Archive pour janvier, 2010

come leggere la Bibbia (stralcio): la voce del Figlio di Dio

dal sito:

http://www.ansdt.it/Testi/SacraScrittura/MattaelMeskin/index.html#13

Matta  el  Meskin

Alla  luce  della  Parola

come  leggere  la  Bibbia (stralcio)

la  voce  del  Figlio  di  Dio

     “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”   (Ap 3,20). Il Signore non solo bussa alla porta del cuore, ma anche chiama le sue pecore per nome, così che possiamo udire e aprire per lasciarlo entrare nelle nostre vite, affinché condivida con noi   le lacrime che sono nostro cibo e condivida poi con noi il suo banchetto nuziale.

     Non abbiamo bisogno di andare alla ricerca di Dio, come se fosse nascosto lontano; in questo modo non faremmo altro che consumarci nella ricerca riflettendo, meditando e andando a investigare nei libri. In ogni momento egli sta davanti a noi, alla porta del nostro cuore e non se ne allontana mai. Colpi della sua mano alla porta sono le sue parole ed egli non cessa mai di bussare, ogni giorno della nostra vita, così che lo spirito può destarsi dal sonno e distinguere la voce dell’Amante.

     Non abbiamo bisogno di ricorrere ad ardenti suppliche, a lacrime e implorazioni commoventi, perché il Signore venga a noi: egli infatti è sempre presente e sta bussando anche in questo momento. E non smetterà, perché vuol entrare nelle nostre vite: è con noi infatti che egli trova riposo; condividere con noi la nostra croce e il buio della nostra notte è la sua gioia più grande, poiché egli ama ancora la croce.

     Siamo noi invece che non diamo il giusto peso alla sua voce, attribuendole erroneamente poca importanza e disprezzandola.

     Maria Maddalena subì la stessa tentazione quando sedette piangendo presso la tomba e credette che il Signore, che stava in piedi davanti a lei, fosse il giardiniere. Allora cominciò a implorarlo di darle il corpo di Gesù per poterlo avvolgere in un lenzuolo. Ma il Signore, non sopportando più a lungo il suo lamento, la chiamò per nome ed ella lo riconobbe immediatamente. Quante volte ce ne stiamo piangenti, guardando lontano verso il cielo, dove pensiamo che il Signore Gesù viva! Egli è presente e sta in piedi davanti a noi e tutto quello che ci impedisce di incontrarlo è la mancanza di percezione del nostro cuore! Quante volte ce ne siamo stati in preghiera davanti a lui, implorandolo di parlarci, sperando che potesse sentirci, ma era tutto inutile! Egli non smette mai di chiamarci per nome, e nulla ci impedisce di ascoltare la sua voce, se non la preoccupazione dei nostri problemi quotidiani.

      L’errore che facciamo è quello di volerlo vedere nel tempo, nel mezzo degli eventi quotidiani che riempiono il nostro vuoto mentale ed emotivo. Ma in realtà il Signore è presente ora al di là di tutte queste cose, al di là del tempo e degli eventi, che egli governa secondo il suo piano sapiente. L’anima vigilante e semplice si accorge del tocco della mano del Signore, che scrive la storia della salvezza di ciascuno attraverso gli anni e la successione degli eventi. I nostri successi e i nostri fallimenti, guidati dall’Altissimo, cooperano positivamente alla nostra salvezza. Le sconfitte materiali non sono sconfitte spirituali; l’afflizione, la tristezza, la pena e la malattia sono il linguaggio della divina provvidenza, il suo codice segreto, che una volta decifrato nello Spirito, si traduce in risurrezione, gioia e gloria eterna.

     L’altro errore che commettiamo è che vogliamo ascoltare la voce del Figlio di Dio con il nostro orecchio fisico e sentirla parlare un linguaggio umano con la voce di un uomo: ma la voce del Figlio di Dio non può avere questi limiti! Essa è una potenza che trasporta l’anima, la fa risorgere e la ristora; è una profonda, incommensurabile pace, è quiete e consolazione; è la vita stessa nel suo sconfinato respiro e nella sua altezza. Dove trovare allora le parole per esprimere il suo linguaggio e la sua voce?

     Dio parla e ogni uomo sulla faccia della terra può ascoltare la sua voce, comprendere e rispondere, come se fosse chiamato personalmente per nome. La sua voce è la voce di tutte le età, non si affievolisce né muore allo spirare della brezza, né si smorza, né ritorna a lui vuota. E verrà l’ora in cui egli chiamerà e l’intera creazione risusciterà da morte.

     “Se uno ascolta la mia voce…”.  Ma nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio se non chi si è innalzato nello spirito al livello in cui Dio può guidarlo e chiamarlo, il livello del regno e della vita con Dio, il livello cioè al di sopra degli eventi quotidiani. Qui può ricevere da Dio l’istruzione per la sua vita e un piano per la sua salvezza e questo proprio attraverso gli eventi quotidiani, addirittura servendosene. Nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio, se non chi apre il proprio cuore e la propria mente per comprendere il suo linguaggio. E le parole e i toni di questo linguaggio sono fatti di amore, tenerezza, pace, mitezza e continua attenzione paterna, per quanto dure possano apparire la vita e le sue condizioni.

