Gesù predica nella Sinagoga

dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/17133.html
Omelia (24-01-2010)
don Carlo Occelli
Appassioniamoci: ora!
Eccoci finalmente al vangelo di Luca che d’ora in poi leggeremo con maggiore continuità. Abbiamo ancora in cuore, credo, la grande festa di Cana: l’incontro con il Dio di Gesù è una festa. Abbasso la rassegnazione e i musi lunghi!
Il vangelo di Luca dunque: abbiamo letto due brani distinti. La prima parte è proprio l’inizio del suo vangelo, l’introduzione a tutto ciò che verrà scritto dopo. La seconda parte salta al capitolo quarto, quando Gesù entra nella sinagoga e inizia la sua predicazione pubblica.
Prendiamoci un attimino per ammirare i primi versetti: Luca sostanzialmente ci dice: ragazzi, non sono qui a contare delle favolette, degli edificanti racconti sulla vita di un grande uomo di nome Gesù, tutte le fantasticherie che si sono dette su di lui, ma che non sono state mai provate.
No, Luca è un tipo tosto e ci dice subito che ha fatto un lavoro storico preciso e dettagliato: « così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo ».
Insomma Luca ci dice che il vangelo è una cosa seria. E fa’ un ottimo lavoro.
Penso ad un aspetto molto semplice della nostra vita: quando amiamo qualcuno, quando conosciamo qualcuno magari da poco tempo e con lui instauriamo un rapporto di amicizia e conoscenza reciproca, cerchiamo di conoscerlo meglio possibile. Ma vale lo stesso con alte persone, a cui ci sentiamo molto uniti, e che conosciamo da tempo. Siamo avidi di notizie, ci informiamo: che cosa hai fatto? Chi hai visto? E con quella persona di cosa avete parlato?… Tutto ciò per entrare in un rapporto di intimità con l’altro.
Anzitutto me lo immagino così Luca: mentre se ne va in giro a chiedere più informazioni possibili, con taccuino alla mano. E in lui cresce sempre di più il desiderio di saperne di più del maestro di Nazareth: si dice di quella volta che Gesù entrò in sinagoga e lesse le scritture ad alta voce. « Ah si? » – dice Luca – « Avanti raccontami com’è andata! E quale brano lesse? E quali furono le reazioni? E lui?… »
Luca si appassiona, ci mette l’anima nel conoscere Gesù.
Anzitutto per un motivo molto semplice che, immagino, tutti sappiate. Luca, medico di Antiochia, Gesù non l’ha mai incontrato.
Ma dai! Figurati, era un evangelista, vuoi che non abbia conosciuto Gesù?!
No. Luca, che vive appunto ad Antiochia, conosce Gesù attraverso San Paolo… e se ne innamora! Perdutamente! Eppure non l’ha mai visto dal vivo.
Caro Luca, quanto mi sei vicino! Anch’io non ho mai visto Gesù in carne ed ossa, ma talvolta sono convinto che… beh… se avessi avuto anch’io la fortuna degli apostoli, se anch’io l’avessi sentito predicare o visto fare i miracoli, allora sarebbe tutto diverso, tutto mi sembrerebbe più vero! Ci crederei veramente!
E invece Luca mi viene a raccontare che neppure lui l’ha visto, eppure gli ha cambiato la vita, per sempre. Eppure ha creduto!
E noi: quanto conosciamo Gesù? Quanto ci appassioniamo nel conoscerlo?
Siamo sinceri dai! Siamo estremamente pigri: noi cristiani sappiamo così poco di Gesù! Poi magari ci scaldiamo con i dibattiti televisivi, o con gli amici durante una cena, o con i colleghi per la questione della croce a scuola… ma quanto conosciamo Gesù?
La fede è animata dalla ricerca, dalla passione di conoscere, indagare, sapere i minimi particolari… questo ci racconta Luca.
Caro amico: se sei affascinato da Gesù, non smettere di ricercare, e non accontentarti! Indaga, conosci, approfondisci!
Magari suona anche al campanello del tuo prete! E domandagli di parlarti di Gesù!
