Mercoledì delle Ceneri

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Omelia (17-02-2010)
padre Gian Franco Scarpitta
Convertirci per Dio e per gli altri
Nelle scorse settimane Superiore Provinciale della Provincia dei Minimi a cui appartengo, che ha trascorso un periodo missione in Congo per finalità catechetiche e formative, comunicandoci una lettera di saluti ci descriveva lo stato di serenità e di gioia di un popolo che, pur non disponendo di tutte quelle sicurezze materiali di cui noi facciamo anche abuso, vive la continua solidarietà reciproca per la quale ci si aiuta gli uni gli altri, condividendo insieme le poche risorse che si possiedono. Famiglie bisognose che vivono di stenti, aiutano coloro che soffrono disagi più gravi. Mi ha dato molto da pensare l’esperienza descritta dal nostro Superiore Maggiore considerando quanto sia marcata la differenza che intercorre fra noi ricchi Europei e le popolazioni in via di sviluppo in fatto di fede e di testimonianza evangelica: laddove si è abbacinati dall’opulenza economica e dalle false ricchezze e il superfluo diventa essenziale, si omette di considerare il bene a volte immeritato di cui si dispone e non di rado si trovano ridicoli pretesti per chiuderci ai reali bisogni di tanta gente che versando in serie difficoltà economiche nulla chiede per una forma di umiltà, rispetto o dignità personale, sempre pronta non di rado ad aiutare chi è più povero di loro.
E’ lodevole che le nostre parrocchie si industrino ad organizzare iniziative a favore dei terremotati ad Haiti o in Abruzzo, ma è anche vero che non di rado il nostro presunto perbenismo borghese ci induce ad usare indifferenza o refrattarietà nei confronti di tanti indigenti che vivono a pochi passi da noi e verso i quali ci si limita magari a donare solo il superfluo, fatti salvi i nostri capricci commerciali.
Mi sovviene considerare che determinati fenomeni del tipo sopra descritto impongono l’urgenza e l’improcrastinabilità della Quaresima seria e fondata per ciascuno di noi, perché se la Quaresima vuol dire conversione, cosa comporta un tale itinerario spirituale se non la conseguenza di una sincera carità operosa innanzitutto fra di noi, quindi verso gli altri? Non c’è penitenza o pratica ascetica che sia accetta davanti a Dio quando non sia finalizzata all’amore al prossimo e qualsiasi rinuncia o digiuno non assume valore se non viene accompagnato dalle opere di carità a sostegno dei poveri e degli indigenti ed è disdicevole che molte volte anche noi sacerdoti parliamo di povertà evangelica quando altri, nella miseria e nell’abbandono, ci danno esempio concreto di serenità e di amore.
Proprio in questo periodo Benedetto XVI, nel suo messaggio in occasione della Quaresima 2010, ci ricorda che la vera ingiustizia non proviene dall’esterno ma ha origini dal cuore dell’uomo: sentimenti di ripulsa e di distanza che scaturiscono dalla nostra presunzione e dalla superbia tante volte foraggiata dal presunto successo economico sono spesso alla radice di conflitti e di odio che serpeggia attorno a noi. La vera giustizia consiste invece nell’apertura verso il povero, il forestiero, l’orfano e la vedova, cioè tutte quelle categorie che il pontefice delinea dall’Antico Testamento ma che ancora oggi sussistono nella persona degli indigenti, degli esclusi, degli emarginati e i « dimenticati » dalla società: sebbene sia tante volte difficile individuarli convivono con noi e formano il tessuto della nostra vita comune.
La vera giustizia ha origine da Dio, che nel suo Figlio ci ha giusitificati, cioè ci ha resi giusti per mezzo del sangue sparso sulla croce. Nel patibolo sofferto per noi, Dio in Cristo ha fatto in modo che noi, ingiusti e immeritori, ottenessimo insomma tutte quelle condizioni per le quali possiamo adesso qualificarci « giusti » davanti a lui. Per il suo sangue siamo stati resi salvi.
