Archive pour février, 2010

Quaresima: Sete e silenzio (salmo 41, 2-3)

dal sito:

http://www.mariadimagdala.191.it/riflessioni.htm

Quaresima

SETE e SILENZIO

Come la cerva anela ai corsi d’acqua,
così l’anima mia anela a te, o Dio.
L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente…
(Salmo 41,2-3)

Siamo riusciti ad arrivare, con o senza i cinque sensi, a questo mormorio gemente e silenzioso? Ahimè, no. Troppo spesso siamo dei senza-sete di Dio, dei senza-sete di preghiera e di silenzio.
Questa sete di Dio, che farebbe sorgere in noi il desiderio del silenzio, ci fa paura… E allora preferiamo stordirci con ogni tipo di divertimento e di ebbrezza. Prima di tutto siamo talmente sazi di bevande che non sappiamo nemmeno più cosa significhi aspettare per placare la sete. Questo si può osservare nella vita quotidiana della città, dove per un nonnulla – a forza di abitudini, di pasti consumistici! – dal primo caffé del mattino fino al bicchierone d’acqua prima di avvolgerci nelle coperte, viviamo in una continua liquefazione, nella circolazione di liquidi, circondati da slogan che sostengono le meravigliose proprietà delle acque minerali e naturali, senza parlare degli aperitivi che dovrebbero aprirci lo stomaco per consumare sempre di più, oltre che sempre meglio. Tutto ciò sfocia in un’astenia spirituale.
Ed è ancora più evidente se dobbiamo fare una lunga camminata in compagnia, sia in montagna che in pianura: dopo la respirazione e la cadenza che segnano il ritmo del gruppo, i segni rivelatori saranno il silenzio e il desiderio di placare la sete.
I neofiti avidi e senza controllo si precipitano ad ogni sosta sulle borracce o sulla prima sorgente che capita: si dissetano con ingordigia, condizionati come sono dall’abitudine al consumo passivo: «Fatto subito, ben fatto!». Questo atteggiamento genera risate volubili e sonore, esclamazioni, rozzi gorgoglii, e quanto può nuocere al raccoglimento della tappa! È ben diverso riuscire a trattenere la voglia di bere fino alla sosta successiva, abituando così il proprio equilibrio psicofisico a marce più lunghe che portano alla sobrietà.
Silenzio e sobrietà vanno di pari passo.
Avviene la stessa cosa se consideriamo il rapporto del silenzio con la sete di preghiera: la fretta non ci può essere d’aiuto. Il desiderio di bere si trattiene nei silenzi ritmati della respirazione e dei battiti del cuore. La preghiera è una sosta silenziosa che può aiutarci a vincere la sete… e a ravvivare il desiderio di bere. Sete simbolo del desiderio.

L’anima mia languisce…
Il mio cuore e la mia carne
esultano nel Dio vivente…            
(Salmo 83,3)

Questo desiderio spirituale viene infatti descritto dal salmista come una sete:

O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco,
di te ha sete l’anima mia,
a te anela la mia carne,
come terra deserta, arida, senz’acqua.         
(Salmo 62,2)

La nostra sete è davvero provocata dalla secchezza, dall’aridità del nostro cuore, da tutte le macchie interiori che ci trasformano in una scorza polverosa. Lo dice anche Isaia:

Di notte anela a te l’anima mia,
al mattino ti cerca il mio spirito.         
(Isaia 26,9)

L’aridità fa prendere coscienza della mancanza:

Vagavano nel deserto, nella steppa…
Erano affamati e assetati
veniva meno la loro vita…                  
(Salmo 106,4-5)

Il desiderio cresce fino all’esasperazione, come un grido violento rivolto a Dio, lui che «saziò il deside­rio dell’assetato» (Salmo 106,9), che con la sua po­tenza «percosse la rupe e ne scaturì acqua, e strariparono torrenti» (Salmo 77,20), lui che «spaccò le rocce nel deserto e diede loro da bere come dal grande abisso. Fece sgorgare ruscelli dalla rupe e scorrere l’acqua a torrenti» (Salmo 77,15-16).
Questo desiderio si traduce anche in zelo:

Mi divora lo zelo della tua casa,
perché i miei nemici dimenticano le tue parole.
(Salmo 118,139)

E lo stesso fuoco si ritrova nell’anima che brucia di desiderio:

Io mi consumo nel desiderio
dei tuoi precetti in ogni tempo.         
(Salmo 118,20)

Solo la parola di Dio placa questo ardore, questo fuoco che arde senza distruggere l’anima, come il Roveto ardente:

Stilli come pioggia la mia dottrina, scenda come rugiada il mio dire; come scroscio sull’erba del prato, come spruzzo sugli steli del grano.
(Deuteronomio 32,2)

E già in queste immagini sono annunciate le fertilità del futuro:

Ridusse i fiumi a deserto,
a luoghi aridi le fonti d àcqua e la terra fertile d palude
per la malizia dei suoi abitanti. Ma poi cambiò il deserto in lago,
e la terra arida in sorgenti d àcqua. Là fece dimorare gli affamati
ed essi fondarono una città dove abitare. Seminarono campi e piantarono vigne,
e ne raccolsero frutti abbondanti.
(Salmo 106,33-37)

Il silenzio è il segno della quiete della fecondità ritrovata, e in modo del tutto naturale l’anima riposa:

Io sono tranquillo e sereno
come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l’anima mia.
(Salmo 130,2)

Publié dans:Bibbia - Antico Testamento, salmi |on 20 février, 2010 |Pas de commentaires »

I DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C – OMELIA

dal sito:

http://www.perfettaletizia.it/archivio/anno-C/I_%20quaresima.htm

I DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C – OMELIA 

Padre Paolo Berti

Gesù, dopo il battesimo nel Giordano, fu condotto dallo Spirito Santo nel deserto; fu dunque condotto dall’amore per un tempo di penitenza e preghiera. Digiuna, ma non è un digiunare miracoloso, senza fame; è un vero digiuno. Ciò che Gesù cerca nel deserto non è precisamente di essere tentato dal Demonio, ma di vivere la penitenza espiatrice per i peccatori, ponendosi deciso sulla strada del sacrificio che terminerà con la croce. Gesù sa, tuttavia, che il Tentatore verrà per ostacolare il suo cammino. Sa che il Tentatore uscirà allo scoperto per un attacco frontale sentendosi all’indomani della sconfitta; sa che nella sua superbia proverà a vincerlo. Gesù sa e si prepara alla scontro, poiché andando nel deserto si è posto in un totale rifiuto di tutto ciò che è onore, ricchezza e senso, per abbracciare la penitenza a favore degli uomini.
Quaranta giorni stette Gesù nel deserto. Un giorno per ogni anno di presenza purificatrice di Israele nel deserto, dopo le varie ribellioni durante il cammino.
Gesù, già pubblicamente consacrato Messia, si unisce nel deserto a tutta l’umanità ribelle, ponendosi a capo di essa nella direzione del sacrificio, per farla entrare in una nuova terra promessa, che sarà quella spirituale dell’unione con Dio, verso la pienezza dell’incontro eterno.
Il Diavolo alla fine, quando vide che Gesù era stremato dalla fame si mosse, tentando di dirottarlo verso il suo consiglio. La fame era sofferenza, e Satana era pronto a presentarla come inutile. Se Gesù, invece, avesse dato soddisfazione alla sua fame, ecco che avrebbe imboccato la strada giusta per essere gradito dagli uomini. Questa la prospettiva del Tentatore. Satana gli presentò che un piccolissimo atto di alleanza con lui gli avrebbe aperto le porte del mondo; sarebbe diventato il conquistatore travolgente delle moltitudini. Se non avesse accettato il suo nausente aiuto, allora gli avrebbe reso la vita un inferno. Se poi voleva conquistare a sé il tempio doveva buttarsi giù dal pinnacolo, senza paura, visto che gli angeli lo avrebbero sostenuto: tutti di fronte ad un tale evento lo avrebbero acclamato loro re.
Gesù risponde ai tre assalti del Tentatore con la parola della Scrittura. E’ trincerato in se stesso, nell’unione obbediente al Padre. Non discute con Satana, la cui dialettica insinuante, baluginante superbia, senso, oro, successo, tenta di avvolgerlo. Gesù rimane nella preghiera, in una posizione di rifiuto totale di tutte le risonanze che Satana gli vuole suscitare nella carne.
Lo scontro si conclude con la fuga del nemico, che furibondo si mette ad organizzare una macchina di odio verso Gesù, per piegarlo col dolore, visto che le lusinghe del potere e del successo gli sono state rifiutate in modo reciso.
La vittoria di Gesù è a nostra disposizione dal momento che per il Battesimo siamo stati innestati in lui. Nel Battesimo siamo stati rigenerati nella grazia dello Spirito Santo e abbiamo pronunciato le parole della rinuncia del mondo, delle sue massime, delle sue pompe, e la rinuncia di tutte le seduzioni del Maligno. E anche abbiamo professato la nostra fede. Certo, tutto ciò al fonte l’hanno fatto per noi i nostri genitori, ma poi noi, istruiti su Cristo, abbiamo posto il nostro atto personale, sia circa la rinuncia, sia circa la professione.
Le rinunce battesimali non sono un atto formale, ma sono una scelta di campo che deve sempre rimanere; abbiamo scelto Cristo. Non è una professione in astratto, ma nella realtà della nostra unione con lui. Ogni professione di fede è un evento vivo, ricco di adesione a Cristo, pena l’essere soltanto una dichiarazione vuota, senza vita, e quindi senza effetto salvifico. San Paolo ci dice, infatti, che non basta la bocca, ma ci vuole anche il cuore; anzi l’atto di fede si sviluppa nel cuore, dopo che la verità ha toccato la mente. La professione di fede è atto di luce e di amore. E la professione deve raggiungere il labbro altrimenti non ci sarebbe la testimonianza e quindi ci sarebbe la viltà. Di fronte al mondo dobbiamo professare la nostra fede, certo tenendo presente che dobbiamo essere candidi come colombe e prudenti come serpenti, ma dobbiamo professarla.
Professare la fede è avere il pensiero di Cristo (Cf. 1Cor 2,16), ed è volere avere un cuore omogeneo a quello di Cristo. E qui possiamo rivolgerci l’interrogativo se sempre noi pensiamo secondo Cristo.
La nostra vita di cristiani è sicuramente drammatica, non tragica però. Drammatica perché siamo dei militi in battaglia, non contro creature fatte di carne e sangue come dice san Paolo (Cf. Ef 6,12), “ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”. Non tragica, perché fatta nel Vincente, fatta nella pace interiore, che sgorga dall’unione con Cristo.
Il popolo di Israele aveva la sua professione di fede fondata nel ricordo della sua liberazione dall’Egitto. Noi l’abbiamo nella viva adesione al Cristo morto e risorto. Non semplicemente ricordiamo, ma viviamo l’evento pasquale della nostra liberazione dal peccato, poiché partecipiamo all’unico sacrificio di Cristo, sacramentalmente presente nella celebrazione Eucaristica, che è il nuovo rito pasquale.
Il popolo di Israele fu condotto alla libertà dalla schiavitù egiziana, noi siamo stati condotti alla libertà di saperci donare, alla libertà dall’assedio degli onori, delle ricchezze e del senso. Ecco la grandezza portata da Cristo: l’uomo si realizza nel darsi agli altri. Questa è la vera libertà. Satana presenta una libertà che è amara schiavitù, che è distruzione del donare sé. La libertà proposta da Satana è tragica; dona un attimo di sporca giocondità e riserva un’eternità di orrore. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù. 

