VENEZIANO THE CONVERSION OF ST. PAUL

dal sito:
http://www.zenit.org/article-16923?l=italian
Paolo: un aborto convertito alla Vita
III Domenica del Tempo Ordinario e Festa della Conversione di san Paolo
di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 23 gennaio 2009 (ZENIT.org).- “Colui che una volta ci perseguitava, ora va annunciando la fede che un tempo voleva distruggere” (Gal 1,23).
La conversione di Saulo in Paolo è un evento che Dio può rinnovare in qualunque tempo e momento, poiché la Sua misericordia è sempre in grado di volgere il male al bene, in modo che la cattiva notizia della persecuzione e dell’avversione al Vangelo, sia trasformata nella buona novella del Vangelo stesso.
Paolo era un nemico acerrimo del Vangelo, perché ai suoi occhi rappresentava il crollo e non il compimento dell’antica Legge, cosa che il suo zelo religioso non poteva tollerare, in nome del Dio di Israele.
E’ lui stesso a raccontarlo oggi: “Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne […] per esservi puniti” (At 22,4-5).
Sembra la confessione a Norimberga di un ufficiale della Gestapo!
Il terrore che il nome di Saulo suscitava nella comunità cristiana, ci permette di presupporre che, a Damasco, la notizia del suo imminente arrivo fosse giunta prima della sua caduta a terra sulla via: una notizia cattiva quanto un annuncio di morte. Chi poteva pensare che Saulo stava invece per giungere a Damasco “guidato per mano”? (At 22,11).
E’ lo stile di Dio e l’essenza stessa dell’evento pasquale, poter suscitare la vita dalla morte, ciò che è bene da ciò che è male, l’impensabile positivo dal suo opposto negativo, come il Risorto ricorda ai discepoli in cammino verso Emmaus: “Stolti e lenti di cuore a credere […] non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,25).
La notizia della crocifissione e morte del Signore Gesù li aveva abbattuti, perché, apparentemente, dava ragione agli stolti descritti dal salmo 14/13, del re Davide: “Lo stolto pensa: ‘Dio non c’è’. Sono corrotti, fanno cose abominevoli: non c’è chi agisca bene” (v. 1).
Questo salmo, quanto mai attuale, viene intitolato “Il canto dell’ateo”, intendendo con questo termine non tanto colui che nega teoricamente l’esistenza di Dio, quanto piuttosto chi Lo ritiene lontano e indifferente nei confronti dell’uomo e della storia.
Leggo da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi: “Protagonista di questo salmo, che ha il tono di un’invettiva profetica, è l’ ‘ateo’. Il vocabolo ebraico che lo definisce è nabal, il cui significato comprende un ventaglio di possibilità: persona incosciente, irresponsabile, folle, malvagia, stolta, immorale, assurda. E’ una follia radicale che si misura anche a livello morale […] Il nostro nabal dichiara che è irrilevante per l’uomo che Dio esista o non esista, dato che in ogni caso non interverrà nella nostra storia”
Al tempo di Davide non esistevano gli autobus, ma gli “stolti” circolavano come oggi.
Il messaggio lanciato nel mondo dall’ “Unione atei e agnostici razionalisti” (Uaar) per mezzo degli autobus cittadini, dimostra tale stoltezza.
Dice: “La cattiva notizia è che, probabilmente Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno”. E’ questa la versione italiana di uno slogan tradotto da quello inglese: “There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life= probabilmente Dio non esiste; smettila di preoccuparti e goditi la vita”. Questo “probabilmente”, serve a far capire che, anche se Dio esistesse, non avrebbe comunque nulla a che fare con la vicenda umana, sarebbe un “Motore immobile”, un Dio muto, impersonale.
Ma l’iniziativa dei bus atei, io credo, è destinata ad avere l’esito della missione di Paolo in viaggio per Damasco.
Leggiamone il racconto:
“Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me, caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? […] Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti” (22,6-8). Ecco: in un attimo il persecutore trasformato in apostolo.
