Archive pour janvier, 2010

San Giovanni Crisostomo: « Chi ha orecchi per intendere intenda ! »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100127

Mercoledì della III settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 4,1-20
Meditazione del giorno
San Giovanni Crisostomo (circa 345-407), vescovo d’Antiochia poi di Costantinopoli, dottore della Chiesa
Discorsi 44 sul vangelo di Matteo, 3-4 ; PG 57, 467-469

« Chi ha orecchi per intendere intenda ! »

Nella parabola del seminatore, Cristo ci mostra che la sua parola è destinata a tutti, indistintamente. Infatti come il seminatore della parabola, senza fare nessuna distinzione fra i terreni, semina ai quattro venti, così il Signore non distingue il ricco dal povero, il saggio dallo stolto, il negligente dal diligente, il coraggioso dal vigliacco, ma si rivolge a tutti e, pur conoscendo l’avvenire, fa da parte sua di tutto finché non possa dire : « Che cosa dovevo fare ancora che io non abbia fatto ? » (Is 5,4)…

Inoltre, il Signore dice questa parabola per incoraggiare i suoi discepoli ed educarli a non lasciarsi abbattere, anche se coloro che accolgono la parola sono meno numerosi di quelli che la sprecano. Così faceva il nostro Maestro che, pur conoscendo l’avvenire, non cessava di spargere il suo seme.

Ma, dirai, a che pro seminare tra le spine, fra i sassi o lungo la strada ? Se si trattasse di un seme e una terra materiali, non avrebbe nessun senso ; ma poiché si tratta delle anime e della Parola, la cosa è degna di elogi. A ragione si rimprovererebbe a un coltivatore di agire così ; il sasso non può diventare terra, la strada non può non essere una strada, né le spine non essere delle spine. Ma nella sfera spirituale, non è lo stesso : il sasso può diventare una terra fertile, la strada non essere più calpestata dai passanti e diventare un campo fecondo, le spine essere sradicate e permettere al seme di dare frutto liberamente. Se questo non fosse possibile, il seminatore non avrebbe sparso il seme come ha fatto.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 27 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

Timoteo e Tito (Collaboratori di Paolo, memoria oggi)

Timoteo e Tito (Collaboratori di Paolo, memoria oggi) dans immagini sacre timoteo-tito

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Publié dans:immagini sacre |on 26 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

I Messaggi dell’ Iconografia Bizantina nell’ Europa Cristiana Contemporanea

dal sito:

http://www.myriobiblos.gr/texts/italian/charalampidis_messaggi.html

Constantinos Charalampidis

I Messaggi dell’ Iconografia Bizantina nell’ Europa Cristiana Contemporanea

[From Orientamento Spirituale dell'Europa. Edizioni KYROMANOS, Thessaloniki, 1997.]

Ogni arte cela un suo ed esclusivo messaggio, naturalmente incomprensibile se non se ne conosce il codice silenzioso e mistico, che sono poi le linee, i colori e i volumi. Tentare di leggere un’ opera d’ arte e, nel nostro caso, un oggetto artistico appartenente storicamente e cronologicamente al mondo bizantino è quanto dobbiamo fare.

I pensieri ed i sentimenti dei bizantini sono impressi nelle opere dell’architettura, della pittura, della scultura e nei piccoli oggetti d’ arte che si collocano in un amplissimo arco cronologico che va dai primi secoli del cristianesimo fino al 1453, alla caduta cioè di Costantinopoli sotto la dominazione turca.

L’arte bizantina, oltre a dilettare lo spettatore con i suoi capolavori, provoca e invita, attraverso il prisma di una visione spirituale-metafisica, ad una considerazione soprannaturale dei suoi eterni valori. Bisanzio, che continuò la tradizione come baluardo dell’arte antica, assimilò e descrisse in nuove forme rappresentative il mondo degli eletti dello spirito, costituiti dai santi e dai beati della Chiesa cristiana. La «colonizzazione» artistica dell’arte bizantina nell’ Europa occidentale ha segnato il rinnovamento e la rivitalizzazione dell’arte europea. L’evoluzione artistica in Europa dunque si compì grazie all’ influenza antropocentrica e cristocentrica della tradizione iconografica bizantina. L’ arte bizantina, in altre parole, sia proponendo i suoi prototipi artistici sia offrendo esempi fortemente influenzati dall’ antichità classica, realizzò il rinnovamento e favorì l’evoluzione artistica in Europa. Per sé Bisanzio riuscì a consolidare teologicamente e artisticamente il dogma del culto delle immagini e a dare soluzioni definitive a tutte le altre eresie cristologiche-spirituali da una parte, a porsi come Magistra Europae per la civiltà occidentale dall’altra.

Quando parliamo dell’ arte di Bisanzio, ci riferiamo soprattutto alla capitale, a Costantinopoli cio?, nella quale fiorµ l’ arte imperiale e prosperarono i grandi laboratori di architetti e pittori che accettavano in tutto il mondo bizantino ordinazioni per la realizzazione di templi, delle chiese di monasteri, di mosaici e di affreschi. Il ruolo direttivo della capitale si realizzò grazie alla sua ecumenicità sovranazionale su tutti i popoli vicini e meno, svelando un’ antica arte benedetta dell’ecumene. I popoli vicini ma anche l’ Occidente furono colpiti dalla bellezza spirituale, dalla perfezione espressiva, dalla certezza metafisica, dalla pienezza dogmatica e dalla funzionalità sacrale dell’arte bizantina. Erano i messaggi e gli immutabili valori che esprimevano quotidianamente i luoghi di culto interamente affrescati dei bizantini. Inoltre la sacralità orientale delle forme, la qualità didattica dei programmi iconografici, la narratività classica delle narrazioni bibliche e la loro importanza educativa rappresentavano i segni caratteristici attraverso i quali si compiva la trasfigurazione spirituale dei fedeli.

