Archive pour janvier, 2010

LA SALVAGUARDIA DEL CREATO NELLA PROSPETTIVA CRISTIANO-ORTODOSSA

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/problematiche/salvagcreato.htm

LA SALVAGUARDIA DEL CREATO
NELLA PROSPETTIVA CRISTIANO-ORTODOSSA

L’ecologia è tema importante e attuale. Oggi è molto comune concepirla in relazione all’azione benefica o dannosa dell’uomo. In tali termini se ne parla dappertutto: nei convegni, nei mass media, nelle scuole. Il tema ecologico fa parte perfino delle linee programmatiche di qualche partito politico. In tutto ciò si può dire che esista la coscienza d’un legame tra l’agire esterno dell’uomo e l’ambiente che lo circonda. Pochi, però, legano la realtà ecologica all’agire intimo dell’uomo, a ciò che l’uomo matura nel suo cuore. Forse l’uomo occidentale, oramai lontano da ogni discorso religioso, pensa che considerare questa prospettiva possa comportare una costrizione moralistica appartenente ad un modo d’essere oramai estraneo alla sua cultura secolarizzata. Dire che la natura soffre a causa d’una scelta morale sbagliata significa far giungere a questo uomo il seguente messaggio: “Devi fare il buono altrimenti farai soffrire la natura che ti castigherà!”. È certamente comprensibile che, una proposta di tal genere, crea una ribellione e quindi il rifiuto di considerare tale strada come una possibile soluzione.

Oggi l’Ortodossia ha molto da dire sul tema ecologico. Lo stile con il quale affronta tale argomento si può individuare nei due seguenti punti:

a) L’Ortodossia non si preoccupa dell’ecologia come se fosse qualcosa di assolutamente essenziale. Essa conosce che la soluzione, a questo problema, soluzione che qui e ora non potrà mai essere assoluta, è data da un altro atteggiamento: quello di cercare prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia. Tutto il resto verrà dato in sopraggiunta e quindi anche una parziale e concreta soluzione al problema ecologico.

b) L’Ortodossia non affronta l’argomento in forma estrinseca all’uomo. Non crede, infatti, che basta qualche legge o un comportamento esterno più corretto per migliorare il mondo. Affronta l’argomento in maniera intrinseca senza che questo la faccia cadere in una bieca prospettiva moralistica.

Nei seguenti capitoli sono esposti alcuni argomenti con i quali si può ricevere un’idea più precisa sul modo ortodosso di concepire e risolvere tale problema.

La radice del problema ecologico

Il primo argomento che l’Ortodossia mette in campo, davanti al problema ecologico, è rinvenibile nel libro della Genesi, laddove viene descritta la creazione e la caduta dell’uomo. All’inizio Dio, creando l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza, dice loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”[1]. Questo genere di dominio è stato spesso inteso nei termini di “sfruttamento”. Può esserci stato, così, chi ha visto nel Cristianesimo la causa iniziale dell’attuale disastro ecologico. Ma questa deduzione è incredibilmente superficiale e chi la fa dimostra veramente di non conoscere lo spirito autentico del Cristianesimo! Dio, nella Genesi, da certamente l’ordine all’uomo di soggiogare e dominare la creazione. Ma tale uomo non è un uomo qualsiasi. È l’uomo “ad immagine e somiglianza” divina. Possiamo proprio dire che l’uomo dell’aggressivo capitalismo odierno è l’uomo ad immagine e somiglianza divina, l’erede dell’autentica cultura cristiana? C’è più di qualche problema ad affermarlo dal momento che l’uomo, dal punto di vista cristiano, diviene aggressivo quand’è lontano dalla vera vita evangelica.

Se proseguiamo nel racconto biblico notiamo, infatti, come l’uomo caduto nel peccato primordiale diventa un’altra persona. Perde la somiglianza divina pur conservandone l’immagine. A partire da quest’istante avvengono una serie di disgrazie che possono essere riassunte nella rottura della relazione dell’uomo con Dio, con se stesso, con il suo simile e con la natura. L’uomo ha paura e si nasconde, percepisce la sua nudità e ne prova vergogna, scarica sul suo simile la responsabilità d’una azione nella quale vi ha concorso. Queste particolarità comportamentali sfociano in aperta tragedia nel caso del racconto di Caino e Abele finendo per amplificare ulteriormente la distanza tra l’uomo e il creato. Nel passo biblico relativo a questo racconto Dio dice: “Ora [Caino] sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra”[2]. D’ora in poi, un’ombra oscura attraversa la storia dell’umanità e la storia di qualunque uomo che rinnova, nella sua vita, la vicenda di Adamo e di Caino. Esiste, allora, un modo per ricondurre questa frantumazione alla sua primigenia unità e per operare una guarigione? La triste storia umana è, d’ora in avanti, chiamata ad attraversare la valle delle lacrime ma non finisce in tragedia. Ne è presagio il fatto che l’uomo, pur avendo deturpato la somiglianza divina, conserva sempre l’immagine. Origene ricorda: “Il Figlio di Dio è il pittore di quest’immagine [divina nell’uomo]: e poiché tale e così grande è il pittore, la sua immagine non può essere oscurata per l’incuria, ma non può essere cancellata per la malvagità. Infatti l’immagine di Dio rimane sempre, anche se tu vi sovrapponi l’immagine del terrestre”[3].

Il pensiero filosofico dietro al problema ecologico

Il disastro ecologico attuale, piuttosto che avere delle fantomatiche cause cristiane ha dei presupposti filosofici erronei. Lo smarrimento dell’antropologia semitica, propria anche al mondo patristico, ha fatto comparire in Occidente, attorno al XIII secolo, alcuni antichi concetti pagani con i quali si divideva rigorosamente il mondo materiale da quello spirituale. Succubi di questi concetti ellenistici antichi, alcuni occidentali cominciarono a teorizzare che l’asceta il quale, fino a poco prima fuggiva dal mondo, era ora chiamato a disprezzarlo e a praticare su se stesso un’ascesi attraverso la quale il corpo era compreso come un peso e un castigo per l’anima[4]. Bisogna purtroppo dire che questi concetti, completamente estranei al Cristianesimo antico, attraversarono in profondità la Cristianità occidentale. Oggi i teologi cattolici ammettono serenamente che tale fenomeno, rinvenibile ancora nel recente passato, è stato felicemente superato con il recupero dell’antica prospettiva. In essa c’è la coscienza che non è possibile separare il mondo materiale da quello spirituale dal momento che le due realtà, pur rimanendo distinte, si compenetrano. Per lo stesso motivo, l’Ortodossia non ammette la separazione del naturale dal soprannaturale preferendo esprimersi nei termini di creato-increato. Psiché e soma (anima e corpo) stanno dunque assieme. Così lo spirito anima e abita la materia. La materia e il corpo, a differenza della concezione pagana, sono fatti per Dio al punto che Dio si compiace di abitare nell’uomo. “Il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo”[5] ricorda a tal proposito l’apostolo Paolo.