Ironia della sorte? No, disegno provvidenziale di Dio! Saulo voleva spegnere l’Emittente divina e mettere in carcere gli ascoltatori-ripetitori, ma fu ammutolito e divenne il più formidabile araldo di quella notizia che voleva soffocare ed annientare, la buona notizia del Vangelo.
Ciò non costituì, tuttavia, una interruzione della sua vita, un’inversione di marcia paragonabile ad uno che dovendo andare da Bologna a Bolzano, si rende finalmente conto di aver imboccato l’autostrada per Bari. Paolo lo afferma chiaramente altrove: “Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia” (Gal 1, 15-16).
Egli fa risalire il piano divino del “blitz” di Damasco (“sono stato afferrato da Cristo Gesù” – Fil 3,12b) all’inizio stesso della sua vita nel grembo materno. In effetti, se la sua fosse stata una “conversione” sarebbe tornato indietro verso Gerusalemme, come nell’esempio autostradale; invece proseguì, accettando di lasciarsi guidare per mano. Damasco, per Paolo, fu anzitutto rivelazione della sua nativa vocazione e missione; il contesto, tuttavia, rende chiaro che nello stesso tempo si trattò di un cambiamento radicale dell’orientamento della sua vita.
Potrei ancora spiegare così, estendendolo ad ognuno di noi: come non esiste soluzione di continuità tra l’inizio della vita umana nel concepimento e il suo termine alla morte, così la vocazione e missione personale che Dio assegna ad ogni uomo (quello di Paolo è un esempio paradigmatico per tutti, anche se il suo caso fu del tutto eccezionale), è una Parola già detta da Dio all’alba dell’esistenza, quando: “ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro” (Sal 139,16). Crescendo, l’uomo deve solo scoprirla, comprenderla e metterla in pratica, alla luce e con la forza della fede.
A questo punto sorge una domanda su Paolo, una domanda ineludibile anche e soprattutto se, a partire da lui, ci si interroga poi sull’iniziativa dei bus-atei: come si spiega, in profondità, l’accanimento con cui Saulo infieriva contro i cristiani? Ovverosia: come si spiega il successo dell’idea dei bus atei, che dalla British Humanist Association è stata ripresa negli U.S.A., in Australia, in Spagna ed ora approda anche in Italia?
Ecco una risposta verosimile, data sul piano delle naturali dinamiche psicologiche, che nulla toglie tuttavia al primato assoluto dell’iniziativa divina, ma anzi lo riconosce radicalmente: “C.G. Jung cercò di spiegare la conversione di Paolo con i suoi termini e concetti psicologici, e scrisse: ‘Saulo era già da tempo un cristiano, ma lo era inconsciamente: così si spiega il suo odio fanatico per i cristiani; perché il fanatismo è sempre presente in coloro che debbono soffocare un dubbio interiore […] Quello che non è in noi, non ci eccita neppure” (Anselm Grun, “Paolo e l’esperienza religiosa cristiana”, p. 22ss).
A sostegno di tale interpretazione, Grun cita la testimonianza resa dallo stesso Paolo: “Nel suo secondo discorso sull’esperienza della conversione, tenuto davanti al re giudeo Agrippa […] Paolo aggiunge queste parole di Gesù: ‘E’ duro per te rivoltarti contro il pungolo’ (At 26,14). Gesù gli spiega in maniera psicologica la persecuzione da lui intrapresa. Paolo non combatte solamente contro Gesù, bensì anche contro la propria convinzione. Nel suo intimo più profondo Saulo sa che cosa è la verità, ma non ne vuole prendere atto. Però a lungo andare non può andare contro il proprio essere. La fede cristiana, così ci dice Luca con questa frase, corrisponde all’essenza dell’uomo spirituale. Nessun uomo che cerca sinceramente, può, a lungo andare, imperversare contro il Cristo in lui presente” (pp. 25-6).