Ci avete mai pensato? Ai preti domandiamo i sacramenti, l’aiuto per un posto di lavoro, di cambiare le date del catechismo, di occuparsi dei nostri figli, di portarci in vacanza a un prezzo low cost, di animare i giovani… e se gli chiedessimo ogni tanto di parlarci di Gesù?
Sono battute paradossali eh… però pensaci!
Ecco che Luca ci invita ad appassionarci, con cura, al nostro maestro! Mi sono dilungato un pochino, ma credo sia proprio importante riguadagnare sempre lo spirito della ricerca: con gioia eh!!!
Dunque Gesù entra nella sinagoga, cambiamo pagina. E Luca, nella puntigliosità con cui vuole raccontarci gli avvenimenti, ci narra tutto come se usasse la moviola.
Provate a rileggere quelle righe con calma, immaginandovi quello che sta accadendo, con una telecamera nascosta.
La sinagoga è gremita come ogni sabato. Gesù è da un po’ che non viene a Nazareth, si cominciano a raccontare alcuni episodi su di lui, ma nessuno sa bene cosa stia facendo.
Eccolo che entra. Sento i suoi passi sulla terra battuta. Il poco brusio che c’era un attimo prima svanisce. Gli occhi di tutti sono puntati su di lui: studiano ogni movimento del suo corpo. Sa di essere osservato.
(Signore Gesù, fammi sentire i tuoi passi. Fammeli riconoscere, i tuoi, tra i milioni di passi che odo. Fammi riconoscere i tuoi passi quando, ogni eucaristia, entri nelle nostre chiese, mischiandoti in mezzo alla folla, seduto nei banchi, mischiato alla gente comune.)
Gli passano il rotolo della Scrittura… non perdo una parola…
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore
Sono povero… cieco… prigioniero… oppresso…
Sei dunque venuto per me, Signore?
E quando accadrà che mi libererai, inondandomi, di gioia?
« OGGI… si è adempiuta questa scrittura… »
OGGi.
Buona settimana!
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/17133.html
Omelia (24-01-2010)
don Carlo Occelli
Appassioniamoci: ora!
Eccoci finalmente al vangelo di Luca che d’ora in poi leggeremo con maggiore continuità. Abbiamo ancora in cuore, credo, la grande festa di Cana: l’incontro con il Dio di Gesù è una festa. Abbasso la rassegnazione e i musi lunghi!
Il vangelo di Luca dunque: abbiamo letto due brani distinti. La prima parte è proprio l’inizio del suo vangelo, l’introduzione a tutto ciò che verrà scritto dopo. La seconda parte salta al capitolo quarto, quando Gesù entra nella sinagoga e inizia la sua predicazione pubblica.
Prendiamoci un attimino per ammirare i primi versetti: Luca sostanzialmente ci dice: ragazzi, non sono qui a contare delle favolette, degli edificanti racconti sulla vita di un grande uomo di nome Gesù, tutte le fantasticherie che si sono dette su di lui, ma che non sono state mai provate.
No, Luca è un tipo tosto e ci dice subito che ha fatto un lavoro storico preciso e dettagliato: « così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo ».
Insomma Luca ci dice che il vangelo è una cosa seria. E fa’ un ottimo lavoro.
Penso ad un aspetto molto semplice della nostra vita: quando amiamo qualcuno, quando conosciamo qualcuno magari da poco tempo e con lui instauriamo un rapporto di amicizia e conoscenza reciproca, cerchiamo di conoscerlo meglio possibile. Ma vale lo stesso con alte persone, a cui ci sentiamo molto uniti, e che conosciamo da tempo. Siamo avidi di notizie, ci informiamo: che cosa hai fatto? Chi hai visto? E con quella persona di cosa avete parlato?… Tutto ciò per entrare in un rapporto di intimità con l’altro.
Anzitutto me lo immagino così Luca: mentre se ne va in giro a chiedere più informazioni possibili, con taccuino alla mano. E in lui cresce sempre di più il desiderio di saperne di più del maestro di Nazareth: si dice di quella volta che Gesù entrò in sinagoga e lesse le scritture ad alta voce. « Ah si? » – dice Luca – « Avanti raccontami com’è andata! E quale brano lesse? E quali furono le reazioni? E lui?… »
Luca si appassiona, ci mette l’anima nel conoscere Gesù.