La grecità dell’arte bizantina rivelava gli ideali della formazione e dell’affinamento della mente, dell’intelletto e della sapienza, che però, trasformati nella «luce del Tabor» avevano assunto le dimensioni metafisiche della sapienza secondo Dio. Inoltre, grazie allo spirito ellenico, potè compiersi la vittoria contro i nemici delle immagini e la fondazione dogmatica del culto di esse. Si stabili così un idioma artistico unitario, più sapiente di altri, con l’ attività di artisti e di intellettuali di Costantinopoli, per tutta la durata dell’ impero bizantino. Le profonde riflessioni dei sapienti e degli scrittori della Chiesa si stamparono in rilievo nelle opere figurative dei bizantini. Antichità e Bisanzio risultarono il punto di convergenza artistico dell’ Impero e della sua Capitale. L’idioma artistico bizantino continuò come lingua della tarda antichità, cosa che vediamo nella produzione iconografica dei personaggi e degli episodi biblici. I bizantini dipingevano sempre avendo presenti i modelli degli ultimi secoli dell’antichità (IV-VII secolo d.C.). Il passaggio storico dalle grandi monarchie antiche alla monarchia cristiana di Bisanzio portò con sé anche l’ accettazione dello stesso stile e delle rappresentazioni plurime di personaggi noti dalla tarda antichità. Famose sono le rappresentazioni della ???s??, del Giudizio Universale o ancora dei Santi come filosofi o generali romani e degli imperatori in tutto il loro regale splendore. Bisanzio non abbandonò mai le concezioni estetiche e gli accorgimenti tecnici del mondo grecoromano e questa «lingua» costituì l’ ossatura e la sostanza del suo messaggio artistico in tutto l’arco della sua esistenza. In questa forma, il messaggio bizantino influenzò i «Rinascimenti» o «Renovationes» occidentali, pur nella particolarità dei rapporti che ognuno di essi ebbe con l’antichità. I «Rinascimenti» bizantini che si succedevano l’ un l’ altro furono il risultato delle forze artistiche e delle esperienze teologiche che concorrevano allo sviluppo della vera tradizione.

Tuttavia i nuovi elementi inesistenti nell’arte antica e caratterizzanti l’ iconografia bizantina si riferiscono alla sua certezza metafisica, nella dinamicità esistenziale e nella sua identità escatologica. Le nuove forme e le complesse rappresentazioni dei personaggi sacri, degli avvenimenti biblici e degli episodi della vita della chiesa accentuano il carattere di mistero degli avvenimenti, la santità degli eroi religiosi e la loro personalità trasfigurata in un mondo di vittoria escatologica e di gloria paradisiaca. Le dimensioni trascendentali delle forme umane, le espressioni astratte dei loro gesti, i colori eterei dei loro abiti e l’ intensificazione estimativa in genere nell’esecuzione di tali raffigurazioni rappresentano la novità dell’iconografia bizantina. Questo «nuovo» preannuncia il mondo degli «ultimi» e la risurrezione degli uomini e rammenta allo spettatore dell’agiato occidente e della perfezione meccanocratica i messagi più speranzosi e ottimisti del riscatto e della salvezza dell’anima. Queste nuove forme che si inaugurano nell’ iconografia orientale già dal I secolo in Siria e più tardi, nel III secolo, in Asia, sulle coste del Nord Africa, in Italia e in tutto l’ Occidente, rispecchiano innanzitutto la loro rappresentazione grecoromana e poi la loro espressione astratta e metafisica in una scala che arriva a toccare l’ elemento sacro e religioso. Queste forme bidimensionali trasfigurate che realizzano le due nature, quella umana e quella divina (il monofisismo fu sempre combattuto dall’arte bizantina) rivelano il dogma redentore dell’ incarnazione di Cristo e il quotidiano insegnamento ecclesiastico del riscatto dell’anima e del corpo umani. Questo modo rappresentativo anticlassico (diremmo, secondo i dati tramandatici dall’antichità classica) dei santi, dei personaggi e degli avvenimenti sacri ricorda le esperienze orientali, dal Medio all’Estremo Oriente, per la posizione astratta e sacrale da una parte, statuaria dall’altra degli dei, degli eroi e delle complesse rappresentazioni negli oggetti artistici di questi popoli. Questa sacralità orientale preannuncia la certezza metafisica che ogni oggetto artistico, nello spazio bizantino religioso, tenta di enfatizzare. La perfezione espressiva dell’iconografia bizantina poggia su fattori di tecnica e di stile, come la varietà cromatica, la perfezione del disegno e la particolarità decorativa. L’artista bizantino, con il nuovo stile, formula o meglio esprime i suoi temi, quelli che ignorava il collega dell’arte antica. Infatti dagli ultimi secoli dell’antichità alcuni artisti nazionali e poi ovviamente tutti quelli cristiani avevano assecondato il bisogno di una rappresentazione percepibile solo con «gli occhi dello spirito», perchè rivelatrice del mondo invisibile. Vale a dire, da Plotino in poi, che la visione «fenomenica» limitata all’ immagine colta dagli occhi del corpo, può arricchirsi di una funzione più elevata e permettere allo spettatore informato di vedere la realtà «noumenica», la sola realmente esistente. Lo spettatore può così vedere il «Nous» neoplatonico o il Dio e il mondo ideale che lo circonda.