Mons. Crociata: “Educare significa abilitare alla capacità di giudicare”

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21459?l=italian

Mons. Crociata: “Educare significa abilitare alla capacità di giudicare”

Intervenendo al Convegno della CEI su “La pastorale della scuola e l’istanza educativa”

ROMA, venerdì, 19 febbraio 2010 (ZENIT.org).- “Educare significa abilitare alla capacità di giudicare e di scegliere”. E’ quanto ha detto giovedì in occasione della messa di apertura del Convegno nazionale di pastorale della scuola, tuttora in corso di svolgimento a Roma, il Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), il Vescovo Mariano Crociata.

L’incontro promosso dall’Ufficio nazionale per l’Educazione, la Scuola e l’Università della CEI ha per tema “La pastorale della scuola di fronte all’istanza educativa” e si concluderà il 20 febbraio.

“Educare – ha continuato mons. Crociata nella sua omelia, secondo quanto riferito dall’agenzia Sir – significa, o comunque comporta, accompagnare e condurre a elaborare la capacità di distinguere, e quindi di giudicare e di scegliere”.

“In questo – ha sottolineato ancora – sta una grande lezione, purtroppo spesso drammaticamente dimenticata, se non rimossa o respinta, poiché non raramente si ritiene che la persona si forma seguendo un moto di autonoma e incontrollata spontaneità priva di giudizi e di punti di riferimento”.

Tuttavia, ha precisato, “non c’è crescita e maturazione umana, e neanche realizzazione sociale e professionale, senza il prezzo della fedeltà, della fatica e del lavoro assiduo e oneroso, senza la capacità di sacrificarsi e di rinunciare a qualcosa di sé o, semplicemente, a se stessi”.

Nell’aprire i lavori nella mattinata di giovedì il Segretario della Commissione episcopale per l’Educazione cattolica, la Scuola e l’Università, mons. Michele Pennisi, aveva detto invece che “bisogna rivendicare la libertà di educazione non come una battaglia per difendere privilegi confessionali, ma come una battaglia civile che garantisca un vero pluralismo e un’autentica laicità, valorizzando le scuole paritarie cattoliche o di ispirazione cristiana come luogo educativo per la società civile, essenziale per il bene comune”.

Il Vescovo di Piazza Armerina aveva poi osservato “che non è accettabile la tesi che considera come un mondo separato ed estraneo alla missione propria della comunità cristiana la scuola pubblica, sia essa paritaria che statale, fondata sull’autonomia e quindi aperta al territorio”.

Il presule aveva quindi sollecitato un maggior sostegno da parte delle autorità statali e degli enti locali, perché “l’apporto degli insegnanti di religione, il servizio delle scuole paritarie e dei centri di formazione professionale d’ispirazione cristiana rappresentano punti di forza del sistema educativo integrato d’istruzione e di formazione”.

Dal canto suo don Cesare Bissoli, docente emerito di Catechesi biblica presso la Pontificia Università Salesiana, intervenendo questo venerdì ha ricordato che “Gesù non ha mai fatto il guru solitario, ma è stato veramente uomo della gente, anzi delle singole figure, e sovente povere, marginali ed emarginate” e che “ha sempre curato il singolo, pur incontrando la massa”.

Il biblista, intervenuto sulla figura dell’educatore nei Vangeli, ha poi fatto notare che quello di Gesù era uno “stile” educativo “certamente suggestivo e attraente, fatto di dedizione amorosa, totale e fedele, oggi qualificato con la categoria dell’ospitalità, di una santità ospitale”.

Secondo don Cesare Bissoli, “nell’arte educativa di Gesù lo scopo è il fattore decisivo, è la sua eredità maggiore, perché il fine per lui non era una teoria del bene, alla maniera kantiana, ma il volto del Padre da svelare agli uomini”.

Successivamente è intervenuto anche don Riccardo Tonelli, docente emerito di Pastorale giovanile presso l’Università Pontificia Salesiana, il quale ha sottolineato che “la pastorale, orientata verso l’integrazione tra la fede e la vita, ha bisogno del supporto culturale di una educazione, orientata a far maturare in umanità”.

“Nello stesso tempo – ha detto –, la pastorale dialoga con l’educativo, offrendo quella ispirazione radicale che sostiene, incoraggia e valuta la ricerca autonoma e competente”.

“Noi accogliamo abitualmente le ragioni di senso e di speranza, le prospettive di futuro e gli inviti alla responsabilità nel presente – ha spiegato don Tonelli – attraverso quella relazione che assicura un dialogo tra i giovani con le generazioni che li hanno preceduti”.

Siamo “in emergenza”, invece, “quando si rompe questa relazione e non sappiamo più dove andare a ritrovare le ragioni per vivere e per sperare”.

“Per vivere abbiamo però bisogno almeno di sopravvivere”, ha poi fatto notare il sacerdote: “E così spesso queste ragioni le accogliamo dal primo venuto, da colui che grida più forte o che possiede attributi speciali per sedurre e incantare. L’esito è quello che vediamo e che tanto preoccupa”.

Di qui, ha concluso, la necessità di “ricostruire una figura di educazione, che sappia immaginare contenuti al servizio della vita e della speranza, all’interno di una rinnovata e ricostruita relazione intergenerazionale”.

Publié dans:Educazione, Scuola, Università  |on 20 février, 2010 |Pas de commentaires »

DAVIDS PENANCE

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The book of Psalms, events and portraits / Le livre des Psaumes événements et portraits / 15 PSA 051 RICHES H B – DAVIDS PENANCE  

http://www.artbible.net/1T/Psa0000_Eventsportraits/index_6.htm

Publié dans:immagini sacre |on 19 février, 2010 |Pas de commentaires »

Salmo 50 (51)

dal sito:

http://www.sanbiagio.org/lectio/libri_poetici_sapienziali/preghiera_richiesta_perdono.htm

Salmo 50 (51)

La bellezza e l’importanza vitale di questo salmo, proprio alla scoperta di un cammino di preghiera, è così espresso da Charles de Foucauld. « E’ un compendio di adorazione, amore, offerta, ringraziamento, pentimento, domanda. A partire dalla considerazione di noi stessi e dalla vista dei nostri peccati, questo salmo sale fino alla contemplazione di Dio passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini » (citato da Ravasi G. Il libro dei salmi. Voll. II, EDB pag 13).
Questo salmo attraversa tutta la storia della spiritualità. Costituisce lo schema interno alle Confessioni di S. Agostino; è stato meditato e commentato da uomini come S. Gregorio Magno, il Savonarola, Lutero e Dostoevskij. Musicisti come Bach, Donizzetti e altri più recenti l’hanno musicato. Grandi pittori come G. Rouault si sono ispirati ad esso. « Meditandolo e pregandolo noi entriamo nel cuore dell’uomo e della storia » (C. M. Martini).

