di Sandro Magister: Quaresima 2010. Le ceneri di papa Benedetto

dal sito:

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Quaresima 2010. Le ceneri di papa Benedetto

Il suo cruccio è lo spegnersi della fede. Il suo programma è condurre gli uomini a Dio. Il suo strumento preferito è l’insegnamento. Ma la curia vaticana lo aiuta poco. E talvolta lo danneggia

di Sandro Magister

ROMA, 17 febbraio 2010 – Oggi, mercoledì delle ceneri, ha inizio la Quaresima secondo il rito romano. E il vescovo di Roma vi entra, come ogni anno, con le ceneri sul capo, con una processione penitenziale e con una messa celebrata nell’antica basilica di Santa Sabina all’Aventino.

La Quaresima è oggi molto sbiadita nella mentalità diffusa dell’Occidente, dove fa più notizia il Ramadan musulmano. Ma a Benedetto XVI, visibilmente, preme ridare senso e vigore a questo tempo di preparazione alla Pasqua.

Quest’anno, oltre che con il messaggio ai fedeli riprodotto più sotto, con l’omelia del mercoledì delle ceneri e con l’udienza generale dello stesso giorno, papa Joseph Ratzinger apre la Quaresima anche con una doppia « lectio divina ». La prima l’ha tenuta pochi giorni fa ai seminaristi di Roma, la seconda la terrà domani ai preti della diocesi.

La « lectio divina » è una riflessione sul senso delle Sacre Scritture fatta scegliendo un passo biblico e commentandolo. Papa Benedetto usa dettarla a braccio, con lo stile degli antichi Padri delle Chiesa e dei grandi maestri teologi del Medioevo, ma sempre con lo sguardo attento alla cultura di oggi.

Venerdì scorso, 12 febbraio, commentando ai seminaristi di Roma un passo del capitolo 15 del Vangelo di Giovanni, il papa ha riferito di una lettera scrittagli da un professore dell’università di Ratisbona, che contestava la visione cristiana di Dio.

Benedetto XVI ha detto d’aver ravvisato nelle obiezioni di questo professore « l’eterna tentazione del dualismo, cioè che forse non c’è solo un principio buono, ma anche un principio cattivo, un principio del male, e che il Dio buono è solo una parte della realtà ».

Ed ha aggiunto:

« Anche nella teologia, compresa quella cattolica, si diffonde attualmente questa tesi: Dio non sarebbe onnipotente. In questo modo si cerca un’apologia di Dio, che così non sarebbe responsabile del male che troviamo ampiamente nel mondo. Ma che povera apologia! Un Dio non onnipotente! Il male non sta nelle sue mani! E come potremmo affidarci a questo Dio? Come potremmo essere sicuri nel suo amore se questo amore finisce dove comincia il potere del male? ».

È impressionante la similitudine tra queste parole del papa e ciò che ha detto Robert Spaemann, un filosofo tedesco da lui molto stimato, al convegno internazionale su Dio promosso a Roma lo scorso dicembre dalla conferenza episcopale italiana:

« Chi crede in Dio, crede che la potenza assoluta e il bene assoluto abbiano lo stesso riferimento: la santità di Dio. Gli gnostici dei primi secoli cristiani negavano questa identità. Essi attribuivano i due predicati a due divinità, una potenza cattiva, il ‘deus universi’, dio e creatore di questo mondo, e un dio che è luce, che appare da lontano nell’oscurità di questo mondo. [...] È importante sottolineare questo oggi, dove addirittura i sacerdoti, anziché invocare su di noi la benedizione del Dio onnipotente, parlano soltanto di ‘Dio buono’. Il discorso sulla bontà di Dio, su Dio che è amore, smarrisce il suo punto sconvolgente, se passa sotto silenzio chi è colui di cui si dice che Egli è amore, se cioè passa sotto silenzio che Egli è la potenza che guida la nostra esistenza e il mondo. [...] Se il bene non appartenesse all’essere, l’essere non sarebbe tutto, non sarebbe cioè la totalità. [...] Ma vale anche il contrario: se il bene fosse impotenza, allora non sarebbe il bene tout court. Poiché l’impotenza del bene non è bene. La fede nella potenza del bene è ciò che ci consente di abbandonarci attivamente alla realtà, senza dover temere che in un mondo assurdo anche ogni buona intenzione sia giudicata come una assurdità ».

