Archive pour le 3 février, 2010

New Jerusalem has walls of jasper.

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I Salmi: Un inatteso libro di poesie

dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2005/articolo1_4.asp

I SALMI: LA POESIA DELLA PREGHIERA
 
Mazzinghi L.

Un inatteso libro di poesie

E come potevamo cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
tra i morti abbandonati nelle piazze,
sull’erba dura di ghiaccio,
al lamento d’agnello dei fanciulli,
all’urlo nero della madre
che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese;
oscillavano lievi al triste vento.

I lettori hanno riconosciuto questo splendido poema di S. Quasimodo, pubblicato nel 1946 in Giorno dopo giorno; sanno anche che il poeta l’ha composto in un contesto di guerra e in riferimento all’oppressione nazista. Molti avranno anche riconosciuto le allusioni al Sal 137 che incorniciano il poema: «Come canteremo i canti del Signore? … ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre». Non c’è niente di meglio che un poeta per aiutarci a comprendere che i salmi sono anch’essi poesia e come tali parlano al cuore di ogni uomo. Quasimodo riesce a far parlare poeticamente il salmo composto dagli esuli a Babilonia con una forza nuova e aprendo nuovi orizzonti, trasponendolo in un contesto ben diverso, nel quale, almeno in superficie, Dio sembra essere del tutto assente.
Può sembrare strano a qualche lettore che l’intera annata dedicata ai salmi si apra con un articolo che parla di poesia; non siamo abituati, infatti, a vedere i salmi come un’opera poetica. Sarà questo, in realtà, uno dei fili che ci accompagneranno nel corso dei sei numeri di quest’anno interamente dedicati al Salterio. Una sfida appassionante e delicata, quella che ci aspetta; appassionante, perché il Salterio ci riserva sorprese sempre nuove; delicata, perché è necessario entrare in un mondo che spesso conosciamo solo in superficie.
«Cantate inni al Signore con arte» (Sal 47,8). Qui capiamo, con la voce stessa del salmista, che i salmi sono certamente preghiera, ma sono una preghiera che si esprime con la poesia. La scoperta e lo studio della dimensione poetica dei salmi è cosa relativamente recente; è grazie in modo particolare all’opera del grande biblista spagnolo Luis Alonso Schökel che oggi possiamo affrontare con più sicurezza questa tematica[1].
I salmi sono poesia; da questa semplice affermazione scaturiscono grandi conseguenze. Certo è difficile racchiudere la poesia in una definizione stretta; eppure la differenza tra poesia e prosa è palese. Se la prosa racconta, spiega, descrive e dimostra, il linguaggio della poesia esprime con immagini quello che altrimenti non è esprimibile. Per limitarci a esempi biblici, il lettore può da solo fare il confronto tra la grandiosa narrazione del passaggio del mare, in Es 14, e la ripresa poetica di questo evento nell’ancor più grandioso «canto del mare» (Es 15,1-17), che riprende poeticamente lo stesso avvenimento con accenti che emozionano chi lo pronuncia. È possibile poi leggere nel testo di Gdc 4,12-24 il racconto in prosa della sconfitta del generale cananeo Sisara a opera della profetessa Debora, e rileggere lo stesso evento riproposto poeticamente nel canto di Debora (Gdc 5), con un impatto ben più grande su chi lo ascolta.
Dobbiamo subito dire come la poesia dei salmi non è certamente quella a cui siamo abituati; la poesia ebraica, infatti, ha le sue leggi e i suoi meccanismi, che solo in parte si avvicinano a quelli della poesia classica o della poesia italiana. Nel corso di questa annata il lettore scoprirà, attraverso il commento ai vari testi salmici che verranno presentati, le molte facce di questa poesia. Per introdurlo in questo mondo faremo subito, in particolare, alcuni brevi cenni a due elementi chiave della poesia ebraica: l’uso del parallelismo e il mondo dei simboli. Non vogliamo però entrare nei dettagli di una presentazione tecnica della poesia dei salmi; a noi interessa più semplicemente far capire che leggere i salmi per quello che sono – preghiere in forma di poesia – è di vitale importanza per la comprensione dei salmi stessi.