Natura come luogo teofanico

La natura, però, non è solo un dono divino ma, per l’Ortodossia, un luogo teofanico un luogo, cioè, nel quale si manifesta e si affaccia qualcosa della realtà divina. Questa prospettiva così positiva non ci è facilmente comprensibile a causa dei retaggi culturali precedentemente esposti. Inoltre, la comprensione è ostacolata da un’altro motivo più prettamente teologico. Per l’Ortodossia, Dio è presente nelle sue energie che pervadono il cosmo. Rimane trascendente nella sua realtà sostanziale e immanente e conoscibile attraverso le sue energie. In questo senso, il cosmo è una realtà teofanica dal momento che, pervaso delle energie divine, ci manifesta qualcosa del Creatore. La teologia occidentale, che si sviluppò a partire da quella agostiniana, vede in Dio la sostanza senza le energie. Con questi presupposti, chiunque abbia definito il creato come teofanico è stato sempre giustamente considerato panteista. Il limite intrinseco a questa visione è quello di non spiegare come il creato partecipa in Dio. La partecipazione viene allora affermata, dal momento che è un dato rivelato, ma non spiegata. Nel mondo biblico questa partecipazione è un dato scontato. Tuttavia gli agiografi si esprimono senza utilizzare quei termini introdotti posteriormente e provenienti dal fecondo incontro tra cristianesimo e cultura ellenistica, incontro nel quale i concetti semitici sono rimasti inalterati nel loro significato pur esprimendosi attraverso dei termini ellenistici. Così, per l’apostolo Paolo, la partecipazione della natura in Dio avviene attraverso il suo coinvolgimento nella passione e risurrezione di Cristo. Il ktísis (creato) geme nell’attesa del ritorno del Salvatore: “Sappiamo bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”[6].

La partecipazione del creato in Dio è un concetto che oggi crea molta difficoltà d’accoglienza proprio perché Dio è stato filosoficamente isolato per poi essere negato, dopo aver creduto ad una presunta autonomia del mondo. Non essendo più riconosciuto come segno di un’altra Realtà, il mondo, agli occhi umani, è decaduto ed è divenuto oggetto di bramosia e sfruttamento. Ciò che è importante notare è che la radice di questa decadenza esterna sta proprio nel cuore umano, nell’intima decisione dell’uomo di possedere sempre più dopo aver gettato lontano da sé la prospettiva dell’essere che comporta inevitabilmente la considerazione d’un Dio intimo all’uomo, non filosoficamente sradicato dalla sua realtà.

La secolarizzazione

La decadenza esterna, radicata nel cuore umano, è sintomo d’una malattia che ha un nome specifico: secolarizzazione. La secolarizzazione è una realtà complessa da spiegare e analizzare anche se la sua radice può essere individuata con certezza. Essa pervade ogni cosa e può toccare pure i membri e le strutture della Chiesa se questi ultimi distolgono anche un solo istante gli occhi dal loro Salvatore. La Chiesa è il Corpo di Cristo manifestato storicamente nella Pentecoste e, in sé, trasforma il mondo per trasfigurarlo. Con la caduta dei Protoplasti, Adamo ed Eva, tutto il creato è stato trascinato nella corruzione, dal momento che i due erano il segno più alto della creazione e intimamente legati ad essa. La creazione, infatti, “…è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”[7]. La caduta dell’umanità ha comportato l’oscuramento della mente umana determinando terribili conseguenze per tutto il creato. L’alienazione è apparsa in ogni genere di rapporto dal momento che la caduta ha avuto conseguenze antropologiche, naturali e sociali.

Dinnanzi a ciò, la Chiesa ortodossa non dice solo di tornare a vivere senza peccato ma di trasfigurare la propria vita perché sa che solo nella trasfigurazione avviene la restaurazione di tutto in Cristo[8]. Dunque non si tratta solo di portare l’uomo alla condizione precedente alla sua caduta ma di elevarlo ancor più: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”[9] dice Cristo. La terapia alla frantumazione esistenziale causata dal peccato è data, per l’uomo, nel momento in cui entra come membro vivente nel Corpo di Cristo che è la Chiesa. Attraversando questa porta, l’uomo conduce con sé tutto il creato e lo trasfigura mediante lui. Creato e uomo divengono, allora, Regno di Dio perché passano dalla prospettiva di un’esistenza frantumata a quella d’una vita unita in Dio, di fronte a Dio e per Dio. Ecco perché si dice che la gloria di Dio è l’uomo vivente.

Nel cuore umano

Come si vede, questa prospettiva è ben lontana da quella di chi pensa di risolvere i problemi ecologici con qualche legge, disposizione normativa, programma politico o con qualche pia esortazione morale. La radice dei problemi è sempre nel cuore dell’uomo ed è là che si deve tornare per trovare una cura. Parlare di trasfigurazione dell’uomo e del creato non significa solo richiamare la situazione edenica e la restaurazione iniziata e manifestata con la Pentecoste. Significa richiamare anche gli eschata (le ultime realtà) i quali anticipano già da ora le realtà che si manifesteranno nel futuro quando il lupo dimorerà con l’agnello, secondo la bella immagine del profeta Isaia[10]. La trasfigurazione dell’uomo si collega con questo vissuto escatologico già da ora come se fosse un fidanzamento del quale l’eschaton è l’immagine matrimoniale, come dicono i Santi Padri. L’aspetto ortodosso sull’ escatologia ha carattere diacronico: la protostoria si unisce con la storia futura e affiora iconicamente nel presente (ecco perché in questa vita non esiste una soluzione definitiva contro il male e il problema ecologico). Ciò significa che il Regno di Dio e tutti i fatti degli eschata sono stati vissuti nel passato dai Protoplasti prima della loro caduta. Vengono vissuti nel presente della storia dai santi e dagli uomini divinizzati ma non come una realtà permanente essendo, piuttosto, specchio ed enigmata delle cose future[11]. Saranno vissuti in perfetto grado dopo la resurrezione dei corpi. Allora l’unico vero scopo della Chiesa consiste nel trasfigurare la storia cioè l’uomo e il creato nella dinamica degli eschata[12]. Quest’azione non è vaga promessa o vuota teoria perché avviene in un luogo, la Chiesa comunità dei salvati, e con dei mezzi specifici, i sacramenti, che sono lievito in grado di fermentare tutta la creazione. La porta della Chiesa attraverso la quale l’uomo entra è il sacramento del battesimo che compie ciò che significa. Tale sacramento con tutto ciò che lo precede (la catechesi) e che lo segue (la vita evangelica), rinnova l’uomo, lo libera dalla morte e dal diavolo e ha forti conseguenze sociologiche e cosmiche. Così anche il creato riceve le conseguenze benefiche della vittoria di Cristo sulla morte. Infatti la natura non ha volontà morale propria ma viene trascinata dall’uomo alla corruzione. Quando l’uomo si trasfigura anche il creato torna al suo orientamento primigenio. Sant’Isacco il Siro dice a tal proposito:

 
P. Paisios del Monte Athos colto dall’obiettivo mentre parla ad un uccello selvatico.
 “L’umile si avvicina agli animali selvaggi e, quando questi lo vedono, la loro selvatichezza si tranquillizza, gli si accostano come ad un padrone, gli piegano le loro teste e gli leccano le mani e i piedi, perché hanno avvertito in lui lo stesso profumo emanato da Adamo prima del peccato”[13].

Con ciò, si dimostra che il Santo Battesimo non è una semplice cerimonia slegata dalla vita, una tradizione folclorica e un momento emotivo. È il Sacramento dell’ingresso dell’uomo nel Corpo di Cristo. Con tale ingresso, l’uomo supera la morte e partecipa all’energia purificatrice, illuminatrice e divinizzatrice di Dio. La cristificazione dell’uomo e, di conseguenza, quella di tutto il Creato, avviene progressivamente lungo l’arco di tutta l’esistenza con la benefica azione degli altri sacramenti. All’interno di tali presupposti, il battezzato vive la nuova creazione della Chiesa.

L’ascesi quale attività a beneficio di sè e di tutti

La Chiesa e i sacramenti non sono gli unici elementi essenziali per operare questa trasformazione. È infatti necessaria anche l’attività umana affinché la forza divina si infonda in un cuore pulito e svuotato dalle bramosie umane. Per pulire e svuotare il cuore da tutto ciò che impedisce a Dio di agire, la Chiesa ortodossa indica un mezzo efficace: l’ascesi cioè la rinuncia a sé stessi e il vivere per Dio. Attraverso questa scelta scandalosa si muore a se stessi e si trova un’altra vita che si manifesta e si espande al di fuori della persona. Questi sono i presupposti ulteriori attraverso i quali il cristiano sviluppa la dinamica evangelica ed escatologica. Una vita cristiana e sacramentale staccata dalla vita evangelica diviene bestemmia e causa di scandalo per altri. Una vita apparentemente cristiana ma svuotata del suo senso è come una vernice che si stacca e fa vedere la ruggine sottostante. Nel nostro caso, però, ci sono conseguenze ancora peggiori. Chiesa e sacramenti senza ascesi, significano nascondere e tradire la vita che pulsa sotto i simboli sacramentali. Significano affermare che Cristo è la salvezza e, nello stesso tempo, negarlo. Significano accettare e, allo stesso tempo, negare. Operare in questo modo, oltre a non fare entrare nel Regno (così non è possibile riconoscere la vita divina) e impedire altri di entrarvi, impedisce di riconoscere che nella vita cristiana c’è una soluzione anche per il problema ecologico.

Tutte le cose che abbiamo detto operano ciò che promettono solo se sono contemporaneamente presenti. Se ne manca anche una non succede nulla. Se c’è la Chiesa ma non ci sono i sacramenti, se ci sono i sacramenti ma non c’è la vita ascetica non succede nulla. Così la Chiesa non diviene segno tra le genti. Viceversa, quando ci sono tutti i retti presupposti, esiste anche l’ascesi ecclesiale che ricapitola un modo di vita che si trova agli antipodi della società del consumo e della violazione della materia del mondo.

Nella tradizione ecclesiale l’unità della persona e il rispetto per il cosmo

In realtà è tutto legato! Nell’Ortodossia non si può separare teologia da vita morale e spirituale, liturgia da Chiesa, comunità da persona. Non si può separare peccato personale dal danno nella società e nel creato. Così chi ha raggiunto un certo livello spirituale, oltre ad aver raggiunto la pace interiore, non ha più bisogno di cercare fuori di sè, di disperdersi in molte cose, di lasciare il segno della sua insofferenza sul mondo e sul creato. “Coloro che coltivano Cristo e la verità – dice san Gregorio di Nissa – ricevono dalla grazia dello Spirito, tramite la fede e l’impegno nella virtù, i beni superiori alla loro natura, ne godono con un’ineffabile gioia e realizzano un amore schietto e immutabile, una fede inamovibile, una pace che non conosce cadute, la vera bontà e tutti gli altri beni”[14]. E il creato riconosce tutto questo e ne gode perché, come si rovina e soffre per il peccato umano, così gioisce e splende quando viene introdotto, attraverso l’azione dell’uomo, in una vita che è significativa icona di quella che ci attende[15]. Infatti l’uomo redento e salvato da Cristo spande attorno a sè quella salvezza che lo ha cambiato e cambia il mondo. Se ciò non avviene, al punto che la terra stessa soffre e muore, l’uomo deve tornare a ricuperare uno stile e una vita che possono essere efficacemente assunte solo nella sua profonda conversione a Dio.

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Salvaguardia.htm
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[1] Gen 1, 28.
[2] Gen 4, 11-12.
[3] Origene, Omelie sulla Genesi, XIII, 4.
[4] Cfr. L’introduzione di Renato D’Antiga in Lotario di Segni, Il disprezzo del mondo, Pratiche Editrice, 1994, pp. 9-21.
[5] I Cor 6,19.
[6] Rom 8, 22-23.
[7] Rom 8, 19-21.
[8] Ef 1, 10.
[9] Gv 10,10.
[10] Isaia 11,6.
[11] Cfr. 1 Cor 13,12.
[12] Ap 22,13.
[13] Isacco il Siro, Opere ascetiche, Rigopoulos, 1977, p. 78.
[14] Gregorio di Nissa, Fine professione e perfezione del cristiano, Città Nuova, Roma 1979, p. 60.
[15] Rom 8, 21.