     Se il vostro orecchio è così addestrato spiritualmente da comprendere i simboli del messaggio divino come si manifestano negli eventi temporali, quando leggerete le parole sentirete la mano di Dio che bussa alla porta. Egli a volte busserà alla porta con delicatezza, a volte forte, e voi ascolterete la sua voce nel clamore e nelle tempeste così come nella brezza leggera. Egli vi chiama perché gli apriate la porta, perché riceviate da lui il mistero del suo banchetto nuziale, dopo aver condiviso il pane delle vostre lacrime.

     Il Signore è vicino. Egli è umile e la sua voce sommessa, più sommessa di quella dell’uomo, ma profonda, più profonda dell’eternità stessa.

Publié dans:biblica |on 22 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

di Gianfranco Ravasi : Aggancia l’aratro a una stella

dal sito:

http://www.srmedia.org/Home/News2009/Newsfebbraio2009/AggancialaratroaunastellaMonsRavasi/tabid/381/Default.aspx

Aggancia l’aratro a una stella  

da L’Osservatore Romano, 26 febbraio 2009

Il cielo tra fisica e metafisica nella storia della letteratura

di Gianfranco Ravasi

Anche chi non mette piede in una chiesa dall’adolescenza conserva intatta l’eco della più celebre preghiera cristiana:  « Padre nostro che sei nei cieli » e, se ha una buona memoria dei suoi studi superiori, riesce persino a evocare la parafrasi dantesca:  « O Padre nostro, che ne’ cieli stai, / non circunscritto, ma per più amore » (Purgatorio XI, 1-2), pur condividendo forse nella sua concezione la trasformazione quasi blasfema di quelle parole operata da Prévert:  « Padre nostro, che sei nei cieli, restaci! ». Partendo proprio dall’invocazione rivolta al Padre che è nei cieli, sarebbe possibile disegnare una mappa celeste secondo la Bibbia, una mappa un po’ realistica (sia pure con la scienza di allora), ma soprattutto molto « teologica ». Noi ora molto liberamente, quasi attraverso un divertissement simbolico, vorremmo invece evocare ora il cielo « letterario ».

Lo facciamo in questo « anno dell’astronomia » che lo stesso Benedetto XVI ha idealmente inaugurato lo scorso 21 dicembre 2008, quando ha invitato, durante l’Angelus domenicale, i suoi ascoltatori a scoprire la meridiana che si distendeva sotto i loro piedi in piazza San Pietro e che aveva per gnomone l’obelisco centrale. Il cielo è un simbolo archetipico e lo è nel senso stretto del termine, perché « mette insieme » (syn-ballein) sia la fisica coi suoi sistemi stellari, gli spazi, le « meccaniche » astrali, sia la metafisica che nel cielo legge metafore poetiche, allegorie spirituali, fantasie astrologiche, segni teologici. Da un lato, c’è ad esempio il telescopio della Specola Vaticana collocato sui monti dell’Arizona col suo occhio fisso negli spazi siderali e, d’altro lato, c’è quell’indimenticabile suggello della Critica della ragion pratica di Kant:  « Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e a lungo il pensiero vi si sofferma:  il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me (der bestirnte Himmel über mir und das moralische Gesetz in mir) ».

 Un suggestivo proverbio africano swahili afferma che « si deve agganciare l’aratro a una stella », perché il reale abbia un senso più alto, e la stessa concezione era affiorata, secoli prima, in Plinio il Vecchio quando annotava:  « Ho visto di notte, durante i turni di guardia dei soldati, attaccarsi alla punta delle lance un luccichio di stelle ». Ebbene, fu proprio questo erudito latino, travolto nell’eruzione del Vesuvio dell’agosto 79 dell’era cristiana, a lasciare una straordinaria rappresentazione della volta celeste, miscelando fisica e metafisica, nei centotredici capitoli del ii libro della Naturalis historia, la sua monumentale enciclopedia dagli oltre ventimila argomenti, come egli stesso dichiarava. La sua è, quindi, prima di tutto una geografia celeste sulla scia del « penetrante ingegno » di Pitagora. Il cielo è visto come un globo « nella cui curvatura si raccoglie ogni vita », oltre il quale si piomba nel nulla e che quindi non conosce un oltre, mentre il suo interno è retto da una « rivoluzione eterna e instancabile ». Plinio dedica minuziose analisi alle « apsidi » o cerchi celesti, confessa che il lavoro intrapreso dall’astronomo greco Ipparco (ii secolo prima dell’era cristiana) di « enumerare le stelle è un’impresa disperata anche per un dio », verifica le eclissi, prosaicamente ci ricorda che l’arcobaleno è una miscela di nubi, fuoco e aria, elenca ben undici tipi di folgori, analizza i sistemi dei venti, dei tuoni, dei tifoni, dei turbini, degli uragani, fonda la « teoria delle apparizioni e delle scomparse dei pianeti, resa intricata dal loro movimento e ammantata di tante meraviglie », e così via.
Eppure il suo non è mai l’occhio frigido e asettico di un telescopio o di un computer stellare. Ogni dato scientifico viene trasfigurato poeticamente e non solo per l’inevitabile mistura, allora scontata, tra mito e scienza. Lo studioso comasco, infatti, sempre seguendo Pitagora, è convinto che la misura sia armonia. Lo spazio tra cielo e terra è attraversato da mille flussi misteriosi e verso la cappa del cielo sale il respiro dell’umanità con le sue vicende amare e gloriose. La luna è « polimorfa » ed è cantata anche nella sua bellezza, come lo sono anche le « stelle chiomate », le comete, strani araldi di destini; la volta celeste è punteggiata da fiaccole, lampade, bolidi, archi, anelli, scudi, scintille e travi luminose. Dal cielo non piove solo acqua, ma anche latte, sangue, carne, sassi, ferro, lana, mattoni cotti; e l’intreccio di tali fantasie con la registrazione scientifica è impassibilmente salvato da Plinio con la puntuale indicazione delle coordinate geografico-cronologiche in cui sarebbero avvenuti simili fenomeni. Il vento è una specie di respiro cosmico, la policromia dei pianeti incanta, le eclissi atterriscono, le nubi, simili a « vesciche gonfie », quando generano gli uragani si raccolgono in « masse nebbiose come belve, triste apparizione per chi naviga ».