Il “pungolo” citato indica il bastone appuntito utilizzato per spingere il bestiame nella direzione voluta, ed è un modo di dire per significare la forza irresistibile del pungolo della misericordia di Cristo nei confronti del Suo persecutore, predestinato a diventare apostolo. Un pungolo che si vale anche dei meccanismi dell’inconscio. Un pungolo che rappresenta efficacemente la forza sempre vincente dell’Amore e della Vita. Colui che voleva sopprimere Cristo dichiarerà: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).
Al riguardo, in 1 Cor 15,8-9, Paolo narra la grazia di Damasco in termini insoliti: “Ultimo fra tutti (Cristo) apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio”.
Definendosi un aborto, Paolo non manifesta solamente un senso di indegnità, per la quale Dio avrebbe dovuto scartarlo piuttosto che sceglierlo; egli tocca qui il mistero della vita e della morte, mistero che sta nelle mani di Dio solo, “Autore della vita” (At 3,15a).
Per definizione “aborto” è un cadavere, il corpo morto che viene espulso dal grembo. Paolo si definisce aborto perché egli era morto spiritualmente quando Gesù gli apparve; un aborto al quale il Pungolo divino restituì la vita quando lo afferrò e lo ghermì irresistibilmente sulla via di Damasco, dopo averlo tallonato fin dal grembo di sua madre.
Questa immagine dell’Amore instancabile e seducente di Dio, per contrasto, ne richiama una di segno opposto, suscitata inevitabilmente dalla parola “aborto”. Ha l’aspetto anch’essa di un pungolo, un pungolo di materia plastica tagliato a becco di flauto, un pungolo assassino che va a cercare nel grembo un uomo che tenta disperatamente di sfuggire alla morte. Alla fine lo raggiunge, ed egli muore lanciando un grido che nessuno può udire.
Ogni anno decine di milioni di esseri umani vengono fatti a pezzi così, da medici “persecutori” della Vita. Molti di loro, però, come Saulo, un giorno non hanno potuto più rivoltarsi contro il pungolo della Vita, al punto che ne sono diventati apostoli, e il loro annuncio risuona ancora oggi nel mondo intero.
L’Amore è un’onda più alta della morte, perché è l’onda insopprimibile e divina della Vita, dal concepimento all’eternità. Poiché l’Amore si è fatto carne in Gesù, che è risorto, la Vita ha vinto definitivamente la morte, per Sé e per tutti coloro che credono nel suo nome. E’ questa la buona notizia che sta circolando da duemila anni, anche sugli autobus atei.
———
* Padre Angelo, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
dal sito:
http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/problematiche/salvagcreato.htm
LA SALVAGUARDIA DEL CREATO
NELLA PROSPETTIVA CRISTIANO-ORTODOSSA
L’ecologia è tema importante e attuale. Oggi è molto comune concepirla in relazione all’azione benefica o dannosa dell’uomo. In tali termini se ne parla dappertutto: nei convegni, nei mass media, nelle scuole. Il tema ecologico fa parte perfino delle linee programmatiche di qualche partito politico. In tutto ciò si può dire che esista la coscienza d’un legame tra l’agire esterno dell’uomo e l’ambiente che lo circonda. Pochi, però, legano la realtà ecologica all’agire intimo dell’uomo, a ciò che l’uomo matura nel suo cuore. Forse l’uomo occidentale, oramai lontano da ogni discorso religioso, pensa che considerare questa prospettiva possa comportare una costrizione moralistica appartenente ad un modo d’essere oramai estraneo alla sua cultura secolarizzata. Dire che la natura soffre a causa d’una scelta morale sbagliata significa far giungere a questo uomo il seguente messaggio: “Devi fare il buono altrimenti farai soffrire la natura che ti castigherà!”. È certamente comprensibile che, una proposta di tal genere, crea una ribellione e quindi il rifiuto di considerare tale strada come una possibile soluzione.