A lungo, come dicono i vv. 1-2, si è pensato che l’autore fosse Davide. Dal suo cuore sarebbe sgorgato il salmo dopo il suo adulterio con Betsabea, l’uccisione del marito Uria e l’ascolto della provocatoria parabola del profeta Natan (Cf 2Sam 11-12).
Oggi, gli esegeti sono invece propensi a cogliere, nel salmo, elementi teologici tipici dei profeti, specie di Geremia. Sarebbe dunque databile intorno al IV sec. a.C. dopo l’esilio babilonese. Va comunque sottolineato che la carica esistenziale, giunta dai profeti, ha fatto rielaborare in forma di preghiera personale, adatta a tutti i tempi, un’esperienza autentica di peccato e di conversione, nel più fiducioso ricorso a Dio.

E’ tale da farci cogliere una cosa importantissima nel rapporto coscienza del peccato e nostra preghiera: al centro – luce liberazione e salvezza – c’è la giustizia salvifica di Dio che è una sola cosa con la sua misericordia.
Lui è più grande di ogni nostro peccato: Sulla bilancia: peccato-Dio il piatto che pesa di più è quello dell’ « Esserci di Dio » ed « Esserci » come Misericordia.
La struttura risulta una grande armonia scandita da queste parti:

Introduzione: vv. 1-2 Si attribuisce il Salmo a Davide caduto in grave colpa.

vv.1-8 Si esplicita una consapevolezza acuta e dolorosa del peccato come enorme male. I verbi sono tutti all’indicativo ed esprimono dei fatti, degli errori commessi, in sostanza, contro Dio.

vv. 9-14 Si esprime la supplica. La percezione di Dio qui è certezza che Egli è assoluta fonte di perdono di grazia di rigenerazione e di gioia. I verbi sono all’imperativo: purificami, lavami, fammi sentire gioia ecc.

vv. 15-19 Riguarda il futuro: quel che il salmista intravede come progetto di Dio. I verbi sono al futuro: insegnerò, la mia lingua acclamerà.

vv. 20-21 Appendice liturgica che è stata aggiunta in seguito.

vv. 3-5 « Pietà di me, o Dio secondo la tua bontà, secondo l’immensa tua misericordia, cancella le mie trasgressioni ».
Esordio importantissimo! L’accento è messo su Dio, anche se è forte il senso del peccato. Viene in mente quello che l’esegeta A. Gelin ha chiamato il « biglietto da visita di Dio nell’A.T. »: Jaweh, Jaweh, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione (Es 34,6-7).
Attingendo poi all’immagine di Dio – Padre che ci ha svelato Gesù, come non pensare a Lc 15 e a quella che si può dire la descrizione della psicologia del Padre misericordioso, nella parabola di Lui che accoglie e perdona? Interessante notare che il salmista dice: « secondo la tua misericordia » e non « nella tua misericordia » o « perché sei misericordioso ». L’accento è messo sull’ »intuire » (pur senza riuscire a capire!) l’enorme sproporzione tra il modo di essere dell’uomo e questa misericordia che è il modo di essere di Dio.
Le parole ebraiche tradotte con misericordia sono « hesed » e « rahamin ». Hesed esprime l’atteggiamento di Dio: lealtà, affidabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell’attenzione e nell’amore.
Dio è colui che io non pretendo di conoscere: però posso essere certo/a che per Lui sono importante, talmente Egli ha cura di me, « perfino dei capelli del mio capo », per dirla con Gesù! (cf Mt 10,30; Lc 12,7)
Hesed è uno dei vocaboli fondamentali sia della teologia salmica che di quella dell’Alleanza (ricorre 245 volte nell’A.T., di cui 127 solo nei salmi).
Ma è pure importante il termine rahamin (plurale di rehem) che evoca le viscere materne, simbolo archetipo dell’amore tutto donato. « Si dimentica forse una madre del suo bambino? Anche se ciò avvenisse, io non ti dimenticherò mai » (cf Is 49,15 e 30,18).
Nel Talmud « Misericordioso » è quasi il cognome di Dio che è così definito nella sua realtà più intima.

vv. 4-7 « Lavami dalla mia colpa, mondami dal mio peccato. Riconosco la mia trasgressione, il mio peccato mi è sempre dinanzi. Contro te solo ho peccato ».
Con una ripetizione martellante ora il salmista porta alla ribalta il peccato, scoperto in tutta la sua nequizia. In ebraico sono usate tre parole di molto peso: Ht’= peccato; pèsa= colpa; awon= trasgressione e ribellione.
L’idea che il salmista ci comunica è che il peccato è il male fondamentale in sostanza, è l’unico vero male dell’uomo. Spezza infatti l’Alleanza nuziale con Dio; è uno sbandamento, è fallire il colpo nel « tiro a segno » della vita; è la rivolta contro Dio, fonte della vita e della gioia. In Es 21,8; Ger 3,20; Is 1,20; 50,5 emerge un’idea precisa dell’assoluta distruttività del peccato. Se Dio infatti costruisce pace e armonia in noi e nella storia, mediante la nostra libera adesione alla sua Legge, il peccato rovina e distrugge l’uomo e ciò che è correlato a lui perché si propone come volontà e progetto alternativo all’unica fonte di bene che è Dio.
v. 8 « Ecco, tu ami la verità della coscienza e nel mio intimo mi fai conoscere la sapienza ».
E’ un versetto che fa scivolare in un certo senso la prima nella seconda parte del salmo. Viene espresso che la coscienza lucida e forte di quello che è il peccato non trova però soluzione attraverso un rituale magico ma attraverso il sincero umiliarsi del cuore consapevole di aver fatto un gran « guasto »; un cuore però nello stesso tempo fiducioso nel perdono di Dio e nella possibilità di ricominciare con Lui a scegliere « la via della vita ».
E’ il « vuoto » del cuore contrito e umiliato che permette poi l’irrompere in noi della sapienza come capacità di vedere e decidere secondo ciò che piace a Dio.

vv. 9-11 « Purificami… lavami. Distogli il tuo volto dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe ».
Il salmo qui diventa supplica la cui forza è espressa dai verbi all’imperativo. Le immagini intensificano, attraverso la loro espressività simbolica, l’anelito alla purificazione. L’issopo è un’erba aromatica connessa al rito dell’agnello pasquale (Es 12,22), mentre la neve parla di un rinnovato candido splendore al cuore che viene perdonato da Dio (cf Is 1,18).
Anche l’immagine antropomorfica del « volto » di Dio (cf v. 11 e v. 13) approfondisce questo parlare con Dio, perché il volto è espressione, a volte dello sdegno e della punizione di Dio che non può sopportare il peccato (cf Sl 38,2; 90,8) così com’è espressione soprattutto della fonte di grazia e di pacificazione: « Esulterò di gioia per la tua grazia, perché hai guardato alla mia miseria » (Sl 30,8). Per questa persuasione il salmista è arrivato ora a pregare: « Fammi sentire gioia e allegria, esulteranno le ossa che hai spezzato » (v. 10). Il perdono infatti provoca una gioia che afferra tutto l’essere umano, anche nella sua realtà fisica ( le « ossa »).
Sentiamo risuonare Isaia: « Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore e le vostre ossa saranno rigogliose come erba fresca » (Is 66,4).

vv. 12-14 « Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo ».
La supplica diventa il grido di chi sempre più conosce Dio e, in preghiera, impara a conoscere se stesso alla Sua luce, chiedendo la forza del suo Spirito. Interessante il fatto che, nel testo ebraico, appaiono tre intense invocazioni allo Spirito Santo. L’italiano traduce: « sostieni in me uno spirito generoso », ma il testo originale dice: « rafforzami col tuo Spirito generoso ». Il senso è molto più consolante!
Siamo al momento culminante del salmo: è un’epiclesi penitenziale simile all’epiclesi nella Consacrazione, momento vertice della celebrazione eucaristica.
Importantissimo anche il termine « crea ». E’ il primo verbo della Bibbia: « In principio Dio creò il cielo e la terra » (Gn 1,1). La Bibbia riserva questa parola solo per Dio che fa sgorgare l’essere, l’assoluta novità dal nulla.
Solo Dio crea! L’uomo può ricevere l’essere, non lo dà. Correlata a questa richiesta di nuova creazione è l’altra supplica: « rendimi la gioia », nel testo originale: « fa risorgere in me la gioia ».
Il senso che viene da questa correlazione è profondo: dove c’è vera conoscenza di Dio e del suo perdono può esserci gioia vera, intensa!

vv. 15-19 « Insegnerò ai ribelli le tue vie (…) la mia lingua acclamerà la tua giustizia (…). Un cuore contrito e umiliato, o Dio, tu non disprezzi ».
E’ un finale fortemente intriso di speranza! Chi ha sperimentato lo forza travolgente della misericordia e « conosce » d’essere stato « ri-creato » da Dio, diventa un testimone, uno che sente l’urgenza dell’annuncio .
Sempre però anche quest’azione missionaria è sostenuta da Dio che ne è il propulsore. Quel Dio che non gradisce sacrifici e olocausti (v.18) formalistici e vuoti d’amore, unisce invece intimamente a sé lo spirito, meglio ancora il cuore che ha saputo entrare nell’umile e piena contrizione.

vv. 20-21 « Nel tuo amore favorisci Sion (…). Allora amerai i sacrifici legittimi ».
Gli esegeti hanno letto qui un’appendice liturgica, di valore secondario. Non è più solo il peccatore che si pente e chiede il perdono; è tutto il popolo che domanda a Dio di dimenticare le sue ribellioni e di gradire nuovamente gli olocausti, i riti d’Israele.