La forma della poesia ebraica

Spesso si ripete che la poesia non deve essere legata a schemi prefissati; eppure ogni poeta esprime tutta la sua bravura nel saper legare la bellezza dei sentimenti e delle sensazioni che vuole esprimere con una precisa forma letteraria. Così anche la poesia ha inevitabilmente le sue regole; si pensi alla poesia italiana classica, legata per lo più al metro (verso endecasillabo, settenario, ecc.) e alla rima. Comprendere le «regole» della poesia è un primo passo per entrare nella poesia stessa.
Uno degli aspetti più evidenti della poesia ebraica è tipico della poesia di tutti i tempi, ben noto a tutti fin dalle filastrocche che abbiamo imparato nell’infanzia, ed è l’uso della ripetizione, che nella sua forma più elementare si presenta come ritornello. Nei salmi il ritornello ha una doppia funzione: prima di tutto aiuta la memoria, poi serve a suddividere il salmo in parti più o meno uguali; infine, il ritornello viene ripetuto dall’assemblea e aiuta la proclamazione del salmo stesso. L’alternanza solista / assemblea è esattamente ciò che ancora noi utilizziamo nel salmo responsoriale durante la celebrazione eucaristica. Non è difficile scoprire i ritornelli dei salmi; a volte aprono e chiudono il salmo, come avviene nel Sal 8: «O Signore nostro Dio…»; altre volte ritornano nel corpo del salmo (tre volte nel Sal 42-43: «Perché ti rattristi anima mia…»); altre volte strutturano l’intero salmo, come avviene nel Sal 136 («Eterna è la tua misericordia»); il lettore può cercare da solo i ritornelli nei Sal 46; 56; 57; 67; 99.
La ripetizione di una parola, di un verbo, di un’intera espressione, ha per lo più una funzione enfatica; serve cioè a sottolineare qualcosa di particolarmente importante e così colpire gli ascoltatori. Un esempio molto chiaro è la ripetizione del verbo «lodare» nel Sal 150, proprio a chiusura dell’intero Libro dei Salmi, che in ebraico è detto sefer tehillîm ovvero «libro delle lodi»:

Lodate il Signore nel suo santuario,
lodatelo nel firmamento della sua potenza;
lodatelo per i suoi prodigi,
lodatelo per la sua immensa grandezza;
lodatelo con squilli di tromba,
lodatelo con arpa e cetra…

Vi sono salmi interamente giocati sulla ripetizione; il Sal 29 ripete per sette volte il termine «tuono», che in ebraico significa anche «voce»; in questo modo la ripetizione, unita al gioco di parole, pone l’accento sul tema della voce di Dio che si manifesta nella natura (il «tuono»). Nello stesso salmo, che si apre con quattro imperativi, appare per quattro volte il termine «gloria» e per ben diciotto volte il nome di Dio, il «Signore»: attraverso la contemplazione del creato si ode la voce del Dio di Israele.
L’uso dei ritornelli e della ripetizione ci aiuta a comprendere come i salmi siano prima di tutto poesie fatte per essere lette a voce alta; non è raro trovare nei salmi giochi di parole o giochi sonori che spesso sono comprensibili solo leggendo il testo nell’originale ebraico; del resto, ogni poesia andrebbe sempre letta nella lingua in cui è stata scritta. Ma già una buona traduzione italiana ci aiuta a gustare una buona parte della poesia dei salmi.

Il parallelismo nella poesia dei salmi

Il procedimento più tipico della poesia ebraica è senza dubbio il parallelismo. Per capire di che cosa stiamo parlando è opportuno spiegarsi subito con un esempio, che prendiamo dal Sal 114[2]. Riportiamo qui il testo del salmo ponendolo su due colonne parallele:

Quando Israele uscì dall’Egitto,
 la casa di Giacobbe da un popolo barbaro
 
Giuda divenne il suo santuario,
 Israele il suo dominio.
 