Alle spalle di Plinio c’era già tutta la mitologia astrale, quella che aveva visto in Urano, il « Cielo » in greco, un dio sposo di Gea, la « Terra », che aveva relegato Zeus sulla vetta dell’Olimpo immersa nei cieli e aveva introdotto il gigante Atlante che sorreggeva sulle sue spalle l’emisfero celeste chálkeos (« bronzeo »), sidéreos (« ferreo ») e asteróeis (« stellato »). Ma vorremmo soprattutto rimandare all’ignoto autore del frammento orfico numero 17. Secondo la dottrina di questo movimento religioso e filosofico dalla genesi oscura, l’universo nasce da un colossale uovo primordiale infranto. Ebbene, la volta celeste è una metà di quel guscio spezzato, la cui umidità feconda continua a far germogliare la vita e a far scendere l’acqua, come l’altra metà è la superficie fertile della terra. L’antico autore mistico di quel frammento proclamava:  « Sono figlio della terra e del cielo stellato:  in verità sono di stirpe celeste ». E la grande sfida del rituale misterico orfico era proprio quella di ricreare e conservare questa unità intima tra cielo e terra, riproducendo la compattezza primordiale dell’uovo cosmico. In aperta polemica con questa concezione dell’orfismo, il Corpus Hermeticum introduceva una netta separazione tra cielo e terra, così che « nessuno degli dei celesti, lasciata la frontiera del cielo, scenderà sulla terra », perché « non c’è niente in comune tra le cose del cielo e quelle della terra » (X, 25).

Fermiamoci qui con l’antichità classica, escludendo intenzionalmente non solo le grandi cosmologie semitiche, ma anche – come sopra dicevamo – l’orizzonte fisico e simbolico celeste disegnato dalle Sacre Scritture bibliche. Andiamo oltre anche la riflessione patristica o la cultura bizantina e approdiamo al cielo medievale, ormai popolato di angeli, protesi verso la Trinità beata, un cielo la cui ianua o « porta » è Maria, regina caeli. Si leva qui subito la voce di san Francesco col suo Cantico delle creature, ove s’intrecciano lode e contemplazione, benedizione e descrizione:  « Laudato si, mi Signore, per sora luna e le stelle, / in celu l’ai formate clarite et pretiose et belle » (versi 10-11). Accanto al Santo di Assisi, ecco la voce che tutte sovrasta, Dante, che ben conosce e s’appassiona per la scienza cosmologica del tempo, adottando la planimetria celeste a nove sfere, ma la trasfigura in poesia suprema. Si pensi solo alla descrizione del sorgere del sole all’aurora, mentre « dentro una nuvola di fiori » appare Beatrice:  « Io vidi già nel cominciar del giorno / la parte oriental tutta rosata, / e l’altro ciel di bel sereno adorno; / e la faccia del sol nascere ombrata, / sì che, per temperanza di vapori / l’occhio la sostenea lunga fiata » (Purgatorio XXX, 22-27). Ogni commento risulterebbe impacciato e stonato.

Dante, ci dicono le aride statistiche, usa centosettantadue volte il vocabolo « cielo »:  il computer puntigliosamente elenca centosei « ciel », sessantadue « cielo » e quattro « cieli ». Ebbene, cercando in questo flusso di occorrenze ci si accorge che anche per lui, come per ogni altro poeta, la descrizione trapassa in simbologia, la fisica si fa sacra. Vorremmo solo citare due esempi di chiara impronta teologica. Scendiamo, allora, con lui nel Purgatorio, alla seconda cornice, quella degli invidiosi, nella quale ci si incrocia con il nobile romagnolo di Bertinoro Guido del Duca che, insieme a Rinieri da Calboli, intesse con l’Alighieri un fitto dialogo politico sulla situazione storica della Toscana e della Romagna. Le ultime parole di Guido del Duca assurgono al tono di una lezione morale universale:  « Chiàmavi il cielo e intorno vi si gira, / mostrandovi le sue bellezze etterne, / e l’occhio vostro pur a terra mira; / onde vi batte Chi tutto discerne » (XIV, 148-151). La cosmologia diventa parabola di verità etiche:  le « bellezze etterne », cioè le stelle, e le meccaniche celesti sono un appello divino alle « cose di lassù », per usare una nota locuzione teologica paolina (Colossesi 3, 2), mentre l’uomo si fissa rapacemente più sulle « cose della terra », sulle quali pure si stende il manto dello sguardo onnipresente di Dio. Un appello che in Dante si fa drammatico e vigoroso nel secondo esempio che vorremmo citare, quando sulle labbra di Caronte, il nocchiero infernale, esplode quell’imprecazione contro i dannati:  « Guai a voi, anime prave! / Non isperate mai veder lo cielo » (Inferno III, 84-85).

