Joh-02,01_Cana_Wedding_Noces

dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/17041.html
Omelia (17-01-2010)
mons. Antonio Riboldi
Non hanno più vino
Davvero Gesù, con le sue scelte, tra di noi e con noi, dà lezioni di vita, in tutto.
Passa 30 anni a Nazareth, nella sua famiglia, e lì cresce in età, sapienza e grazia, nella graduale consapevolezza che il suo essere tra noi era una vocazione ricevuta dal Padre, una ‘chiamatà da cui dipendeva la storia stessa dell’umanità. A differenza di tanti adolescenti e giovani di oggi, che amano buttarsi nella vita, senza sapere dove porta e se le loro scelte sono giuste, Gesù si affida al silenzio, impegnandosi nel discernimento, nutrendosi della Sacra Scrittura, l’Antico Testamento, che profeticamente annuncia la Sua storia di Messia, portatore di salvezza.
Intendeva conoscere fino in fondo cosa dovesse compiere, la Parola da donare all’uomo: una Parola che è immutata oggi e lo sarà sempre. Lui stesso era la Parola fatta carne.
Così si presenta sulla scena dell’umanità – stando al Vangelo di Giovanni – con un miracolo alle nozze di Cana, quasi volesse privilegiare matrimonio e famiglia, due capisaldi dell’umanità.
Racconta l’evangelista: « Ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la Madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: ‘Non hanno più vino. E Gesù le rispose: ‘Che ho da fare con te, o donna Non è ancora giunta la mia ora. La madre disse: ‘Fate quello che vi dirà’.
Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna uno o due barili. E Gesù disse: ‘Riempite di acqua le giare. E le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: ‘Ora attingete e portatene al maestro di tavola. Ed essi gliele portarono. E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua) chiamò lo sposo e gli disse: ‘Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un poco brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono’. Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in Lui » (Gv. 2, 141).
Se c’è una realtà che dovrebbe essere sempre difesa, conservata, amata, con tutte le forze, come fondamento della nostra società, è proprio il matrimonio.
Ma pare che proprio contro questo grande sacramento e istituzione civile si sia scatenata una vera guerra. E non è proprio comprensibile. C’è forse sulla terra un dono più grande dell’amare ed essere amati, fino ad essere una sola carne e, quindi, per tutta la vita?
Porto con me il commosso ricordo dell’amore che papà aveva per mamma, al punto che, dopo 30 anni di matrimonio, a me già prete disse: ‘Amo immensamente tua mamma, ma prima ancora come mia sposa. Se mi venisse a mancare morirei anch’io’.
E per fortuna sono davvero ancora tanti i matrimoni che possono affermare lo stesso.
Il segreto della fedeltà è l’autentico amore, che non è un sentimento occasionale, casuale, un’esperienza puramente sensuale, ma è dono cosciente di sé. Noi cristiani diciamo: è un sacramento, ossia un sapere che non si è soli nell’amore umano, che inevitabilmente conosce gioie e speranze, ma anche sofferenze, angosce e crisi. Gesù stesso vive con gli sposi, sostiene il loro amore, lo rivitalizza, lo purifica, lo fortifica, lo rende eterno con la grazia del Sacramento.
Afferma il Concilio Vaticano II nella ‘Gaudium et spes’: « Cristo Gesù ha effuso l’abbondanza delle sue benedizioni su questo amore molteplice, sgorgato dalla divina carità e strutturato sul modello della sua unione con la Chiesa. Così come un tempo Dio venne incontro al suo popolo con un patto di amore e di fedeltà, ora il Salvatore degli uomini e sposo della Chiesa, viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il Sacramento del Matrimonio. Inoltre rimane con loro perché, come Egli stesso ha amato la Chiesa e si è dato per lei, così anche i coniugi possono amarsi l’un l’altro, fedelmente, per sempre con mutua dedizione. Per questo motivo i coniugi cristiani sono collaboratori e quasi consacrati con uno speciale sacramento per i doveri e la dignità del loro stato » (n. 48).