Il mare vide e si ritrasse,
 il Giordano si volse indietro
 
i monti saltellarono come arieti,
 le colline come agnelli di un gregge.
 
Che hai tu mare per fuggire?
 e tu, Giordano, perché torni indietro?
 
Perché voi monti saltellate come arieti?
 e voi, colline, come agnelli di un gregge?
 
Trema o terra davanti al Signore,
 davanti al Dio di Giacobbe
 
che muta la rupe in un lago,
 la roccia in sorgenti d’acqua .
 

È subito possibile notare un fatto curioso: se leggiamo soltanto la prima colonna, quella di sinistra, il salmo ha già un senso completo; leggendo soltanto la seconda colonna non avremmo invece alcun senso. Ogni verso del salmo, infatti, è suddiviso in due parti (dette stichi), dove la seconda parte è sempre in parallelo con la prima.
La regola del parallelismo nasce forse dalla percezione della realtà come una pluralità indifferenziata, priva apparentemente di senso, che il linguaggio poetico è capace invece di organizzare e unificare. Il parallelismo della poesia ebraica è per lo più di carattere binario, fatto cioè di due soli elementi (più raramente di tre); alcuni autori motivano questo fatto con il ricorso alla costituzione fondamentale dell’uomo, che è quella di vivere nella dimensione binaria di spazio e tempo.

Un primo evidente scopo del parallelismo è quello di creare antitesi:

Il Signore conosce la via del giusto
ma la via degli empi andrà in rovina (Sal 1,6).

Si veda ancora questa chiara antitesi di carattere antimilitarista:

Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli;
noi siamo forti nel nome del Signore nostro Dio.
Quelli si piegano e cadono,
ma noi restiamo in piedi e stiamo saldi (Sal 20,8-9).

Il parallelismo è anche in grado di creare sintesi e armonia:

Vi sia pace nelle tue mura
sicurezza nei tuoi baluardi (Sal 122,7);
allora la nostra bocca si aprì al sorriso
la nostra lingua in canti di gioia (Sal 126,3).

Qui la seconda parte del verso amplia chiaramente la prima.

Il parallelismo può essere poi usato per creare effetti di accumulazione, che colpiscono chi lo ascolta:

Non temerai il terrore che vaga di notte,
la freccia che vola di giorno,
la peste che vaga nelle tenebre,
lo sterminio che devasta a mezzogiorno (Sal 91,5).

Nel caso del Sal 114, che già abbiamo ricordato, il parallelismo serve ad ampliare la prima parte di ogni verso; così l’Egitto diviene nel secondo stico un «popolo barbaro». Al termine religioso «il suo santuario» è affiancato dal salmista un termine politico, «il suo dominio»; la liberazione d’Israele è dunque allo stesso tempo un atto religioso e un atto di libertà «politica». Il ricordo del passaggio del mare (Es 14) si amplia in quello del passaggio del Giordano, descritto nel libro di Giosuè (Gs 3); in un solo verso il poeta riesce così a legare due episodi apparentemente lontani tra loro. Al termine del salmo la «roccia» intensifica il riferimento alla «rupe», così come le «sorgenti d’acqua» intensificano il «lago»; il parallelismo serve in questo caso ad aprire nuovi orizzonti, con un fenomeno di dilatazione.
Il gioco dei parallelismi nei salmi apre agli ascoltatori continue possibilità di interpretazione; ma perché una data realtà possa essere posta in parallelo con un’altra è necessario che la realtà venga colta nella sua dimensione «simbolica»; tutto ciò ci conduce all’altro aspetto importante della poesia dei salmi: l’uso dei simboli.