Publié dans:ecoetica, Ortodossia |on 24 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno
http://environnement.ecoles.free.fr/tulipe.htm

Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 24 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

Sant’Ambrogio: « Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100124

III Domenica delle ferie del Tempo Ordinario – Anno C : Lc 1,1-4#Lc 4,14-21
Meditazione del giorno
Sant’Ambrogio (circa 340-397), vescovo di Milano e dottore della Chiesa
Commento sui salmi, 1, 33 ; CSEL 64, 28-30

« Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi »

Dissétati prima all’Antico Testamento, per poter bere quindi dal Nuovo. Se non berrai al primo, non potrai bere al secondo. Bevi al primo per alleviare la tua sete, bevi al secondo per dissetarti appieno… Bevi l’uno e l’altro calice, quello dell’Antico e quello del Nuovo Testamento, perché in ambedue bevi Cristo. Bevi Cristo che è la vite (Gv 15,1), bevi Cristo che è la pietra da cui scaturì l’acqua (1 Cor 10,3). Bevi Cristo che è la fonte della vita (Sal 36,10); bevi Cristo perché egli è “il fiume che allieta la città di Dio (Sal 45,5); bevi Cristo che è la pace (Ef 2,14); bevi Cristo perché “fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,38). Bevi Cristo per dissetarti col sangue da cui sei stato redento; bevi Cristo, bevi la sua parola: sua parola è l’Antico e il Nuovo Testamento. Si beve la sacra Scrittura, anzi la si devora, quando fluisce nell’anima e le dà vigore la linfa del Verbo eterno. Infine, “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3; Mt 4,4). Bevi questa parola, ma bevila nell’ordine in cui essa procede: prima nell’Antico Testamento, poi nel Nuovo.

Egli dice infatti quasi con premura : “Popolo che cammini nelle tenebre, vedi questa grande luce; su di te che abiti in terra tenebrosa, una luce rifulge” (Is 9,2 LXX). Bevi subito dunque, perché su di te splenda una gran luce: non la luce comune, quella del giorno, del sole o della luna, ma la luce che dissipa l’ombra della morte.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 24 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

Gesù predica nella Sinagoga

Gesù predica nella Sinagoga dans immagini sacre Matt13a

http://www.kryplos.com/ikthys/Libri_elettr/Gust.Dore/Dore-Mark.htm

Publié dans:immagini sacre |on 23 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia (24-01-2010) : Appassioniamoci: ora!

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/17133.html

Omelia (24-01-2010) 
don Carlo Occelli
Appassioniamoci: ora!

Eccoci finalmente al vangelo di Luca che d’ora in poi leggeremo con maggiore continuità. Abbiamo ancora in cuore, credo, la grande festa di Cana: l’incontro con il Dio di Gesù è una festa. Abbasso la rassegnazione e i musi lunghi!
Il vangelo di Luca dunque: abbiamo letto due brani distinti. La prima parte è proprio l’inizio del suo vangelo, l’introduzione a tutto ciò che verrà scritto dopo. La seconda parte salta al capitolo quarto, quando Gesù entra nella sinagoga e inizia la sua predicazione pubblica.
Prendiamoci un attimino per ammirare i primi versetti: Luca sostanzialmente ci dice: ragazzi, non sono qui a contare delle favolette, degli edificanti racconti sulla vita di un grande uomo di nome Gesù, tutte le fantasticherie che si sono dette su di lui, ma che non sono state mai provate.
No, Luca è un tipo tosto e ci dice subito che ha fatto un lavoro storico preciso e dettagliato: « così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo ».
Insomma Luca ci dice che il vangelo è una cosa seria. E fa’ un ottimo lavoro.
Penso ad un aspetto molto semplice della nostra vita: quando amiamo qualcuno, quando conosciamo qualcuno magari da poco tempo e con lui instauriamo un rapporto di amicizia e conoscenza reciproca, cerchiamo di conoscerlo meglio possibile. Ma vale lo stesso con alte persone, a cui ci sentiamo molto uniti, e che conosciamo da tempo. Siamo avidi di notizie, ci informiamo: che cosa hai fatto? Chi hai visto? E con quella persona di cosa avete parlato?… Tutto ciò per entrare in un rapporto di intimità con l’altro.
Anzitutto me lo immagino così Luca: mentre se ne va in giro a chiedere più informazioni possibili, con taccuino alla mano. E in lui cresce sempre di più il desiderio di saperne di più del maestro di Nazareth: si dice di quella volta che Gesù entrò in sinagoga e lesse le scritture ad alta voce. « Ah si? » – dice Luca – « Avanti raccontami com’è andata! E quale brano lesse? E quali furono le reazioni? E lui?… »
Luca si appassiona, ci mette l’anima nel conoscere Gesù.
Anzitutto per un motivo molto semplice che, immagino, tutti sappiate. Luca, medico di Antiochia, Gesù non l’ha mai incontrato.
Ma dai! Figurati, era un evangelista, vuoi che non abbia conosciuto Gesù?!
No. Luca, che vive appunto ad Antiochia, conosce Gesù attraverso San Paolo… e se ne innamora! Perdutamente! Eppure non l’ha mai visto dal vivo.
Caro Luca, quanto mi sei vicino! Anch’io non ho mai visto Gesù in carne ed ossa, ma talvolta sono convinto che… beh… se avessi avuto anch’io la fortuna degli apostoli, se anch’io l’avessi sentito predicare o visto fare i miracoli, allora sarebbe tutto diverso, tutto mi sembrerebbe più vero! Ci crederei veramente!
E invece Luca mi viene a raccontare che neppure lui l’ha visto, eppure gli ha cambiato la vita, per sempre. Eppure ha creduto!
E noi: quanto conosciamo Gesù? Quanto ci appassioniamo nel conoscerlo?
Siamo sinceri dai! Siamo estremamente pigri: noi cristiani sappiamo così poco di Gesù! Poi magari ci scaldiamo con i dibattiti televisivi, o con gli amici durante una cena, o con i colleghi per la questione della croce a scuola… ma quanto conosciamo Gesù?
La fede è animata dalla ricerca, dalla passione di conoscere, indagare, sapere i minimi particolari… questo ci racconta Luca.
Caro amico: se sei affascinato da Gesù, non smettere di ricercare, e non accontentarti! Indaga, conosci, approfondisci!
Magari suona anche al campanello del tuo prete! E domandagli di parlarti di Gesù!
Ci avete mai pensato? Ai preti domandiamo i sacramenti, l’aiuto per un posto di lavoro, di cambiare le date del catechismo, di occuparsi dei nostri figli, di portarci in vacanza a un prezzo low cost, di animare i giovani… e se gli chiedessimo ogni tanto di parlarci di Gesù?
Sono battute paradossali eh… però pensaci!
Ecco che Luca ci invita ad appassionarci, con cura, al nostro maestro! Mi sono dilungato un pochino, ma credo sia proprio importante riguadagnare sempre lo spirito della ricerca: con gioia eh!!!
Dunque Gesù entra nella sinagoga, cambiamo pagina. E Luca, nella puntigliosità con cui vuole raccontarci gli avvenimenti, ci narra tutto come se usasse la moviola.
Provate a rileggere quelle righe con calma, immaginandovi quello che sta accadendo, con una telecamera nascosta.
La sinagoga è gremita come ogni sabato. Gesù è da un po’ che non viene a Nazareth, si cominciano a raccontare alcuni episodi su di lui, ma nessuno sa bene cosa stia facendo.
Eccolo che entra. Sento i suoi passi sulla terra battuta. Il poco brusio che c’era un attimo prima svanisce. Gli occhi di tutti sono puntati su di lui: studiano ogni movimento del suo corpo. Sa di essere osservato.
(Signore Gesù, fammi sentire i tuoi passi. Fammeli riconoscere, i tuoi, tra i milioni di passi che odo. Fammi riconoscere i tuoi passi quando, ogni eucaristia, entri nelle nostre chiese, mischiandoti in mezzo alla folla, seduto nei banchi, mischiato alla gente comune.)
Gli passano il rotolo della Scrittura… non perdo una parola…
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore
Sono povero… cieco… prigioniero… oppresso…
Sei dunque venuto per me, Signore?
E quando accadrà che mi libererai, inondandomi, di gioia?
« OGGI… si è adempiuta questa scrittura… »
OGGi.
Buona settimana! 
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/17133.html

