandosi come il solo Creatore. È in se stesso che l’uomo, grazie alla conoscenza (gnosi) di sé rivelata da un inviato della luce, troverà la propria salvezza, non alzando gli occhi verso il cielo. Nel Vangelo secondo Tommaso, trovato a Nag Harnmadi (Alto Egitto) nel 1946, Gesù presentato in questa qualità di inviato della luce (un Gesù doceta, in apparenza d’uomo, non incarnato, perché l’incarnazione non potrebbe essere che una ripugnante commistione del divino con la materia malvagia), afferma con forza: «Se coloro che vi guidano vi dicono: “Ecco, il regno è nei cieli !“. allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono che è nel mare, allora vi precedono i pesci. Ma il regno è dentro e al di fuori di voi. Quando voi vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che siete i figli del Padre Vivente» (logion 2). Inoltre, aggiunge il Salvatore, «questo cielo passerà e passeranno quelli che sono al di sopra di lui» (logion 11). In modo che lo spazio celeste accessibile allo sguardo dell’uomo non può in alcun caso essere considerato come dimora del divino. E, tutt’al più, la stamberga dell’aborto demiurgico, il tugurio del Creatore geloso e terribile della Scrittura ebraica.

Rivelando il «Padre nostro che è nei cieli», Gesù, per gli gnostici, invita dunque a scoprire il vero Padre che vive nella luce, che non abita il cielo cosmico, ma nei cieli dei cieli, gli eoni degli eoni che sono evidentemente al di fuori dello spazio. E il motivo per cui taluni testi gnostici. che evocano la liberazione dell’anima che ritorna verso la luce da cui proviene, descrivono questo processo come un’ascensione non verso il «cielo», ma verso una serie di cieli successivi (sino al decimo nell’Apocalisse di Paolo), la cui moltiplicazione tradisce il discredito gettato sul cielo siderale, cosmico, assolutamente lontano dalla trascendenza divina, Vi è in questo una svolta ed un chiaro superamento del tema della pluralità dei cieli dell’apocalittica ebraica. Nemmeno il «settimo» cielo trova grazia agli occhi degli gnostici e L’ipostasi degli Arconti (un altro testo di Nag Hammadi) vi colloca il trono del false «dio delle forze», Sabaoth Per loro, il cielo è decisamente spogliato del prestigio di essere la casa di Dio e il luogo della salvezza dell’uomo.

Oggi, il disincanto verso il cielo?

In questo modo gli gnostici annunciano il «disincanto» o la «demitizzazione» con cui l’esegesi esistenziale del luterano Rudolf Bultmann (1884- 1976) purgherà il cielo cristiano, non vedendovi altro che un’immagine della trascendenza divina legata alle strette costrizioni delle rappresentazioni cosmiche proprie al mondo antico. Gesù, «disceso dal cielo», secondo il simbolo niceno (cf anche Gv 3,13 e 6,51), vi «risale» all’Ascensione per sedere alla destra del Padre (cf Gv 3,13; 6,62; 20,17; Ef 4,9-10): per la fede moderna, si comprende questa affermazione della fede della Chiesa come una metafora che indica l’ingresso di Gesù nella gloria del Padre, un mistero indicibile di cui gli apostoli ebbero un’esperienza che può essere espressa soltanto in maniera simbolica. Il rapimento (analépsis, cf Lc 24,5) o la salita (anábasis, cf Gv 20,17) di Gesù «al cielo», evidente ricordo del viaggio celeste di Elia o di Enoch nell’Antico Testamento, di Esdra, di Baruc, di Mosè, d’Abramo o di Levi negli scritti intertestamentari, è indissociabile dal mistero della sua risurrezione. Esso esprime la sua vittoria sulla morte, la sua intimità col Padre, la promessa all’uomo della vita eterna. Come scrive Leone Magno (papa dal 440 al 461), «L’ascensione di Cristo è dunque la nostra propria elevazione e, là dove in precedenza è andata la gloria del capo, là è chiamata anche la speranza del corpo». Così il cielo, dimora di Dio, diventa per i cristiani speranza e luogo simbolico della salvezza.