Più espressivo è a tal proposito l’insegnamento di Giovanni: « In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione dei nostri peccati. » (1Gv 4, 9 – 10). In conseguenza di questa giustificazione, sempre l’apostolo Giovanni ci invita a praticare la giustizia per essere davvero figli di Dio, il che non è altro che vivere l’amore sincero e disinteressato verso i fratelli nella concretezza della carità effettiva, considerando che chi non ama resta nella morte e che l’amore non ha mai fatto male al prossimo e pienezza della Legge è l’amore (Rm 13, 10).
Ebbene, la Quaresima in ultima analisi non è che questo: l’accoglienza di questo dono di grazia che Dio ha voluto concederci nella croce del suo Figlio, che è espressione completa ed esaustiva dell’amore per noi; il lasciarci coinvolgere dal mistero stesso dell’amore che ci avvince nell’evento caratterizzato dalla verità che si racchiude nella sola persona di Gesù Cristo Figlio di Dio e questi crocifisso; nell’immedesimarci in questo mistero, farlo nostro, coglierne tutta la portata e corrispondervi con la nostra adesione attraverso un processo graduale ma deciso di conversione Colui che per primo ha voluto prediligerci nonostante le nostre colpe. Se Dio egli per primo si è manifestato a noi e a noi si è « convertito » mostrandoci tutto il suo amore di misericordia e di riscatto nella croce del suo Figlio, cercando egli stesso la comunione con noi peccatori, da parte nostra non possiamo che corrispondere a tanta gratuità operando un itinerario di radicale trasformazione interiore che abbia di mira il nostro emendamento a partire dal radicale cambiamento del cuore, della mentalità e dei costumi per orientarci secondo la volontà di Dio abbandonando il compromesso con il male e con il peccato. Come afferma Vanoye in un suo commento spirituale su Paolo, Dio si comporta nei nostri riguardi come se fosse stato lui ad offenderci: viene a cercarci per ripristinare la comunione che noi abbiamo rotto con lui in seguito al peccato e di questa sollecitudine di grazia è massima espressione l’avvenimento del Golgota, dove Dio consegna se stesso in riscatto dell’umanità e come afferma Ratzinger si realizza la vera Rivelazione definitiva di Dio: nella croce Dio svela se stesso definitivamente mostrando il suo vero volto, quello dell’Amore che avrebbe dell’assurdo se non trovasse giustificazione nella gratuità di Dio. Insomma, Dio Amore si rivela nell’evento della croce come Colui che per primo realizza la propria riconciliazione con noi. E’ Dio che si riconcilia per primo con noi pagando sulla croce il prezzo del nostro riscatto e rendendoci appunto « giusti », cioè degni della sua presenza e della sua misericordia; ma attende anche che da parte nostra ci si decida risolutamente per lui. In conseguenza dell’amore del Crocifisso non ci resta allora che convertirci a nostra volta, cioè aderire allo stesso amore; significa convincerci dell’inutilità del peccato e della sua incompatibilità con la nostra volontà di liberazione e di emancipazione per la vita; orientarci all’accoglienza dell’amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato sempre per mezzo del Figlio (Rm 5, 5), conformaci alle aspettative di questo amore e assumere i punti di vista di Dio. Ma tutto questo processo resta sterile e infecondo se non sfocia nelle opere dell’amore vicendevole, nella carità operosa ed effettiva, perché il Regno di Dio non consiste in parole, ma in opere (1 Cor 4, 19) a sostegno soprattutto dei più deboli e degli emarginati. Anzi proprio la carità che scaturisce da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera (1 Tm 1, 5) è segno di avvenuta conversione come assunzione della familiarità piena con Dio e della convinzione che tutto quanto noi possediamo lo dobbiamo a lui: convertirsi vuol dire infatti aver fatto esperienza dell’ amore infinito di Dio e saperlo estendere agli altri con la concretizzazione delle opere.