Oggi l’Ortodossia ha molto da dire sul tema ecologico. Lo stile con il quale affronta tale argomento si può individuare nei due seguenti punti:
a) L’Ortodossia non si preoccupa dell’ecologia come se fosse qualcosa di assolutamente essenziale. Essa conosce che la soluzione, a questo problema, soluzione che qui e ora non potrà mai essere assoluta, è data da un altro atteggiamento: quello di cercare prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia. Tutto il resto verrà dato in sopraggiunta e quindi anche una parziale e concreta soluzione al problema ecologico.
b) L’Ortodossia non affronta l’argomento in forma estrinseca all’uomo. Non crede, infatti, che basta qualche legge o un comportamento esterno più corretto per migliorare il mondo. Affronta l’argomento in maniera intrinseca senza che questo la faccia cadere in una bieca prospettiva moralistica.
Nei seguenti capitoli sono esposti alcuni argomenti con i quali si può ricevere un’idea più precisa sul modo ortodosso di concepire e risolvere tale problema.
La radice del problema ecologico
Il primo argomento che l’Ortodossia mette in campo, davanti al problema ecologico, è rinvenibile nel libro della Genesi, laddove viene descritta la creazione e la caduta dell’uomo. All’inizio Dio, creando l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza, dice loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”[1]. Questo genere di dominio è stato spesso inteso nei termini di “sfruttamento”. Può esserci stato, così, chi ha visto nel Cristianesimo la causa iniziale dell’attuale disastro ecologico. Ma questa deduzione è incredibilmente superficiale e chi la fa dimostra veramente di non conoscere lo spirito autentico del Cristianesimo! Dio, nella Genesi, da certamente l’ordine all’uomo di soggiogare e dominare la creazione. Ma tale uomo non è un uomo qualsiasi. È l’uomo “ad immagine e somiglianza” divina. Possiamo proprio dire che l’uomo dell’aggressivo capitalismo odierno è l’uomo ad immagine e somiglianza divina, l’erede dell’autentica cultura cristiana? C’è più di qualche problema ad affermarlo dal momento che l’uomo, dal punto di vista cristiano, diviene aggressivo quand’è lontano dalla vera vita evangelica.
Se proseguiamo nel racconto biblico notiamo, infatti, come l’uomo caduto nel peccato primordiale diventa un’altra persona. Perde la somiglianza divina pur conservandone l’immagine. A partire da quest’istante avvengono una serie di disgrazie che possono essere riassunte nella rottura della relazione dell’uomo con Dio, con se stesso, con il suo simile e con la natura. L’uomo ha paura e si nasconde, percepisce la sua nudità e ne prova vergogna, scarica sul suo simile la responsabilità d’una azione nella quale vi ha concorso. Queste particolarità comportamentali sfociano in aperta tragedia nel caso del racconto di Caino e Abele finendo per amplificare ulteriormente la distanza tra l’uomo e il creato. Nel passo biblico relativo a questo racconto Dio dice: “Ora [Caino] sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra”[2]. D’ora in poi, un’ombra oscura attraversa la storia dell’umanità e la storia di qualunque uomo che rinnova, nella sua vita, la vicenda di Adamo e di Caino. Esiste, allora, un modo per ricondurre questa frantumazione alla sua primigenia unità e per operare una guarigione? La triste storia umana è, d’ora in avanti, chiamata ad attraversare la valle delle lacrime ma non finisce in tragedia. Ne è presagio il fatto che l’uomo, pur avendo deturpato la somiglianza divina, conserva sempre l’immagine. Origene ricorda: “Il Figlio di Dio è il pittore di quest’immagine [divina nell’uomo]: e poiché tale e così grande è il pittore, la sua immagine non può essere oscurata per l’incuria, ma non può essere cancellata per la malvagità. Infatti l’immagine di Dio rimane sempre, anche se tu vi sovrapponi l’immagine del terrestre”[3].