Il giardino dei simboli

«I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne» (Sal 98,8). «Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio» (Sal 91,4). È del tutto evidente che i fiumi non hanno mani, né si può credere che Dio possa avere penne o ali. Il salmista utilizza dei simboli, espressi attraverso immagini.
Parlando di «simbolo» intendiamo l’accostamento di due elementi, il primo dei quali è sempre materiale; un accostamento che genera una novità di senso (ad esempio, le «ali» riferite a Dio). Il simbolo è sempre legato all’esperienza reale dell’uomo, ma allo stesso tempo la trascende, rinviando a significati sempre nuovi e, in ultima analisi, rinviando al sacro, che il simbolo allo stesso tempo svela e nasconde[3]. Il termine greco symbolon viene dal verbo syn-ballo che significa «mettere assieme», il contrario di dia-ballo, «disperdere», da cui diabolos, cioè il «dispersore». Leggere la realtà in chiave simbolica, come fanno i salmi, significa «mettere assieme» i molti aspetti del reale e scoprirne significati sempre nuovi alla luce dell’Altro a cui tutti i significati rimandano. Al contrario, leggere la realtà in modo frammentario significa compiere un’opera «diabolica».
Questo è ciò che ha fatto il mondo contemporaneo, che per troppo tempo ha liquidato il simbolo, o perché bollato, come nel marxismo classico, come «utopia conservatrice», o perché, erede del pensiero greco, ha visto nel simbolo un tipo di linguaggio pre-logico che deve cedere il passo al linguaggio «vero» ossia al linguaggio filosofico, scientifico, razionale; il simbolo può essere «vero» soltanto in relazione alla verità di cui sarebbe portatore. Nel leggere i salmi capita spesso di sentire concettualizzare i simboli, cosicché simboli come la «mano» di Dio o la splendida immagine del «Signore, il mio pastore» (Sal 23,1) perdono la forza dell’immagine e divengono semplicemente dei concetti.
La rivalutazione del simbolo nella lettura dei salmi va di pari passo con la rivalutazione dell’esperienza del poeta. Il simbolo, infatti, non si indirizza solo alla mente, ma all’uomo intero nella sua concreta esperienza di vita. Il simbolo, poi, è in grado di caricarsi di una vasta gamma di significati; si dice cioè che il simbolo è polisemico; il simbolo «fa pensare»[4]. L’uso dei simboli all’interno dei salmi invita a leggere il mondo come una realtà dotata di senso e, allo stesso tempo, come un mistero che il simbolo svela solo in parte, rinviando a un Altro che supera il simbolo stesso. Si comprende così come mai il Dio di Israele, immanente e trascendente insieme, non poteva trovare migliore espressione se non nel simbolo.
Il linguaggio del simbolo permette all’autore salmico di evitare due scogli: prima di tutto il rischio dell’immanenza, cioè il voler dire che «Dio è come…», pensando in qualche modo di poterlo ridurre alla realtà creata. D’altra parte, la parola di Dio evita il rischio di dire soltanto «Dio non è come…», eliminando la possibilità di ogni discorso su Dio. L’uso dei simboli permette di ri-velare e velare insieme, di parlare del Presente e insieme di nascondere l’Assente.
Concretamente, il simbolo si esprime nei salmi attraverso l’uso di una vasta serie di immagini: «Fa scendere la neve come lana, come polvere sparge la brina» (Sal 147,16): il poeta può unire immagini sensibili («neve» e «brina»; «lana» e «polvere») che a loro volta suggeriscono un piano ulteriore, quello dell’agire di Dio. L’immagine può servire a caratterizzare una realtà umana in modo estremamente concreto e suggestivo insieme: il fedele può così rivolgersi a Dio implorando: «Non abbandonare ai rapaci la vita della tua tortora» (testo ebraico del Sal 74,19, mal tradotto dalla CEI). Nel Sal 69,2 il salmista afferma: «Le acque mi giungono alla gola»; egli esprime con un’immagine ciò che nessun concetto sarebbe capace di definire.
Non continuiamo negli esempi; nel corso di quest’anno infatti il lettore troverà una rubrica nella quale verranno presentati i principali simboli usati nei salmi; così si farà anche nel corso del commento ai salmi stessi[5] .