Il Vangelo, quasi a raccontare le difficoltà che si incontrano nel matrimonio, pare individuarle nella mancanza del vino. Gesù dona il ‘vino nuovò, che sorprende tutti. Ma per gustare il ‘vino nuovò è necessario vivere l’esperienza dell’amore vero, che è davvero l’impronta di Dio in noi. La realtà ci dice quanto oggi l’uomo abbia perso la piena conoscenza dell’amore e ciò dipende, credo, dalla perdita della fede nell’amore di Dio, che tutto sostiene e diventa, non solo riferimento, ma forza efficace per affrontare ogni situazione di vita, anzi il senso stesso della vita.
Se poi pensiamo che il matrimonio è una vocazione, tanto più intensamente comprendiamo come sia necessaria la vicinanza di Dio.
Potremmo riferire la mancanza di ‘vino’ in tanti matrimoni oggi, a quanto afferma il Santo Padre nella lettera ai sacerdoti: « Il vero problema in questo momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che allo spegnersi della luce proveniente da Dio, l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento i cui effetti distruttivi si manifestano sempre di più ».
È certo che la causa di tanti fallimenti nell’amore viene proprio da questo ‘terribile oscuramento delle coscienze’. Viene da pensare alle famiglie di oggi. Le statistiche – cui credo poco – dicono che tanti uomini e donne hanno ‘paura del matrimonio’, come fosse una possibile prigione. Come se donarsi all’amore per tutta la vita fosse quasi una schiavitù e non un’occasione di profonda e rasserenante pienezza. Dicono che tanti preferiscono stare insieme, ma senza alcun vincolo definitivo e le chiamano ‘coppie di fatto’, ma danno, almeno esteriormente, l’impressione di una casa senza porte e finestre, da cui si può evadere quando si è stanchi l’uno dell’altro.
Altri preferiscono il matrimonio civile, escludendo il sacramento del Matrimonio, ossia rifiutando la presenza di Gesù, che con la Sua Grazia sacramentale, assicura la saldezza del vincolo. Ma chi ha la fede per vivere la sacralità del Matrimonio, sa molto bene quanto sia bello ‘dimorare con Gesù’, che li sostiene nelle difficoltà che possono incontrare.
Celebrando la S. Messa, nella parrocchia in cui ora vivo, mi è data l’opportunità di celebrare i 25 anni, e qualche volta anche i 50 e alcuni 75 anni di matrimonio. Quello che sempre mi è dato di constatare è la gioia di questi sposi, come se quello fosse il primo giorno del matrimonio.
Come qualche volta capita di dover confortare uomini o donne che, per la morte del coniuge, sono quasi inconsolabili e quasi desiderano morire con chi è tornato a Dio: difficile restare da soli, pur sapendo che un giorno il loro vincolo d’amore sarà premio e corona in cielo, per sempre. È vero che tutte queste testimonianze di amore coniugale che hanno, citando il Vangelo, conservato sempre nella vita ‘il vino buono’, la Presenza di Gesù, la Grazia, vengono ignorate dai mass media che, invece, offrono grande spazio ai fallimenti. Ma sono proprio queste tantissime coppie sempre ‘innamorate’, insieme da tanti anni, le stelle che brillano sul firmamento della storia dell’umanità. Come non pregare, per chi mi legge, se sposato, perché curi la presenza della sua stella… nonostante tutto. È il futuro di Dio tra noi. È l’affermazione che amarsi per sempre è la più bella esperienza, dono di Dio e della buona volontà.
Dedico a loro quanto dice Isaia oggi: « Per amore di Sion non tacerò; per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finche non sorga come stella la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. Allora i popoli vedranno la sua giustizia, tutti i re la sua gloria e si chiamerà con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà. Sarai una magnifica corona nelle mani del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più ‘abbandonatà, né la tua terra sarà più detta ‘devastatà, ma tu sani mio compiacimento e la tua terra ‘sposata, perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo Creatore; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te » (Is. 62, 1-5).