Il pensiero filosofico dietro al problema ecologico
Il disastro ecologico attuale, piuttosto che avere delle fantomatiche cause cristiane ha dei presupposti filosofici erronei. Lo smarrimento dell’antropologia semitica, propria anche al mondo patristico, ha fatto comparire in Occidente, attorno al XIII secolo, alcuni antichi concetti pagani con i quali si divideva rigorosamente il mondo materiale da quello spirituale. Succubi di questi concetti ellenistici antichi, alcuni occidentali cominciarono a teorizzare che l’asceta il quale, fino a poco prima fuggiva dal mondo, era ora chiamato a disprezzarlo e a praticare su se stesso un’ascesi attraverso la quale il corpo era compreso come un peso e un castigo per l’anima[4]. Bisogna purtroppo dire che questi concetti, completamente estranei al Cristianesimo antico, attraversarono in profondità la Cristianità occidentale. Oggi i teologi cattolici ammettono serenamente che tale fenomeno, rinvenibile ancora nel recente passato, è stato felicemente superato con il recupero dell’antica prospettiva. In essa c’è la coscienza che non è possibile separare il mondo materiale da quello spirituale dal momento che le due realtà, pur rimanendo distinte, si compenetrano. Per lo stesso motivo, l’Ortodossia non ammette la separazione del naturale dal soprannaturale preferendo esprimersi nei termini di creato-increato. Psiché e soma (anima e corpo) stanno dunque assieme. Così lo spirito anima e abita la materia. La materia e il corpo, a differenza della concezione pagana, sono fatti per Dio al punto che Dio si compiace di abitare nell’uomo. “Il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo”[5] ricorda a tal proposito l’apostolo Paolo.
Natura come luogo teofanico
La natura, però, non è solo un dono divino ma, per l’Ortodossia, un luogo teofanico un luogo, cioè, nel quale si manifesta e si affaccia qualcosa della realtà divina. Questa prospettiva così positiva non ci è facilmente comprensibile a causa dei retaggi culturali precedentemente esposti. Inoltre, la comprensione è ostacolata da un’altro motivo più prettamente teologico. Per l’Ortodossia, Dio è presente nelle sue energie che pervadono il cosmo. Rimane trascendente nella sua realtà sostanziale e immanente e conoscibile attraverso le sue energie. In questo senso, il cosmo è una realtà teofanica dal momento che, pervaso delle energie divine, ci manifesta qualcosa del Creatore. La teologia occidentale, che si sviluppò a partire da quella agostiniana, vede in Dio la sostanza senza le energie. Con questi presupposti, chiunque abbia definito il creato come teofanico è stato sempre giustamente considerato panteista. Il limite intrinseco a questa visione è quello di non spiegare come il creato partecipa in Dio. La partecipazione viene allora affermata, dal momento che è un dato rivelato, ma non spiegata. Nel mondo biblico questa partecipazione è un dato scontato. Tuttavia gli agiografi si esprimono senza utilizzare quei termini introdotti posteriormente e provenienti dal fecondo incontro tra cristianesimo e cultura ellenistica, incontro nel quale i concetti semitici sono rimasti inalterati nel loro significato pur esprimendosi attraverso dei termini ellenistici. Così, per l’apostolo Paolo, la partecipazione della natura in Dio avviene attraverso il suo coinvolgimento nella passione e risurrezione di Cristo. Il ktísis (creato) geme nell’attesa del ritorno del Salvatore: “Sappiamo bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”[6].
La partecipazione del creato in Dio è un concetto che oggi crea molta difficoltà d’accoglienza proprio perché Dio è stato filosoficamente isolato per poi essere negato, dopo aver creduto ad una presunta autonomia del mondo. Non essendo più riconosciuto come segno di un’altra Realtà, il mondo, agli occhi umani, è decaduto ed è divenuto oggetto di bramosia e sfruttamento. Ciò che è importante notare è che la radice di questa decadenza esterna sta proprio nel cuore umano, nell’intima decisione dell’uomo di possedere sempre più dopo aver gettato lontano da sé la prospettiva dell’essere che comporta inevitabilmente la considerazione d’un Dio intimo all’uomo, non filosoficamente sradicato dalla sua realtà.