Omelia (24-01-2010) 
don Carlo Occelli
Appassioniamoci: ora!

Eccoci finalmente al vangelo di Luca che d’ora in poi leggeremo con maggiore continuità. Abbiamo ancora in cuore, credo, la grande festa di Cana: l’incontro con il Dio di Gesù è una festa. Abbasso la rassegnazione e i musi lunghi!
Il vangelo di Luca dunque: abbiamo letto due brani distinti. La prima parte è proprio l’inizio del suo vangelo, l’introduzione a tutto ciò che verrà scritto dopo. La seconda parte salta al capitolo quarto, quando Gesù entra nella sinagoga e inizia la sua predicazione pubblica.
Prendiamoci un attimino per ammirare i primi versetti: Luca sostanzialmente ci dice: ragazzi, non sono qui a contare delle favolette, degli edificanti racconti sulla vita di un grande uomo di nome Gesù, tutte le fantasticherie che si sono dette su di lui, ma che non sono state mai provate.
No, Luca è un tipo tosto e ci dice subito che ha fatto un lavoro storico preciso e dettagliato: « così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo ».
Insomma Luca ci dice che il vangelo è una cosa seria. E fa’ un ottimo lavoro.
Penso ad un aspetto molto semplice della nostra vita: quando amiamo qualcuno, quando conosciamo qualcuno magari da poco tempo e con lui instauriamo un rapporto di amicizia e conoscenza reciproca, cerchiamo di conoscerlo meglio possibile. Ma vale lo stesso con alte persone, a cui ci sentiamo molto uniti, e che conosciamo da tempo. Siamo avidi di notizie, ci informiamo: che cosa hai fatto? Chi hai visto? E con quella persona di cosa avete parlato?… Tutto ciò per entrare in un rapporto di intimità con l’altro.
Anzitutto me lo immagino così Luca: mentre se ne va in giro a chiedere più informazioni possibili, con taccuino alla mano. E in lui cresce sempre di più il desiderio di saperne di più del maestro di Nazareth: si dice di quella volta che Gesù entrò in sinagoga e lesse le scritture ad alta voce. « Ah si? » – dice Luca – « Avanti raccontami com’è andata! E quale brano lesse? E quali furono le reazioni? E lui?… »
Luca si appassiona, ci mette l’anima nel conoscere Gesù.
Anzitutto per un motivo molto semplice che, immagino, tutti sappiate. Luca, medico di Antiochia, Gesù non l’ha mai incontrato.
Ma dai! Figurati, era un evangelista, vuoi che non abbia conosciuto Gesù?!
No. Luca, che vive appunto ad Antiochia, conosce Gesù attraverso San Paolo… e se ne innamora! Perdutamente! Eppure non l’ha mai visto dal vivo.
Caro Luca, quanto mi sei vicino! Anch’io non ho mai visto Gesù in carne ed ossa, ma talvolta sono convinto che… beh… se avessi avuto anch’io la fortuna degli apostoli, se anch’io l’avessi sentito predicare o visto fare i miracoli, allora sarebbe tutto diverso, tutto mi sembrerebbe più vero! Ci crederei veramente!
E invece Luca mi viene a raccontare che neppure lui l’ha visto, eppure gli ha cambiato la vita, per sempre. Eppure ha creduto!
E noi: quanto conosciamo Gesù? Quanto ci appassioniamo nel conoscerlo?
Siamo sinceri dai! Siamo estremamente pigri: noi cristiani sappiamo così poco di Gesù! Poi magari ci scaldiamo con i dibattiti televisivi, o con gli amici durante una cena, o con i colleghi per la questione della croce a scuola… ma quanto conosciamo Gesù?
La fede è animata dalla ricerca, dalla passione di conoscere, indagare, sapere i minimi particolari… questo ci racconta Luca.
Caro amico: se sei affascinato da Gesù, non smettere di ricercare, e non accontentarti! Indaga, conosci, approfondisci!
Magari suona anche al campanello del tuo prete! E domandagli di parlarti di Gesù!
Ci avete mai pensato? Ai preti domandiamo i sacramenti, l’aiuto per un posto di lavoro, di cambiare le date del catechismo, di occuparsi dei nostri figli, di portarci in vacanza a un prezzo low cost, di animare i giovani… e se gli chiedessimo ogni tanto di parlarci di Gesù?
Sono battute paradossali eh… però pensaci!
Ecco che Luca ci invita ad appassionarci, con cura, al nostro maestro! Mi sono dilungato un pochino, ma credo sia proprio importante riguadagnare sempre lo spirito della ricerca: con gioia eh!!!
Dunque Gesù entra nella sinagoga, cambiamo pagina. E Luca, nella puntigliosità con cui vuole raccontarci gli avvenimenti, ci narra tutto come se usasse la moviola.
Provate a rileggere quelle righe con calma, immaginandovi quello che sta accadendo, con una telecamera nascosta.
La sinagoga è gremita come ogni sabato. Gesù è da un po’ che non viene a Nazareth, si cominciano a raccontare alcuni episodi su di lui, ma nessuno sa bene cosa stia facendo.
Eccolo che entra. Sento i suoi passi sulla terra battuta. Il poco brusio che c’era un attimo prima svanisce. Gli occhi di tutti sono puntati su di lui: studiano ogni movimento del suo corpo. Sa di essere osservato.
(Signore Gesù, fammi sentire i tuoi passi. Fammeli riconoscere, i tuoi, tra i milioni di passi che odo. Fammi riconoscere i tuoi passi quando, ogni eucaristia, entri nelle nostre chiese, mischiandoti in mezzo alla folla, seduto nei banchi, mischiato alla gente comune.)
Gli passano il rotolo della Scrittura… non perdo una parola…
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore
Sono povero… cieco… prigioniero… oppresso…
Sei dunque venuto per me, Signore?
E quando accadrà che mi libererai, inondandomi, di gioia?
« OGGI… si è adempiuta questa scrittura… »
OGGi.
Buona settimana! 

