Il mosaico che raffigura Santa Gianna, Mariolina e Teresina Molla davanti alla Madonna di Lourdes (santi, dalla Parrocchia)

dal sito:
http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=109
Tra Prometeo e Giacobbe
Il termine “sfida” è la negazione della fede cristiana? Una riflessione del prefetto della Biblioteca Ambrosiana
di Gianfranco Ravasi
A prima vista il termine “sfida” sembra essere, a livello etimologico, la negazione della fede: non è forse, “dis-fida”, cioè una “fiducia/fede” negata dal prefisso dis che, nella sua matrice greca, indica negatività e ostilità? Dopo tutto, l’hybris, cioè la sfida di Prometeo, reiterata in molte culture, è il tentativo di occupare il trono divino, sostituendosi al Re trascendente. Eppure, la fede – se colta nella sua struttura costitutiva più intima – si rivela anch’essa come sfida, rischiosa ma esaltante. Scriveva il filosofo Sören Kierkegaard: «La fede è la più alta passione dell’uomo. Ci sono forse in ogni generazione uomini che non arrivano fino ad essa. Ma nessuno va oltre». A questo sforzo di giungere al livello vertiginoso del credere noi dedicheremo ora non tanto un’analisi quanto piuttosto una rappresentazione emblematica per quadri o scene, in una sorta di trattazione “impressionistica”.
Come Giacobbe e Davide…
Inizieremo con un notturno: la celebre lotta di Giacobbe, il patriarca ebreo, contro un essere misterioso, identificato dalla tradizione con un angelo, simbolo comunque del divino. Il racconto di Genesi 32, 23-33 vede il protagonista solitario lungo le rive del fiume Jabbok, un affluente orientale del Giordano. Le acque impetuose e la notte sono segno del nulla, del caos, del dramma. «Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora» (32,25). Quando sorge l’alba, Giacobbe avanza zoppicante, ferito all’articolazione del femore, e il suo nome non è più quello tribale di Giacobbe ma è “Israele”, che significa “contende con Dio”: dall’incontro-lotta con Dio non si esce indenni ma trasformati e trasfigurati. L’esperienza di fede consegna alla persona un compito, una missione, una vocazione, per Giacobbe quella di essere il progenitore, il capostipite e l’archetipo di un popolo.
Il credere, perciò, come era accaduto già ad Abramo costretto dal Signore a sacrificargli il figlio Isacco (Genesi 22), non è una pacifica acquisizione di benedizioni, ma è una sorta di incontro-scontro col mistero. Credere è rischio e il suo percorso si snoda su un sentiero d’altura, come lo era il monte Moria per Abramo, o lungo un fiume impetuoso, come accade a Giacobbe. Ma ci sono altre sfide che attendono il credente, dopo la sua lotta con Dio.
Ecco, allora, l’altro quadro che vorremmo evocare. La scena ora è solare: siamo in campo aperto, davanti a una platea di spettatori incuriositi. Si stanno confrontando in un duello due personaggi del tutto antitetici. Da un lato, si erge l’eroe filisteo Golia che enfaticamente è descritto dalla Bibbia – nel racconto del capitolo 17 del primo Libro di Samuele – con un’imponenza di «sei cubiti e un palmo», quasi 2,80 metri, capace di reggere una corazza a piastre di 5000 sicli di bronzo, cioè di una trentina di chili. Dall’altro lato, avanza Davide, un «ragazzo fulvo di capelli e di bell’aspetto», armato solo di una fionda e di cinque ciottoli lisci di fiume.
È l’eterna sfida tra la corpulenza becera e muscolosa dell’arroganza, del potere, della forza bruta contro la bellezza, la delicatezza, l’intelligenza, la verità. A prima vista il confronto sembra essere impari; ma l’esito è alla fine sorprendente perché i valori dello spirito sono ben più resistenti e decisivi e non possono essere piegati dalla mera brutalità quantitativa. Essi partecipano dell’eternità e dell’infinito ed è per questo che è impossibile metterli in gara con realtà che poggiano solo sulla materialità, di sua natura caduca e finita. La fede è un invito permanente a schierarsi dalla parte della “debolezza”, della “fragilità”, del Bello, del Vero, del Giusto, dell’Amore.