Se voglio imparare a pregare, è bene ch’io impari anzitutto a conoscere Dio nella sua identità di AMORE – MISERICORDIA e anche a conoscere me nella mia identità di persona che ha peccato.
Troppo spesso si prega con una conoscenza molto vaga sia di Dio che di se stessi. Si ha l’idea di un « paparone » quasi nonno e bonaccione, oppure di un giudice irato; un dio supportato da devozionalismi vari, la cui immagine si gioca nelle oscure paure della psiche o viene imbrattata da tante banalità di catechesi e omelie malfatte, da libercoli spiritualistici; oppure l’idea è di un Dio astratto da teologia impregnata di raziocinio. Un dio… non un Dio vivente, un Dio « tappabuchi »! Non Dio-Amore, Misericordia infinita!
Si prega anche con una cattiva coscienza di se stessi senza sufficiente capacità di giudizio su di sé.
Perfino confessandosi, il credente a volte più che accusare sé cerca giustificazioni, attenuanti, accusando gli altri. Scrive il Card. Martini: « Questa capacità di giudizio su di sé non è ancora il dolore dei peccati; ne è però la premessa. Infatti non posso pentirmi se non di qualcosa che è solo mio e non va, l’ho fatto io e lo disapprovo » (La scuola della Parola. Mondadori, 1995 p. 46).
Bisogna dunque prendere coscienza che se, nelle mostre confessioni e nell’atteggiamento di fondo del nostro essere, siamo sempre propensi a scusare noi e ad accusare gli altri, siamo lontani dalla conoscenza di noi e tanto più dalla realtà del pentimento cristiano.
Un’altra presa di coscienza per aprirci alla ricchezza di questo salmo, riguarda il nostro contesto socioculturale. E’ molto bello che finalmente si parli anche di « peccato sociale » di « strutture di peccato », nella consapevolezza che il peccato tocca la Chiesa, disgrega la società e inquina gli aspetti politici ed economici delle comunità nazionali e mondiali.
Questo salmo però ci ricorda che, dietro ogni volto d’uomo, dentro ogni situazione umana, Dio è la grande Presenza. Quando io tratto male qualcuno, lo inganno, gli nego aiuto, è Dio che io tratto male e offendo! Il salmista infatti non dice: « Ho peccato » ma « Ho peccato contro di Te ». Ed è sulla scorta di tutto il salmo che il nostro pregare chiedendo perdono a Dio lungi da farci affondare nel deprimente senso di colpa, ci fa rimbalzare nella piena fiducia. « Il mio peccato mi è sempre davanti », « Quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto » dico con piena verità, ma senza indugiare con sguardo depresso sulle mie bassezze e miserie; perché volgendomi a Dio, grido a Lui con piena fiducia: « Pietà di me secondo la tua bontà, secondo l’immensa tua misericordia ».

- Quando prego, dopo una caduta, che idea ho di Dio nel mio cuore? Sono persuaso della sua infinita misericordia?

- Ho consapevolezza dell’enormità del peccato e riconosco lealmente qual è il peccato in cui più spesso cado? Oppure scivolo nella confusione e nella superficialità spirituale che tende a scusare me e a colpevolizzare gli altri?

- Vado a Dio oppresso/a da sensi di colpa o, mettendomi alla sua Presenza riconosco e consegno il mio peccato nella certezza del perdono di Dio?

- Peccato personale e sociale: radice di tutto è davvero, secondo me, l’aver rotto con Dio-Amore? Ne ho una persuasione inattaccabile?

Prego lentamente il salmo, mi soffermo sui versetti che più mi colpiscono, che rispondono, oggi, alla mia situazione spirituale. Li ripeto e memorizzo.
Non dimentico tra gli altri, quello che dice: « Crea in me un cuore puro, rendimi la gioia di essere salvato ». Lo mormoro sul ritmo del respiro.

Publié dans:Bibbia - Antico Testamento, salmi |on 19 février, 2010 |Pas de commentaires »

Giovanni Paolo II, udienza del 24 ottobre 2001: Salmo 50 – Pietà di me, o Signore -

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2001/documents/hf_jp-ii_aud_20011024_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì 24 ottobre 2001

« Salmo 50 – Pietà di me, o Signore -
Lodi Venerdì 1a Settimana (Lettura: Sal 50,3-5.11-12.19)

1. Abbiamo ascoltato il Miserere, una delle preghiere più celebri del Salterio, il più intenso e ripetuto Salmo penitenziale, il canto del peccato e del perdono, la più profonda meditazione sulla colpa e sulla grazia. La Liturgia delle Ore ce lo fa ripetere alle Lodi di ogni venerdì. Da secoli e secoli sale al cielo da tanti cuori di fedeli ebrei e cristiani come un sospiro di pentimento e di speranza rivolto a Dio misericordioso.

La tradizione giudaica ha posto il Salmo sulle labbra di Davide sollecitato alla penitenza dalle parole severe del profeta Natan (cfr vv. 1-2; 2Sam 11-12), che gli rimproverava l’adulterio compiuto con Betsabea e l’uccisione del marito di lei Uria. Il Salmo, tuttavia, si arricchisce nei secoli successivi, con la preghiera di tanti altri peccatori, che recuperano i temi del « cuore nuovo » e dello « Spirito » di Dio infuso nell’uomo redento, secondo l’insegnamento dei profeti Geremia ed Ezechiele (cfr v. 12; Ger 31,31-34; Ez 11,19; 36, 24-28).

2. Due sono gli orizzonti che il Salmo 50 delinea. C’è innanzitutto la regione tenebrosa del peccato (cfr vv. 3-11), in cui è situato l’uomo fin dall’inizio della sua esistenza: « Ecco, nella colpa sono stato generato, peccatore mi ha concepito mia madre » (v. 7). Anche se questa dichiarazione non può essere assunta come una formulazione esplicita della dottrina del peccato originale quale è stata delineata dalla teologia cristiana, è indubbio che essa vi corrisponde: esprime infatti la dimensione profonda dell’innata debolezza morale dell’uomo. Il Salmo appare in questa prima parte come un’analisi del peccato, condotta davanti a Dio. Tre sono i termini ebraici usati per definire questa triste realtà, che proviene dalla libertà umana male impiegata.

3. Il primo vocabolo, hattá, significa letteralmente un « mancare il bersaglio »: il peccato è un’aberrazione che ci conduce lontano da Dio, meta fondamentale delle nostre relazioni, e per conseguenza anche dal prossimo.

Il secondo termine ebraico è ‘awôn, che rinvia all’immagine del « torcere », del « curvare ». Il peccato è, quindi, una deviazione tortuosa dalla retta via; è l’inversione, la distorsione, la deformazione del bene e del male, nel senso dichiarato da Isaia: « Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre » (Is 5,20). Proprio per questo motivo nella Bibbia la conversione è indicata come un « ritornare » (in ebraico shûb) sulla retta via, compiendo una correzione di rotta.

La terza parola con cui il Salmista parla del peccato è peshá. Essa esprime la ribellione del suddito nei confronti del sovrano, e quindi un’aperta sfida rivolta a Dio e al suo progetto per la storia umana.

4. Se l’uomo, però, confessa il suo peccato, la giustizia salvifica di Dio è pronta a purificarlo radicalmente. È così che si passa nella seconda regione spirituale del Salmo, quella luminosa della grazia (cfr vv. 12-19). Attraverso la confessione delle colpe si apre, infatti, per l’orante un orizzonte di luce in cui Dio è all’opera. Il Signore non agisce solo negativamente, eliminando il peccato, ma ricrea l’umanità peccatrice attraverso il suo Spirito vivificante: infonde nell’uomo un « cuore » nuovo e puro, cioè una coscienza rinnovata, e gli apre la possibilità di una fede limpida e di un culto gradito a Dio.

Origene parla a tal proposito di una terapia divina, che il Signore compie attraverso la sua parola e mediante l’opera guaritrice di Cristo: « Come per il corpo Dio predispose i rimedi dalle erbe terapeutiche sapientemente mescolate, così anche per l’anima preparò medicine con le parole che infuse, spargendole nelle divine Scritture… Dio diede anche un’altra attività medica di cui è archiatra il Salvatore il quale dice di sé: ‘Non sono i sani ad aver bisogno del medico, ma i malati’. Lui era il medico per eccellenza capace di curare ogni debolezza, ogni infermità » (Omelie sui Salmi, Firenze 1991, pp. 247-249).

5. La ricchezza del Salmo 50 meriterebbe un’esegesi accurata di ogni sua parte. È ciò che faremo quando tornerà a risuonare nei vari venerdì delle Lodi. Lo sguardo d’insieme, che ora abbiamo rivolto a questa grande supplica biblica, ci rivela già alcune componenti fondamentali di una spiritualità che deve riverberarsi nell’esistenza quotidiana dei fedeli. C’è innanzitutto un senso vivissimo del peccato, percepito come una scelta libera, connotata negativamente a livello morale e teologale: « Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto » (v. 6).

C’è poi nel Salmo un senso altrettanto vivo della possibilità di conversione: il peccatore, sinceramente pentito, (cfr v. 5), si presenta in tutta la sua miseria e nudità a Dio, supplicandolo di non respingerlo dalla sua presenza (cfr v. 13).