Così pregava Madre Teresa dí Calcutta per chi si sposava:
« O Signore, aiuta questa coppia ad essere un cuore solo pieno di amore.
Da’ loro una vita nella quale possano essere un cuore solo,
nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia.
Concedi loro amore per i figli che avranno e fa’ che la loro casa
sia sempre una porta aperta per il povero.
Insegna loro, o Signore, di pregare insieme, così che possano restare uniti. Amen ».
dal sito:
http://www.zenit.org/article-21021?l=italian
Il Papa alla sinagoga di Roma: un passo avanti nel dialogo
Benedetto XVI visiterà questa domenica il tempio ebraico della capitale
di Carmen Elena Villa
ROMA, venerdì, 15 gennaio 2010 (ZENIT.org).- La prima sinagoga ad essere visitata da un Papa si prepara a ricevere per la seconda volta un Pontefice, Benedetto XVI, domenica 17 gennaio.
E’ la quarta volta nella storia della Chiesa che un Papa visita un tempio ebraico (la prima è stata con Giovanni Paolo II proprio alla sinagoga di Roma, nell’aprile 1986) e la terza nel pontificato di Benedetto XVI, che ha visitato anche la sinagoga di Colonia (Germania) nell’agosto 2005 e quella di Park East a New York durante il suo viaggio negli Stati Uniti nell’aprile 2008.
La visita di questa domenica è stata annunciata il 17 settembre scorso in un comunicato che il Santo Padre ha inviato a Riccardo Di Segni, Gran Rabbino di Roma. Il Papa vuole così commemorare l’inizio delle feste religiose di Yom Kippur e Sukkot.
« Mentre auspico che queste feste siano motivo di comune santa letizia, invoco dall’eterno per tutti gli ebrei copiose benedizioni a costante incoraggiamento dell’impegno profuso per promuovere la giustizia, la concordia e la pace », ha affermato il Pontefice.
Dal canto suo, il capo della sinagoga ha espresso la sua gratitudine per il messaggio, definendolo « significativo e importante ».
Radici comuni
La visita avviene anche nel contesto delle celebrazioni della XXI Giornata Mondiale per l’approfondimento del dialogo tra cattolici ed ebrei, che si celebra proprio questa domenica.
La Giornata mira ad approfondire i dieci Comandamenti che uniscono le due religioni, come ha segnalato il Papa visitando la sinagoga di Colonia nel 2005.
« Il Papa accennò al patrimonio spirituale dei Dieci Comandamenti che uniscono ebrei e cristiani a riproporre l’unicità di Dio, a riproporre la sua legge iscritta nei cuori degli uomini, fatti appunto a Sua immagine e somiglianza », ha affermato monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Commissione Ecumenismo e Dialogo della Conferenza Episcopale Italiana, alla « Radio Vaticana ».
L’insistenza sul dialogo interreligioso da parte di Papa Benedetto XVI non è nuova: durante un intervento del 2000, l’allora Cardinale Ratzinger sottolineava che, per i cristiani, la fede testimoniata nella Bibbia degli ebrei non è una religione diversa, ma risulta la base stessa della fede.
La Comunità ebraica romana
Domenica il Papa sarà ricevuto dal Gran Rabbino di Roma, Riccardo Di Segni, medico radiologo all’ospedale romano San Giovanni che nel 1973 ha ottenuto il titolo di Rabbino nel Collegio Rabbinico Italiano.
Il 16 gennaio 2006 Di Segni, insieme ad altre autorità della Comunità ebraica di Roma, è stato ricevuto in Vaticano da Benedetto XVI.
La Comunità ebraica romana, consolidatasi nel 70 a.C., è la più antica d’Occidente. Il quartiere ebraico si trova nel cuore di Roma.