di Bruno Forte: Il « Vangelo » di San Paolo

dal sito:

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124802

Il « Vangelo » di San Paolo
di Bruno Forte

Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo…

 1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!

2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco…

3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.

4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.

5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?

6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della  fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?

7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?

8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore  e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen.

(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: Bruno Forte

Publié dans:Bruno Forte |on 23 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

di Mons. Bruno Forte: Il discorso della montagna e il dialogo ebraico-cristiano

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21113?l=italian

Il discorso della montagna e il dialogo ebraico-cristiano

ROMA, sabato, 23 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto e Membro della Commissione fra la Chiesa Cattolica e il Gran Rabbinato d’Israele, nel partecipare il 18 gennaio scorso, all’Auditorium di Roma, a un dialogo pubblico con il biblista ebreo americano Jacob Neusner.

* * *

1. L’insegnamento di un Maestro ebreo? Il Mahatma Gandhi, padre dell’India moderna e apostolo della non-violenza, ricordando il suo primo incontro con il « discorso della montagna », diceva che gli era andato dritto al cuore: « The Sermon on the Mount went straight to my heart… ». E aggiungeva: « È stato grazie a questo discorso che ho imparato ad amare Gesù ». Questa testimonianza mostra in maniera eloquente come la lettura dei capitoli 5-7del Vangelo di Matteo possa essere decisiva per l’incontro col Profeta galileo e il suo messaggio. Si può perfino dire che la storia delle interpretazioni del discorso della montagna è la storia delle diverse auto-comprensioni del cristianesimo.

L’esegeta protestante Joachim Jeremias riconduce a tre modelli fondamentali queste interpretazioni[1]. Il primo riflette una concezione perfezionistica: « Gesù dichiara ai suoi discepoli ciò ch’egli esige da loro » (67). Il discorso sarebbe « legge, non evangelo » (68). Gesù si presenterebbe né più né meno che come un maestro della Torah. Questa interpretazione non è però condivisibile, perché contrasta col fatto che nello stesso sermone « Gesù osa opporsi alla Torah » (70). Una seconda lettura è quella ispirata alla teoria dell’inattuabilità: è l’interpretazione dell’ortodossia luterana. Gesù « vuole rendere consci i suoi ascoltatori della loro inettitudine a compiere con le loro forze quanto Dio esige… (e così) indurli a disperare di sé » (72) per confidare in Dio solo. Il Nazareno, però, « s’attende che i suoi discepoli attuino ciò ch’egli chiede » (73), come è evidente nella parte finale del discorso stesso: « Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano » (Mt 7,13: cf. tutto il brano da 13 a 27). Anche questa interpretazione, allora, non può essere accolta. Infine, l’interpretazione dell’etica temporanea, propria degli « escatologisti conseguenti » di fine Ottocento (quali Johannes Weiss e Albert Schweitzer), legge nel discorso un insieme « di leggi d’eccezione, valide in epoca di crisi », nella forma di un « incitamento alla tensione estrema delle forze prima della catastrofe » (74). Il discorso della montagna, però, non sembra aver nulla di un’ »etica dell’ultima ora »: al contrario, « in Gesù l’accento essenziale non cade sull’affaticarsi degli uomini, ma sulla certezza che la salvezza di Dio è presente » (75s).

Caratteristica comune alle tre interpretazioni è quella di considerare il discorso come una sorta di legge, ponendo così « Gesù nell’ambito del tardo giudaismo » (76). Che questa operazione sia legittima e in parte feconda lo mostra la possibilità di rintracciare nelle parole del Profeta galileo numerose eco della tradizione ebraica: Paul Billerbeck – nel Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash[2]- ha potuto raccogliere in corrispondenza alle scarse cinque pagine del discorso della montagna ben trecento e nove pagine di analogie e paralleli rabbinici! Il rapporto con l’insegnamento dei maestri ebrei è dunque decisivo per comprendere e valutare l’insegnamento di Gesù sul monte: e tuttavia non è sufficiente. Perché? In che senso Gesù non è un Rabbi come gli altri? E in che senso, invece, si pone in continuità con la Torah di Mosè?

2. Gesù rompe con la Torah. A queste domande prova a dare risposta Jacob Neusner nel suo libro Un Rabbino parla con Gesù[3]: l’originalità di questo lavoro sta nel fatto che l’Autore si immagina contemporaneo del Maestro galileo e intavola con lui una discussione serrata. Nella prospettiva rabbinica questo è un atto di profondo rispetto e di forte tensione spirituale: « Una buona, argomentata discussione è considerata dalla Torah il mezzo più giusto di rivolgersi a Dio, ossia un atto di grandissima devozione » (34). Peraltro, la fiducia nell’intelligenza è un tratto comune a ebraismo e cristianesimo: « Come i cristiani noi diamo importanza alla ragione e alla fede razionale… noi diamo valore all’uso dell’intelligenza, allo scambio di pensieri, di affermazioni, di ragioni, di prove, di analisi; noi consideriamo la discussione un esercizio nell’uso di ciò che ci fa simili a Dio, cioè la nostra intelligenza » (41).