C’è, infine, nel Miserere, una radicata convinzione del perdono divino che « cancella, lava, monda » il peccatore (cfr vv. 3-4) e giunge perfino a trasformarlo in una nuova creatura che ha spirito, lingua, labbra, cuore trasfigurati (cfr vv. 14-19). « Anche se i nostri peccati – affermava santa Faustina Kowalska – fossero neri come la notte, la misericordia divina è più forte della nostra miseria. Occorre una cosa sola: che il peccatore socchiuda almeno un poco la porta del proprio cuore… il resto lo farà Dio… Ogni cosa ha inizio nella tua misericordia e nella tua misericordia finisce » (M. Winowska, L’icona dell’Amore misericordioso. Il messaggio di suor Faustina, Roma 1981, p. 271).

An unidentified Cardinal puts ash on Pope Benedict XVI…

An unidentified Cardinal puts ash on Pope Benedict XVI... dans immagini

An unidentified Cardinal puts ash on Pope Benedict XVI’s head during the celebration of Ash Wednesday mass at the Basilica of Santa Sabina, in Rome, Wednesday, Feb. 17 2010. Ash Wednesday marks the beginning of Lent, a solemn period of 40 days of prayer and self-denial leading up to Easter.
(AP Photo/Alessia Pierdomenico, pool)

http://news.yahoo.com/nphotos/slideshow/ss/events/wl/033002pope#photoViewer=/100217/481/8279dd286cf24ba085f59453abb78a10

Publié dans:immagini |on 18 février, 2010 |Pas de commentaires »

La Preghiera e il Digiuno

Chiesa Ortodossa, dal sito: 

 http://web.tiscali.it/chiesaortodossa/digiuno.htm

I Digiuni
  
La Preghiera e il Digiuno. 

Non c’è Quaresima senza digiuno. Sembra, tuttavia, che oggi molte persone non prendano sul serio il digiuno o, se lo fanno, non ne comprendono la vera finalità spirituale. Per, alcuni, il digiuno consiste in una simbolica rinuncia a qualcosa; per altri, è un’osservanza scrupolosa di regole alimentari. Ma, in entrambi casi, raramente il digiuno è messo in relazione con lo sforzo quaresimale nella sua globalità. E quindi ci chiederemo come possiamo applicare questo insegnamento alla nostra vita.

Il digiuno o l’astinenza dal cibo non è una pratica esclusivamente Cristiana. Queste forme di rinuncia sono esistite ed esistono tuttora in altre religioni ed anche al di fuori della religione, come per esempio in certe terapie specifiche. Oggi si digiuna (o si fa astinenza) per ogni sorta di motivi, talora anche per motivi politici.

E’ importante perciò, discernere il contenuto specificatamente Cristiano del digiuno. Esso ci è anzitutto rivelato nell’interdipendenza di due eventi che troviamo nella Bibbia: uno all’inizio dell’Antico Testamento l’altro all’inizio del Nuovo. Il primo evento è la rottura del digiuno “ da parte di Adamo nel Paradiso “. Egli mangiò del frutto proibito. E’ così che ci viene rivelato il peccato dell’origine dell’uomo.  Cristo il nuovo Adamo – e questo è il secondo evento – comincia con il digiuno. Adamo, tentato, cedette alla tentazione; Cristo fu tentato e vinse la tentazione.

La conseguenza della caduta di Adamo fu l’espulsione dal paradiso e la morte. Il frutto della vittoria di Cristo fu la distruzione della morte ed il nostro ritorno sul Paradiso. E’ chiaro tuttavia, che, in questa prospettiva, il digiuno ci appare come qualcosa di decisivo e di estrema importanza. Non è un semplice “ obbligo “, un costume; è legato al mistero stesso della vita e della morte, della salvezza e della dannazione .

Nell’insegnamento Ortodosso, il peccato non è soltanto la trasgressione di una regola, che comporta una punizione; esso è sempre una mutilazione della vita dataci da Dio. Per quanto, la storia del peccato all’albore delle relazioni dell’uomo ci viene presentata come un atto del mangiare. Il nutrimento infatti è mezzo di vita; è esso che ci mantiene in vita.

Cristo è il nuovo Adamo. Egli viene a riparare il danno inflitto alla vita da Adamo, a restituire l’uomo alla vera vita, e quindi, cominci al digiuno: “ E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame “ (Mt 4,2).

Che cos’è allora il digiuno per noi Cristiani ? E’ il nostro entrare, il nostro prendere parte al l’esperienza di Cristo stesso, attraverso la quale egli ci libera dalla totale indipendenza dal cibo, dalla materia e dal mondo. In realtà, la nostra liberazione non si è compiutamente realizzata: vivendo ancora in questo mondo decaduto, il mondo del vecchio Adamo, e facendone parte, noi siamo ancora dipendenti dal cibo.

Ma anche la nostra morte – attraverso la quale dobbiamo ancora passare – è diventata in virtù della morte di Cristo, un passaggio alla vita, così il cibo che noi mangiamo e la vita che esso sostiene possono essere vita in Dio e per Dio. Parte del nostro cibo è diventata “cibo d’immortalità” il Corpo ed il Sangue di Cristo stesso. Ma anche il pane quotidiano che riceviamo da Dio può essere, in questa vita ed in questo mondo ciò che da forza e ci mette in comunione con Dio, anziché ciò che ci separa da Lui. Tuttavia, solo il digiuno può operare questa trasformazione dandoci la prova esistenziale che la nostra dipendenza dal cibo e dalla materia non è totale, ne assoluta, e che, unita alla preghiera, alla grazia ed all’adorazione, può essere anch’essa spirituale.

Il digiuno è il primo comandamento.

Il digiuno è il primo comandamento conosciuto dall’umanità, Dio ordinò ad Adamo di non mangiare i frutti di un certo albero (Gn 2, 16 – 17) non gli permise di mangiare i frutti di tutti gli alberi. Con questo Dio ha voluto porre dei limiti al corpo.

L’uomo sin dall’inizio ha sempre dovuto controllare il suo corpo. E’ pure, un dono dello Spirito il dominio di se stesso. Un albero può essere ricco di frutti e .. piacevole agli occhi (Gn 3, 6) eppure non ci si deve avvicinare. Rispondendo ai desideri del suo corpo l’uomo mangiò il frutto proibito.

I profeti digiunavano (Sal 35, 13) gli Apostoli digiunavano (Mt 9, 15) (II Cor 6, 5). Il digiuno è un dono .

Se conosciamo bene i vantaggi del digiuno ci accorgiamo che è un dono di Dio. Il digiuno non è solo un comandamento ma è un dono di Dio. Una Grazia, una Benedizione, Dio ci ha creato come Corpo ed Anima, è necessario per il benessere della nostra vita spirituale praticare il digiuno, per la nostra crescita spirituale. Dio come Padre e come insegnante, ci ha raccomandata questa pratica.

Allegria e Digiuno. Non dobbiamo digiunare sperando solo che finisce il digiuno, ma al contrario dobbiamo cercare di apprezzarlo come periodo e di essere ansiosi e felici di viverlo.

Una persona vicina a Dio è più allegra durante il digiuno che durante i periodi che si mangia e si beve.

Quelli che invece vorrebbero ridurre i periodi di digiuno non hanno ancora capito i vantaggi ed il piacere del digiuno.    

Definizione del digiuno

Per quanto riguarda la parte fisica della definizione, il digiuno consiste nell’astenersi dal cibo per un certo periodo e poi mangiare cibi che non contengano grassi animali.

Periodo di Astinenza

Il digiuno consiste in: smettere di mangiare per un periodo o soprattutto dall’inizio della giornata in poi, non si può cominciare il digiuno a metà giornata.

Il periodo di astinenza può variare da una persona all’altra.

C’è una regola importantissima: il periodo di astinenza vie-ne stabilito dal prete confessore, in modo da evitare che certi esagerino e superino le forze del corpo e dell’anima, e per evitare che altri si astengano per pochissimo tempo. L’importante è l’aspetto spirituale dell’astinenza. Bisogna farsi guidare dalla Fede e non dalla fame.

L’astinenza ci fa capire che i valori spirituali sono più importanti delle cose materiali. La vera privazione è accompagnata dalla fame.

Gesù e gli Apostoli : digiunavano fino ad avere molta fame. ( Mt 4, 2); (Mc 11, 12), San Paolo       (II Cor 11, 27); (Filip 4, 12).

Dio, benedì la fame dicendo: “ Benedetti siamo noi che abbiamo fame perché saremo contentati (Lc. 6, 11).

Quali sono i vantaggi del digiuno per il corpo :

  Il digiuno è un periodo di riposo per gli organi del corpo.
 
 Il digiuno permette all’organismo intero di sentirsi leggero, attivo e sano.
 
 Il digiuno è un atto spirituale.
 
 Il digiuno non è fame ma è nutrimento dell’anima
 

Grazie al digiuno l’anima aiuta il corpo. Dio cerca di farci capire quanta gioia ed allegria c’è nella pratica del digiuno. Il digiuno permette al corpo ed all’anima di unirsi e di raggiungere la purezza. Con questa unione si può pregare, meditare e amare Dio ed avere sempre più Fede.

Gli Apostoli dissero che con il digiuno non si uccide il corpo, ma i desideri.

Se la Chiesa stabilisce la durata del digiuno è perché nel digiuno bisogna saper trovare dei vantaggi spirituali e non perché è un obbligo. Lo scopo del digiuno non è certo di privare le persone che digiunano ma di avviare le loro anime a Dio.