Per monsignor Paglia, la seconda visita di un Pontefice a questa sinagoga « porta verso un passo ulteriore, una collaborazione ancora più evidente tra queste due religioni ».
Il presule ha definito l’amicizia tra ebrei e cristiani « intensa » e ha detto che si tratta di « una sorta di obbligo teologico », visto che « la fraternità tra questi due popoli è parte integrante dei rispettivi credo ».
« Il patrimonio spirituale ebraico cristiano è non solo un legame forte tra noi, ma è anche una energia propulsiva per l’incontro con le altre regioni e io direi anche per la promozione della cultura, in particolare quella occidentale », ha sottolineato.
dal sito:
http://www.sidic.org/it/conferenzaView.asp?id=59
Non avrai altre divinità al Mio cospetto» (Es 20, 3)
Diciottesima Giornata Dialogo Ebraico Cristiano
Intervento del Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma (Il testo è tratto dalla registrazione e non è stato rivisto dall’autore.)
Riccardo Di Segni – Pontificia Università Lateranense – 17/01/2007
Buonasera e grazie a Mons. Fisichella per questo invito che è una splendida occasione omai abituale per scambiarci delle opinioni in uno spirito di studio comune e di attenzione comune. Questa è la seconda delle occasioni che in questi giorni avrò per incontrare Mons. Fisichella dato che ce n’è stata già una al Convegno fatto al Senato, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, questa è la seconda, e la terza sarà nel Dies Memoriae che verrà celebrato il 25 gennaio, rispetto al 27 gennaio che quest’anno è sabato. Vorrei ringraziarlo anche, in particolare, perché mi offre – e lo dico con un certo timore – l’occasione di incontrare e ascoltare le parole di un grande dotto che siede alla mia sinistra, Francesco Rossi De Gasperis, che ho avuto modo di conoscere in altre circostanze. Abbiamo fatto insieme anche dei programmi radiofonici anni fa e ne ho sempre apprezzato la saggezza, la saggezza complessiva, e lo apprezzerete anche voi.
Secondo uno schema che è stato accettato l’anno scorso noi lavoriamo su un progetto che ci dovrà portare avanti per molto tempo (questo è il secondo anno): “i Dieci Comandamenti”. Quello di questa sera è il secondo. E siccome siamo in un contesto di confronto ebraico-cristiano, vorrei subito mettere dei segnali e dire qualcosa a cui avevo accennato anche lo scorso anno, di quanto siano paradossali questi incontri perché molto spesso noi veniamo a discutere di temi sui quali apparentemente siamo d’accordo, ma in realtà non siamo d’accordo. Su questo tema bisogna capire che c’è una differenza fondamentale.
Il secondo comandamento o affermazione è, in realtà, una serie di affermazioni. Voi sapete che tradizionalmente la Bibbia stessa dice che i comandamenti sono stati dieci, ma non li ha divisi ed è complicato dividerli perché, se pensiamo a questo che doveva essere il secondo, in realtà ci sono tre divieti e una affermazione. I tre divieti sono, in ordine:
- non avrai altre divinità al Mio cospetto (e poi vedremo meglio la traduzione);
- non farti immagine (e poi c’è un dettaglio delle immagini che non bisogna farsi: il cielo la terra ecc.);
- non inchinarti a loro e non adorarli;
- perché il Signore è un D-o geloso che “ricorda” o “fa ricadere la colpa dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione e fa del bene fino alle migliaia di generazioni”.
Questa è la struttura del Comandamento che è stato letto e interpretato in maniera differente dalla tradizione ebraica e da quella cristiana ed è anzi stato oggetto di polemiche – quando si facevano le polemiche – e bisogna saperlo anche per potersi rendere conto che se noi siamo oggi qua a parlare di qualche cosa, è in virtù di un modo diverso di porci i problemi.