Anzitutto per un motivo molto semplice che, immagino, tutti sappiate. Luca, medico di Antiochia, Gesù non l’ha mai incontrato.
Ma dai! Figurati, era un evangelista, vuoi che non abbia conosciuto Gesù?!
No. Luca, che vive appunto ad Antiochia, conosce Gesù attraverso San Paolo… e se ne innamora! Perdutamente! Eppure non l’ha mai visto dal vivo.
Caro Luca, quanto mi sei vicino! Anch’io non ho mai visto Gesù in carne ed ossa, ma talvolta sono convinto che… beh… se avessi avuto anch’io la fortuna degli apostoli, se anch’io l’avessi sentito predicare o visto fare i miracoli, allora sarebbe tutto diverso, tutto mi sembrerebbe più vero! Ci crederei veramente!
E invece Luca mi viene a raccontare che neppure lui l’ha visto, eppure gli ha cambiato la vita, per sempre. Eppure ha creduto!
E noi: quanto conosciamo Gesù? Quanto ci appassioniamo nel conoscerlo?
Siamo sinceri dai! Siamo estremamente pigri: noi cristiani sappiamo così poco di Gesù! Poi magari ci scaldiamo con i dibattiti televisivi, o con gli amici durante una cena, o con i colleghi per la questione della croce a scuola… ma quanto conosciamo Gesù?
La fede è animata dalla ricerca, dalla passione di conoscere, indagare, sapere i minimi particolari… questo ci racconta Luca.
Caro amico: se sei affascinato da Gesù, non smettere di ricercare, e non accontentarti! Indaga, conosci, approfondisci!
Magari suona anche al campanello del tuo prete! E domandagli di parlarti di Gesù!
Ci avete mai pensato? Ai preti domandiamo i sacramenti, l’aiuto per un posto di lavoro, di cambiare le date del catechismo, di occuparsi dei nostri figli, di portarci in vacanza a un prezzo low cost, di animare i giovani… e se gli chiedessimo ogni tanto di parlarci di Gesù?
Sono battute paradossali eh… però pensaci!
Ecco che Luca ci invita ad appassionarci, con cura, al nostro maestro! Mi sono dilungato un pochino, ma credo sia proprio importante riguadagnare sempre lo spirito della ricerca: con gioia eh!!!
Dunque Gesù entra nella sinagoga, cambiamo pagina. E Luca, nella puntigliosità con cui vuole raccontarci gli avvenimenti, ci narra tutto come se usasse la moviola.
Provate a rileggere quelle righe con calma, immaginandovi quello che sta accadendo, con una telecamera nascosta.
La sinagoga è gremita come ogni sabato. Gesù è da un po’ che non viene a Nazareth, si cominciano a raccontare alcuni episodi su di lui, ma nessuno sa bene cosa stia facendo.
Eccolo che entra. Sento i suoi passi sulla terra battuta. Il poco brusio che c’era un attimo prima svanisce. Gli occhi di tutti sono puntati su di lui: studiano ogni movimento del suo corpo. Sa di essere osservato.
(Signore Gesù, fammi sentire i tuoi passi. Fammeli riconoscere, i tuoi, tra i milioni di passi che odo. Fammi riconoscere i tuoi passi quando, ogni eucaristia, entri nelle nostre chiese, mischiandoti in mezzo alla folla, seduto nei banchi, mischiato alla gente comune.)
Gli passano il rotolo della Scrittura… non perdo una parola…
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore
Sono povero… cieco… prigioniero… oppresso…
Sei dunque venuto per me, Signore?
E quando accadrà che mi libererai, inondandomi, di gioia?
« OGGI… si è adempiuta questa scrittura… »
OGGi.
Buona settimana!
dal sito:
http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124802
Il « Vangelo » di San Paolo
di Bruno Forte
Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo…
1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!
2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco…
3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.
4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.
5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?
6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?
7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?
8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen.
(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: Bruno Forte
dal sito:
http://www.zenit.org/article-21113?l=italian
Il discorso della montagna e il dialogo ebraico-cristiano
ROMA, sabato, 23 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto e Membro della Commissione fra la Chiesa Cattolica e il Gran Rabbinato d’Israele, nel partecipare il 18 gennaio scorso, all’Auditorium di Roma, a un dialogo pubblico con il biblista ebreo americano Jacob Neusner.