Con un altro salto di secoli, giungiamo nel passato più vicino a noi, superando pagine straordinarie, come quella dei Pensieri in cui Pascal s’affaccia, tra il costernato e lo stupito, sugli immensi spazi siderali, sentendosi come uomo creatura esile e fragile, eppur gloriosa (numero 348, edizioni Brunschvicg). Il cielo continua a recare iscritta in sé una lezione morale, filosofica e teologica, anche quando è vuoto di divinità, come sembra supporre Mallarmé nella sua lirica Azzurro (1866); eppure il poeta francese nei cieli scopre una « serena ironia » nei confronti delle creature umane sottostanti e delle loro follie. Il cielo emana, però, un vero e proprio messaggio (chi non ricorda il Salmo 19 ove « i cieli narrano la gloria di Dio »?) nell’Inno alla notte di Lamartine (1830):  « Sono belli all’occhio della speranza, / questi campi del firmamento, ombreggiati dalla notte. / Mio Dio, in questi deserti il mio occhio scopre e segue / i miracoli della tua Presenza! / Questi cori scintillanti, che il tuo dito solo conduce, / (…) io li comprendo, o Signore! Tutto canta, tutto m’istruisce (…) / E io, per lodarti, Dio dei soli, che cosa sono? / Atomo nell’immensità, / minuto nell’eternità, / ombra che passa e che non è più (…) / L’uomo è niente, mio Dio; ma questo niente ti adora (…) / Sì, in questi campi d’azzurro, che il tuo splendore inonda (…) / e in cui tu vegli su di me ».

A questa contemplazione invitano costantemente gli scrittori perché, come scriveva già Baldesar Castiglione nel suo Libro del cortegiano (1528), « la machina del mondo, che noi veggiamo nell’amplo cielo di chiare stelle tanto splendido e nel mezzo la terra di mari cinta, (…) dir si po’ che una nobile e gran pittura sia ». Quante righe sono state dedicate all’ »armoniosa poesia notturna de’ cieli estivi » (D’Annunzio)! L’uomo è rimasto incantato di fronte al cielo « oscurissimo di nuvoli e di buia notte », come annotava nel Decameron (II, 7, 11) Boccaccio, oppure si è atterrito davanti al cielo attraversato dal furore d’una tempesta:  « Et ecco che un’altra volta che ‘l ciel tuona / da un’altra parte, e tutto arde de lampi, / sì che ogni speme i miseri abbandona / di poter frutto cor de li lor campi », scriveva Ariosto nel secondo dei suoi Cinque canti (versi 3-5). O ancora l’uomo si è fermato stupito davanti a un cielo striato da bave di vento e di nubi, come quello dipinto da Pavese nella Luna e i falò:  « C’erano in cielo delle lunghe strisce di vento, bave bianche, che parevano la colata che si vede di notte nel buio dietro le stelle ». Un cielo che può diventare limpidissimo, spazzato dal vento, nel quale si muovono le geometrie dei voli degli uccelli, come cantava Leopardi nell’indimenticabile Passero solitario:  « Odi greggi belar, muggire armenti; / gli altri augelli contenti, a gara insieme / per lo libero ciel fan mille giri, / pur festeggiando il loro tempo migliore ». E, alla fine, ecco le parole quasi abbacinate di Pascoli in Italy dei Primi poemetti (II, 13):  « Cielo, e non altro, cielo alto e profondo, / cielo deserto. O patria delle stelle! ».
 Tutti i cantori del cielo ripetono, quindi, la stessa intuizione:  la volta stellata è, sì, un mirabile orizzonte astrofisico, ma è soprattutto una parabola di verità eterne, di contemplazioni sacre, di emozioni trascendenti. Il « cielo di luce » (De Sanctis), il « cielo sognante » (Cardarelli), il « cielo di dolore » (Gadda), il « cielo della memoria » (Tecchi), il « cielo dai tanti occhi » e il « cielo d’amore » (Tasso), il « cielo empireo » (Iacopone) e così via in un’interminabile litania poetica, si rivela come un segno mutevole in cui si rispecchia il mistero del divino e dell’umano. Lo stesso lessico comune vi ha attinto con una fantasia sfrenata, passando dalla rilevazione immediata (cielo plumbeo, cielo di cobalto, cielo cristallino, cielo a pecorelle) fino alle più disparate metafore e locuzioni:  O cielo! Apriti, cielo! Santo cielo! Caschi il cielo! Che il ciel m’aiuti! Il cielo me la mandi buona! (è già don Abbondio a dirlo), per amor del cielo, grazie al cielo, toccare il cielo con un dito, raglio d’asino non arriva in cielo, levare gli occhi / mani / braccia al cielo, non sta né in cielo né in terra, non vedere cielo (per il carcerato), chiamare a testimone il cielo, essere al terzo cielo – quello di Venere e quello estatico di Paolo nella seconda lettera ai Corinzi (12, 2) – o al settimo cielo (quello di Saturno, popolato secondo Dante dai mistici eremiti come san Pier Damiani e san Benedetto), la patria celeste, le voci celesti o celestiali, la musica o l’armonia celeste, la via del cielo, i pensieri di cielo, un uomo mandato dal cielo, a cielo aperto, lo sa il cielo se, volesse il cielo!
La pur lunga nostra esplorazione è stata solo una semplificazione indicativa su un simbolo capitale che unisce in sé serena meditazione (chi non ricorda il manzoniano « cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace »?) e ansia, costernazione, panico. A conclusione di questo itinerario nel cielo « spacio immenso, seno, continente universale, eterea regione per la quale il tutto discorre e si muove », come scriveva Giordano Bruno in uno dei suoi Dialoghi italiani (De l’infinito universo e mondi), vorremmo riservare un cenno alla musica. Non si dimentichi, infatti, che per la stessa Bibbia la creazione del cielo e della terra fiorisce da un evento sonoro:  « Dio disse:  sia la luce! E la luce fu » (Genesi, 1, 3). « Sia un firmamento. E così avvenne » (Genesi, 1, 6) e « Dio chiamò il firmamento cielo » (Genesi, 1, 8). « In principio c’è la Parola », ripete san Giovanni (1, 1). I Rig-Veda, scrittura sacra indiana, concepivano la creazione come lo sbocciare di una cellula sonora primordiale, che poi germogliava nell’armonia delle sfere celesti e nelle realtà terrestri fino a cristallizzarsi nel canto dell’uomo. La musica vivrà spesso della sfida di catturare l’harmonia mundi, cioè l’armonia emessa dalle sfere celesti, dall’incessante circolazione dei quattro elementi cosmici e dall’alternarsi ciclico delle stagioni. È quella che Severino Boezio, nel vi secolo, nel suo De institutione musicae, chiamava la « musica mundana »; è ciò che alcuni ritengono sia sottesa alla perfezione geometrica e alla creatività libera della musica di Bach.