L’ebraismo interpreta questo comandamento come una affermazione assoluta di monoteismo che esclude qualsiasi possibilità di unire l’idea monoteistica a qualsiasi altro tipo e in questo differisce sostanzialmente dal cristianesimo che inserisce nell’idea di D-o, l’immagine del D-o incarnato. Questo è un punto radicale di differenza e non possiamo ignorarlo nel contesto.
L’altro punto è un discorso che l’ebraismo ha elaborato principalmente in un certo modo e sul quale in cristianesimo si è diviso: è il tema dell’immagine divina. Se noi facciamo uno schematismo, abbiamo da una parte il mondo islamico che, in qualche modo ispirandosi a questo comandamento, proibisce qualsiasi tipo di immagine; il mondo ebraico che ammette soltanto alcuni tipi di immagine con molta attenzione, per es. ammette immagini bidimensionali, ma non immagini tridimensionali a grandezza di uomo, certamente non ammette in alcun modo la possibilità di raffigurare D-o sotto immagine. Se pensate a un’icona della spiritualità cristiana, a un capolavoro dell’arte come potrebbe essere la Cappella Sistina in cui è rappresentata la creazione di Adamo, dal punto di vista ebraico che legge questo comandamento, una cosa del genere è assolutamente proibita, perché è assolutamente proibito raffigurare D-o. Questo è un elemento sul quale non si può far finta che non esista, bisogna conoscerlo. E di qui anche il concetto della liceità di inchinarsi ad una immagine. Chiaramente – non devo certo io spiegarlo – il cristiano che si inchina ad una immagine, lo fa perché proietta in questa immagine qualcosa che sta molto al di là dell’immagine. Questo per l’ebraismo non è tollerabile, ma è ciò che ci unisce e ciò che ci divide: in qualche modo questo è per il cristiano una proiezione verso l’alto.
C’è un altro elemento importante che è quello del ragionamento sulla colpa che va a cadere sulle generazioni successive. Preso così, staccato dal contesto, è un elemento che si presta a una elaborazione polemica e giustizialista nella quale si dice: “questo è un tipico esempio della malvagità del D-o dell’Antico Testamento”. Oggi un discorso del genere lascia il tempo che trova. Mi sono andato a rileggere, preparando questo intervento, un libro molto datato se vogliamo, che venne fatto negli anni venti dello scorso secolo, chiamato “Il Decalogo”, nel quale sono raccolte delle conferenze che fecero dei rabbini italiani dell’epoca, ciascuna dedicata a un comandamento. Il secondo comandamento venne discusso da colui che era allora il Rabbino Capo di Roma, Angelo Sacerdoti. E’ interessante che tutto questo discorso della vendetta lo fa in senso apologetico dicendo: ecco ci viene rinfacciato questo aspetto vendicativo, ma chi rinfaccia questo aspetto dovrebbe ripensare al fatto che a noi viene fatto scontare ben oltre la quarta generazione una colpa che non abbiamo commesso, come quella del deicidio”. Questo è un discorso che veniva fatto negli anni venti. Rileggendo questo brano mi sono detto: benedetto sia il Signore che ci ha fatto giungere a tempi nuovi e differenti! Perché francamente il discorso che si fa fra cristiani ed ebrei oggi è – almeno suppongo e non soltanto in quest’aula, ma anche in altri contesti – ben più maturo. Per cui quest’antica opposizione, giustizia – amore, deicidio e tutti questi temi che erano un’angoscia, una sofferenza, una malattia del confronto ebraico-cristiano, oggi, in qualche modo, stanno riposti o dovrebbero essere riposti in un cantuccio. Quindi noi stiamo a un livello differente di comunicazione ed è in qualche modo una soddisfazione poterlo affermare. Tra l’altro questo discorso della presumibile vendetta è sviluppato dai nostri esegeti sottolineando una cosa importante. In quella affermazione si dice che il Signore ricorda o fa cadere la colpa fino alla terza e alla quarta generazione, mentre fa misericordia al plurale di mille, quindi almeno duemila generazioni. I maestri dicono che il Signore ricompensa il bene almeno cinquecento volte più di quanto ricompensi negativamente il male. Questa è un’esplosione di misericordia divina e non di giustizialismo.