Un caso paradossale, rendere cioè visibile l’ invisibile, fu la grande realizzazione dell’ iconografia bizantina dopo la fine dell’ antichità classica e questo grazie alla tecnica astratta poc’ anzi ricordata, con la scomparsa del volume, dello spazio, del peso, della corporalità, della consueta tipologia di gesti, delle forme e dei colori, di tutto quanto insomma dà il senso della materia. Così smaterializzata, la raffigurazione dichiarava la rappresentazione dell’intelligibile. Lo scopo dell’ arte bizantina divenne così unicamente uno, nel tentativo di indirizzare lo sguardo umano verso il sovrasensibile; il solo che valga la pena di essere visto, ammirato e fatto proprio dal cristiano. Nell’ ambito di questo principio artistico-ideologico della società bizantina si spiega molto bene perchè gli artisti orientali da una parte concentrarono il loro interesse sull’esecuzione di temi teofanici (rappresentazioni della Majestas Domini) e i pittori occidentali dall’altra si dedicarono soprattutto ai soggetti infernali e satanici del periodo medioevale. L’orrore dell’inferno, i diavoli mostruosi e le altre terrificanti scene sono quasi del tutto assenti dall’ iconografia bizantina, mentre altri popoli dell’ Oriente, come per esempio gli Iraniani, o dell’ Occidente si mostrarono disponibili ad accogliere l’ iconografia dell’orrore e della perdizione. L’arte bizantina non fa smorfie e non spaventa nè terrorizza gli spettatori. E per natura prudente e rifiuta il rumore, l’intimidazione e la violenza. La grandezza etica e spirituale di questa arte si conservò inalterata in tutte le sue fasi evolutive nonostante gli sporadici tentativi di introduzione di elementi stranieri. Regola dell’arte bizantina è non rendere mai con esattezza la realtà materiale circostante. Suo unico scopo è esprimere, con astratta schematicità, la dinamicità, esistenziale elargitale dalla parola del Vangelo e dall’ insegnamento della Chiesa.

Se in Occidente cambiarono le cose dopo il Rinascimento italiano, Bisanzio restò fedele alle sue idee metafisiche e portò avanti un’ arte liturgica eseguita a misura d’uomo in vista della sua santità, e della sua salvezza. Alla luce di questo programma ideologico dell’iconografia bizantina si spiega la grande produzione, già, dal VI secolo, di icone portatili eseguite con la tecnica dell’encausto, davanti alle quali il fedele prega pubblicamente o privatamente. L’icona, che rappresenta una parte del regno di Dio sulla terra, malgrado la bufera iconoclastica, dopo la riabilitazione delle icone (843), riacquistò nuova gloria e apprezzamento nello spazio pubblico e privato della Chiesa. Bisogni personali, comunali e nazionali e problematiche dei bizantini si discutevano davanti alle icone per la mediazione salvifica dei santi a favore dei fedeli. L’icona diventa il rifugio del credente dalle preoccupazioni quotidiane in ogni momento della sua vita. Davanti ad essa il fedele trova protezione, mentre contempla l’immobile, l’uniforme, l’immutabile e il semplice del vero Intelligibile. In essa domina l’immobilità, assoluta nella posizione ieratica e l’equilibrio nella funzionalità, dinamica dei personaggi sacri rappresentati. L’arte bizantina riuscì ad inaugurare una lingua artistica dotata della forza espressiva del mondo metafisico e della perfezione escatologica. Da questo suo ammirabile successo conseguì una straordinaria irradiazione e una perfetta ecumenicità, in tutti i paesi cristiani dell’Oriente e dell’Occidente.

L’arte bizantina, definita, agli inizi del nostro secolo, arte «di forza religiosa e di cultura umanistica» dall’archeologo austriaco Josef Strzygowski, diviene vera arte europea. La congiunzione dell’elemento religioso, politico e umanistico fissa un solo e autentico punto di vista degli studiosi della storia dell’arte bizantina su di essa. Siccome dunque l’iconografia bizantina, come si è detto, enfatizza l’elemento intellegibile e trascendente e rappresenta, soprattutto nell’ icona portatile, il «modello», come rappresentante essa stessa dell’ «archetipo», stupì e finì per divenire elemento di elevazione nell’orizzonte spirituale degli Europei occidentali. Il valore personale dell’icona assume dimensioni trascendenti, rapporti di identificazione con il divino rappresentato, diventa specchio di visione degli «ultimi». Con questo fondamento ideologico, l’iconografia bizantina, che riuscì ad organizzare la decorazione colorata dell’interno dei luoghi sacri in un solido sistema spirituale ed ottico e a dare soluzione definitiva a problemi morfologici, ha, come tutti riconoscono, offerto molto all’Occidente, ha portato la creazione artistica nel nord slavo e ha dato persino al mondo islamico e giudaico, nemico della rappresentazione iconografica, qualcosa del suo entusiasmo rappresentativo.