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1. L’insegnamento di un Maestro ebreo? Il Mahatma Gandhi, padre dell’India moderna e apostolo della non-violenza, ricordando il suo primo incontro con il « discorso della montagna », diceva che gli era andato dritto al cuore: « The Sermon on the Mount went straight to my heart… ». E aggiungeva: « È stato grazie a questo discorso che ho imparato ad amare Gesù ». Questa testimonianza mostra in maniera eloquente come la lettura dei capitoli 5-7del Vangelo di Matteo possa essere decisiva per l’incontro col Profeta galileo e il suo messaggio. Si può perfino dire che la storia delle interpretazioni del discorso della montagna è la storia delle diverse auto-comprensioni del cristianesimo.
L’esegeta protestante Joachim Jeremias riconduce a tre modelli fondamentali queste interpretazioni[1]. Il primo riflette una concezione perfezionistica: « Gesù dichiara ai suoi discepoli ciò ch’egli esige da loro » (67). Il discorso sarebbe « legge, non evangelo » (68). Gesù si presenterebbe né più né meno che come un maestro della Torah. Questa interpretazione non è però condivisibile, perché contrasta col fatto che nello stesso sermone « Gesù osa opporsi alla Torah » (70). Una seconda lettura è quella ispirata alla teoria dell’inattuabilità: è l’interpretazione dell’ortodossia luterana. Gesù « vuole rendere consci i suoi ascoltatori della loro inettitudine a compiere con le loro forze quanto Dio esige… (e così) indurli a disperare di sé » (72) per confidare in Dio solo. Il Nazareno, però, « s’attende che i suoi discepoli attuino ciò ch’egli chiede » (73), come è evidente nella parte finale del discorso stesso: « Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano » (Mt 7,13: cf. tutto il brano da 13 a 27). Anche questa interpretazione, allora, non può essere accolta. Infine, l’interpretazione dell’etica temporanea, propria degli « escatologisti conseguenti » di fine Ottocento (quali Johannes Weiss e Albert Schweitzer), legge nel discorso un insieme « di leggi d’eccezione, valide in epoca di crisi », nella forma di un « incitamento alla tensione estrema delle forze prima della catastrofe » (74). Il discorso della montagna, però, non sembra aver nulla di un’ »etica dell’ultima ora »: al contrario, « in Gesù l’accento essenziale non cade sull’affaticarsi degli uomini, ma sulla certezza che la salvezza di Dio è presente » (75s).
Caratteristica comune alle tre interpretazioni è quella di considerare il discorso come una sorta di legge, ponendo così « Gesù nell’ambito del tardo giudaismo » (76). Che questa operazione sia legittima e in parte feconda lo mostra la possibilità di rintracciare nelle parole del Profeta galileo numerose eco della tradizione ebraica: Paul Billerbeck – nel Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash[2]- ha potuto raccogliere in corrispondenza alle scarse cinque pagine del discorso della montagna ben trecento e nove pagine di analogie e paralleli rabbinici! Il rapporto con l’insegnamento dei maestri ebrei è dunque decisivo per comprendere e valutare l’insegnamento di Gesù sul monte: e tuttavia non è sufficiente. Perché? In che senso Gesù non è un Rabbi come gli altri? E in che senso, invece, si pone in continuità con la Torah di Mosè?
2. Gesù rompe con la Torah. A queste domande prova a dare risposta Jacob Neusner nel suo libro Un Rabbino parla con Gesù[3]: l’originalità di questo lavoro sta nel fatto che l’Autore si immagina contemporaneo del Maestro galileo e intavola con lui una discussione serrata. Nella prospettiva rabbinica questo è un atto di profondo rispetto e di forte tensione spirituale: « Una buona, argomentata discussione è considerata dalla Torah il mezzo più giusto di rivolgersi a Dio, ossia un atto di grandissima devozione » (34). Peraltro, la fiducia nell’intelligenza è un tratto comune a ebraismo e cristianesimo: « Come i cristiani noi diamo importanza alla ragione e alla fede razionale… noi diamo valore all’uso dell’intelligenza, allo scambio di pensieri, di affermazioni, di ragioni, di prove, di analisi; noi consideriamo la discussione un esercizio nell’uso di ciò che ci fa simili a Dio, cioè la nostra intelligenza » (41).