Il volto di Dio svelato nella poesia dei salmi

La poesia esprime dunque l’inesprimibile: chi ascolta il Sal 8 si accorge come il salmista riesca a sintetizzare in parole e immagini l’esperienza della creazione; invece di descrivere l’opera di Dio, si limita a evocarla: «Se guardo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai create, che cos’è l’uomo perché te ne ricordi?». Luna e stelle, elementi assolutamente reali nello sguardo del salmista, divengono realtà simboliche che aprono all’uomo la contemplazione delle «dita» di Dio, un altro simbolo che ne esprime l’agire delicato e concreto insieme. Il poeta offre nel Sal 8 una visione unificata della realtà, dove tutto ha un senso e tutto rimanda all’esclamazione con la quale si apre e si chiude il poema: «O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!».
Il credente che prega questo o altri salmi si rende conto così di trovarsi davanti a testi «belli», che già parlano agli uomini attraverso la bellezza della loro poesia. La parola di Dio, infatti, non ha paura della bellezza:

Diversamente da Platone, la Bibbia non bandisce l’arte dall’universo morale dell’uomo. Tuttavia, la Bibbia sdivinizza il poeta e l’opera d’arte, smaschera la tentazione di fare dell’opera d’arte un idolo, senza speranza, della Bellezza assoluta e come oblio dell’Essere, dell’Assoluto. Il bello non è un assoluto in sé, ma un itinerario verso l’Assoluto [6].

Il poeta non ha bisogno di lunghe dimostrazioni razionali, di affermare o di negare qualcosa; con i simboli e attraverso la sua poesia egli pone davanti ai suoi ascoltatori la realtà quale essa è, svelandone allo stesso tempo i significati più nascosti e così facendone intuire il mistero, che il simbolo sfiora soltanto. Ecco perché l’immaginazione, la sensibilità e la fantasia giocano un ruolo importante nell’analisi di un salmo. Leggere un testo poetico è mettersi nei panni del poeta; leggere un testo poetico come quello dei salmi – che per i credenti sono ispirati da Dio – è calarsi nella fantasia di Dio per cantare la bellezza del mondo, ma in modo tutto speciale per cantare la bellezza di Dio.

Luca Mazzinghi

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[1] Cf. L. Alonso Schökel, Trenta salmi: poesia e preghiera, EDB, Bologna 1982, e soprattutto il suo testo ormai fondamentale: Id., Manuale di poetica ebraica, Queriniana, Brescia 1989. Un’opera recente che tiene conto di questo approccio è quella di A. Wenin, Entrare nei Salmi, EDB, Bologna 2003.
[2] È l’esempio riportato da Alonso Schökel, Manuale di poetica ebraica, 67-70; in questo articolo seguiremo ancora lo studio del grande biblista spagnolo.
[3] Sono queste le riflessioni del filosofo francese P. Ricoeur, cf. in particolare «Parole et symbole», in Le symbole, ed. J.E. Menard, Strasbourg 1975.
[4] Cf. P. Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2002 (or. fr. 1959).
[5] Il ben noto commento ai salmi di G. Ravasi (Il Libro sei Salmi, voll. I-III, EDB, Bologna 1981-1984) è un ottimo esempio di questa costante attenzione alla dimensione simbolica del Salterio.
[6] A. Bonora, «La Bibbia come opera d’arte letteraria», in CredereOggi 6 (1986) 14-15. 