Chiariti questi punti vorrei farvi assaggiare qualche cosa della metodologia ebraica di esegesi del testo in modo che si possa apprezzare un modo particolare di avvicinarsi.
Fondamentale nell’esegesi ebraica è leggere il testo nella lingua originale e cogliere in essa le sfumature, cosa che si perde in maniera totale quando si lavora nelle traduzioni. E allora soffermandoci proprio sulla prima espressione emerge subito un’enorme difficoltà grammaticale. Si traduce “non avrai altre divinità”, ma il senso letterale, tradotto parola per parola, è: “non sarà a te divinità altre”. Perché “non sarà” viene tradotto con “avrai”? Perché in ebraico il verbo « avere » non esiste e questo è importante. Non esiste il verbo “avere” e viene sostituito da “essere a”, ed è una grande scelta teologica confermata dall’uso linguistico, che già ci pone in un rapporto differente con la realtà per cui il tema del possesso è contrapposto al tema dell’essere, confermato in questa espressione. La cosa strana che si pone è che questa parola, “elohim”, che rappresenta “divinità”, è una parola che viene riferita regolarmente a D-o con una particolare accezione. D-o ha un nome che noi non possiamo pronunciare, tetragrammato con quattro lettere, yod, he, waw, he. Questo è il nome che non possiamo pronunciare e che sostituiamo con Adonaj. Questo è il nome personale. Elohim è la sua qualifica, cioè quello che è Lui. Lo può essere Lui, lo può essere, per una errata interpretazione, altri. Paradossalmente questo nome, oggetto di polemiche antiche, è linguisticamente al plurale: Elohim è plurale. Essendo al plurale… come può essere D-o, che è uno, al plurale? E anche la parola “altre” è al plurale mentre il verbo è al singolare: “Non sarà a te divinità altre”. C’è un salto grammaticale. Bisognerebbe dire così: Tu non avrai, non saranno a te, altre divinità. Questa è una stranezza linguistica alla quale si risponde commentando in vario modo, dicendo che nella Bibbia molte volte ci sono questi salti per cui si usa il verbo al singolare con un soggetto al plurale. Se qui c’è qualcuno marchigiano, lo saprà benissimo: ad Ancona si parla così, “è belli” si dice… Questo succede anche nella Bibbia. Ma, a parte questo, il senso del discorso che era anche interpretato profondamente, alla ricerca di un significato, dovrebbe stare nel fatto che ciò che ti sembra un’altra cosa, può diventare una molteplicità di altre cose. Se cominci con uno che affianchi a D-o, un unico diventerà una moltitudine. Quindi, attenzione a fare qualsiasi associazione anche singola, rispetto all’idea di D-o, perché nel momento in cui una persona contamina la purezza del concetto dell’Uno, immediatamente ha rovinato tutto e quest’uno che è stato contaminato con un altro può diventare una moltitudine di altri. Se si viola il concetto dell’unità si passa su un altro campo.
Un’altra riflessione importante è quella che riguarda il concetto di “al-panai” tradotto qui abbastanza correttamente “al Mio cospetto”. Letteralmente significa “di fronte al Mio volto”, “sopra il Mio volto”. Anche qua c’è tutta una riflessione. Cosa significa “il Mio volto”? Un esegeta italiano di grande attenzione al significato delle parole, Samuel David Luzzatto, faceva notare che molto frequentemente l’espressione “il Mio volto” si associa a qualche cosa di poco bello, alla rabbia, al dispiacere, al dolore, per cui si muore al cospetto di…, nel senso che si muore provocando un dolore per qualcuno. Quindi molto spesso “al-panai” significa: se tu metti qualcuno di fronte alla mia faccia, lo fai, come si dice in italiano, alla faccia mia… per farmi un dispetto. E’ un dolore che mi provochi.