La secolarizzazione
La decadenza esterna, radicata nel cuore umano, è sintomo d’una malattia che ha un nome specifico: secolarizzazione. La secolarizzazione è una realtà complessa da spiegare e analizzare anche se la sua radice può essere individuata con certezza. Essa pervade ogni cosa e può toccare pure i membri e le strutture della Chiesa se questi ultimi distolgono anche un solo istante gli occhi dal loro Salvatore. La Chiesa è il Corpo di Cristo manifestato storicamente nella Pentecoste e, in sé, trasforma il mondo per trasfigurarlo. Con la caduta dei Protoplasti, Adamo ed Eva, tutto il creato è stato trascinato nella corruzione, dal momento che i due erano il segno più alto della creazione e intimamente legati ad essa. La creazione, infatti, “…è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”[7]. La caduta dell’umanità ha comportato l’oscuramento della mente umana determinando terribili conseguenze per tutto il creato. L’alienazione è apparsa in ogni genere di rapporto dal momento che la caduta ha avuto conseguenze antropologiche, naturali e sociali.
Dinnanzi a ciò, la Chiesa ortodossa non dice solo di tornare a vivere senza peccato ma di trasfigurare la propria vita perché sa che solo nella trasfigurazione avviene la restaurazione di tutto in Cristo[8]. Dunque non si tratta solo di portare l’uomo alla condizione precedente alla sua caduta ma di elevarlo ancor più: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”[9] dice Cristo. La terapia alla frantumazione esistenziale causata dal peccato è data, per l’uomo, nel momento in cui entra come membro vivente nel Corpo di Cristo che è la Chiesa. Attraversando questa porta, l’uomo conduce con sé tutto il creato e lo trasfigura mediante lui. Creato e uomo divengono, allora, Regno di Dio perché passano dalla prospettiva di un’esistenza frantumata a quella d’una vita unita in Dio, di fronte a Dio e per Dio. Ecco perché si dice che la gloria di Dio è l’uomo vivente.
Nel cuore umano
Come si vede, questa prospettiva è ben lontana da quella di chi pensa di risolvere i problemi ecologici con qualche legge, disposizione normativa, programma politico o con qualche pia esortazione morale. La radice dei problemi è sempre nel cuore dell’uomo ed è là che si deve tornare per trovare una cura. Parlare di trasfigurazione dell’uomo e del creato non significa solo richiamare la situazione edenica e la restaurazione iniziata e manifestata con la Pentecoste. Significa richiamare anche gli eschata (le ultime realtà) i quali anticipano già da ora le realtà che si manifesteranno nel futuro quando il lupo dimorerà con l’agnello, secondo la bella immagine del profeta Isaia[10]. La trasfigurazione dell’uomo si collega con questo vissuto escatologico già da ora come se fosse un fidanzamento del quale l’eschaton è l’immagine matrimoniale, come dicono i Santi Padri. L’aspetto ortodosso sull’ escatologia ha carattere diacronico: la protostoria si unisce con la storia futura e affiora iconicamente nel presente (ecco perché in questa vita non esiste una soluzione definitiva contro il male e il problema ecologico). Ciò significa che il Regno di Dio e tutti i fatti degli eschata sono stati vissuti nel passato dai Protoplasti prima della loro caduta. Vengono vissuti nel presente della storia dai santi e dagli uomini divinizzati ma non come una realtà permanente essendo, piuttosto, specchio ed enigmata delle cose future[11]. Saranno vissuti in perfetto grado dopo la resurrezione dei corpi. Allora l’unico vero scopo della Chiesa consiste nel trasfigurare la storia cioè l’uomo e il creato nella dinamica degli eschata[12]. Quest’azione non è vaga promessa o vuota teoria perché avviene in un luogo, la Chiesa comunità dei salvati, e con dei mezzi specifici, i sacramenti, che sono lievito in grado di fermentare tutta la creazione. La porta della Chiesa attraverso la quale l’uomo entra è il sacramento del battesimo che compie ciò che significa. Tale sacramento con tutto ciò che lo precede (la catechesi) e che lo segue (la vita evangelica), rinnova l’uomo, lo libera dalla morte e dal diavolo e ha forti conseguenze sociologiche e cosmiche. Così anche il creato riceve le conseguenze benefiche della vittoria di Cristo sulla morte. Infatti la natura non ha volontà morale propria ma viene trascinata dall’uomo alla corruzione. Quando l’uomo si trasfigura anche il creato torna al suo orientamento primigenio. Sant’Isacco il Siro dice a tal proposito:
P. Paisios del Monte Athos colto dall’obiettivo mentre parla ad un uccello selvatico.
“L’umile si avvicina agli animali selvaggi e, quando questi lo vedono, la loro selvatichezza si tranquillizza, gli si accostano come ad un padrone, gli piegano le loro teste e gli leccano le mani e i piedi, perché hanno avvertito in lui lo stesso profumo emanato da Adamo prima del peccato”[13].
Con ciò, si dimostra che il Santo Battesimo non è una semplice cerimonia slegata dalla vita, una tradizione folclorica e un momento emotivo. È il Sacramento dell’ingresso dell’uomo nel Corpo di Cristo. Con tale ingresso, l’uomo supera la morte e partecipa all’energia purificatrice, illuminatrice e divinizzatrice di Dio. La cristificazione dell’uomo e, di conseguenza, quella di tutto il Creato, avviene progressivamente lungo l’arco di tutta l’esistenza con la benefica azione degli altri sacramenti. All’interno di tali presupposti, il battezzato vive la nuova creazione della Chiesa.
L’ascesi quale attività a beneficio di sè e di tutti
La Chiesa e i sacramenti non sono gli unici elementi essenziali per operare questa trasformazione. È infatti necessaria anche l’attività umana affinché la forza divina si infonda in un cuore pulito e svuotato dalle bramosie umane. Per pulire e svuotare il cuore da tutto ciò che impedisce a Dio di agire, la Chiesa ortodossa indica un mezzo efficace: l’ascesi cioè la rinuncia a sé stessi e il vivere per Dio. Attraverso questa scelta scandalosa si muore a se stessi e si trova un’altra vita che si manifesta e si espande al di fuori della persona. Questi sono i presupposti ulteriori attraverso i quali il cristiano sviluppa la dinamica evangelica ed escatologica. Una vita cristiana e sacramentale staccata dalla vita evangelica diviene bestemmia e causa di scandalo per altri. Una vita apparentemente cristiana ma svuotata del suo senso è come una vernice che si stacca e fa vedere la ruggine sottostante. Nel nostro caso, però, ci sono conseguenze ancora peggiori. Chiesa e sacramenti senza ascesi, significano nascondere e tradire la vita che pulsa sotto i simboli sacramentali. Significano affermare che Cristo è la salvezza e, nello stesso tempo, negarlo. Significano accettare e, allo stesso tempo, negare. Operare in questo modo, oltre a non fare entrare nel Regno (così non è possibile riconoscere la vita divina) e impedire altri di entrarvi, impedisce di riconoscere che nella vita cristiana c’è una soluzione anche per il problema ecologico.
Tutte le cose che abbiamo detto operano ciò che promettono solo se sono contemporaneamente presenti. Se ne manca anche una non succede nulla. Se c’è la Chiesa ma non ci sono i sacramenti, se ci sono i sacramenti ma non c’è la vita ascetica non succede nulla. Così la Chiesa non diviene segno tra le genti. Viceversa, quando ci sono tutti i retti presupposti, esiste anche l’ascesi ecclesiale che ricapitola un modo di vita che si trova agli antipodi della società del consumo e della violazione della materia del mondo.