In questa luce è spontaneo ricorrere allo stupendo oratorio La creazione di Haydn (1798), con la sua prodigiosa nascita di un celestiale e solare do maggiore dal caos di una modulazione infinita. Potremmo, invece, rimandare chi ama una trasparenza più immediata ai quadri sonori del temporale e della successiva pastorale – in cui si placano nel cielo rasserenato gli spiriti della tempesta -, quadri a tutti noti, tratti dalla Sesta sinfonia in fa maggiore di Beethoven (1808). Ma ancor più tesa in questo sforzo di conquista della sonorità cosmica è la Sagra della primavera di Stravinskij (1913), dove le sette note della scala, avvinghiate nella sintesi di tutti i loro accordi possibili, percuotono dal cielo la terra per ridestarne l’impulso vitale e popolarne di vita la superficie. È la sfida di Wagner ed è la ricerca di Schönberg, ossessionati dall’idea di racchiudere in battute il risveglio dell’universo e soprattutto di dare un corpo musicale alle leggi dei cieli. E se Mahler ha ricreato il Canto della terra (1908) e Debussy La mer (1905) con i suoi giuochi d’onde e i dialoghi tra vento e mare, il musicista inglese di origine svedese Gustav Holst (1874-1934) ha interrogato esplicitamente il cielo nella sua suite sinfonica I pianeti (1916), in cui astrologia ed echi indiani tratti dai citati Rig-Veda ispirano gli effetti ora possenti ora misteriosi ora disincarnati che i singoli pianeti emettono in onde sonore. Un’altra partitura dello stesso autore per contralto solo, coro e orchestra, The cloud messenger (1913), cercherà invece di catturare il dialogo e il messaggio delle nubi in cielo, affacciate sul teatro del mondo. Sì, aveva ragione il poeta inglese John Dryden (1631-1700) quando nel suo Canto per il giorno di santa Cecilia affermava:  « Dalla celeste armonia / è uscito il piano divino. / Di armonia in armonia, / percorre tutta la gamma / e si chiude in un accordo perfetto sull’uomo ». 

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è veramente bello vero?

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Catechismo della Chiesa cattolica: «Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare«

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100122

Venerdì della II settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 3,13-19
Meditazione del giorno
Catechismo della Chiesa cattolica
 

«Ne costituì Dodici che stessero con lui  e anche per mandarli a predicare«

        Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati ed arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4), cioè di Gesù Cristo. È necessario perciò che il Cristo sia annunciato a tutti i popoli e a tutti gli uomini e che in tal modo la Rivelazione arrivi fino ai confini del mondo… «Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta la Rivelazione del sommo Dio, ordinò agli Apostoli di predicare a tutti, comunicando loro i doni divini, come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, il Vangelo che, prima promesso per mezzo dei profeti, Egli ha adempiuto e promulgato di sua bocca» [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 7].

        La trasmissione del Vangelo, secondo il comando del Signore, è stata fatta in due modi: oralmente, «dagli Apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca, dal vivere insieme e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito Santo»; e per iscritto, «da quegli Apostoli e uomini della loro cerchia, i quali, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, misero in iscritto l’annunzio della della salvezza» [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 7].