Il ruolo didattico dell’arte bizantina davanti all’Occidente ma anche all’Oriente fu fertile e evolutivo. Il desiderio di apprendere, soprattuto degli artisti occidentali e slavi, si combinò, dentro l’evoluzione storica, nel modo più efficace, con l’abilità didattica degli artisti bizantini. Perciò raramente esiste una relazione tanto produttiva fra il discente (occidente e mondo slavo) e il maestro (Bisanzio) come nel nostro caso. L’impresa si realizzò grazie alla grande capacità di adattamento delle forme bizantine, dei temi e dei disegni e in generale grazie all’apparentemente facile apprendimento della lingua bizantina delle forme, cosa che attraeva il discente. Come si vede, l’imitazione di certi elementi e caratteristiche dell’arte bizantina era in apparenza facile ma la familiarizzazione sostanziale delle cose impossibile. Così nei paesi europei occidentali e slavi si diede vita ad eccezionali attività artistiche aventi come base l’insegnamento del mondo bizantino. La valutazione comunque più significativa dell’arte bizantina è che essa divenne una reale guida, la maggiore, tra l’antichità e l’arte gotica, secondo il giudizio del bizantinologo austriaco Otto Demus.

I messaggi dell’arte bizantina sono molti e certi beneficarono, come si è detto, e ancora beneficano l’Occidente e l’Oriente. La civiltà europea contemporanea offre innumerevoli testimonianze della fertilissima influenza bizantina che è sia da museo, sia storicofilologica ma anche morale per il carattere del cittadino europeo occidentale. Però un messaggio molto forte e imposto dai fatti si riferisce alla proiezione ecumenica dell’iconografia nell’ambito del cosiddetto dialogo teologico tra le due chiese, l’ortodossa e la romanocattolica. Il carattere ecumenico dell’iconografia bizantina diventa l’interprete e l’illuminatore del cristianesimo occidentale per le verità storiche e dogmatiche dell’ortodossia, l’? e l’ O della sua teologia. Frutto del fascino estetico di questo cristiano dalla visione degli oggetti artistici di Bisanzio, deve essere la sua conoscenza teologica delle rappresentazioni su icone. Debito delle due chiese è la messa in pratica di questi messaggi ecumenici e dei valori trascendenti dell’iconografia bizantina per una nuova «convivenza» tra Oriente ed Occidente «nel nome di Cristo». 

Publié dans:arte sacra, Ortodossia |on 26 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

Omelia del Papa alla Basilica di San Paolo fuori le Mura

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21141?l=italian

Omelia del Papa alla Basilica di San Paolo fuori le Mura

Per la chiusura della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani

ROMA, lunedì, 25 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questo lunedì pomeriggio, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, la celebrazione dei secondi Vespri della solennità della Conversione di San Paolo Apostolo, a conclusione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani sul tema « Di questo voi siete testimoni » (Lc 24, 48).

* * *

Cari fratelli e sorelle,

riuniti in fraterna assemblea liturgica, nella festa della conversione dell’apostolo Paolo, concludiamo oggi l’annuale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Vorrei salutare voi tutti con affetto e, in particolare, il Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e l’Arciprete di questa Basilica, Mons. Francesco Monterisi, con l’Abate e la Comunità dei monaci, che ci ospitano. Rivolgo, altresì, il mio cordiale pensiero ai Signori Cardinali presenti, ai Vescovi ed a tutti i rappresentanti delle Chiese e delle Comunità ecclesiali della Città, qui convenuti.

Non sono passati molti mesi da quando si è concluso l’Anno dedicato a San Paolo, che ci ha offerto la possibilità di approfondire la sua straordinaria opera di predicatore del Vangelo, e, come ci ha ricordato il tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani – « Di questo voi siete testimoni » (Lc 24, 48) -, la nostra chiamata ad essere missionari del Vangelo. Paolo, pur serbando viva ed intensa memoria del proprio passato di persecutore dei cristiani, non esita a chiamarsi Apostolo. A fondamento di tale titolo, vi è per lui l’incontro con il Risorto sulla via di Damasco, che diventa anche l’inizio di una instancabile attività missionaria, in cui spenderà ogni sua energia per annunciare a tutte le genti quel Cristo che aveva personalmente incontrato. Così Paolo, da persecutore della Chiesa, diventerà egli stesso vittima di persecuzione a causa del Vangelo a cui dava testimonianza. Scrive nella Seconda Lettera ai Corinzi: « Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato… Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese » (2 Cor 11,24-25.26-28). La testimonianza di Paolo raggiungerà il culmine nel suo martirio quando, proprio non lontano da qui, darà prova della sua fede nel Cristo che vince la morte.