Oggi cominciamo di fatto un itinerario liturgico che deve tuttavia rappresentare la nostra dinamica cristiana di tutta la vita e lo iniziamo con un gesto emblematico che ci ravvisa che il nostro dover essere per Dio e per gli altri comporta che noi ci riteniamo nulla, insignificanti elementi provvisori destinati a confonderci con la polvere: la cenere posa sul capo ci ravvisa infatti la nostra vanità davanti a Dio e pertanto la consapevolezza di dover smentire noi stessi perché la conversione a lui si realizzi progressivamente e impregni tutta la nostra vita. Come affermava nella sua triplice espressione Sant’Agostino, l’umiltà è la caratteristica fondante di ogni atteggiamento cristiano, perché solo in ragione di essa è possibile attribuire il primato di Dio nella nostra vita e vedere lo stesso Dio negli altri. Anche il digiuno e l’astinenza sono di ausilio alla rinuncia a noi stessi per l’esaltazione dello spirito nella comunione con Dio, ma non possiamo non osservare come le nostre mortificazioni corporali non sono diverse da tante altre in uso nella nostra civiltà (c’è chi digiuna più alacremente, anche per motivi politici) quando non evincano la trasparenza seria della nostra ricerca di Dio soprattutto trasformandosi in veri atti di amore al prossimo
dal sito:
http://www.santiebeati.it/dettaglio/20240
Mercoledì delle Ceneri
17 febbraio (celebrazione mobile)
Il mercoledì delle Ceneri, la cui liturgia è marcata storicamente dall’inizio della penitenza pubblica, che aveva luogo in questo giorno, e dall’intensificazione dell’istruzione dei catecumeni, che dovevano essere battezzati durante la Veglia pasquale, apre ora il tempo salutare della Quaresima.
Lo spirito comunitario di preghiera, di sincerità cristiana e di conversione al Signore, che proclamano i testi della Sacra Scrittura, si esprime simbolicamente nel rito della cenere sparsa sulle nostre teste, al quale noi ci sottomettiamo umilmente in risposta alla parola di Dio. Al di là del senso che queste usanze hanno avuto nella storia delle religioni, il cristiano le adotta in continuità con le pratiche espiatorie dell’Antico Testamento, come un “simbolo austero” del nostro cammino spirituale, lungo tutta la Quaresima, e per riconoscere che il nostro corpo, formato dalla polvere, ritornerà tale, come un sacrificio reso al Dio della vita in unione con la morte del suo Figlio Unigenito. È per questo che il mercoledì delle Ceneri, così come il resto della Quaresima, non ha senso di per sé, ma ci riporta all’evento della Risurrezione di Gesù, che noi celebriamo rinnovati interiormente e con la ferma speranza che i nostri corpi saranno trasformati come il suo.
Il rinnovamento pasquale è proclamato per tutta l’umanità dai credenti in Gesù Cristo, che, seguendo l’esempio del divino Maestro, praticano il digiuno dai beni e dalle seduzioni del mondo, che il Maligno ci presenta per farci cadere in tentazione. La riduzione del nutrimento del corpo è un segno eloquente della disponibilità del cristiano all’azione dello Spirito Santo e della nostra solidarietà con coloro che aspettano nella povertà la celebrazione dell’eterno e definitivo banchetto pasquale. Così dunque la rinuncia ad altri piaceri e soddisfazioni legittime completerà il quadro richiesto per il digiuno, trasformando questo periodo di grazia in un annuncio profetico di un nuovo mondo, riconciliato con il Signore.
Martirologio Romano: Giorno delle Ceneri e principio della santissima Quaresima: ecco i giorni della penitenza per la remissione dei peccati e la salvezza delle anime. Ecco il tempo adatto per la salita al monte santo della Pasqua.
Ascolta da RadioRai:
L’origine del Mercoledì delle ceneri è da ricercare nell’antica prassi penitenziale. Originariamente il sacramento della penitenza non era celebrato secondo le modalità attuali. Il liturgista Pelagio Visentin sottolinea che l’evoluzione della disciplina penitenziale è triplice: « da una celebrazione pubblica ad una celebrazione privata; da una riconciliazione con la Chiesa, concessa una sola volta, ad una celebrazione frequente del sacramento, intesa come aiuto-rimedio nella vita del penitente; da una espiazione, previa all’assoluzione, prolungata e rigorosa, ad una soddisfazione, successiva all’assoluzione ».