Si deve digiunare perché si ama profondamente Dio.

Il digiuno ci avvicina a Dio.

L’insegnamento di certe virtù: durante il digiuno cerca di provare questo sentimento: La Tolleranza, la Serenità, il Rispetto per gli altri, la Generosità, l’Altruismo, l’Umiltà, la Modestia.

Cerca ad ogni digiuno di acquisire almeno una di queste virtù.  

Publié dans:liturgia, meditazioni, Ortodossia |on 18 février, 2010 |Pas de commentaires »

Padre Cantalamessa, 2004-02-12 (il 2004 dovrebbe essere anno C)- I Predica di Quaresima alla Casa Pontificia : La lettera racconta l’accaduto-La Pasqua della storia

dal sito:

http://www.cantalamessa.org/it/predicheView.php?id=27

La lettera racconta l’accaduto-La Pasqua della storia 
 
2004-02-12- I Predica di Quaresima alla Casa Pontificia

È esistito in tutta la tradizione cristiana un duplice modo di leggere le Scritture, riassunto nelle parole lettera e Spirito. Lettera sta per il senso letterale o per il fatto storico narrato; Spirito indica il mistero nascosto nel fatto storico. All’interno del senso spirituale si sono distinti, a sua volta, tre livelli di significato: il significato cristologico che mette in luce il riferimento a Cristo e alla Chiesa, il significato morale riferito all’agire cristiano e il significato escatologico riferito al compimento finale.

Questo schema quadripartito è stato riassunto in un distico famoso: Littera gesta docet, quid credas allegoria. / Moralis, quid agas; quo tendas anagogia. La lettera t’insegna l’accaduto; ciò che devi credere, l’allegoria. / La morale, cosa fare; dove tendere, l’anagogia.

Nelle meditazioni quaresimali di quest’anno vorrei esplorare il senso della Pasqua di Cristo seguendo questo metodo che ci viene dalla più costante tradizione della Chiesa. Avendo a disposizione soltanto tre momenti (il venerdì 19 Marzo coincide con la festa di S. Giuseppe), dovremo rinunciare a trattare dell’ultimo senso, quello anagogico che ci invita a tendere alla Pasqua eterna del cielo. Lo lasceremo alla meditazione personale.

In questa prima meditazione riflettiamo sulla dimensione storica della Pasqua, cioè sugli eventi da cui essa trae origine. Se trattassimo della Pasqua in genere la « lettera » da prendere in esame sarebbero i racconti dell’Esodo che parlano dell’immolazione dell’agnello in Egitto; volendoci concentrare sulla Pasqua cristiana, la « lettera » sono i racconti della passione e risurrezione di Cristo.

1.Ma la lettera narra davvero l’accaduto?

A questo riguardo si pone una domanda molto attuale: la lettera riferisce davvero, in questo caso, « i fatti », come dice il distico antico, o da invece, di essi, una versione « tendenziosa », rispondente a fini apologetici? A questo riguardo si è diffusa ultimamente un’opinione che non può essere lasciata senza una risposta.

La tesi sposata da riviste a diffusione mondiale e divulgata da noi perfino da un telegiornale della sera, in breve, è la seguente. Attenersi strettamente ai racconti evangelici, nel rappresentare la Passione, significa ignorare i risultati della scienza esegetica moderna. Questa afferma che, nel riferire i fatti, Marco e, dietro di lui, gli altri evangelisti hanno attribuito la responsabilità della morte di Cristo agli ebrei per ingraziarsi il potere politico romano e tranquillizzarlo sul conto della nuova religione. In realtà, il motivo principale della condanna di Gesù fu di natura politica e non religiosa, e cioè la minaccia che egli costituiva per l’ordine costituito [1] .

Va anzitutto affermato che qualunque sia la spiegazione che si da delle circostanze esterne e delle motivazioni giuridiche della morte di Cristo, esse non intaccano minimamente il senso reale della sua morte che dipende da ciò che pensava lui, non da ciò che pensavano gli altri. E il senso che egli dava alla sua morte lo ha messo in chiaro in anticipo, al momento di istituire l’Eucaristia: « Prendete, mangiate, questo è il mio corpo dato per voi ».

Detto questo, va però notata anche la serietà della posta in gioco in queste discussioni. La fede cristiana è una fede basata sulla storia; la compatibilità con la storia non le è meno necessaria che la compatibilità con la ragione. Non basta dire che i vangeli « non sono discesi dal cielo bell’e formati, ma che sono prodotti di mani e cuori umani », soggetti anch’essi a condizionamenti e pregiudizi. Questo lo ammette oggi ogni serio cultore di studi biblici. Il problema è sapere se sono racconti onesti o no; se il pregiudizio è inconscio, o è una tesi consapevolmente scelta e portata avanti per fini di comodo.

Essendomi occupato di questo problema al tempo in cui insegnavo Storia delle origini cristiane all’Università Cattolica di Milano [2] , mi sembra mio dovere portare un piccolo contributo di chiarimento a questa discussione. Quello che va contestato energicamente è che la ricerca storica moderna sia giunta, circa la condanna di Cristo, a conclusioni diverse da quelle che si ricavano dalla lettura dei Vangeli.

La tesi della motivazione essenzialmente politica della condanna di Cristo è nata, nel cinquantennio trascorso, da due preoccupazioni e ha avuto due Sitz-im-Leben. Il primo è stato l’epilogo tragico dell’antisemitismo con la Shoa, il secondo l’affermarsi negli anni 60′ e 70′ della cosiddetta teologia della rivoluzione. Se non si voleva che Che Guevara prendesse, nel cuore delle nuove generazioni, il posto di Cristo, non restava che fare di lui un suo discepolo. Ed è quello che si tentò ingenuamente di fare.

I due punti di vista, per vie diverse, arrivavano, nella sostanza, a una conclusione comune: Gesù fu un simpatizzante del movimento zelota che si prefiggeva di scuotere con la forza il giogo della dominazione romana e delle classi ricche locali che lo appoggiavano. Prove di ciò erano viste nel fatto che uno dei suoi discepoli si chiamava Simone lo « Zelota » (con lo stesso ragionamento si poteva difendere la tesi del Gesù collaboratore dei romani, avendo chiamato al suo seguito Matteo il Pubblicano!), che il soprannome di Giuda « Iscariota » poteva essere una deformazione di « Sicariota », il nome con cui era designata l’ala estrema del partito zelota e altri fatti, come la cacciata dei mercanti dal tempio, l’ingresso trionfale in Gerusalemme, la moltiplicazione dei pani con il tentativo di farlo re…

Nel giro di pochi anni la tesi del Gesù rivoluzionario è stata abbandonata come insostenibile. Essa finiva per attribuire a Gesù proprio l’idea di un Messia che si impone con la forza, contro la quale egli lottò tutta la vita. È rimasta invece in piedi l’altra istanza, quella suggerita dal desiderio di togliere ogni pretesto all’antisemitismo.

Questa è una preoccupazione giusta, ma si sa che il torto più grave che si può fare a una causa giusta è quello di difenderla con argomenti sbagliati. La lotta all’antisemitismo va posta su un fondamento più sicuro che una ipotesi discutibile come questa. Il Concilio Vaticano II lo formula così: « Se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo” [3] .

In questo c’è una certa convergenza con la stessa tradizione ebraica del passato. Dalle notizie sulla morte di Gesù, presenti nel Talmud e in altre fonti giudaiche (per quanto tardive e storicamente contraddittorie), emerge una cosa: la tradizione ebraica non ha mai negato una partecipazione delle autorità del tempo alla condanna di Cristo. Non ha fondato la propria difesa negando il fatto, ma semmai negando che il fatto, dal punto di vista ebraico, costituisse reato e che la sua condanna sia stata una condanna ingiusta [4] .

Una versione, questa, compatibile con quella delle fonti neotestamentarie che, mentre, da una parte, mettono in luce la partecipazione delle autorità ebraiche alla condanna di Cristo, dall’altra la scusano, attribuendola a ignoranza (cf. Lc 23,34; Atti 3, 17; 1 Cor 2,8). Quanta parte di questa ignoranza fosse dovuta a obbiettiva difficoltà di riconoscere per vera la rivendicazione messianica di Cristo e quanta a motivi meno scusabili (Gv 5,44 mette tra di essi la ricerca di gloria umana), lo sa solo Dio che scruta i cuori, e su nessuno è dato a noi portare un giudizio definitivo, né su Giuda, né su Caifa, né su Pilato.

Una constatazione fondamentale è questa: nessuna formula di fede del Nuovo Testamento e della Chiesa dice che Gesù morì « a causa dei peccati degli ebrei »; tutte dicono che « morì a causa dei nostri peccati », cioè dei peccati di tutti.

L’estraneità del popolo ebraico, in quanto tale, alla responsabilità della morte di Cristo riposa su una certezza biblica che i cristiani hanno in comune con gli ebrei, ma che purtroppo per tanti secoli è stata stranamente dimenticata: « Colui che ha peccato deve morire. Il figlio non sconta l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio » (Ez 18,20). La dottrina della Chiesa conosce un solo peccato che si trasmette per eredità di padre in figlio, il peccato originale.