La tesi di Neusner è che « Gesù insegna la Torah al pari di altri maestri, ma pretende di porsene al di sopra » (29). Intento dichiarato del Rabbino è perciò quello di « riaffermare semplicemente la Torah del Sinai sopra e contro il Gesù di Matteo » (43). E questo in nome del principio espresso all’inizio del trattato della Mishnah (200 d.C.) chiamato Avot (detti dei Padri dell’ebraismo): « Fate una siepe intorno alla legge » (1,1). Secondo Neusner Gesù ha distrutto questa siepe, disponendo della Torah in maniera inaudita e perfino insegnando a violare alcuni dei Comandamenti: il terzo, che impone la santificazione del sabato, il quarto, quello dell’amore verso i genitori, e infine la prescrizione della santità. Gesù pretende di prendere il posto del sabato (cf. Mt 12,8: « Il Figlio dell’uomo è signore del sabato ») e dei genitori (cf. Mt 10,37: « Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me’ ») e fa consistere la santità nella sequela di sé: in tal modo egli dissolve ciò che tiene unito Israele in quanto Israele, mettendo in pericolo l’essenziale della fede del popolo dell’alleanza.
A proposito, poi, di Matteo 5,38-39 (« Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra ») e 43-44. 48 (« Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano » e « Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste »), Neusner afferma che un tale insegnamento non concorda con la Torah perché « è un dovere religioso resistere al male, combattere per il bene, amare Dio e combattere quelli che diventeranno nemici di Dio… La Torah richiede sempre dall’Eterno Israele di combattere per la causa di Dio; la Torah ammette la guerra, riconosce l’uso legittimo della forza » (57). Più in generale, le antitesi del discorso della montagna appaiono intollerabili al Rabbino: « La frase di Gesù ‘voi avete inteso che fu detto… ma io vi dico’ si pone in aperto contrasto con la frase di Mosè sul monte Sinai » (61). Gesù parla « attraverso un ‘io’, ma la Torah parla soltanto a ‘noi’, a noi che formiamo Israele » (63). « Solo Dio può esigere da me quello cha sta chiedendo Gesù » (86). « L’alternativa è tra ‘Ricordati di santificare il sabato’ e ‘Il Figlio dell’uomo è il signore del sabato’. Non possiamo scegliere entrambi » (105). « In discussione è la rivendicazione di autorità da parte di Gesù » (107). Il nocciolo della questione è dunque questo: « Cristo prende il posto della Torah » (109). La conclusione del Rabbino Neusner è tranciante: « Un grande maestro non è colui che dice qualcosa di nuovo, ma colui che dice quello che è vero » (112s). Perciò Gesù non è per lui un maestro credibile e la differenza con la fede del popolo eletto è radicale: « Il messaggio della Torah riguarda sempre l’Eterno Israele, mentre il messaggio di Gesù riguarda quelli che lo seguono » (126).
3. Gesù radicalizza la Torah. Non così vede le cose un altro pensatore ebreo, Pinchas Lapide, che nel suo libro Il Discorso della Montagna. Utopia o Programma?[4] mette parimenti a confronto l’insegnamento di Gesù con la tradizione rabbinica: diversamente da Neusner, egli sottolinea che Gesù si colloca totalmente all’interno del pensiero ebraico, portandolo solo alle estreme conseguenze. Dunque, non la Torah, ma l’interpretazione che Neusner ne dà sarebbe in contrasto con quello che Gesù dice nel discorso della montagna. Per Lapide il Maestro galileo non chiede altro che « un’esistenza ebraica di fede… È un ideale realizzabile, un’utopia realistica che non deve rimanere sulla carta se l’ebreo credente trova il coraggio di superare se stesso… nell’instancabile imitazione di Dio che nell’ebraismo è considerata il più santo dei comandamenti. In questa grande spinta messianica verso l’incarnazione voluta da Dio di tutti i figli di Adamo e verso l’umanizzazione di questa terra… Gesù di Nazaret è stato ‘l’ebreo centrale’, come lo definisce Martin Buber, colui che ci invita tutti a imitarlo » (15). La tesi di Lapide è pertanto che « il discorso della montagna non è altro che la spiegazione della Torah fatta da Gesù di Nazaret, che prendendo spunto dal duplice comandamento dell’amore ha come obiettivo la sua concretizzazione, allo scopo di favorire la manifestazione del regno di Dio sulla terra » (24). Nell’insegnamento sul monte siamo di fronte alla semplice « riscrittura escatologica di tutti i comandamenti dell’amore… che dalle tavole di pietra del Sinai verranno impressi nel cuore degli uomini » (36).