La celebrazione delle ceneri nasce a motivo della celebrazione pubblica della penitenza, costituiva infatti il rito che dava inizio al cammino di penitenza dei fedeli che sarebbero stati assolti dai loro peccati la mattina del giovedì santo. Nel tempo il gesto dell’imposizione delle ceneri si estende a tutti i fedeli e la riforma liturgica ha ritenuto opportuno conservare l’importanza di questo segno.
La teologia biblica rivela un duplice significato dell’uso delle ceneri.
1 – Anzitutto sono segno della debole e fragile condizione dell’uomo. Abramo rivolgendosi a Dio dice: « Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere… » (Gen 18,27). Giobbe riconoscendo il limite profondo della propria esistenza, con senso di estrema prostrazione, afferma: « Mi ha gettato nel fango: son diventato polvere e cenere » (Gb 30,19). In tanti altri passi biblici può essere riscontrata questa dimensione precaria dell’uomo simboleggiata dalla cenere (Sap 2,3; Sir 10,9; Sir 17,27).
2 – Ma la cenere è anche il segno esterno di colui che si pente del proprio agire malvagio e decide di compiere un rinnovato cammino verso il Signore. Particolarmente noto è il testo biblico della conversione degli abitanti di Ninive a motivo della predicazione di Giona: « I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere » (Gio 3,5-9). Anche Giuditta invita invita tutto il popolo a fare penitenza affinché Dio intervenga a liberarlo: « Ogni uomo o donna israelita e i fanciulli che abitavano in Gerusalemme si prostrarono davanti al tempio e cosparsero il capo di cenere e, vestiti di sacco, alzarono le mani davanti al Signore » (Gdt 4,11).
La semplice ma coinvolgente liturgia del mercoledì delle ceneri conserva questo duplice significato che è esplicitato nelle formule di imposizione: « Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai » e « Convertitevi, e credete al Vangelo ». Adrien Nocent sottolinea che l’antica formula (Ricordati che sei polvere…) è strettamente legata al gesto di versare le ceneri, mentre la nuova formula (Convertitevi…) esprime meglio l’aspetto positivo della quaresima che con questa celebrazione ha il suo inizio. Lo stesso liturgista propone una soluzione rituale molto significativa: « Se la cosa non risultasse troppo lunga, si potrebbe unire insieme l’antica e la nuova formula che, congiuntamente, esprimerebbero certo al meglio il significato della celebrazione: « Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai; dunque convertiti e credi al Vangelo ».
Il rito dell’imposizione delle ceneri, pur celebrato dopo l’omelia, sostituisce l’atto penitenziale della messa; inoltre può essere compiuto anche senza la messa attraverso questo schema celebrativo: canto di ingresso, colletta, letture proprie, omelia, imposizione delle ceneri, preghiera dei fedeli, benedizione solenne del tempo di quaresima, congedo.
Le ceneri possono essere imposte in tutte le celebrazioni eucaristiche del mercoledì ma sarà opportuno indicare una celebrazione comunitaria « privilegiata » nella quale sia posta ancor più in evidenza la dimensione ecclesiale del cammino di conversione che si sta iniziando.
Autore: Enrico Beraudo
dal sito:
MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
BENEDETTO XVI
PER LA QUARESIMA 2010
La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo (cfr Rm 3,21-22)
Cari fratelli e sorelle,
ogni anno, in occasione della Quaresima, la Chiesa ci invita a una sincera revisione della nostra vita alla luce degli insegnamenti evangelici. Quest’anno vorrei proporvi alcune riflessioni sul vasto tema della giustizia, partendo dall’affermazione paolina: La giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo (cfr Rm 3,21-22).
Giustizia: “dare cuique suum”
Mi soffermo in primo luogo sul significato del termine “giustizia”, che nel linguaggio comune implica “dare a ciascuno il suo – dare cuique suum”, secondo la nota espressione di Ulpiano, giurista romano del III secolo. In realtà, però, tale classica definizione non precisa in che cosa consista quel “suo” da assicurare a ciascuno. Ciò di cui l’uomo ha più bisogno non può essergli garantito per legge. Per godere di un’esistenza in pienezza, gli è necessario qualcosa di più intimo che può essergli accordato solo gratuitamente: potremmo dire che l’uomo vive di quell’amore che solo Dio può comunicargli avendolo creato a sua immagine e somiglianza. Sono certamente utili e necessari i beni materiali – del resto Gesù stesso si è preoccupato di guarire i malati, di sfamare le folle che lo seguivano e di certo condanna l’indifferenza che anche oggi costringe centinaia di milioni di essere umani alla morte per mancanza di cibo, di acqua e di medicine -, ma la giustizia “distributiva” non rende all’essere umano tutto il “suo” che gli è dovuto. Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio. Nota sant’Agostino: se “la giustizia è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo… non è giustizia dell’uomo quella che sottrae l’uomo al vero Dio” (De civitate Dei, XIX, 21).