Se la scienza moderna ha largamente contribuito a disincantare il cielo, essa ha nello stesso tempo rivelato l’immensità prima impensabile degli spazi intersiderali, dell’universo intergalattico che, oggi forse più ancora di ieri, attraverso la sua misteriosa relazione col tempo, con l’Essere, col divenire, appare come il santuario simbolico del Creatore. È là, nel cuore del mistero dell’essere di cui l’universo conserva la lunga memoria, che noi continuiamo, se non a collocare, perlomeno ad imparare a conoscere il «Padre nostro che è nei cieli».

da “Il cielo nella Bibbia”, ne Il mondo della bibbia, 61 (2002), n. 1, pp. 13-17, tr. dal francese di R. Bertazzoli. 

Publié dans:biblica |on 29 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Da piccoli indizi, lo stupore della fede (Intervista con Jean Galot di Gianni Valente)

dal sito:

http://www.30giorni.it/it/articolo_stampa.asp?id=12752

Da piccoli indizi, lo stupore della fede

Gli apostoli Pietro e Giovanni al sepolcro vuoto. Pietro vide. Giovanni vide e credette. Intervista con Jean Galot, professore emerito di Cristologia alla Pontificia Università Gregoriana

Intervista con Jean Galot di Gianni Valente

      Erano pescatori di Galilea, gente concreta. Altro che visioni interiori. Dopo quel che era successo sul Calvario, se ne erano tornati a casa, ben chiusi dentro «per timore dei giudei». Lui era morto davvero, e perciò realmente, per quei poveretti, era finito tutto.
      Ma quella domenica mattina, davanti al sepolcro vuoto, qualcosa, in quella dolorosa ma realistica rassegnazione, si incrinò.
      Il gesuita Jean Galot, 81 anni, professore emerito di Cristologia alla Pontificia Università Gregoriana, è tornato di recente su quella scena. In un saggio pubblicato sulla Civiltà Cattolica, zeppo di riferimenti a recenti studi esegetici e a documentate ricerche sugli usi funerari dell’antico mondo ebraico, ha accompagnato Giovanni e Pietro sulla soglia del sepolcro. Cercando di discernere perché, in quel momento, Giovanni ebbe la prima, inizialissima percezione che invece avevano vinto.
      Il saggio di padre Galot ha un titolo pieno di suggestione: Vedere e credere. Perché tutto è ricominciato così. Quando i suoi, che Lo avevano visto morto, con gli stessi sensi Lo hanno visto e Lo hanno toccato risorto.
 
Il totale e alcuni particolari di Gesù risorto e Tommaso, di Santi di Tito (1536-1603), Cattedrale di Sansepolcro, Arezzo 
 