«Resistere
nel giorno malvagio»
Ma possiamo procedere oltre, verso un’altra e più inquietante sfida che è ambientata in un interno. Siamo in una sinagoga e Gesù è da poco entrato, creando scompiglio soprattutto in un ebreo fino a quel momento quietamente assiso sul suo scranno. Agitandosi sotto l’irruzione di «uno spirito immondo», egli si mette a urlare: «Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Tu sei venuto a rovinarci! Lo so chi tu sei: il Santo di Dio!». Nella narrazione del capitolo 1 del Vangelo di Marco lo scontro ha il suo acme quando Cristo si rivolge non all’uomo ma allo “spirito immondo” che lo possiede. «Taci! Esci da quest’uomo!». E l’esito è immediato: «Lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui».
In questo episodio di forte tensione è idealmente rappresentata una sfida che non coinvolge solo Cristo ma ogni credente: siamo costantemente posti in conflitto col male morale e metafisico, siamo in perenne confronto con l’oscurità della storia, con l’ombra di Dio, col grumo incandescente della perversione, con la potenza tenebrosa della morte. Per usare un’espressione di Bernanos, siamo spesso «sotto il sole di satana», un sole “nero” che scandisce molti tempi della storia e che ci costringe – come dice san Paolo – ad essere attrezzati con «l’armatura di Dio perché possiamo resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di carne e di sangue, ma contro principati e potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male. Prendiamo, perciò, l’armatura di Dio, perché possiamo resistere nel giorno malvagio e restare in piedi…» (Ef 6,11-13).
Questa, però, non è una sfida che si consuma solo all’esterno, nell’orizzonte e nello scenario della storia. Essa celebra i suoi atti più terribili e subdoli all’interno di noi stessi, nello spazio intimo della libertà. È ciò che Paolo dipinge in modo mirabile nel capitolo 7 della Lettera ai Romani: «Quando voglio fare il bene, è il male che mi è accanto. Aderirei alla legge di Dio ma nelle mie membra vedo un’altra legge che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo». Lo sbocco sembra essere inevitabile e approdare alle sabbie mobili del peccato e della “carne”, come ama dire l’Apostolo.
Forte come
la Morte è l’Amore
In realtà, l’uomo in questa lotta intima non è solitario. La mano di Dio si stende ed effonde in noi «le primizie dello Spirito, così che gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo, perché nella speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8,23-24). Il verbo “gemere” è quello delle doglie del parto: siamo, quindi, di fronte a una sfida estrema che non produce morte bensì genera una ri-creazione, una nuova vita, una rinascita, compiuta dalla grazia divina.
È in questa luce che appare l’ultima sfida, l’estrema, quella con la morte che ha il suo emblema nella risurrezione di Cristo, ma che è già anticipata nella proclamazione della donna del Cantico dei Cantici: «Forte come la Morte è l’Amore… Le sue vampe sono ardenti, una fiamma del Signore!» (8,6). Affidandosi ad alcuni passi profetici, san Paolo introduce il duello supremo tra Vita e Morte e ne esalta l’esito finale: «La morte è stata ingoiata per la vittoria./ Dov’è, o morte, la tua vittoria? / Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?
Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (1Cor 15,54-57).
La fede si rivela, perciò, come un confronto aperto a tutto campo, che non teme di inoltrarsi anche sui terreni più incerti e ignoti. Come scriveva ancora Bernanos, «la fede è un rischio da correre. È addirittura il rischio dei rischi». Come ha insegnato Pascal, non è, però, una sfida insensata né solitaria. Il suo itinerario è motivato, i suoi risultati sono vigorosi, il suo tracciato è tormentato eppure nitido, il cammino è seguito da una Presenza. La sfida della fede è pesante ma anche gloriosa, è ardua ma anche serena, ed è un’esperienza aperta a tutti, anche a chi è agnostico. È ciò che suggeriva Turoldo in questi versi dei Canti ultimi (Oltre la foresta):
«Fratello ateo, nobilmente pensoso
alla ricerca di un Dio che io non so darti,
attraversiamo insieme il deserto.
Di deserto in deserto andiamo
oltre la foresta delle fedi
liberi e nudi verso
il nudo Essere
e là
dove la Parola muore
abbia fine il nostro cammino».
dal sito:
http://www.zenit.org/article-21309?l=italian
“Tutti possiamo ricevere una guarigione a Lourdes”
Secondo l’ex presidente dell’Ufficio medico del Santuario
LOURDES, lunedì, 8 febbraio 2010 (ZENIT.org).- “Tutti possiamo ricevere una guarigione a Lourdes se la chiediamo e l’aspettiamo con fede e perseveranza”, afferma l’ex presidente dell’Ufficio medico del Santuario di Lourdes, il dottor Patrick Theillier.