        «Affinché il Vangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, gli Apostoli lasciarono come successori i vescovi, ad essi affidando il loro proprio compito di magistero» [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 7]. Infatti, «la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva essere conservata con successione continua fino alla fine dei tempi» [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 7]. Questa trasmissione viva, compiuta nello Spirito Santo, è chiamata Tradizione, in quanto è distinta dalla Sacra Scrittura, sebbene ad essa strettamente legata. Per suo tramite «la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni, tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 7]. «Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega» [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 7]. In tal modo la comunicazione, che il Padre ha fatto di sé mediante il suo Verbo nello Spirito Santo, rimane presente e operante nella Chiesa

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Andrea di Bartolo – Madonna della Misericordia

Andrea di Bartolo -  Madonna della Misericordia  dans immagini sacre madonna-della-misericordia-483-mid

http://www.aiwaz.net/panopticon/madonna-della-misericordia/gi483c63

Publié dans:immagini sacre |on 21 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo

dal sito:

http://www.natidallospirito.com/2008/09/12/nessuno-puo-porre-un-fondamento-diverso-da-quello-che-gia-vi-si-trova-che-e-gesu-cristo/

Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo

Un re non rimane in una casa svuotata di tutti i suoi beni; non vi abita. Il re necessita di tutto un apparato degno di lui, cosicché egli non manchi di nulla… Così è dell’uomo diventato dimora per Cristo-Messia: provvede a quanto conviene al servizio del Messia che abita in lui, a quanto gli piace.

Infatti, costui costruisce prima il suo edificio sulla pietra, cioè sullo stesso Messia. Su questa pietra è posata la fede, e sulla fede si innalza tutto l’edificio. Perché la casa diventi la sua dimora, gli viene chiesto il digiuno puro, stabilito sulla fede. Gli viene chiesto la preghiera pura ricevuta nella fede. Necessita dell’amore, innalzatosi sulla fede. Ha bisogno anche dell’elemosina data con fede. Che domandi l’umiltà, amata con fede. Che scelga per lui la verginità, amata teneramente nella fede. Che coltivi in sè la santità, piantata sulla fede. Che mediti anche la sapienza, trovata nella fede. Domandi anche per lui la condizione di straniero, utile nella fede. Gli occorrerà anche la semplicità, unita alla fede. Domandi ancora la pazienza, che è compiuta dalla fede. Si renda perspicace mediante la mitezza, acquisita dalla fede. Ami la penitenza, che si mostra alla fede. Domandi anche la purezza, custodita dalla fede… Queste sono le opere richieste dal re Messia, che abita negli uomini che costruiscono se stessi con tali opere. La fede infatti è composta di molte cose e si adorna di molti colori, perché è simile a un edificio costruito con materiali molteplici e il suo edificio si innalza fino in alto…

Così è della nostra fede: il suo fondamento è la vera pietra, cioè il nostro Signore Gesù il Messia… Questo fondamento è la base di tutto l’edificio. Se uno giunge alla fede, è posato sulla roccia, cioè sul nostro Signore Gesù il Messia. E il suo edificio non sarà scosso dai flutti, né danneggiato dai venti, né vacillerà nelle tempeste, perché questo edificio si innalza sopra la roccia, il vero fondamento.

Sant’Afraate (+ 345), monaco e vescovo a Nìnive

Nel grembo della Madre la sapienza del Padre

dal sito:

http://www.sanpaolo.org/madre/0712md/0712md16.htm

Celebrando il Signore lodiamo Maria

 di SERGIO GASPARI
 
Nel grembo della Madre la sapienza del Padre
  

L’assemblea liturgica è il luogo normale dell’ »apparizione » della Vergine, e i suoi « segreti » sono già tutti nel Nuovo Testamento, particolarmente nei Vangeli e nella tradizione viva della Chiesa.
 

In un nostro precedente intervento ci chiedevamo in riferimento alla pietà popolare mariana: «Dove appare la Madonna?». Quali sono i veri « segreti » rivelati ai veggenti? La risposta era: la Vergine Maria, la vera Madre del Redentore, « appare » nella Bibbia, nei Vangeli, e dimora nella comunità dei credenti che celebra il Signore. Secondo gli Atti degli Apostoli la troviamo nel cenacolo di Gerusalemme, al centro della nuova comunità pasquale del Figlio risorto (1,14). Ivi ella è mostrata quale discepola orante tra i discepoli «assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42).

Casa di Maria è la Chiesa di Cristo

Maria sta all’origine della Chiesa come suo mirabile esordio e Madre premurosa che porge il Figlio ai primi credenti. Nel vangelo di Matteo leggiamo: i Magi «entrati nella casa videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono» (Mt 2,11).

In questo contesto si spiega una celebre espressione di Cromazio di Aquileia: «La Chiesa di Cristo è la casa di Maria», ossia la Vergine è presente nella sua casa, la Chiesa del Signore, come Mater familias, «Madre della famiglia di Dio» fin dai suoi primi albori.

Adorazione dei Magi di Altichiero da Zevio (Padova, Oratorio di San Giorgio, 1380).

Discepola attenta e madre vigile, la Vergine sta nello sviluppo della Chiesa come segno della divina presenza del Salvatore. Alle nozze di Cana nell’esortazione ai servi: «Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5), già nella veste di Madre pasquale, Maria esorta a obbedire alla Parola che salva (cf Gv 6,68). Anticipa così profeticamente il mandato pasquale di Gesù Maestro: «Fate questo in memoria di me!» (Lc 19,22;1 Cor 11,24-25).