La tesi di Neusner è che « Gesù insegna la Torah al pari di altri maestri, ma pretende di porsene al di sopra » (29). Intento dichiarato del Rabbino è perciò quello di « riaffermare semplicemente la Torah del Sinai sopra e contro il Gesù di Matteo » (43). E questo in nome del principio espresso all’inizio del trattato della Mishnah (200 d.C.) chiamato Avot (detti dei Padri dell’ebraismo): « Fate una siepe intorno alla legge » (1,1). Secondo Neusner Gesù ha distrutto questa siepe, disponendo della Torah in maniera inaudita e perfino insegnando a violare alcuni dei Comandamenti: il terzo, che impone la santificazione del sabato, il quarto, quello dell’amore verso i genitori, e infine la prescrizione della santità. Gesù pretende di prendere il posto del sabato (cf. Mt 12,8: « Il Figlio dell’uomo è signore del sabato ») e dei genitori (cf. Mt 10,37: « Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me’ ») e fa consistere la santità nella sequela di sé: in tal modo egli dissolve ciò che tiene unito Israele in quanto Israele, mettendo in pericolo l’essenziale della fede del popolo dell’alleanza.

A proposito, poi, di Matteo 5,38-39 (« Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra ») e 43-44. 48 (« Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano » e « Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste »), Neusner afferma che un tale insegnamento non concorda con la Torah perché « è un dovere religioso resistere al male, combattere per il bene, amare Dio e combattere quelli che diventeranno nemici di Dio… La Torah richiede sempre dall’Eterno Israele di combattere per la causa di Dio; la Torah ammette la guerra, riconosce l’uso legittimo della forza » (57). Più in generale, le antitesi del discorso della montagna appaiono intollerabili al Rabbino: « La frase di Gesù ‘voi avete inteso che fu detto… ma io vi dico’ si pone in aperto contrasto con la frase di Mosè sul monte Sinai » (61). Gesù parla « attraverso un ‘io’, ma la Torah parla soltanto a ‘noi’, a noi che formiamo Israele » (63). « Solo Dio può esigere da me quello cha sta chiedendo Gesù » (86). « L’alternativa è tra ‘Ricordati di santificare il sabato’ e ‘Il Figlio dell’uomo è il signore del sabato’. Non possiamo scegliere entrambi » (105). « In discussione è la rivendicazione di autorità da parte di Gesù » (107). Il nocciolo della questione è dunque questo: « Cristo prende il posto della Torah » (109). La conclusione del Rabbino Neusner è tranciante: « Un grande maestro non è colui che dice qualcosa di nuovo, ma colui che dice quello che è vero » (112s). Perciò Gesù non è per lui un maestro credibile e la differenza con la fede del popolo eletto è radicale: « Il messaggio della Torah riguarda sempre l’Eterno Israele, mentre il messaggio di Gesù riguarda quelli che lo seguono » (126).

3. Gesù radicalizza la Torah. Non così vede le cose un altro pensatore ebreo, Pinchas Lapide, che nel suo libro Il Discorso della Montagna. Utopia o Programma?[4] mette parimenti a confronto l’insegnamento di Gesù con la tradizione rabbinica: diversamente da Neusner, egli sottolinea che Gesù si colloca totalmente all’interno del pensiero ebraico, portandolo solo alle estreme conseguenze. Dunque, non la Torah, ma l’interpretazione che Neusner ne dà sarebbe in contrasto con quello che Gesù dice nel discorso della montagna. Per Lapide il Maestro galileo non chiede altro che « un’esistenza ebraica di fede… È un ideale realizzabile, un’utopia realistica che non deve rimanere sulla carta se l’ebreo credente trova il coraggio di superare se stesso… nell’instancabile imitazione di Dio che nell’ebraismo è considerata il più santo dei comandamenti. In questa grande spinta messianica verso l’incarnazione voluta da Dio di tutti i figli di Adamo e verso l’umanizzazione di questa terra… Gesù di Nazaret è stato ‘l’ebreo centrale’, come lo definisce Martin Buber, colui che ci invita tutti a imitarlo » (15). La tesi di Lapide è pertanto che « il discorso della montagna non è altro che la spiegazione della Torah fatta da Gesù di Nazaret, che prendendo spunto dal duplice comandamento dell’amore ha come obiettivo la sua concretizzazione, allo scopo di favorire la manifestazione del regno di Dio sulla terra » (24). Nell’insegnamento sul monte siamo di fronte alla semplice « riscrittura escatologica di tutti i comandamenti dell’amore… che dalle tavole di pietra del Sinai verranno impressi nel cuore degli uomini » (36).

Se Neusner contrappone troppo, Lapide concilia altrettanto: la radicalità di Gesù rispetto alla Torah non è un semplice sviluppo nella continuità, ma implica un elemento di assoluta novità. È Joachim Jeremias a sottolineare come la differenza fra Gesù e il giudaismo non stia nei singoli precetti, ma nel presupposto fondamentale che sta dietro ad essi e che nella testimonianza del Profeta galileo è l’avvento del Regno di Dio nella sua persona[5]: « A ogni detto del discorso della montagna… è sottintesa la predicazione del regno di Dio… la testimonianza che Gesù diede di sé con la parola e coi fatti » (89). « Al kerygma fa seguito la didaché » (90): e il kerygma « apre il discorso della montagna sotto la forma delle beatitudini e delle frasi relative alla splendida sorte di chi è discepolo di Cristo » (90). « Solo per la grandezza del dono divino diviene comprensibile la gravità della richiesta di Gesù » (91). La differenza fondamentale fra l’insegnamento di Gesù e la Torah di Mosè sta allora nel fatto che « il discorso della montagna non è legge, ma evangelo… La legge affida l’uomo alle sue proprie forze e lo incita a impegnarsi fino all’estremo. L’evangelo invece pone l’uomo di fronte al dono di Dio e lo incita a fare, di tale inesprimibile dono, il fondamento della vita. Sono due mondi… Dalla riconoscenza del figlio di Dio redento ha inizio una nuova vita. Ecco il significato del discorso della montagna » (93). La Torah dice: « Fa’ quanto insegno, e vivrai ». Gesù dice: « Vivi la vita che ti dono, e farai quello che ti chiedo ». Gesù non abolisce la Torah, non abbatte la siepe intorno alla Legge, come vorrebbe Neusner. E neppure radicalizza la Torah innalzando di qualche gradino le sue esigenze. Gesù dona la vita nuova che viene da Dio per realizzare e superare la Torah.