In un articolo che la rivista France Catholique pubblicherà questo venerdì, Theillier spiega che questa guarigione “può non essere tanto spettacolare da essere considerata un miracolo”.
Ad ogni modo, “interessa in modo profondo e duraturo la persona che la vive, in tutto il suo essere, corpo, anima e spirito”.
“Queste cure sono davvero innumerevoli”, dichiara.
Il medico osserva che ciò non vuol dire che non ci siano guarigioni miracolose – finora a Lourdes ne sono state riconosciute ufficialmente 67.
“Questi miracoli sono stati necessari all’inizio della Chiesa – continua –. In effetti, perché la fede aumenti, deve essere sostenuta dai miracoli”.
“Non abbiamo forse bisogno, più che 100 o 150 anni fa, di essere alleviati dalle sofferenze morali e dalle ferite della vita, di ordine psicologico-spirituale, che vanno al di là della medicina?”, si chiede tuttavia.
E risponde: “E’ in questo che Lourdes risponde a una necessità molto attuale, che corrisponde in modo sicuramente maggiore al suo messaggio originale”.
Secondo Theillier, “questi miracoli sono molto più grandi di quelli del corpo, perché sono le anime a rigenerarsi”.
“Le guarigioni fisiche straordinarie sono diventate rare”, commenta, visto che “Dio agisce in primo luogo attraverso mediazioni umane, con la medicina e i medici”.
In questo senso, l’articolo spiega il lavoro svolto a Lourdes perché i primi a beneficiare di queste cure siano proprio i medici.
Nel 2005 e nel 2007, il Santuario ha accolto congressi-pellegrinaggi che hanno riunito più di 300 medici cattolici di lingua francese.
Dal 6 al 9 maggio di quest’anno accoglierà il Congresso Mondiale della Federazione Internazionale delle Associazioni Mediche Cattoliche (FIAMC), sul tema “La nostra fede di medici”.
Theiller invita tutti i medici a recarsi a Lourdes in questa occasione per “incontrare colleghi di tutto il mondo, ascoltare una serie di interventi sul tema del Credo in relazione ai medici e alla medicina e compiere un pellegrinaggio avendo l’occasione unica di vivere la guarigione di cui tutti abbiamo bisogno”.
“In questo momento, la mia speranza è che molti medici cattolici che soffrono a causa della loro fede vengano a trovare al fianco di Nostra Signora consolazione e guarigione”, afferma.
“Parlate con il vostro medico!”, aggiunge. “Come hanno dimostrato quanti sono venuti ai Congressi precedenti, i medici presenti potranno sperimentare la misericordia di Dio in questo luogo di grazie”.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100210
Mercoledì della V settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 7,14-23
Meditazione del giorno
San Gregorio Nisseno (circa 335-395), monaco e vescovo
Omelie sulle Beatitudine, 6, PG 44, 1269-1272
« Crea in me, o Dio, un cuore puro » (Sal 51,12)
Chi ha purificato il suo cuore può contemplare l’immagine della divina natura nella bellezza della sua stessa anima. Se dunque laverai le brutture che hanno coperto il tuo cuore, risplenderà in te la divina bellezza. Come il ferro, liberato dalla ruggine splende al sole, così anche l’uomo interiore, quando avrà rimosso da sé la ruggine del male, ricupererà la somiglianza con la forma originale e primitiva (Gen 1, 27), e sarà buono. Infatti chi assomiglia alla Bontà, è necessariamente buono…
In tal modo diviene beato chi ha il cuore puro (Mt 5, 8), perché mentre guarda la sua purità scorge, attraverso questa immagine, la sua prima e principale forma. Coloro che vedono il sole in uno specchio, benché non fissino i loro occhi in cielo, vedono il sole non meno bene di quelli che guardano direttamente l’astro luminoso. Così anche voi, benché le vostre forze non siano sufficienti per scorgere e contemplare la luce inaccessibile, se ritornerete alla grazia originaria, troverete in voi ciò che cercate.
La divinità infatti è purezza, è assenza di passioni, è lontananza da ogni male. Se dunque queste realtà sono in te, Dio è senz’altro in te. Quando pertanto la tua anima sarà pura da ogni sorta di vizi, libera da passioni e difetti e lontana da ogni inquinamento, allora sarai felice per l’acutezza e la limpidezza della vista.