Per questo il convito nuziale dell’Eucaristia porta indelebilmente l’impronta e il profumo dell’intervento materno della Vergine, che ottiene il vino-sangue della nuova ed eterna alleanza. E nel tempo della Chiesa la sua funzione è quella di predisporre il cuore dei credenti a celebrare il memoriale eucaristico del Figlio, perché venga, e fino a che non sia venuto definitivamente (1 Cor 11,26; Ap 22,17.20).

Maria sta nella vita storica della Chiesa come segno della speranza escatologica, nell’attesa orante della piena manifestazione della gloria divina dell’Emmanuele. Nella Bolla di indizione del grande giubileo del 2000, Incarnationis mysterium (1998), Giovanni Paolo II rilevava: «Da duemila anni, la Chiesa è la culla in cui Maria depone Gesù e lo affida all’adorazione e alla contemplazione di tutti i popoli» (n. 11). Solo dalla Madre la Chiesa può ricevere il Salvatore. Non invano un antico detto recita: «In gremio Matris sedet Sapientia Patris», Cristo Sapienza del Padre risiede nel grembo della Madre. Su questo altare unico e privilegiato, che è la Madre santa, la Chiesa ogni giorno offre a Dio Padre il sacrificio eucaristico.

Ma ora ci domandiamo: nella celebrazione del Signore, come si manifesta la presenza materna di Maria, e in che modo viene onorata? La risposta ci viene dal concilio Vaticano II: «Nella celebrazione del ciclo annuale dei misteri di Cristo, la santa Chiesa venera con particolare amore Maria Santissima Madre di Dio, congiunta indissolubilmente con l’opera della salvezza del Figlio suo» (Sacrosanctum Concilium 103; cf Lumen gentium 53; 57).

Allora va ribadito il seguente principio teologico, secondo cui la Vergine va compresa in Cristo: «Cerca di capire il Figlio, se vuoi comprendere la Madre. Ella è la degna Madre di Dio!», afferma il noto apostolo mariano san Luigi Maria di Montfort (Trattato della vera devozione a Maria, n. 12).

In quanto trono, ostensorio e altare della Sapienza incarnata, la Madre mostra il Figlio; non di meno il Figlio rivela la Madre ai credenti particolarmente nella celebrazione dell’anno liturgico.

L’esempio più eloquente di queste affermazioni ci viene dal ciclo di Avvento e Natale. Tempo in cui la memoria della Vergine Madre è molto antica e per di più è inserita organicamente nel tessuto dell’anno liturgico (cf Marialis cultus 4). Nel porre in rilievo la sua cooperazione alla salvezza del Figlio, la liturgia di questo tempo può esser considerata come « spazio sacramentale » per la memoria della Vergine. Vediamo le singole feste.

Feste e memorie di Maria in Avvento-Natale

L’Immacolata Concezione (8 dicembre). Nel primo periodo dell’Avvento (dalla prima domenica fino al 16 dicembre incluso) spicca maestosa e centrale la solennità dell’Immacolata Concezione. Con il concepimento della Vergine, esempio luminoso per i credenti, l’attesa d’Israele raggiunge il suo culmine: «Si compiono i tempi e si instaura una nuova economia» (LG 55). La Vergine Immacolata si presenta come «radicale preparazione alla venuta del Salvatore e felice esordio della Chiesa senza macchia e senza ruga» (MC 3). Fin dal principio della redenzione, e prima ancora della venuta storica del Salvatore, ella realizza in sé la santificazione della Chiesa (cf colletta e prefazio della messa).

La Santa Famiglia di El Greco (1594-1604); sono presenti sant’Anna e il piccolo Giovanni il Battista.

Settimana mariana prenatalizia. La settimana che prepara al Natale (17-24 dicembre) è piena della presenza della Madre del Signore: i testi liturgici si riferiscono esplicitamente a lei presentandola quasi come la protagonista del mistero celebrato (cf ad esempio i prefazi II, II/A di Avvento e le collette della messa del 17, 19 e 23 dicembre). Per la loro rilevante accentuazione di riferimenti mariani, queste ferie possono esser ben dette i « giorni mariani dell’Avvento ». Questo è riscontrabile sia nelle preghiere della messa e liturgia delle ore che nelle letture bibliche, soprattutto le pericopi evangeliche.

La feria del 20 dicembre (l’annuncio a Maria). Nel Medioevo questa celebrazione era detta Missa aurea Beatae Mariae. È l’annunciazione mariana dell’Avvento, che assume un’importanza centrale, anche se non è qualificata con il titolo di festa della Vergine (la colletta del 20 dicembre è forse una delle più belle preghiere liturgiche in onore di Maria).

La Domenica mariana pre-natalizia. La IV domenica di Avvento (la VI per il rito ambrosiano) è domenica mariana. Ristrutturata nei suoi tre cicli, oggi il Lezionario e le preghiere della Chiesa evidenziano l’ »emergenza mariana » delle celebrazioni di rito romano.