Publié dans:biblica, salmi |on 3 février, 2010 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI riflette sugli insegnamenti di san Domenico di Guzman

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21247?l=italian

Benedetto XVI riflette sugli insegnamenti di san Domenico di Guzman

Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì

ROMA, mercoledì, 3 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale nell’aula Paolo VI, dove ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sulla cultura cristiana nel Medioevo, si è soffermato sulla figura di san Domenico di Guzman.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

la settimana scorsa ho presentato la luminosa figura di Francesco d’Assisi, quest’oggi vorrei parlarvi di un altro santo che, nella stessa epoca, ha dato un contributo fondamentale al rinnovamento della Chiesa del suo tempo. Si tratta di san Domenico, il fondatore dell’Ordine dei Predicatori, noti anche come Frati Domenicani.

Il suo successore nella guida dell’Ordine, il beato Giordano di Sassonia, offre un ritratto completo di san Domenico nel testo di una famosa preghiera: « Infiammato dello zelo di Dio e di ardore soprannaturale, per la tua carità senza confini e il fervore dello spirito veemente ti sei consacrato tutt’intero col voto della povertà perpetua all’osservanza apostolica e alla predicazione evangelica ». E’ proprio questo tratto fondamentale della testimonianza di Domenico che viene sottolineato: parlava sempre con Dio e di Dio. Nella vita dei santi, l’amore per il Signore e per il prossimo, la ricerca della gloria di Dio e della salvezza delle anime camminano sempre insieme.

Domenico nacque in Spagna, a Caleruega, intorno al 1170. Apparteneva a una nobile famiglia della Vecchia Castiglia e, sostenuto da uno zio sacerdote, si formò in una celebre scuola di Palencia. Si distinse subito per l’interesse nello studio della Sacra Scrittura e per l’amore verso i poveri, al punto da vendere i libri, che ai suoi tempi costituivano un bene di grande valore, per soccorrere, con il ricavato, le vittime di una carestia.

Ordinato sacerdote, fu eletto canonico del capitolo della Cattedrale nella sua diocesi di origine, Osma. Anche se questa nomina poteva rappresentare per lui qualche motivo di prestigio nella Chiesa e nella società, egli non la interpretò come un privilegio personale, né come l’inizio di una brillante carriera ecclesiastica, ma come un servizio da rendere con dedizione e umiltà. Non è forse una tentazione quella della carriera, del potere, una tentazione da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di animazione e di governo nella Chiesa? Lo ricordavo qualche mese fa, durante la consacrazione di alcuni Vescovi: « Non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi. Sappiamo come le cose nella società civile, e, non di rado nella Chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità » (Omelia. Cappella Papale per l’Ordinazione episcopale di cinque Ecc.mi Presuli, 12 Settembre 2009).

Il Vescovo di Osma, che si chiamava Diego, un vero e zelante pastore, notò ben presto le qualità spirituali di Domenico, e volle avvalersi della sua collaborazione. Insieme si recarono nell’Europa del Nord, per compiere missioni diplomatiche affidate loro dal re di Castiglia. Viaggiando, Domenico si rese conto di due enormi sfide per la Chiesa del suo tempo: l’esistenza di popoli non ancora evangelizzati, ai confini settentrionali del continente europeo, e la lacerazione religiosa che indeboliva la vita cristiana nel Sud della Francia, dove l’azione di alcuni gruppi eretici creava disturbo e l’allontanamento dalla verità della fede. L’azione missionaria verso chi non conosce la luce del Vangelo e l’opera di rievangelizzazione delle comunità cristiane divennero così le mète apostoliche che Domenico si propose di perseguire. Fu il Papa, presso il quale il Vescovo Diego e Domenico si recarono per chiedere consiglio, che domandò a quest’ultimo di dedicarsi alla predicazione agli Albigesi, un gruppo eretico che sosteneva una concezione dualistica della realtà, cioè con due principi creatori ugualmente potenti, il Bene e il Male. Questo gruppo, di conseguenza, disprezzava la materia come proveniente dal principio del male, rifiutando anche il matrimonio, fino a negare l’incarnazione di Cristo, i sacramenti nei quali il Signore ci « tocca » tramite la materia, e la risurrezione dei corpi. Gli Albigesi stimavano la vita povera e austera – in questo senso erano anche esemplari – e criticavano la ricchezza del Clero di quel tempo. Domenico accettò con entusiasmo questa missione, che realizzò proprio con l’esempio della sua esistenza povera e austera, con la predicazione del Vangelo e con dibattiti pubblici. A questa missione di predicare la Buona Novella egli dedicò il resto della sua vita. I suoi figli avrebbero realizzato anche gli altri sogni di san Domenico: la missione ad gentes, cioè a coloro che ancora non conoscevano Gesù, e la missione a coloro che vivevano nelle città, soprattutto quelle universitarie, dove le nuove tendenze intellettuali erano una sfida per la fede dei colti.