La dinamica presente nell’esperienza di Paolo è la stessa che troviamo nella pagina del Vangelo che abbiamo appena ascoltato. I discepoli di Emmaus, dopo aver riconosciuto il Signore risorto, tornano a Gerusalemme e trovano gli Undici riuniti insieme con gli altri. Il Cristo risorto appare loro, li conforta, vince il loro timore, i loro dubbi, si fa loro commensale e apre il loro cuore all’intelligenza delle Scritture, ricordando quanto doveva accadere e che costituirà il nucleo centrale dell’annuncio cristiano. Gesù afferma: « Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme » (Lc 24,46-47). Questi sono gli eventi dei quali renderanno testimonianza innanzitutto i discepoli della prima ora e, in seguito, i credenti in Cristo di ogni tempo e di ogni luogo. E’ importante, però, sottolineare che questa testimonianza, allora come oggi, nasce dall’incontro col Risorto, si nutre del rapporto costante con Lui, è animata dall’amore profondo verso di Lui. Solo chi ha fatto esperienza di sentire il Cristo presente e vivo – « Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! » (Lc 24,39) -, di sedersi a mensa con Lui, di ascoltarlo perché faccia ardere il cuore, può essere Suo testimone! Per questo, Gesù promette ai discepoli e a ciascuno di noi una potente assistenza dall’alto, una nuova presenza, quella dello Spirito Santo, dono del Cristo risorto, che ci guida alla verità tutta intera: « Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso » (Lc 24,49), dice agli Undici e a noi. Gli Undici spenderanno tutta la vita per annunciare la buona notizia della morte e risurrezione del Signore e quasi tutti sigilleranno la loro testimonianza con il sangue del martirio, seme fecondo che ha prodotto un raccolto abbondante.

La scelta del tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani di quest’anno, l’invito, cioè, ad una testimonianza comune del Cristo risorto secondo il mandato che Egli ha affidato ai discepoli, è legata al ricordo del centesimo anniversario della Conferenza missionaria di Edimburgo in Scozia, che viene considerato da molti come un evento determinante per la nascita del movimento ecumenico moderno. Nell’estate del 1910, nella capitale scozzese si incontrarono oltre mille missionari, appartenenti a diversi rami del Protestantesimo e dell’Anglicanesimo, a cui si unì un ospite ortodosso, per riflettere insieme sulla necessità di giungere all’unità per annunciare credibilmente il Vangelo di Gesù Cristo. Infatti, è proprio il desiderio di annunciare agli altri il Cristo e di portare al mondo il suo messaggio di riconciliazione che fa sperimentare la contraddizione della divisione dei cristiani. Come potranno, infatti, gli increduli accogliere l’annuncio del Vangelo se i cristiani, sebbene si richiamino tutti al medesimo Cristo, sono in disaccordo tra loro? Del resto, come sappiamo, lo stesso Maestro, al termine dell’Ultima Cena, aveva pregato il Padre per i suoi discepoli: « Che tutti siano una sola cosa… perché il mondo creda » (Gv 17,21). La comunione e l’unità dei discepoli di Cristo è, dunque, condizione particolarmente importante per una maggiore credibilità ed efficacia della loro testimonianza.

Ad un secolo di distanza dall’evento di Edimburgo, l’intuizione di quei coraggiosi precursori è ancora attualissima. In un mondo segnato dall’indifferenza religiosa, e persino da una crescente avversione nei confronti della fede cristiana, è necessaria una nuova, intensa, attività di evangelizzazione, non solo tra i popoli che non hanno mai conosciuto il Vangelo, ma anche in quelli in cui il Cristianesimo si è diffuso e fa parte della loro storia. Non mancano, purtroppo, questioni che ci separano gli uni dagli altri e che speriamo possano essere superate attraverso la preghiera e il dialogo, ma c’è un contenuto centrale del messaggio di Cristo che possiamo annunciare tutti assieme: la paternità di Dio, la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte con la sua croce e risurrezione, la fiducia nell’azione trasformatrice dello Spirito. Mentre siamo in cammino verso la piena comunione, siamo chiamati ad offrire una testimonianza comune di fronte alle sfide sempre più complesse del nostro tempo, quali la secolarizzazione e l’indifferenza, il relativismo e l’edonismo, i delicati temi etici riguardanti il principio e la fine della vita, i limiti della scienza e della tecnologia, il dialogo con le altre tradizioni religiose. Vi sono poi ulteriori campi nei quali dobbiamo sin da ora dare una comune testimonianza: la salvaguardia del Creato, la promozione del bene comune e della pace, la difesa della centralità della persona umana, l’impegno per sconfiggere le miserie del nostro tempo, quali la fame, l’indigenza, l’analfabetismo, la non equa distribuzione dei beni.

L’impegno per l’unità dei cristiani non è compito solo di alcuni, né attività accessoria per la vita della Chiesa. Ciascuno è chiamato a dare il suo apporto per compiere quei passi che portino verso la comunione piena tra tutti i discepoli di Cristo, senza mai dimenticare che essa è innanzitutto dono di Dio da invocare costantemente. Infatti, la forza che promuove l’unità e la missione sgorga dall’incontro fecondo e appassionante col Risorto, come avvenne per San Paolo sulla via di Damasco e per gli Undici e gli altri discepoli riuniti a Gerusalemme. La Vergine Maria, Madre della Chiesa, faccia sì che quanto prima possa realizzarsi il desiderio del Suo Figlio: « Che tutti siano una sola cosa… perché il mondo creda » (Gv 17,21). Amen.