Dall’attenzione fortissima data a tale questione è sempre più evidente che Benedetto XVI ha davvero assunto come « priorità » del suo pontificato quella « di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio » (così nella sua lettera ai vescovi del 10 marzo 2009). Priorità da lui recentemente ribadita nel proposito di « aprire un cortile dei gentili » per tutti i cercatori di Dio.

In Ratzinger è cioè sempre più manifesta la volontà di concentrare la sua missione di papa nella predicazione orale e scritta. Una predicazione di grande vigore dottrinale, mirata a consolidare i fondamenti della dottrina e a « confermare » nella fede una Chiesa ampiamente tentata da visioni spiritualizzate e riduttive sia di Dio che di Gesù e dei dogmi cristiani.

*

In questa impresa audace, stupisce però che a papa Ratzinger non sia dato un sostegno adeguato, da parte della sua curia.

Il comunicato della segreteria di Stato del 9 febbraio scorso è l’ultimo segno di questo dislivello tra il magistero del papa e l’operato della macchina vaticana.

Chiamare in causa il papa e farsi scudo di lui per smentire un passaggio di carte dal Vaticano a un giornale, l’utilizzo di un gendarme pontificio come postino e la paternità curiale di un articolo con firma fittizia, sullo sfondo di una vicenda che comunque resta intatta nei suoi tratti sostanziali di conflitto tra la segreteria di Stato e la conferenza episcopale italiana – conflitto al quale il papa era ed è superiore e da nessuno accusato – è parso a molti come un atto fuori misura. Non solo slegato, ma in contrasto stridente con la qualità e i contenuti del magistero di papa Benedetto, a dispetto dell’approvazione formale da lui data alla pubblicazione del comunicato e della fiducia da lui rinnovata ai suoi collaboratori.

Di tale vicenda www.chiesa ha dato conto pochi giorni fa in questo servizio:

> Italia, Stati Uniti, Brasile. Dal Vaticano alla conquista del mondo

Ma per tornare alle « cose di lassù », ecco qui di seguito il messaggio con cui papa Ratzinger ha voluto introdurre la Quaresima di quest’anno.

« La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo »

di Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle, ogni anno, in occasione della Quaresima, la Chiesa ci invita a una sincera revisione della nostra vita alla luce degli insegnamenti evangelici. Quest’anno vorrei proporvi alcune riflessioni sul vasto tema della giustizia, partendo dall’affermazione paolina: « La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo » (cfr. Romani 3, 21-22).

Giustizia: “dare cuique suum”

Mi soffermo in primo luogo sul significato del termine “giustizia”, che nel linguaggio comune implica “dare cuique suum”, dare a ciascuno il suo, secondo la nota espressione di Ulpiano, giurista romano del III secolo. In realtà, però, tale classica definizione non precisa in che cosa consista quel “suo” da assicurare a ciascuno. Ciò di cui l’uomo ha più bisogno non può essergli garantito per legge. Per godere di un’esistenza in pienezza, gli è necessario qualcosa di più intimo che può essergli accordato solo gratuitamente: potremmo dire che l’uomo vive di quell’amore che solo Dio può comunicargli avendolo creato a sua immagine e somiglianza. Sono certamente utili e necessari i beni materiali – del resto Gesù stesso si è preoccupato di guarire i malati, di sfamare le folle che lo seguivano e di certo condanna l’indifferenza che anche oggi costringe centinaia di milioni di essere umani alla morte per mancanza di cibo, di acqua e di medicine –, ma la giustizia “distributiva” non rende all’essere umano tutto il “suo” che gli è dovuto. Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio. Nota sant’Agostino: se “la giustizia è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo… non è giustizia dell’uomo quella che sottrae l’uomo al vero Dio” (De civitate Dei, XIX, 21).

Da dove viene l’ingiustizia?