      Ricordiamo i fatti. Quella mattina, Maria Maddalena tornò dicendo che la pietra del sepolcro era stata ribaltata…
      JEAN GALOT: E subito, a quella notizia, due discepoli, Pietro e Giovanni, corsero al sepolcro per vedere cosa era successo. Giovanni, correndo più veloce, arrivò per primo, ma non entrò. Si limitò a sbirciare dalla porta i teli che erano ancora là. Poi arrivò Pietro, entrò per primo nel sepolcro, vide ciò che c’era. Giovanni entrò dietro di lui…
      Rispetto a ciò che si trovano davanti, il resoconto del Vangelo registra la differente percezione dei due: Pietro «vide», Giovanni «vide e credette»…
      GALOT: Pietro è colpito, quasi turbato da ciò che vede, ma rimane in una condizione di perplessità. In Giovanni, lo stupore è ancora più grande, perché in lui c’è una prima, embrionale intuizione del mistero della resurrezione.
      Questa diversità di reazione cosa significa?
      GALOT: Non vuol dire che la fede di Pietro sia minore di quella di Giovanni. Ma indica certo una diversità di temperamento tra i due. La fede di Pietro ha, per così dire, bisogno di più tempo. A Pietro serve tempo per cogliere la realtà di ciò che vede. Quando Gesù aveva chiesto agli apostoli «Voi, chi dite che io sia?», questa domanda era stata posta dopo un lungo tempo di convivenza, durante il quale Gesù aveva fatto emergere ciò che Lui era. In quell’occasione, fu proprio Pietro a rispondere in maniera sorprendente. Aveva avuto il tempo di osservare e meditare. La sua risposta sollecita era il risultato di una convivenza prolungata nel tempo. Al sepolcro, Giovanni, pur nella scarsità degli indizi, coglie, anche se in forma iniziale, come sono andate realmente le cose. Che cioè il corpo non è stato rubato, ma Gesù è uscito vivo, nel suo corpo risorto, dai teli che lo avvolgevano. Anche un altro episodio, accaduto dopo, conferma la maggior attitudine intuitiva di Giovanni. Quando Gesù appare sulla riva del lago e invita gli apostoli a gettare le reti dalla parte destra della barca, dinanzi alla pesca miracolosa, è Giovanni che riconosce subito Gesù: «Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi la tunica, e si gettò in mare» (Gv 21, 7). Anche in questo caso, Giovanni riconosce subito l’autore del miracolo, mentre Pietro sembra più concentrato sul risultato del miracolo, preoccupato dei problemi che poneva la quantità di pesci. È una situazione analoga a quella verificatasi nella visita al sepolcro vuoto, dove Pietro aveva concentrato il suo sguardo su ciò che testimoniava la sparizione del corpo, mentre Giovanni vi aveva colto il segno della resurrezione. Lo sguardo più penetrante di Giovanni, attraverso il sepolcro e i segni che rimanevano della presenza di Gesù, iniziava ad entrare nella fede pasquale.
      Questa maggiore intelligenza degli indizi, anche di quelli più piccoli, ha a che fare con il fatto che Giovanni era il discepolo prediletto da Gesù?
      GALOT: La predilezione di Gesù nei suoi confronti lo aiutava ad aprire gli occhi, a far coincidere, per quanto possibile, il suo modo di vedere le cose con il modo di Cristo. Ma pur nella sua maggior immediatezza d’intuizione, Giovanni appare rispettoso dell’autorità di Pietro. Non rivendica per sé alcuna autorità, alcun primato. Arrivato per primo al sepolcro, non entra, si ferma sulla soglia e attende che Pietro entri per primo, nonostante fosse curioso di vedere cosa c’era dentro. E poi avrebbe certo desiderato di condividere l’iniziale riconoscimento di quanto era accaduto nel sepolcro con il suo amico Pietro, ma si rendeva conto che il tempo di questa condivisione, di questa corrispondenza di sguardo non era ancora giunto. E allora non urge, non impone la sua maggiore acutezza di sguardo, rispetta il tempo necessario a Pietro per giungere a riconoscere la stessa realtà.
      Ma cosa c’era, lì dentro? Cosa hanno veramente visto i due?
      GALOT: Alcuni recenti studi esegetici hanno precisato il reale contenuto del testo, segnalando alcune imprecisioni delle traduzioni correnti che possono sviare la comprensione [vedi box]. Il primo errore è che molte versioni traducono con il vocabolo bende la parola greca ¶yónia, che in realtà indicava tutti i teli funerari in cui venivano fasciati i defunti, compresa la sindone, il telo più ampio, che avvolgeva tutto il corpo. Inoltre, a sentire molte versioni correnti, i suoi apostoli avrebbero visto i teli caduti a terra, e il sudario (il fazzoletto arrotolato che veniva legato intorno al volto del defunto, per tenergli chiusa la bocca) posto «in disparte, ripiegato in un luogo diverso». Invece, secondo traduzioni recenti e accurate, basate su un’attenta analisi grammaticale dell’originale greco, tutto era rimasto al suo posto. Anche il sudario non era stato spostato, ma era rimasto giacente in mezzo ai teli. Lo si distingueva, in rilievo, sotto la sindone ormai afflosciata.
      Sono dettagli così importanti?
      GALOT: Aiutano a intuire cosa suscitò lo stupore e l’inizio di fede in Giovanni. Se il corpo fosse stato portato via da qualcuno, i teli non sarebbero rimasti intatti nello stesso luogo, e il sudario sarebbe stato tirato fuori dai teli e messo da parte, al momento della sparizione, proprio come sembrano indicare molte traduzioni correnti. Invece il corpo di Gesù non c’era più, ma tutto il resto – i teli, il sudario – era rimasto nello stesso posto. Addirittura il sudario era rimasto avvolto nei teli, al suo posto iniziale. Giovanni forse, davanti a quella vista, intuì che Gesù non lo aveva portato via qualcuno, ma che era uscito vivo dal sepolcro sottraendosi in maniera misteriosa alla sindone e al sudario che lo avvolgevano, fuori dalle leggi dello spostamento dei corpi, lasciando tutte le cose intatte. Erano i segni di un intervento soprannaturale, che aveva sottratto il corpo di Gesù alla collocazione che aveva nel sepolcro senza sconvolgere nessuno dei teli adoperati per la sepoltura. Per questo si può dire che lì, davanti ai teli giacenti, iniziò a riconoscere l’evento della resurrezione.