[ Con brevi aggiunte a braccio a cura di ZENIT]

Publié dans:Papa Benedetto XVI |on 26 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

Emerald Pool in Yellowstone

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Papa Benedetto XVI : Timoteo e Tito: due collaboratori di Paolo

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http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100126

Santi Timoteo e Tito, vescovi, memoria : Lc 10,1-9
Meditazione del giorno
Papa Benedetto XVI
Udienza generale del 13/12/06 – Copyright © Libreria Editrice Vaticana

Timoteo e Tito: due collaboratori di Paolo

        Ad essi sono indirizzate tre Lettere tradizionalmente attribuite a Paolo, delle quali due destinate a Timoteo e una a Tito, suoi due collaboratori più stretti. Timoteo è un nome greco e significa «che onora Dio». Mentre Luca negli Atti lo menziona sei volte, Paolo nelle sue lettere fa riferimento a lui ben diciassette volte (in più lo si trova una volta nella Lettera agli Ebrei). Se ne deduce che agli occhi di Paolo egli godeva di grande considerazione…

        Quanto poi alla figura di Tito, il cui nome è di origine latina, sappiamo che di nascita era greco, cioè pagano (cfr Gal 2,3). Paolo lo condusse con sé a Gerusalemme per il cosiddetto Concilio apostolico, nel quale fu solennemente accettata la predicazione ai pagani del Vangelo… Dopo la partenza di Timoteo da Corinto, Paolo vi inviò Tito con il compito di ricondurre quella indocile comunità all’obbedienza.

        Concludendo, se consideriamo unitariamente le due figure di Timoteo e di Tito, ci rendiamo conto di alcuni dati molto significativi. Il più importante è che Paolo si avvalse di collaboratori nello svolgimento delle sue missioni. Egli resta certamente l’Apostolo per antonomasia, fondatore e pastore di molte Chiese. Appare tuttavia chiaro che egli non faceva tutto da solo, ma si appoggiava a persone fidate che condividevano le sue fatiche e le sue responsabilità. Un’altra osservazione riguarda la disponibilità di questi collaboratori. Le fonti concernenti Timoteo e Tito mettono bene in luce la loro prontezza nell’assumere incombenze varie, consistenti spesso nel rappresentare Paolo anche in occasioni non facili. In una parola, essi ci insegnano a servire il Vangelo con generosità, sapendo che ciò comporta anche un servizio alla Chiesa stessa… Mediante il nostro impegno concreto dobbiamo e possiamo scoprire la verità di queste parole,… essere anche noi ricchi di opere buone e così aprire le porte del mondo a Cristo, il nostro Salvatore.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 26 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

CONVERSION DE SAINT PAUL – ANNANIAS IMPOSE LES MAINS SUR SAUL

CONVERSION DE SAINT PAUL - ANNANIAS IMPOSE LES MAINS SUR SAUL  dans immagini sacre 18%20RESTOUT%20ANNANIAS%20IMPOSE%20LES%20MAINS%20SUR%20SAUL%20LOUVRE

http://www.artbible.net/2NT/ACTS%2009_01%20THE%20CONVERSION%20OF%20SAUL…LA%20CONVERSION%20DE%20SAUL/index10.html

Publié dans:immagini sacre |on 25 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

San Giovanni Crisostomo: « Che devo fare, Signore ? »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100125

Conversione di San Paolo Apostolo (festa) : Mc 16,15-18
Meditazione del giorno
San Giovanni Crisostomo (circa 345-407), vescovo d’Antiochia poi di Costantinopoli, dottore della Chiesa
Omelia su san Paolo, 4, § 1-2

« Che devo fare, Signore ? »

Il beato Paolo, che ci raduna oggi, ha illuminato la terra. Nell’ora della sua chiamata è stato accecato ; eppure questa cecità ha fatto di lui una fiaccola per il mondo. Vedeva chiaro per fare il male ; nella sua sapienza, Dio lo ha accecato per poi rischiararlo per il bene. Dio non gli ha semplicemente manifestato la sua potenza ; gli ha anche rivelato il cuore della fede che avrebbe dovuto predicare. Occorreva cacciare lontano da lui tutti i suoi pregiudizi, chiudere gli occhi e abbandonare le false luci della ragione per scorgere la retta dottrina, « farsi stolto per diventare sapiente », come egli dirà più tardi (1 Cor 3,18)… Nessuno creda tuttavia che questa vocazione gli fosse stata imposta ; Paolo era libero di scegliere…

Ardente, impetuoso, Paolo aveva bisogno di un freno energico per non disprezzare, travolto dalla foga, la voce di Dio. Dio quindi ha prima represso tale impeto ; mentre lo colpisce di cecità, placa la sua ira ; poi gli parla. Gli fa conoscere la sua sapienza ineffabile, perché riconosca colui che prima combatteva e capisca che non può più resistere alla sua grazia. Non è la mancanza di luce che lo ha accecato, bensì la sovrabbondanza di luce.

Dio ha scelto proprio il momento ; Paolo è il primo a riconoscerlo : « Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio » (Gal 1, 15)…Impariamo dunque per bocca stessa di Paolo che nessuno ha mai trovato Cristo per mezzo del proprio spirito. È Cristo ad essersi rivelato e fatto conoscere. Così dice il Salvatore : « Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi » (Gv 15,16).