Nella tradizione ecclesiale l’unità della persona e il rispetto per il cosmo
In realtà è tutto legato! Nell’Ortodossia non si può separare teologia da vita morale e spirituale, liturgia da Chiesa, comunità da persona. Non si può separare peccato personale dal danno nella società e nel creato. Così chi ha raggiunto un certo livello spirituale, oltre ad aver raggiunto la pace interiore, non ha più bisogno di cercare fuori di sè, di disperdersi in molte cose, di lasciare il segno della sua insofferenza sul mondo e sul creato. “Coloro che coltivano Cristo e la verità – dice san Gregorio di Nissa – ricevono dalla grazia dello Spirito, tramite la fede e l’impegno nella virtù, i beni superiori alla loro natura, ne godono con un’ineffabile gioia e realizzano un amore schietto e immutabile, una fede inamovibile, una pace che non conosce cadute, la vera bontà e tutti gli altri beni”[14]. E il creato riconosce tutto questo e ne gode perché, come si rovina e soffre per il peccato umano, così gioisce e splende quando viene introdotto, attraverso l’azione dell’uomo, in una vita che è significativa icona di quella che ci attende[15]. Infatti l’uomo redento e salvato da Cristo spande attorno a sè quella salvezza che lo ha cambiato e cambia il mondo. Se ciò non avviene, al punto che la terra stessa soffre e muore, l’uomo deve tornare a ricuperare uno stile e una vita che possono essere efficacemente assunte solo nella sua profonda conversione a Dio.
Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Salvaguardia.htm
————————
[1] Gen 1, 28.
[2] Gen 4, 11-12.
[3] Origene, Omelie sulla Genesi, XIII, 4.
[4] Cfr. L’introduzione di Renato D’Antiga in Lotario di Segni, Il disprezzo del mondo, Pratiche Editrice, 1994, pp. 9-21.
[5] I Cor 6,19.
[6] Rom 8, 22-23.
[7] Rom 8, 19-21.
[8] Ef 1, 10.
[9] Gv 10,10.
[10] Isaia 11,6.
[11] Cfr. 1 Cor 13,12.
[12] Ap 22,13.
[13] Isacco il Siro, Opere ascetiche, Rigopoulos, 1977, p. 78.
[14] Gregorio di Nissa, Fine professione e perfezione del cristiano, Città Nuova, Roma 1979, p. 60.
[15] Rom 8, 21.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100124
III Domenica delle ferie del Tempo Ordinario – Anno C : Lc 1,1-4#Lc 4,14-21
Meditazione del giorno
Sant’Ambrogio (circa 340-397), vescovo di Milano e dottore della Chiesa
Commento sui salmi, 1, 33 ; CSEL 64, 28-30
« Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi »
Dissétati prima all’Antico Testamento, per poter bere quindi dal Nuovo. Se non berrai al primo, non potrai bere al secondo. Bevi al primo per alleviare la tua sete, bevi al secondo per dissetarti appieno… Bevi l’uno e l’altro calice, quello dell’Antico e quello del Nuovo Testamento, perché in ambedue bevi Cristo. Bevi Cristo che è la vite (Gv 15,1), bevi Cristo che è la pietra da cui scaturì l’acqua (1 Cor 10,3). Bevi Cristo che è la fonte della vita (Sal 36,10); bevi Cristo perché egli è “il fiume che allieta la città di Dio (Sal 45,5); bevi Cristo che è la pace (Ef 2,14); bevi Cristo perché “fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,38). Bevi Cristo per dissetarti col sangue da cui sei stato redento; bevi Cristo, bevi la sua parola: sua parola è l’Antico e il Nuovo Testamento. Si beve la sacra Scrittura, anzi la si devora, quando fluisce nell’anima e le dà vigore la linfa del Verbo eterno. Infine, “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3; Mt 4,4). Bevi questa parola, ma bevila nell’ordine in cui essa procede: prima nell’Antico Testamento, poi nel Nuovo.
Egli dice infatti quasi con premura : “Popolo che cammini nelle tenebre, vedi questa grande luce; su di te che abiti in terra tenebrosa, una luce rifulge” (Is 9,2 LXX). Bevi subito dunque, perché su di te splenda una gran luce: non la luce comune, quella del giorno, del sole o della luna, ma la luce che dissipa l’ombra della morte.