      Un evento che pure Gesù aveva più volte annunciato…
      GALOT: Ogni volta che aveva accennato alla sua passione, Gesù aveva aggiunto che il terzo giorno il Figlio dell’uomo sarebbe risorto. Eppure, dopo la sua crocifissione, nessuno ricordava queste parole. Molti non se ne ricorderanno neppure quando lo vedranno risorto. Le avevano dimenticate tutti, tranne Maria, colei che per nove mesi aveva portato nel proprio grembo quel corpo, lo stesso corpo che avevano crocifisso. Si può dire che, durante quei tre giorni, tutta la speranza del mondo fu custodita solo da Maria. Giovanni stesso aveva udito più volte le parole di Gesù che annunciavano la resurrezione. Era stato, con Pietro e Giacomo, presente all’evento della trasfigurazione, quando Gesù si era raccomandato di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, «se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti». Loro avevano obbedito al comando, «domandandosi però cosa volesse dire risorgere dai morti» (Mc 9, 9. 10). Quindi Giovanni avrebbe dovuto essere preparato ad accogliere il mistero della resurrezione. Eppure quelle parole gli ritornano alla memoria solo quando vede la sindone e il sudario rimasti intatti nel sepolcro dopo che Gesù ne è uscito vivo. L’inizio della sua adesione alla fede, come viene riportato nel testo evangelico, è causato da ciò che ha visto nel sepolcro. È suscitato da indizi esigui, ma reali, visibili.
      Come cresce, per Giovanni, questo inizio? Forse attraverso una riflessione religiosa?
      GALOT: In quella prima esperienza presso il sepolcro vuoto, Giovanni aveva avuto soltanto un’idea vaga e indiretta della resurrezione di Gesù Cristo. Constatando la sua assenza dal sepolcro, aveva forse intuito il modo soprannaturale in cui essa si era verificata. Ma solo le apparizioni di Gesù nei quaranta giorni che seguono, i contatti concreti col Risorto gli permettono di fondare con certezza la sua missione di testimone. In quei loro incontri Gesù si manifesta per suscitare la fede, per procurare alla fede un fondamento oggettivo più evidente. Non esita a mostrare il suo corpo con insistenza, un corpo che porta ancora i segni della crocifissione. Rafforza il vedere per far sorgere il credere. Con il moltiplicarsi degli indizi, si passa da una prima intuizione al riconoscimento di una realtà inimmaginabile, di un fatto reale che si rivela più grande e sorprendente di ogni attesa.
      E questo accade a un gruppetto di ebrei impauriti e rassegnati, poco propensi a visioni mistiche, dopo che tutto era finito.
      GALOT: Il punto di partenza del movimento della fede, a cominciare dagli indizi del sepolcro vuoto, è sempre una realtà visibile. Questo fattore è importante, perché smentisce coloro che interpretano la fede nella resurrezione di Gesù Cristo come una mera convinzione intima. Spazza via tutte quelle tesi idealiste secondo cui i discepoli si convinsero che Gesù era risorto, proiettando in questa autosuggestione i propri sentimenti soggettivi di amore verso il loro Maestro. Invece, è perché hanno visto il Signore risorto che hanno creduto. La fede nasce dal riconoscimento di realtà visibili. Non è un’opera mentale soggettiva che si sarebbe creata il proprio oggetto. Sant’Agostino, nel De civitate Dei, sottolinea come su questo aspetto il fatto cristiano sia esattamente l’opposto della dinamica del sentimento religioso che nasce dall’uomo, rappresentato dalla religione imperiale che divinizza i destinatari delle propre devozioni: «Illa illum amando esse deum credidit; ista istum Deum esse credendo amavit», «Roma, siccome amava Romolo, lo credette Dio. La Chiesa, invece, siccome riconobbe che Gesù Cristo era Dio, lo amò».
      Oggi tanti maestri spirituali, nella Chiesa, insegnano che la purezza interiore della fede non ha bisogno di indizi esteriori. Una fede che dipende dal vedere e dal toccare sarebbe, a sentir loro, rozza e grossolana.
      GALOT: Eppure la testimonianza degli apostoli è stata questa. La loro fede è tutta nella semplicità di una constatazione, inizia in loro quando Lo hanno visto e Lo hanno toccato risorto. Quando Pietro cerca di individuare un sostituto di Giuda nel collegio apostolico, usa un unico criterio: chi subentra a Giuda dovrà essere un testimone non della vita ma della resurrezione di Gesù. Gli apostoli sono i testimoni oculari della resurrezione di Gesù. E tutto è affidato e sospeso alla loro esperienza, visto che Gesù non ha lasciato un suo insegnamento scritto, una dottrina spirituale codificata. Insomma, all’origine della fede della Chiesa nella resurrezione c’è stato un vedere. E la fede della Chiesa non potrà mai essere separata da questo vedere iniziale, e troverà sempre il suo fondamento nell’esperienza fatta dagli apostoli e nella loro testimonianza. Come scrive sempre nel De civitate Dei sant’Agostino: «Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt», «È risorto il terzo giorno, come gli apostoli, anche con i sensi, hanno verificato».