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 25 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

VENEZIANO THE CONVERSION OF ST. PAUL

VENEZIANO THE CONVERSION OF ST. PAUL dans immagini sacre 17%20VENEZIANO%20THE%20CONVERSION%20OF%20ST.%20PAUL

http://www.artbible.net/2NT/ACTS%2009_01%20THE%20CONVERSION%20OF%20SAUL…LA%20CONVERSION%20DE%20SAUL/slides/17%20VENEZIANO%20THE%20CONVERSION%20OF%20ST.%20PAUL.html

Publié dans:immagini sacre |on 24 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

Paolo: un aborto convertito alla Vita

dal sito:

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Paolo: un aborto convertito alla Vita

III Domenica del Tempo Ordinario e Festa della Conversione di san Paolo

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 23 gennaio 2009 (ZENIT.org).- “Colui che una volta ci perseguitava, ora va annunciando la fede che un tempo voleva distruggere” (Gal 1,23).

La conversione di Saulo in Paolo è un evento che Dio può rinnovare in qualunque tempo e momento, poiché la Sua misericordia è sempre in grado di volgere il male al bene, in modo che la cattiva notizia della persecuzione e dell’avversione al Vangelo, sia trasformata nella buona novella del Vangelo stesso.

Paolo era un nemico acerrimo del Vangelo, perché ai suoi occhi rappresentava il crollo e non il compimento dell’antica Legge, cosa che il suo zelo religioso non poteva tollerare, in nome del Dio di Israele.

E’ lui stesso a raccontarlo oggi: “Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne […] per esservi puniti” (At 22,4-5).

Sembra la confessione a Norimberga di un ufficiale della Gestapo!

Il terrore che il nome di Saulo suscitava nella comunità cristiana, ci permette di presupporre che, a Damasco, la notizia del suo imminente arrivo fosse giunta prima della sua caduta a terra sulla via: una notizia cattiva quanto un annuncio di morte. Chi poteva pensare che Saulo stava invece per giungere a Damasco “guidato per mano”? (At 22,11).

E’ lo stile di Dio e l’essenza stessa dell’evento pasquale, poter suscitare la vita dalla morte, ciò che è bene da ciò che è male, l’impensabile positivo dal suo opposto negativo, come il Risorto ricorda ai discepoli in cammino verso Emmaus: “Stolti e lenti di cuore a credere […] non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,25).

La notizia della crocifissione e morte del Signore Gesù li aveva abbattuti, perché, apparentemente, dava ragione agli stolti descritti dal salmo 14/13, del re Davide: “Lo stolto pensa: ‘Dio non c’è’. Sono corrotti,  fanno cose abominevoli: non c’è chi agisca bene” (v. 1).

Questo salmo, quanto mai attuale, viene intitolato “Il canto dell’ateo”, intendendo con questo termine non tanto colui che nega teoricamente l’esistenza di Dio, quanto piuttosto chi Lo ritiene lontano e indifferente nei confronti dell’uomo e della storia.

Leggo da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi: “Protagonista di questo salmo, che ha il tono di un’invettiva profetica, è l’ ‘ateo’. Il vocabolo ebraico che lo definisce è nabal, il cui significato comprende un ventaglio di possibilità: persona incosciente, irresponsabile,  folle, malvagia, stolta, immorale, assurda. E’ una follia radicale che si misura anche a livello morale […] Il nostro nabal dichiara che è irrilevante per l’uomo che Dio esista o non esista, dato che in ogni caso non interverrà nella nostra storia”

Al tempo di Davide non esistevano gli autobus, ma gli “stolti” circolavano come oggi.

Il messaggio lanciato nel mondo dall’ “Unione atei e agnostici razionalisti” (Uaar) per mezzo degli autobus cittadini,  dimostra tale stoltezza. 

Dice: “La cattiva notizia è che, probabilmente Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno”. E’ questa la versione italiana di uno slogan tradotto da quello inglese: “There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life= probabilmente Dio non esiste; smettila di preoccuparti e goditi la vita”. Questo “probabilmente”, serve a far capire che, anche se Dio esistesse, non avrebbe comunque nulla a che fare con la vicenda umana, sarebbe un “Motore immobile”, un Dio muto, impersonale.

Ma l’iniziativa dei bus atei, io credo, è destinata ad avere l’esito della missione di Paolo in viaggio per Damasco.

Leggiamone il racconto:

“Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me, caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? […] Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti” (22,6-8). Ecco: in un attimo il persecutore trasformato in apostolo.

Ironia della sorte? No, disegno provvidenziale di Dio! Saulo voleva spegnere l’Emittente divina e mettere in carcere gli ascoltatori-ripetitori, ma fu ammutolito e divenne il più formidabile araldo di quella notizia che voleva soffocare ed annientare, la buona notizia del  Vangelo.

Ciò non costituì, tuttavia, una interruzione della sua vita, un’inversione di marcia paragonabile ad uno che dovendo andare da Bologna a Bolzano, si rende finalmente conto di aver imboccato l’autostrada per Bari. Paolo lo afferma chiaramente altrove: “Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia” (Gal 1, 15-16).

Egli fa risalire il piano divino del “blitz” di Damasco (“sono stato afferrato da Cristo Gesù” – Fil 3,12b) all’inizio stesso della sua vita nel grembo materno. In effetti, se la sua fosse stata una “conversione” sarebbe tornato indietro verso Gerusalemme, come nell’esempio autostradale; invece proseguì, accettando di lasciarsi guidare per mano. Damasco, per Paolo, fu anzitutto rivelazione della sua nativa vocazione e missione; il contesto, tuttavia, rende chiaro che nello stesso tempo si trattò di un cambiamento radicale dell’orientamento della sua vita.