Da dove viene l’ingiustizia?
L’evangelista Marco riporta le seguenti parole di Gesù, che si inseriscono nel dibattito di allora circa ciò che è puro e ciò che è impuro: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro… Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male” (Mc 7,14-15.20-21). Al di là della questione immediata relativa al cibo, possiamo scorgere nella reazione dei farisei una tentazione permanente dell’uomo: quella di individuare l’origine del male in una causa esteriore. Molte delle moderne ideologie hanno, a ben vedere, questo presupposto: poiché l’ingiustizia viene “da fuori”, affinché regni la giustizia è sufficiente rimuovere le cause esteriori che ne impediscono l’attuazione. Questo modo di pensare – ammonisce Gesù – è ingenuo e miope. L’ingiustizia, frutto del male, non ha radici esclusivamente esterne; ha origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa connivenza col male. Lo riconosce amaramente il Salmista: “Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (Sal 51,7). Sì, l’uomo è reso fragile da una spinta profonda, che lo mortifica nella capacità di entrare in comunione con l’altro. Aperto per natura al libero flusso della condivisione, avverte dentro di sé una strana forza di gravità che lo porta a ripiegarsi su se stesso, ad affermarsi sopra e contro gli altri: è l’egoismo, conseguenza della colpa originale. Adamo ed Eva, sedotti dalla menzogna di Satana, afferrando il misterioso frutto contro il comando divino, hanno sostituito alla logica del confidare nell’Amore quella del sospetto e della competizione; alla logica del ricevere, dell’attendere fiducioso dall’Altro, quella ansiosa dell’afferrare e del fare da sé (cfr Gen 3,1-6), sperimentando come risultato un senso di inquietudine e di incertezza. Come può l’uomo liberarsi da questa spinta egoistica e aprirsi all’amore?
Giustizia e Sedaqah
Nel cuore della saggezza di Israele troviamo un legame profondo tra fede nel Dio che “solleva dalla polvere il debole” (Sal 113,7) e giustizia verso il prossimo. La parola stessa con cui in ebraico si indica la virtù della giustizia, sedaqah, ben lo esprime. Sedaqah infatti significa, da una parte, accettazione piena della volontà del Dio di Israele; dall’altra, equità nei confronti del prossimo (cfr Es 20,12-17), in modo speciale del povero, del forestiero, dell’orfano e della vedova (cfr Dt 10,18-19). Ma i due significati sono legati, perché il dare al povero, per l’israelita, non è altro che il contraccambio dovuto a Dio, che ha avuto pietà della miseria del suo popolo. Non a caso il dono delle tavole della Legge a Mosè, sul monte Sinai, avviene dopo il passaggio del Mar Rosso. L’ascolto della Legge, cioè, presuppone la fede nel Dio che per primo ha ‘ascoltato il lamento’ del suo popolo ed è “sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto” (cfr Es 3,8). Dio è attento al grido del misero e in risposta chiede di essere ascoltato: chiede giustizia verso il povero (cfr Sir 4,4-5.8-9), il forestiero (cfr Es 22,20), lo schiavo (cfr Dt 15,12-18). Per entrare nella giustizia è pertanto necessario uscire da quell’illusione di auto-sufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è l’origine stessa dell’ingiustizia. Occorre, in altre parole, un “esodo” più profondo di quello che Dio ha operato con Mosè, una liberazione del cuore, che la sola parola della Legge è impotente a realizzare. C’è dunque per l’uomo speranza di giustizia?
Cristo, giustizia di Dio
L’annuncio cristiano risponde positivamente alla sete di giustizia dell’uomo, come afferma l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani: “Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio… per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. E’ lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue” (3,21-25).