L’evangelista Marco riporta le seguenti parole di Gesù, che si inseriscono nel dibattito di allora circa ciò che è puro e ciò che è impuro: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro… Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male” (Marco 7, 14-15.20-21). Al di là della questione immediata relativa al cibo, possiamo scorgere nella reazione dei farisei una tentazione permanente dell’uomo: quella di individuare l’origine del male in una causa esteriore. Molte delle moderne ideologie hanno, a ben vedere, questo presupposto: poiché l’ingiustizia viene “da fuori”, affinché regni la giustizia è sufficiente rimuovere le cause esteriori che ne impediscono l’attuazione. Questo modo di pensare – ammonisce Gesù – è ingenuo e miope. L’ingiustizia, frutto del male, non ha radici esclusivamente esterne; ha origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa connivenza col male. Lo riconosce amaramente il Salmista: “Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (Salmo 51, 7). Sì, l’uomo è reso fragile da una spinta profonda, che lo mortifica nella capacità di entrare in comunione con l’altro. Aperto per natura al libero flusso della condivisione, avverte dentro di sé una strana forza di gravità che lo porta a ripiegarsi su se stesso, ad affermarsi sopra e contro gli altri: è l’egoismo, conseguenza della colpa originale. Adamo ed Eva, sedotti dalla menzogna di Satana, afferrando il misterioso frutto contro il comando divino, hanno sostituito alla logica del confidare nell’Amore quella del sospetto e della competizione; alla logica del ricevere, dell’attendere fiducioso dall’Altro, quella ansiosa dell’afferrare e del fare da sé (cfr. Genesi 3, 1-6), sperimentando come risultato un senso di inquietudine e di incertezza. Come può l’uomo liberarsi da questa spinta egoistica e aprirsi all’amore?

Giustizia e « sedaqah »

Nel cuore della saggezza di Israele troviamo un legame profondo tra fede nel Dio che “solleva dalla polvere il debole” (Salmo 113, 7) e giustizia verso il prossimo. La parola stessa con cui in ebraico si indica la virtù della giustizia, « sedaqah », ben lo esprime. « Sedaqah » infatti significa, da una parte, accettazione piena della volontà del Dio di Israele; dall’altra, equità nei confronti del prossimo (cfr. Esodo 20, 12-17), in modo speciale del povero, del forestiero, dell’orfano e della vedova (cfr. Deuteronomio 10, 18-19). Ma i due significati sono legati, perché il dare al povero, per l’israelita, non è altro che il contraccambio dovuto a Dio, che ha avuto pietà della miseria del suo popolo. Non a caso il dono delle tavole della Legge a Mosè, sul monte Sinai, avviene dopo il passaggio del Mar Rosso. L’ascolto della Legge, cioè, presuppone la fede nel Dio che per primo ha « ascoltato il lamento » del suo popolo ed è “sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto” (cfr. Esodo 3, 8). Dio è attento al grido del misero e in risposta chiede di essere ascoltato: chiede giustizia verso il povero (cfr. Siracide 4, 4-5.8-9), il forestiero (cfr. Esodo 22, 20), lo schiavo (cfr. Deuteronomio 15,12-18). Per entrare nella giustizia è pertanto necessario uscire da quell’illusione di auto-sufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è l’origine stessa dell’ingiustizia. Occorre, in altre parole, un “esodo” più profondo di quello che Dio ha operato con Mosè, una liberazione del cuore, che la sola parola della Legge è impotente a realizzare. C’è dunque per l’uomo speranza di giustizia?

Cristo, giustizia di Dio

L’annuncio cristiano risponde positivamente alla sete di giustizia dell’uomo, come afferma l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: “Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio… per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue” (3, 21-25).

Quale è dunque la giustizia di Cristo? È anzitutto la giustizia che viene dalla grazia, dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri. Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la “benedizione” che spetta a Dio (cfr. Galati 3, 13-14). Ma ciò solleva subito un’obiezione: quale giustizia vi è là dove il giusto muore per il colpevole e il colpevole riceve in cambio la benedizione che spetta al giusto? Ciascuno non viene così a ricevere il contrario del “suo”? In realtà, qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana. Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero esorbitante. Di fronte alla giustizia della croce l’uomo si può ribellare, perché essa mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico, ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso. Convertirsi a Cristo, credere al Vangelo, significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza: indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia.

Si capisce allora come la fede sia tutt’altro che un fatto naturale, comodo, ovvio: occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”. Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della penitenza e dell’eucaristia. Grazie all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr. Romani 13, 8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare.

Proprio forte di questa esperienza, il cristiano è spinto a contribuire a formare società giuste, dove tutti ricevono il necessario per vivere secondo la propria dignità di uomini e dove la giustizia è vivificata dall’amore.

Cari fratelli e sorelle, la Quaresima culmina nel triduo pasquale, nel quale anche quest’anno celebreremo la giustizia divina, che è pienezza di carità, di dono, di salvezza. Che questo tempo penitenziale sia per ogni cristiano tempo di autentica conversione e d’intensa conoscenza del mistero di Cristo, venuto a compiere ogni giustizia. Con tali sentimenti, imparto di cuore a tutti l’apostolica benedizione.

Publié dans : Sandro Magister |le 8 mars, 2010 |Pas de Commentaires »

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