Potrei ancora spiegare così, estendendolo ad ognuno di noi: come non esiste soluzione di continuità tra l’inizio della vita umana nel concepimento e il suo termine alla morte, così la vocazione e missione personale che Dio assegna ad ogni uomo (quello di Paolo è un esempio paradigmatico per tutti, anche se il suo caso fu del tutto eccezionale), è una Parola già detta da Dio all’alba dell’esistenza, quando: “ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro” (Sal 139,16). Crescendo, l’uomo deve solo scoprirla, comprenderla e metterla in pratica, alla luce e con la forza della fede.

A questo punto sorge una domanda su Paolo, una domanda ineludibile anche e soprattutto se, a partire da lui, ci si interroga poi sull’iniziativa dei bus-atei: come si spiega, in profondità, l’accanimento con cui Saulo infieriva contro i cristiani? Ovverosia: come si spiega il successo dell’idea dei bus atei, che dalla British Humanist Association è stata ripresa negli U.S.A., in Australia, in Spagna ed ora approda anche in Italia?

Ecco una risposta verosimile, data sul piano delle naturali dinamiche psicologiche, che nulla toglie tuttavia al primato assoluto dell’iniziativa divina, ma anzi lo riconosce radicalmente: “C.G. Jung cercò di spiegare la conversione di Paolo con i suoi termini e concetti psicologici, e scrisse: ‘Saulo era già da tempo un cristiano, ma lo era inconsciamente: così si spiega il suo odio fanatico per i cristiani; perché il fanatismo è sempre presente in coloro che debbono soffocare un dubbio interiore […] Quello che non è in noi, non ci eccita neppure” (Anselm Grun, “Paolo e l’esperienza religiosa cristiana”, p. 22ss).

A sostegno di tale interpretazione, Grun cita la testimonianza resa dallo stesso Paolo: “Nel suo secondo discorso sull’esperienza della conversione, tenuto davanti al re giudeo Agrippa […] Paolo aggiunge queste parole di Gesù: ‘E’ duro per te rivoltarti contro il pungolo’ (At 26,14). Gesù gli spiega in maniera psicologica la persecuzione da lui intrapresa. Paolo non combatte solamente contro Gesù, bensì anche contro la propria convinzione. Nel suo intimo più profondo Saulo sa che cosa è la verità, ma non ne vuole prendere atto. Però a lungo andare non può andare contro il proprio essere. La fede cristiana, così ci dice Luca con questa frase, corrisponde all’essenza dell’uomo spirituale. Nessun uomo che cerca sinceramente, può, a lungo andare, imperversare contro il Cristo in lui presente” (pp. 25-6).

Il “pungolo” citato indica il bastone appuntito utilizzato per spingere il bestiame nella direzione voluta, ed è un modo di dire per significare la forza irresistibile del pungolo della misericordia di Cristo nei confronti del Suo persecutore, predestinato a diventare apostolo. Un pungolo che si vale anche dei meccanismi dell’inconscio. Un pungolo che rappresenta efficacemente la forza sempre vincente dell’Amore e della Vita. Colui che voleva sopprimere Cristo dichiarerà: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).

Al riguardo, in 1 Cor 15,8-9, Paolo narra la grazia di Damasco in termini  insoliti: “Ultimo fra tutti (Cristo) apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio”.

Definendosi un aborto, Paolo non manifesta solamente un senso di indegnità, per la quale Dio avrebbe dovuto scartarlo piuttosto che sceglierlo; egli tocca qui il mistero della vita e della morte, mistero che sta nelle mani di Dio solo, “Autore della vita” (At 3,15a).

Per definizione “aborto” è un cadavere, il corpo morto che viene espulso dal grembo. Paolo si definisce aborto perché egli era morto spiritualmente quando Gesù gli apparve; un aborto al quale il Pungolo divino restituì la vita quando lo afferrò e lo ghermì irresistibilmente sulla via di Damasco, dopo averlo tallonato fin dal grembo di sua madre.

Questa immagine dell’Amore instancabile e seducente di Dio, per contrasto, ne richiama una di segno opposto, suscitata inevitabilmente dalla parola “aborto”. Ha l’aspetto anch’essa di un pungolo, un pungolo di materia plastica tagliato a becco di flauto, un pungolo assassino che va a cercare nel grembo un uomo che tenta disperatamente di sfuggire alla morte. Alla fine lo raggiunge, ed egli muore lanciando un grido che nessuno può udire.

Ogni anno decine di milioni di esseri umani vengono fatti a pezzi così, da medici “persecutori” della Vita. Molti di loro, però, come Saulo, un giorno non hanno potuto più rivoltarsi contro il pungolo della Vita, al punto che ne sono diventati apostoli, e il loro annuncio risuona ancora oggi nel mondo intero.

L’Amore è un’onda più alta della morte, perché è l’onda insopprimibile e divina della Vita, dal concepimento all’eternità. Poiché l’Amore si è fatto carne in Gesù, che è risorto, la Vita ha vinto definitivamente la morte, per Sé e per tutti coloro che credono nel suo nome.  E’ questa la buona notizia che sta circolando da duemila anni, anche sugli autobus atei.

———

* Padre Angelo, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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