4. In Gesù il compimento della Torah. Siamo così giunti al punto decisivo: « Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento » (Mt 5,17). È il punto che si sforza di chiarire Joseph Ratzinger – Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret[6]: fra la semplice contrapposizione e la concordanza, la relazione fra l’insegnamento di Gesù sul monte e quello di Mosè al Sinai va intesa come novità non nella rottura, ma nel compimento. « La ‘Torah del Messia è del tutto nuova, diversa – ma proprio così ‘porta a compimento’ la Torah di Mosè » (126). « Non è più la ‘carne’ – la discendenza fisica da Abramo – a decidere, ma lo ‘spirito’: l’appartenenza all’eredità di fede e di vita di Israele attraverso la comunione con Gesù Cristo, il quale ha ‘spiritualizzato’ la Legge trasformandola così in un cammino di vita aperto a tutti. Nel Discorso della montagna Gesù parla al suo popolo, a Israele, in quanto primo portatore della promessa. Ma nel consegnargli la nuova Torah, lo apre in modo che ora da Israele e dagli altri popoli possa nascere una nuova grande famiglia di Dio » (127).

La continuità implicita nell’idea di compimento sta nel fatto che proprio in base alla Torah si può dire che « Israele non esiste semplicemente solo per se stesso, per vivere delle ‘eterne’ disposizioni della legge – ma per diventare luce dei popoli » (143). Gesù « ha portato il Dio di Israele ai popoli così che tutti i popoli ora lo pregano e nelle Scritture di Israele riconoscono la sua parola, la parola del Dio vivente. Ha donato l’universalità, che è la grande e qualificante promessa per Israele e per il mondo… È questo che lo qualifica come il ‘Messia’ e dà alla promessa messianica una spiegazione, che ha il suo fondamento in Mosè e nei Profeti, ma che dona a essi anche un’apertura completamente nuova » (144). La comunione con Gesù è comunione filiale col Padre e come tale « è un sì al quarto comandamento su una base nuova e a un livello più elevato. È l’ingresso nella famiglia di coloro che a Dio dicono Padre e possono dirlo nel ‘noi’ di coloro che con Gesù e mediante l’ascolto a Lui prestato sono uniti alla volontà del Padre e così stanno nel nucleo di quella obbedienza a cui la Torah mira » (145). Insomma, sono le stesse promesse contenute nella Legge che implicano il suo compimento: « Nella struttura intrinseca della Torah, nella sua evoluzione mediante la critica profetica e nel messaggio di Gesù che riprende entrambe, si trova insieme l’ampiezza per i necessari sviluppi storici e la base stabile che garantisce la dignità dell’uomo a partire dalla dignità di Dio » (156).

Perciò, Matteo ci presenta Gesù come il nuovo Mosè. E, perciò, la fedeltà alla Torah non può fermarsi all’applicazione legalistica di essa, ma deve aprirsi al compimento della promessa fatta a Israele dal suo Dio per bocca dello stesso Mosè: « Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto » (Dt 18,15). L’ebraicità di Gesù è dunque fuori discussione, e si deve essere grati a chi – come Neusner o Lapide – la rivendica con onestà e rispetto. Parimenti, però, è innegabile la novità del suo insegnamento e della sua opera: non si tratta né di una semplice radicalizzazione di quanto già detto a Israele, né di una blasfema violazione dei comandamenti dati sul Sinai. La novità è la persona stessa di Gesù e l’avvento del tempo messianico che in Lui si offre, come tempo della grazia e della misericordia del Dio dell’alleanza: è la novità dell’amore effuso dall’alto attraverso di Lui nei cuori di chi crede. È quel possibile, impossibile amore – impossibile agli uomini, reso possibile dal dono divino – che il discorso della montagna descrive come frutto dell’accoglienza della buona novella che Gesù annuncia, che Gesù è. Gesù di Nazaret, Ebreo per sempre, è il Figlio di Dio dall’eternità, fattosi uomo per aprire a chiunque creda la porta del cielo. La differenza – accettata o rifiutata – sta tutta qui: come sta qui l’esigenza imprescindibile per un discepolo del Maestro galileo di amare Israele e la sua fede per sempre.
————–

1) Il discorso della montagna, in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1993, 65-93.
2) H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, Beck, München 1922, 1. Bd. Das Evangeluium nach Matthäus.
3) San Paolo, Cinisello Balsamo 2007 (originale inglese: A Rabbi talks with Jesus, McGill-Queen’s University Press 2000).
4) Paideia, Brescia 2003.
5) Il discorso della montagna, in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1993, 65-93.
6) Rizzoli, Milano 2007.

Publié dans:Bruno Forte |on 23 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno wall025

http://www.siguiendosuspisadas.com.ar/tapices3.htm

Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 23 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

Beata Teresa di Calcutta: Gesù, uomo mangiato

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100123

Sabato della II settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 3,20-21
Meditazione del giorno
Beata Teresa di Calcutta (1910-1997), fondatrice delle Suore Missionarie della Carità
No greater love

Gesù, uomo mangiato

Quando Gesù venne in questo mondo, lo amò con un amore così grande da dare la sua vita per lui. Venne per soddisfare la nostra fame di Dio. E come fece questo ? Egli in persona diventò il Pane della Vita. Si fece piccolo, fragile, disarmato per noi. Le briciole di pane sono così minuscole che pure un bambino può masticarle, pure un agonizzante può mangiarle. È diventato il Pane della Vita per sfamare il nostro appetito di Dio, la nostra fame di Amore.

Credo che non avremmo mai potuto amare Dio, se Gesù non fosse divenuto uno di noi. Ed è divenuto uno di noi in ogni cosa, eccetto il peccato, per renderci capaci di amare Dio. Creati a immagine di Dio, siamo stati creati per amare, poiché Dio è amore. Nella sua passione, Gesù ci ha insegnato come perdonare per amore, come dimenticare per umiltà. Trova Gesù, e troverai la pace.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 23 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

San Samuele profeta ( 1ma lettura della messa di questa settimana)

San Samuele profeta ( 1ma lettura della messa di questa settimana) dans immagini sacre

Rama, Palestina, 1070 a.C. – 950 a.C. ca.

Commemorazione di san Samuele, profeta, che, chiamato da Dio fin da piccolo e divenuto poi giudice in Israele, unse, per ordine del Signore, Saul re sul suo popolo; e dopo che Dio ebbe ripudiato costui per la sua infedeltà, diede l’unzione regale anche a Davide, dalla cui stirpe sarebbe nato Cristo.

http://www.santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 22 janvier, 2010 |Pas de commentaires »
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