Questo grande santo ci rammenta che nel cuore della Chiesa deve sempre bruciare un fuoco missionario, il quale spinge incessantemente a portare il primo annuncio del Vangelo e, dove necessario, ad una nuova evangelizzazione: è Cristo, infatti, il bene più prezioso che gli uomini e le donne di ogni tempo e di ogni luogo hanno il diritto di conoscere e di amare! Ed è consolante vedere come anche nella Chiesa di oggi sono tanti – pastori e fedeli laici, membri di antichi ordini religiosi e di nuovi movimenti ecclesiali – che con gioia spendono la loro vita per questo ideale supremo: annunciare e testimoniare il Vangelo!

A Domenico di Guzman si associarono poi altri uomini, attratti dalla stessa aspirazione. In tal modo, progressivamente, dalla prima fondazione di Tolosa, ebbe origine l’Ordine dei Predicatori. Domenico, infatti, in piena obbedienza alle direttive dei Papi del suo tempo, Innocenzo III e Onorio III, adottò l’antica Regola di sant’Agostino, adattandola alle esigenze di vita apostolica, che portavano lui e i suoi compagni a predicare spostandosi da un posto all’altro, ma tornando, poi, ai propri conventi, luoghi di studio, preghiera e vita comunitaria. In particolar modo, Domenico volle dare rilievo a due valori ritenuti indispensabili per il successo della missione evangelizzatrice: la vita comunitaria nella povertà e lo studio.

Anzitutto, Domenico e i Frati Predicatori si presentavano come mendicanti, cioè senza vaste proprietà di terreni da amministrare. Questo elemento li rendeva più disponibili allo studio e alla predicazione itinerante e costituiva una testimonianza concreta per la gente. Il governo interno dei conventi e delle provincie domenicane si strutturò sul sistema di capitoli, che eleggevano i propri Superiori, confermati poi dai Superiori maggiori; un’organizzazione, quindi, che stimolava la vita fraterna e la responsabilità di tutti i membri della comunità, esigendo forti convinzioni personali. La scelta di questo sistema nasceva proprio dal fatto che i Domenicani, come predicatori della verità di Dio, dovevano essere coerenti con ciò che annunciavano. La verità studiata e condivisa nella carità con i fratelli è il fondamento più profondo della gioia. Il beato Giordano di Sassonia dice di san Domenico: « Egli accoglieva ogni uomo nel grande seno della carità e, poiché amava tutti, tutti lo amavano. Si era fatto una legge personale di rallegrarsi con le persone felici e di piangere con coloro che piangevano » (Libellus de principiis Ordinis Praedicatorum autore Iordano de Saxonia, ed. H.C. Scheeben, [Monumenta Historica Sancti Patris Nostri Dominici, Romae, 1935]).