Se Neusner contrappone troppo, Lapide concilia altrettanto: la radicalità di Gesù rispetto alla Torah non è un semplice sviluppo nella continuità, ma implica un elemento di assoluta novità. È Joachim Jeremias a sottolineare come la differenza fra Gesù e il giudaismo non stia nei singoli precetti, ma nel presupposto fondamentale che sta dietro ad essi e che nella testimonianza del Profeta galileo è l’avvento del Regno di Dio nella sua persona[5]: « A ogni detto del discorso della montagna… è sottintesa la predicazione del regno di Dio… la testimonianza che Gesù diede di sé con la parola e coi fatti » (89). « Al kerygma fa seguito la didaché » (90): e il kerygma « apre il discorso della montagna sotto la forma delle beatitudini e delle frasi relative alla splendida sorte di chi è discepolo di Cristo » (90). « Solo per la grandezza del dono divino diviene comprensibile la gravità della richiesta di Gesù » (91). La differenza fondamentale fra l’insegnamento di Gesù e la Torah di Mosè sta allora nel fatto che « il discorso della montagna non è legge, ma evangelo… La legge affida l’uomo alle sue proprie forze e lo incita a impegnarsi fino all’estremo. L’evangelo invece pone l’uomo di fronte al dono di Dio e lo incita a fare, di tale inesprimibile dono, il fondamento della vita. Sono due mondi… Dalla riconoscenza del figlio di Dio redento ha inizio una nuova vita. Ecco il significato del discorso della montagna » (93). La Torah dice: « Fa’ quanto insegno, e vivrai ». Gesù dice: « Vivi la vita che ti dono, e farai quello che ti chiedo ». Gesù non abolisce la Torah, non abbatte la siepe intorno alla Legge, come vorrebbe Neusner. E neppure radicalizza la Torah innalzando di qualche gradino le sue esigenze. Gesù dona la vita nuova che viene da Dio per realizzare e superare la Torah.
4. In Gesù il compimento della Torah. Siamo così giunti al punto decisivo: « Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento » (Mt 5,17). È il punto che si sforza di chiarire Joseph Ratzinger – Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret[6]: fra la semplice contrapposizione e la concordanza, la relazione fra l’insegnamento di Gesù sul monte e quello di Mosè al Sinai va intesa come novità non nella rottura, ma nel compimento. « La ‘Torah del Messia è del tutto nuova, diversa – ma proprio così ‘porta a compimento’ la Torah di Mosè » (126). « Non è più la ‘carne’ – la discendenza fisica da Abramo – a decidere, ma lo ‘spirito’: l’appartenenza all’eredità di fede e di vita di Israele attraverso la comunione con Gesù Cristo, il quale ha ‘spiritualizzato’ la Legge trasformandola così in un cammino di vita aperto a tutti. Nel Discorso della montagna Gesù parla al suo popolo, a Israele, in quanto primo portatore della promessa. Ma nel consegnargli la nuova Torah, lo apre in modo che ora da Israele e dagli altri popoli possa nascere una nuova grande famiglia di Dio » (127).