Publié dans:biblica, meditazioni |on 29 avril, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno anthyllis_vulneraria_bfa

Anthyllis vulneraria subsp. polyphylla

http://www.floralimages.co.uk/index2.htm

Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 29 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Santa Caterina da Siena: « Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100429

Santa Caterina da Siena, vergine e dottore della Chiesa, patrona d’Italia – Festa : Mt 11,25-30
Meditazione del giorno
Santa Caterina da Siena (1347-1380), terziaria domenicana, dottore della Chiesa, compatrona d’Europa
Dialogo della Divina Provvidenza, 167 (trad. cfr. Ed Taurisano, Firenze, 1928, II p.586)

« Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.  »

        Tu, Trinità eterna, sei come un mare profondo, in cui più cerco e più trovo ; e quanto più trovo, più cresce la sete di cercarti. Tu sei insaziabile ; e l’anima, saziandosi nel tuo abisso, non si sazia, perché permane nella fame di te, sempre più te brama, o Trintà eterna, desiderando di vederti con la luce della tua luce…

        Io ho gustato e veduto con la luce dell’intelletto nella tua luce il tuo abisso, o Trinità eterna, e la bellezza della tua creatura. Per questo, vedendo me in te, ho visto che sono tua immagine per quella intelligenza che mi vien donata dalla tua potenza, o Padre eterno, e dalla tua sapienza, che viene appropriata al tuo Unigenito Figlio. Lo Spirito Santo poi, che procede da te e dal tuo Figlio, mi ha dato la volontà con cui posso amarti. Tu infatti, Trinità eternà, sei creatore e io creatura ; e ho conosciuto – perché tu me ne hai data l’intelligenza, quando mi hai ricreata con il sangue del tuo Figlio – che tu sei innamorato della bellezza della tua creatura.

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