In secondo luogo, Domenico, con un gesto coraggioso, volle che i suoi seguaci acquisissero una solida formazione teologica, e non esitò a inviarli nelle Università del tempo, anche se non pochi ecclesiastici guardavano con diffidenza queste istituzioni culturali. Le Costituzioni dell’Ordine dei Predicatori danno molta importanza allo studio come preparazione all’apostolato. Domenico volle che i suoi Frati vi si dedicassero senza risparmio, con diligenza e pietà; uno studio fondato sull’anima di ogni sapere teologico, cioè sulla Sacra Scrittura, e rispettoso delle domande poste dalla ragione. Lo sviluppo della cultura impone a coloro che svolgono il ministero della Parola, ai vari livelli, di essere ben preparati. Esorto dunque tutti, pastori e laici, a coltivare questa « dimensione culturale » della fede, affinché la bellezza della verità cristiana possa essere meglio compresa e la fede possa essere veramente nutrita, rafforzata e anche difesa. In quest’Anno Sacerdotale, invito i seminaristi e i sacerdoti a stimare il valore spirituale dello studio. La qualità del ministero sacerdotale dipende anche dalla generosità con cui ci si applica allo studio delle verità rivelate.

Domenico, che volle fondare un Ordine religioso di predicatori-teologi, ci rammenta che la teologia ha una dimensione spirituale e pastorale, che arricchisce l’animo e la vita. I sacerdoti, i consacrati e anche tutti i fedeli possono trovare una profonda « gioia interiore » nel contemplare la bellezza della verità che viene da Dio, verità sempre attuale e sempre viva. Il motto dei Frati Predicatori – contemplata aliis tradere – ci aiuta a scoprire, poi, un anelito pastorale nello studio contemplativo di tale verità, per l’esigenza di comunicare agli altri il frutto della propria contemplazione.

Quando Domenico morì nel 1221, a Bologna, la città che lo ha dichiarato patrono, la sua opera aveva già avuto grande successo. L’Ordine dei Predicatori, con l’appoggio della Santa Sede, si era diffuso in molti Paesi dell’Europa a beneficio della Chiesa intera. Domenico fu canonizzato nel 1234, ed è lui stesso che, con la sua santità, ci indica due mezzi indispensabili affinché l’azione apostolica sia incisiva. Anzitutto, la devozione mariana, che egli coltivò con tenerezza e che lasciò come eredità preziosa ai suoi figli spirituali, i quali nella storia della Chiesa hanno avuto il grande merito di diffondere la preghiera del santo Rosario, così cara al popolo cristiano e così ricca di valori evangelici, una vera scuola di fede e di pietà. In secondo luogo, Domenico, che si prese cura di alcuni monasteri femminili in Francia e a Roma, credette fino in fondo al valore della preghiera di intercessione per il successo del lavoro apostolico. Solo in Paradiso comprenderemo quanto la preghiera delle claustrali accompagni efficacemente l’azione apostolica! A ciascuna di esse rivolgo il mio pensiero grato e affettuoso.

Cari fratelli e sorelle, la vita di Domenico di Guzman sproni noi tutti ad essere ferventi nella preghiera, coraggiosi a vivere la fede, profondamente innamorati di Gesù Cristo. Per sua intercessione, chiediamo a Dio di arricchire sempre la Chiesa di autentici predicatori del Vangelo.

[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i Vescovi partecipanti all’incontro internazionale promosso dalla Comunità di sant’Egidio, ed auspico che questi giorni di riflessione e di preghiera siano fruttuosi per il ministero che ciascuno è chiamato a svolgere nella propria Diocesi. Saluto i rappresentanti dell’Unione sportiva « Anagni Calcio » e gli artisti del « Circo Americano », della Famiglia Togni, e li incoraggio ad operare con generoso impegno nei rispettivi ambiti per contribuire a costruire un futuro migliore per tutti.

Desidero, infine, indirizzare il mio pensiero a voi, cari giovani, malati e sposi novelli. Ricorre oggi la memoria liturgica del martire S. Biagio e nei prossimi giorni ricorderemo altri martiri: sant’Agata, S. Paolo Miki e compagni giapponesi. Il coraggio di questi eroici testimoni di Cristo aiuti voi, cari giovani, ad aprire il cuore all’eroismo della santità; sostenga voi, cari malati, ad offrire il dono prezioso della preghiera e della sofferenza per la Chiesa; e dia a voi, cari sposi novelli, la forza di improntare le vostre famiglie ai valori cristiani.

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