La domenica mariana post-natalizia. Tra il Natale e il 1o gennaio si celebra la festa della Santa Famiglia di Nazaret: in essa Maria con san Giuseppe occupa un posto di primaria importanza. Così la solennità di Natale è come incastonata tra due settimane mariane, che sono una continua contemplazione della Vergine. Il rito bizantino al 26 dicembre riserva come post-festa del Natale una sinassi (assemblea liturgica) in onore della maternità divina, popolarmente detta Festa delle congratulazioni, o degli auguri alla santa Theotokos.

La Maternità divina (1° gennaio). Protagonista indiscussa nella nascita del Signore, Maria è ricordata durante l’ottava di Natale, e in particolar modo nella solennità del 1o gennaio: Maria Santissima Madre di Dio, giustamente ritenuta la più antica memoria mariana della Chiesa di Roma. Giorno in cui la liturgia « magnifica » la Vergine quale Madre divina di Cristo e Madre della Chiesa. Elevata al grado di solennità, la festa della maternità divina vuole essere un sentito ossequio alla Madre nell’ottava della celebrazione liturgica della nascita del Figlio, per professare apertamente il dogma della maternità divina e invocare da lei, Regina della pace divina, il dono supremo della pace.

Ecco perché il cardinale Ratzinger, ora Benedetto XVI, nel 1987 scriveva: «Celebrare l’Avvento significa divenire mariani, unirsi al sì di Maria, che è continuamente lo spazio della nascita di Dio». E nel 1995, riferendosi al Natale, specificava: «Senza Maria l’ingresso di Dio nella storia non giungerebbe al suo fine [...]. Così Maria [...] è collocata nel punto centrale della confessione del Dio vivente, il quale non può essere pensato senza di lei». Si comprende perché il magistero della Chiesa spesso ribadisca che è necessario adottare uno stile mariano di vita e di preghiera.

Sergio Gaspari 

Publié dans:Maria Vergine |on 21 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

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http://animalphotos.info/a/topics/animals/birds/mandarin_duck/

Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 21 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

Sant’Efrem Siro: « Una gran folla, sentendo ciò che faceva, si recò da lui »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php

Giovedì della II settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 3,7-12
Meditazione del giorno
Sant’Efrem Siro (circa 306-373), diacono in Siria, dottore della Chiesa
Diatèssaron, preghiera finale ; SC 12, 404

« Una gran folla, sentendo ciò che faceva, si recò da lui »

O misericordie, elargite e dispensate su tutti gli uomini. Esse dimorano in te, Signore, che nella tua compassione per tutti gli uomini sei andato loro incontro. Con la tua morte, hai aperto loro i tesori delle tue misericordie… Il tuo essere profondo infatti è nascosto alla vista degli uomini, ma abbozzato nei loro minimi movimenti. Le tue opere ci procurano lo schizzo del loro Autore, e le creature ci indicano il loro Creatore (Sap 13,1 ; Rm 1,20), perché noi potessimo toccare colui che si sottrae alla ricerca intellettuale, ma si lascia vedere nei suoi doni. È difficile giungere ad essergli presenti faccia a faccia, ma è facile avvicinarsi a lui.

Le nostre azioni di grazie non bastano, ma ti adoriamo in ogni cosa per il tuo amore verso tutti gli uomini. Tu distingui ognuno di noi, nel fondo del nostro essere invisibile, mentre siamo tutti uniti fondamentalmente mediante l’unica natura di Adamo… Adoriamo te, che hai posto ognuno di noi in questo mondo, che ci hai affidato tutto ciò che vi si trova, e che ce ne separerai, nell’ora che non conosciamo. Adoriamo te, che hai messo la parola sulla nostra bocca perché potessimo presentarti le nostre richieste. Ti acclama Adamo, che riposa nella pace, e anche noi che siamo la sua posterità, perché siamo tutti beneficiari della tua grazia. I venti ti lodano,… la terra ti loda,… i mari ti lodano,… gli alberi ti lodano,… anche le piante e i fiori ti benedicono… Tutte le cose si raccolgano e uniscano la loro voce per lodarti, rivaleggiando in azioni di grazie per tutte le tue bontà, e unite nella pace per benedirti ; tutte le cose alzino insieme per te un’opera di lode.

Spetta a noi tendere verso di te ogni nostra volontà, e spetta a te riversare su di noi un po’ della tua pienezza, perché la tua verità ci converta e così scompaia la nostra debolezza che, senza la tua grazia, non può giungere a te, Maestro di ogni dono.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 21 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

Madonna delle Lacrime

Madonna delle Lacrime dans immagini sacre e testo Madonna%20delle%20Lacrime%20%20%20Dongo

Madonna delle Lacrime

venerata nel Santuario di Dongo

Como

La Sacra effige ha lacrimato il 6 settembre 1553. Affidata ai Frati Minori francescani il 5 aprile 1614. Incoronata dal Beato Ildefonso Schuster Arcivescovo Cardinale di Milano il 21 ottobre 1945. Pregata dal Beato Don Luigi Guanella di Fraciscio, fondatore delle Figlie di S. Maria della Provvidenza e dei Servi della Carità. Dalla Beata Chiara Bosatta di Pianello Lario, fiore delle suddette Figlie. Dal Beato enrico Rebuschini, Camilliano di Dongo.

http://www.immaginidimaria.it/ITALIA/Piemonte/MadonnadelleLacrimeComo.htm

Publié dans:immagini sacre e testo |on 20 janvier, 2010 |Pas de commentaires »
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