Quale è dunque la giustizia di Cristo? E’ anzitutto la giustizia che viene dalla grazia, dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri. Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la “benedizione” che spetta a Dio (cfr Gal 3,13-14). Ma ciò solleva subito un’obiezione: quale giustizia vi è là dove il giusto muore per il colpevole e il colpevole riceve in cambio la benedizione che spetta al giusto? Ciascuno non viene così a ricevere il contrario del “suo”? In realtà, qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana. Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero esorbitante. Di fronte alla giustizia della Croce l’uomo si può ribellare, perché essa mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico, ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso. Convertirsi a Cristo, credere al Vangelo, significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza – indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono e della sua amicizia.
Si capisce allora come la fede sia tutt’altro che un fatto naturale, comodo, ovvio: occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”. Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Grazie all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare.
Proprio forte di questa esperienza, il cristiano è spinto a contribuire a formare società giuste, dove tutti ricevono il necessario per vivere secondo la propria dignità di uomini e dove la giustizia è vivificata dall’amore.
Cari fratelli e sorelle, la Quaresima culmina nel Triduo Pasquale, nel quale anche quest’anno celebreremo la giustizia divina, che è pienezza di carità, di dono, di salvezza. Che questo tempo penitenziale sia per ogni cristiano tempo di autentica conversione e d’intensa conoscenza del mistero di Cristo, venuto a compiere ogni giustizia. Con tali sentimenti, imparto di cuore a tutti l’Apostolica Benedizione.
Dal Vaticano, 30 ottobre 2009
BENEDICTUS PP. XVI
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100216
Martedì della VI settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 8,14-21
Meditazione del giorno
San Vincenzo di Lerino (?-circa 450), monaco
Commonitorio, 23, PL 50, 667-668
« Non intendete e non capite ancora ? »
Forse che nella Chiesa di Cristo nessun progresso sarà possibile per la dottrina?… Certo che ci sarà, e grandissimo! Chi sarebbe tanto avversario agli uomini e ostile a Dio da impedirlo? A condizione però che si tratti di vero progresso nella fede, non di mutamento. Progresso significa che una cosa si accresce rimanendo se stessa; nel mutamento invece, una cosa si modifica trasformandosi in un’altra. Cresca dunque, e progredisca in ogni modo possibile, l’intelligenza, la scienza, la sapienza dei singoli e della collettività, di ogni individuo come di tutta la Chiesa, secondo il progredire dell’età e dei secoli: purché questo avvenga esattamente secondo la loro peculiare natura, cioè nello stesso dogma, nel medesimo senso, secondo una stessa interpretazione.
La religione delle anime deve imitare lo sviluppo dei corpi, i cui elementi, benché col passare degli anni si evolvano e crescano, rimangono però sempre gli stessi. C’è tanto differenza infatti fra il fiore dell’infanzia e la maturità della vecchiaia, e tuttavia, quelli che ora sono vecchi sono gli stessi che furono adolescenti; per cui se mutano l’aspetto e le abitudini di un uomo, si tratta sempre però della stessa natura e della stessa persona. Le membra dei latanti sono piccole, grandi quelle dei giovani, ma sono sempre quelle. Tante ne hanno i bambini, quanti gli adulti; e se qualcosa di nuovo appare in età più matura, già preesisteva nell’embrione…
Le stesse leggi di crescita deve seguire il dogma della religione cristiana. Col passare degli anni si deve consolidare, deve svilupparsi nel tempo, divvenire sempre più alto con l’età. I nostri padri, nel passato, seminarono nel campo della Chiesa il buon grano della fede: sarebbe davvero ingiusto e sconveniente che noi, loro discendenti, cogliessimo la zizzania del subdolo errore in luogo del frumento dell’antica verità (Mt 13,24). Al contrario è giusto e logico che la mietitura non differisca dalla semina e che quindi, quando il grano della dottrina è giunto a maturazione, noi possiamo mietere il frumento del dogma che se, col procedere del tempo, qualcosa si è sviluppato da quei semi originali, ciò sia motivo di gioia e di approfondimento.