Se si ritenevano gli ebrei delle generazioni future responsabili della morte di Cristo, per lo stesso motivo si sarebbero dovuti ritenere responsabili e accusare di deicidio i romani delle generazioni future, compresi i papi di famiglie romane, in quanto è certo che, dal punto di vista giuridico, la condanna di Cristo e la sua esecuzione (la forma per crocifissione lo conferma) sono da imputarsi, in ultima analisi, all’autorità romana.

Forse, come credenti, bisogna spingersi oltre l’affermazione della non colpevolezza del popolo ebraico e vedere nella sofferenza ingiusta da esso subita nella storia qualcosa che li mette dalla parte del Servo sofferente di Dio e, dunque, per noi cristiani, dalla parte di Gesù. Edith Stein aveva compreso in questo senso il dramma che si stava preparando per lei e per il suo popolo nella Germania di Hitler: « Lì, sotto la croce, capii il destino del popolo di Dio. Pensai: coloro che sanno che questa è la croce di Cristo hanno il dovere di prenderla su di sé, in nome di tutti gli altri ».

2. Possiamo credere ancora ai racconti della passione?

Messo al sicuro il rifiuto dell’antisemitismo, possiamo tornare a occuparci dell’attendibilità dei racconti della passione che è la sola cosa che in questa sede ci interessa. Vorrei fare presenti alcuni fatti che inducono a prendere con molta cautela la tesi secondo cui essi sono stati scritti con la preoccupazione di tranquillizzare le autorità dell’impero a proposito dei cristiani.

Questa tesi finisce per ascrivere gli scritti apostolici allo stesso genere letterario delle Apologie, indirizzate da autori cristiani del II secolo agli imperatori romani, per convincerli della bontà della loro religione. Si dimentica che essi sono testi nati per uso interno della comunità cristiana, senza pensare a lettori estranei ad essa, che di fatto non ci furono mai. (Il primo autore pagano che mostra di aver letto delle fonti cristiane è Celso nel II secolo e non certo per interessi politici).

Sappiamo che i racconti della passione, in unità più brevi e in forma orale, circolavano nelle comunità ben prima della stesura finale dei vangeli, compreso quello di Marco. Paolo, nella più antica delle sue lettere, scritta intorno all’anno 50, da, della morte di Cristo, la stessa fondamentale versione dei vangeli (cf. 1 Ts 2,15) e sui fatti accaduti a Gerusalemme poco tempo prima del suo arrivo in città egli doveva essere informato meglio di noi moderni, avendo, all’inizio, approvato e difeso “accanitamente” la condanna del Nazareno.

Durante questa fase più antica il cristianesimo si considerava ancora destinato principalmente a Israele; le comunità nelle quali si erano formate le prime tradizioni erano costituite in maggioranza da giudei convertiti; Matteo è preoccupato di mostrare che Gesù è venuto a compiere, non ad abolire, la legge. Se c’era dunque una preoccupazione apologetica, questa avrebbe dovuto indurre a presentare la condanna di Gesù come opera piuttosto dei pagani che delle autorità ebraiche, al fine di rassicurare i giudei di Palestina e della diaspora.

Molti equivoci nascono dal fatto che noi proiettiamo all’inizio della Chiesa la situazione posteriore che vede contrapposti tra loro ebrei e cristiani, mentre, fino all’affermarsi di comunità a maggioranza gentili, la contrapposizione era un’altra, e cioè: ebrei credenti (in Cristo) ed ebrei non credenti. La distinzione passava all’interno della comune identità ebraica. I discepoli di Gesù potevano dire con Paolo: “Sono ebrei? Anch’io!”. Questo da alla polemica antigiudaica degli autori del Nuovo Testamento un senso tutto diverso da quello del cristianesimo posteriore, come sono diverse le invettive contro il popolo d’Israele di Mosè e dei profeti da quelle di certi Padri della Chiesa o di Lutero.

D’altra parte, quando Marco e gli altri evangelisti scrivono il loro vangelo c’è stata già la persecuzione di Nerone; ciò avrebbe dovuto spingere a vedere in Gesù la prima vittima del potere romano e nei martiri cristiani coloro che avevano subito la stessa sorte del Maestro. Se ne ha una conferma nell’Apocalisse, scritta dopo la persecuzione di Domiziano, dove Roma è fatta oggetto di una invettiva feroce (« Babilonia », la « Bestia », la « prostituta ») a causa del sangue dei martiri (cf. Ap. 13 ss.).

Non si possono leggere i racconti della Passione ignorando tutto ciò che li precede. Il vangelo attesta, si può dire a ogni pagina, un contrasto religioso crescente tra Gesù e un gruppo influente di giudei (farisei, dottori della legge, scribi) sull’osservanza del sabato, sull’atteggiamento verso i peccatori e i pubblicani, sul puro e sull’impuro. Jeremias ha dimostrato la motivazione antifarisaica presente in quasi tutte le parabole di Gesù [5] . Non si può eliminare questo retroterra senza disintegrare completamente i vangeli e renderli incomprensibili. Ma una volta dimostrato questo contrasto, come si può pensare che esso non abbia giocato alcun ruolo al momento della resa finale dei conti e che le autorità ebraiche si siano decise a denunziare Gesù a Pilato unicamente per paura di un intervento armato dei romani, quasi a malincuore?

Uno degli argomenti più spesso addotti contro la veridicità dei racconti evangelici è l’immagine che essi ci danno di un Pilato sensibile a ragioni di giustizia, che si preoccupa della sorte di un ignoto giudeo, mentre si sa che era un tipo duro e crudele, pronto a stroncare nel sangue ogni minimo indizio di rivolta.

Qui c’è però un equivoco. Pilato non tenta di salvare Gesù per compassione verso la vittima, ma solo per un puntiglio contro i suoi accusatori con i quali era in atto una guerra sorda fin dal suo arrivo in Giudea. Se i primi cristiani si sono sbagliati in qualcosa è stato nell’attribuire l’agire di Pilato a sentimenti di giustizia e di pietà verso Gesù (per Tertulliano egli era segretamente cristiano e la Chiesa Copta lo ha canonizzato insieme con sua moglie!). Quello che lo animava era in realtà solo la volontà di non dare soddisfazione agli odiati capi giudei. A leggere con un minimo di psicologia il dialogo tra lui e gli accusatori di Gesù, ci si accorge che questa motivazione reale non è sfuggita agli evangelisti.

In conclusione si deve dire che la discussione sui motivi della condanna di Cristo negli anni del dopoguerra ha prodotto una valanga di ipotesi critiche, spesso in contrasto tra di loro, ma non ha ottenuto il consenso della maggioranza degli storici su nessun punto di rilievo. Ogni volta si è visto che per una difficoltà che si voleva rimuovere, ne spuntavano a grappoli di nuove. Qualcuno, per esempio, ha tentato di eliminare come non storico il processo davanti al Sinedrio, ma ci si è accorti subito che così non si spiegava più l’episodio sicuramente storico del rinnegamento di Pietro, inestricabilmente legato al momento e al luogo di tale processo.

I racconti evangelici presentano senza dubbio numerose discrepanze di dettaglio e punti oscuri, ma a ben considerare questo conferma la loro « ingenuità » di racconti, nati dalla vita e dai ricordi di persone diverse, non per dimostrare una tesi. Indice di onestà di tali racconti è anche la figura meschina che vi fanno i loro stessi autori e testimoni: uno di essi, il capo, rinnega, uno tradisce e tutti al momento dell’arresto fuggono ignominiosamente. Non aveva tutti i torti il biblista Lucien Cerfaux quando diceva: « Il modo più semplice di leggere il Vangelo è spesso anche il più scientifico » [6] .

Questo lascia aperto il discorso sull’uso che si fa del materiale evangelico. Che in passato esso sia stato usato in maniera impropria, con forzature antigiudaiche, è cosa da tutti oggi riconosciuta e dalla Chiesa fermamente riprovata in appositi documenti. Alla luce delle osservazioni fatte, si può dire una cosa: una rappresentazione della Passione è da riprovare se induce a credere che tutti gli ebrei del tempo e quelli venuti dopo siano responsabili della morte di Cristo; non si può accusare di aver tradito la verità storica se si limita a mostrare che un gruppo influente di essi vi ebbe una parte determinante.

3. Gesù taceva

Se c’è ancora disparità di opinioni sul ruolo e la condotta dei vari personaggi e poteri coinvolti nella passione di Cristo, per fortuna c’è unanimità su di lui e sulla sua condotta: s ovrumana dignità, calma, libertà assoluta. Non un solo gesto o una parola che smentisca quello che egli aveva predicato nel suo vangelo, specialmente nelle Beatitudini.

E tuttavia nulla in lui che somigli all’orgoglioso disprezzo del dolore dello stoico. La sua reazione alla sofferenza e alla crudeltà è umanissima: trema e suda sangue nel Getsemani, vorrebbe che il calice passasse da lui, cerca sostegno nei suoi discepoli, grida la sua desolazione sulla croce: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ».

Un film di qualche anno fa – L’ultima tentazione di Gesù- lo mostrava sulla croce alle prese con tentazioni della carne. È stata notata giustamente l’assurdità psicologica di una tale rappresentazione. Se Gesù poteva essere tentato mentre pendeva dalla croce – la carne a brandelli e i nemici che lo insultavano -, questo non era certo dai richiami della carne, ma semmai dallo sdegno per la violenza subita, dall’ira e da sentimenti di vendetta.