La continuità implicita nell’idea di compimento sta nel fatto che proprio in base alla Torah si può dire che « Israele non esiste semplicemente solo per se stesso, per vivere delle ‘eterne’ disposizioni della legge – ma per diventare luce dei popoli » (143). Gesù « ha portato il Dio di Israele ai popoli così che tutti i popoli ora lo pregano e nelle Scritture di Israele riconoscono la sua parola, la parola del Dio vivente. Ha donato l’universalità, che è la grande e qualificante promessa per Israele e per il mondo… È questo che lo qualifica come il ‘Messia’ e dà alla promessa messianica una spiegazione, che ha il suo fondamento in Mosè e nei Profeti, ma che dona a essi anche un’apertura completamente nuova » (144). La comunione con Gesù è comunione filiale col Padre e come tale « è un sì al quarto comandamento su una base nuova e a un livello più elevato. È l’ingresso nella famiglia di coloro che a Dio dicono Padre e possono dirlo nel ‘noi’ di coloro che con Gesù e mediante l’ascolto a Lui prestato sono uniti alla volontà del Padre e così stanno nel nucleo di quella obbedienza a cui la Torah mira » (145). Insomma, sono le stesse promesse contenute nella Legge che implicano il suo compimento: « Nella struttura intrinseca della Torah, nella sua evoluzione mediante la critica profetica e nel messaggio di Gesù che riprende entrambe, si trova insieme l’ampiezza per i necessari sviluppi storici e la base stabile che garantisce la dignità dell’uomo a partire dalla dignità di Dio » (156).
Perciò, Matteo ci presenta Gesù come il nuovo Mosè. E, perciò, la fedeltà alla Torah non può fermarsi all’applicazione legalistica di essa, ma deve aprirsi al compimento della promessa fatta a Israele dal suo Dio per bocca dello stesso Mosè: « Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto » (Dt 18,15). L’ebraicità di Gesù è dunque fuori discussione, e si deve essere grati a chi – come Neusner o Lapide – la rivendica con onestà e rispetto. Parimenti, però, è innegabile la novità del suo insegnamento e della sua opera: non si tratta né di una semplice radicalizzazione di quanto già detto a Israele, né di una blasfema violazione dei comandamenti dati sul Sinai. La novità è la persona stessa di Gesù e l’avvento del tempo messianico che in Lui si offre, come tempo della grazia e della misericordia del Dio dell’alleanza: è la novità dell’amore effuso dall’alto attraverso di Lui nei cuori di chi crede. È quel possibile, impossibile amore – impossibile agli uomini, reso possibile dal dono divino – che il discorso della montagna descrive come frutto dell’accoglienza della buona novella che Gesù annuncia, che Gesù è. Gesù di Nazaret, Ebreo per sempre, è il Figlio di Dio dall’eternità, fattosi uomo per aprire a chiunque creda la porta del cielo. La differenza – accettata o rifiutata – sta tutta qui: come sta qui l’esigenza imprescindibile per un discepolo del Maestro galileo di amare Israele e la sua fede per sempre.
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1) Il discorso della montagna, in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1993, 65-93.
2) H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, Beck, München 1922, 1. Bd. Das Evangeluium nach Matthäus.
3) San Paolo, Cinisello Balsamo 2007 (originale inglese: A Rabbi talks with Jesus, McGill-Queen’s University Press 2000).
4) Paideia, Brescia 2003.
5) Il discorso della montagna, in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1993, 65-93.
6) Rizzoli, Milano 2007.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100123
Sabato della II settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 3,20-21
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Beata Teresa di Calcutta (1910-1997), fondatrice delle Suore Missionarie della Carità
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Gesù, uomo mangiato
Quando Gesù venne in questo mondo, lo amò con un amore così grande da dare la sua vita per lui. Venne per soddisfare la nostra fame di Dio. E come fece questo ? Egli in persona diventò il Pane della Vita. Si fece piccolo, fragile, disarmato per noi. Le briciole di pane sono così minuscole che pure un bambino può masticarle, pure un agonizzante può mangiarle. È diventato il Pane della Vita per sfamare il nostro appetito di Dio, la nostra fame di Amore.
Credo che non avremmo mai potuto amare Dio, se Gesù non fosse divenuto uno di noi. Ed è divenuto uno di noi in ogni cosa, eccetto il peccato, per renderci capaci di amare Dio. Creati a immagine di Dio, siamo stati creati per amare, poiché Dio è amore. Nella sua passione, Gesù ci ha insegnato come perdonare per amore, come dimenticare per umiltà. Trova Gesù, e troverai la pace.