Il Salterio gli offriva parole di fuoco per farlo: « Sorgi, Signore, distruggili, abbattili… », ma egli non cita nessuno di questi salmi di imprecazione. Rifiuta di chiedere al Padre “dodici legioni di angeli”, pur sapendo che il Padre gliele avrebbe subito date (cf. Mt 26, 53). « Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta », dice di lui la Prima lettera di Pietro (2, 23).

Si potrebbe passare la vita a immergersi in questa perfezione della santità di Cristo e non si toccherebbe mai il fondo. Siamo davanti all’infinito nell’ordine etico. Non c’è memoria di morti simili a questa nella storia del mondo. È sulla santità del protagonista che bisognerebbe soffermarsi nel meditare la Passione, più che sulla cattiveria e la viltà di chi gli sta intorno. Nella Novo millennio ineunte il Santo Padre ci ha esortato a contemplare “il volto dolente del Redentore”. Quel volto, da solo, è un libro, è tutta la Bibbia in una pagina.

Vorrei evidenziare un tratto di questa sovrumana grandezza di Cristo nella Passione: il suo silenzio. « Jesus autem tacebat » (Mt 26, 63). Tace davanti a Caifa, tace davanti a Pilato che si irrita del suo silenzio, tace davanti ad Erode che sperava vederlo fare un miracolo (cf. Lc 23, 8).

Gesù non tace per partito preso o per protesta. Non lascia senza risposta nessuna domanda precisa che gli viene rivolta quando è in gioco la verità, ma anche in questo caso sono parole brevi, essenziali, pronunciate senza ira. Il silenzio è in lui tutto e solo amore.

Il silenzio di Gesù nella Passione è la chiave per capire il silenzio di Dio. Quando la « rissa delle lingue » diventa troppo grande, l’unico modo di dire qualcosa è di tacere. Il silenzio di Gesù infatti inquieta, irrita, mette in luce non non-verità delle proprie parole, come quando taceva davanti agli accusatori dell’adultera.

« Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere » 9: questo slogan famoso del positivismo linguistico che (contro l’intenzione dello stesso autore) è servito per escludere la possibilità di ogni affermazione su Dio e della stessa teologia, può avere un senso vero e profondo e lo ha nel caso di Gesù. « Ho tante cose che ti voglio dire, o una sola ma grande come il mare », canta, vicina alla morte, l’eroina di un’opera lirica. Queste parole potrebbero essere poste in bocca a Gesù. Egli aveva una cosa sola da dire, ma così grande che gli uomini non erano pronti ad accoglierla. Aveva cercato di dirla pronunciando, davanti a Pilato, la parola « Verità! », ma sappiamo con che risultato.

Questa prima meditazione, sulla dimensione storica, la “lettera”, della Pasqua, non è il luogo per le applicazioni morali che verranno in seguito. Ognuno deve semmai riflettere per conto proprio su che cosa questo tratto di Cristo nella sua Passione dice a lui o alla Chiesa. Quello invece che è in linea con le considerazioni storiche che abbiamo svolte è aprire il nostro spirito a una sconfinata ammirazione, entusiasmo e ringraziamento a Cristo. Commuoverci davanti alla grandezza del suo amore e alla maestà della sua sofferenza, dicendo dal profondo del cuore: “Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum”: Ti adoriamo e ti benediciamo, o Cristo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo”.

[1] Cf. John Meacham, Who killed Jesus?, in « Newsweek, February 16, 2004, pp. 49-57.
[2] Cf. i risultati della ricerca su « I primi cristiani, la politica e lo stato » nel fascicolo di « Vita e Pensiero » (anno 54, n.6, Novembre-Dicembre 1972), in particolare: Gesù e la rivoluzione, pp. 5-18 e Dieci anni di studi sul processo di Gesù e su Gesù e gli zeloti, pp. 108-136.
[3] Nostra aetate, 4.
[4] Cf. J. Blinzler, Il Processo di Gesù, Brescia 1966, pp.32 ss.
[5] Cf. J. Jeremias, Die Gleichnisse Jesu, Gottinga 1962.
[6] L. Cerfaux, Jésus aux origines de la tradition, Lovanio 1968, trad. italiana, Roma 1970, p. 15. 

Publié dans:liturgia, Padre Cantalamessa |on 18 février, 2010 |Pas de commentaires »

Il Papa apre la Quaresima: siamo “polvere, sì, ma amata”

du site:

http://www.zenit.org/article-21430?l=italian

Il Papa apre la Quaresima: siamo “polvere, sì, ma amata”

Presiede la Messa di imposizione delle ceneri

ROMA, mercoledì, 17 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Benedetto XVI ha ricevuto le ceneri, nella messa per l’inizio della Quaresima, questo mercoledì pomeriggio, e ha ricordato che l’uomo è “polvere, sì, ma amata” da Dio.

Nella Basilica di Santa Sabina di Roma affidata ai Padri Domenicani, il Papa ha presentato il rito di benedizione e di imposizione delle ceneri come “un gesto di umiltà, che significa: mi riconosco per quello che sono, una creatura fragile, fatta di terra e destinata alla terra, ma anche fatta ad immagine di Dio e destinata a Lui”.

Ed ha aggiunto: “Polvere, sì, ma amata, plasmata dal suo amore, animata dal suo soffio vitale, capace di riconoscere la sua voce e di rispondergli; libera e, per questo, capace anche di disobbedirgli, cedendo alla tentazione dell’orgoglio e dell’autosufficienza”.

Come un semplice fedele, il Papa ha ricevuto le ceneri sul capo dal Cardinale slovacco Jozeph Tomko, Prefetto emerito della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e titolare di Santa Sabina.

A sua volta, il Santo Padre le ha imposte a numerosi Cardinali tra i quali il Segretario di Stato Tarciso Bertone, il Vicario di Roma Agostino Vallini, e il suo predecessore Camillo Ruini.

Prima il Papa aveva presieduto un’assemblea di preghiera nella forma delle « Stazioni » romane, nella Chiesa di Sant’Anselmo all’Aventino, dei Monaci Benedettini. Dopo c’è stata la tradizionale processione penitenziale verso la Basilica di Santa Sabina per la celebrazione del rito.

L’uso di celebrare in Quaresima la Messa “stazionale” risale ai secoli VII-VIII, quando il Papa celebrava l’Eucaristia assistito da tutti i preti delle Chiese di Roma, in una delle 43 Basiliche stazionali della Città.

Dopo una preghiera iniziale si snodava la Processione da una Chiesa ad un’altra al canto delle Litanie dei Santi, che si concludeva con la celebrazione dell’Eucaristia.

Alla fine della Messa i preti prendevano il pane eucaristico (fermentum) e lo portavano ai fedeli che non avevano potuto partecipare, ad indicare la comunione e l’unità fra tutti i membri della Chiesa.

L’imposizione delle ceneri era un rito riservato dapprima ai penitenti pubblici, che avevano chiesto di venir riconciliati durante la Quaresima. Tuttavia, per umiltà e riconoscendosi sempre bisognosi di riconciliazione, il Papa, il clero e poi tutti i fedeli vollero successivamente associarsi a quel rito ricevendo anch’essi le ceneri.

La Stazione Quaresimale indica la dimensione pellegrinante del popolo di Dio che, in preparazione alla Settimana Santa, intensifica il deserto quaresimale e sperimenta la lontananza dalla “Gerusalemme” verso la quale si dirigerà la Domenica delle Palme, perché il Signore possa completare – nella Pasqua – la sua missione terrena e realizzare il disegno del Padre.

Nel’omelia, il Santo Padre ha presentato l’intero itinerario quaresimale, che avrà come culmine la Pasqua, “ponendo a suo fondamento l’onnipotenza d’amore di Dio, la sua assoluta signoria su ogni creatura, che si traduce in indulgenza infinita, animata da costante e universale volontà di vita”.

“In effetti – ha sottolineato –, perdonare qualcuno equivale a dirgli: non voglio che tu muoia, ma che tu viva; voglio sempre e soltanto il tuo bene”.

“La salvezza, infatti, è dono, è grazia di Dio, ma per avere effetto nella mia esistenza richiede il mio assenso, un’accoglienza dimostrata nei fatti, cioè nella volontà di vivere come Gesù, di camminare dietro a Lui”.

“Seguire Gesù nel deserto quaresimale è dunque condizione necessaria per partecipare alla sua Pasqua, al suo ‘esodo’”, ha continuato.

“Adamo fu cacciato dal Paradiso terrestre, simbolo della comunione con Dio – ha sottolineato il Papa –; ora, per ritornare a questa comunione e dunque alla vera vita, la vita eterna, bisogna attraversare il deserto, la prova della fede. Non da soli, ma con Gesù! Lui – come sempre – ci ha preceduto e ha già vinto il combattimento contro lo spirito del male”.

“Ecco il senso della Quaresima – ha quindi concluso –, tempo liturgico che ogni anno ci invita a rinnovare la scelta di seguire Cristo sulla via dell’umiltà per partecipare alla sua vittoria sul peccato e sulla morte”.

Come ogni anno, il Papa ha indirizzato un messaggio ai cattolici di tutto il mondo in vista di questa Quaresima che ha come tema: “La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo”.

Publié dans:liturgia, Papa Benedetto XVI |on 18 février, 2010 |Pas de commentaires »
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