Ma sempre ricercando nelle profondità linguistiche della parola emergono altri significati perché con simile espressione per es. è detto che morì qualcuno quando il padre era ancora vivo e allora “al-panai” significa concetto temporale: finché Io sono esistente. Per tutto il tempo che Io esisto, e Io sono infinito, tu non dovrai avere altri dei con Me. Perché Io esisto sempre, in eterno.
Altra profondità del testo è quella spaziale: tu non devi pensare che in questa stanza c’è D-o e fuori di questa stanza non c’è D-o. D-o sta sempre ovunque presente e quindi il volto di D-o è sempre presente: tu non potrai avere altre divinità in nessun luogo. Dunque “al-panai” significa: Io sono presente in eterno e Io sono presente in ogni luogo.
Il tema di questo comandamento ha una immediatezza riferita al contesto in cui viene data questa legge: gli ebrei usciti dall’Egitto dopo la sconfitta dei falsi déi egiziani. E’ già una precisa accezione rispetto ai modi dell’antichità di fare idolatria. Ma questo discorso, riferito all’eternità di “al-panai” pone la riflessione, che è comune ai mondi ebraici e cristiani, di che cosa sia l’idolatria in ogni momento. Ed ecco quindi la necessità di definire quali sono gli idoli per i quali non bisogna fare tradimento rispetto all’idea divina. Questa è una riflessione che in ogni secolo ha prodotto i suoi frutti. Il pantheon possibile è infinito. C’è il pantheon dello Stato, il dio stato, nazione, razza, arte, scienza. Tutte queste sono forme di “altri déi al mio cospetto”. A proposito della scienza, la Bibbia ci insegna che il principio della scienza è il timore di D-o. Noi non dobbiamo pensare alla scienza, non dobbiamo pensare all’altro, non dobbiamo rispettare lo stato e la nazione? No. Possiamo e dobbiamo rispettare tutto questo. Il problema è quello dell’importanza che si dà a queste strutture. Come ci insegna il profeta Osea, capitolo 14, 4: “E noi non chiameremo più nostro D-o l’opera delle nostre mani”. La nostra creazione non deve diventare D-o. “Non avrai altri déi all’infuori di Me” significa che devi riconoscere che tu sei un creato e che ciò che tu crei con le tue mani non potrà mai sostituire la funzione centrale della presenza divina.
Abbiamo detto che esiste un nome proprio di D-o e che Elohim rappresenta l’attributo di D-o, il fatto di essere D-o, Divinità. Nella teologia ebraica questa opposizione è anche di qualità perché il nome di D-o tetragrammato rappresenta l’aspetto della misericordia divina, il nome di D-o, Elohim, che sta in questo comandamento, rappresenta D-o che si realizza e si presenta nel mondo sotto l’attributo della giustizia. Allora, tenendo presente questa identità, l’espressione “non avrai altri elohim” dice: tu non dovrai avere altre forme di giustizia, giustizia differente al Mio cospetto. Qui emerge il grido fondamentale, sottolineato da quello che è stato appena detto dal primo comandamento e poi sarà detto nel quarto comandamento: è D-o che fa giustizia all’umanità e che libera il suo popolo oppresso dall’Egitto. Non dovrai avere altre forme di giustizia, non dovrai inquinare il senso di giustizia, il grido di giustizia che viene dalla Mia immagine divina. La giustizia che viene dalla Bibbia è la giustizia nella quale non si costruisce una società giusta perché è comodo farlo, perché altrimenti, se ci si ammazza o si ruba, non si può convivere. La giustizia che emerge dal messaggio divino è quella che dice che non bisogna uccidere perché l’uomo è fatto a immagine di D-o. E se l’uomo è fatto a immagine di D-o ecco che questo “elohim acherim” riemerge con tutta la sua forza. Quindi il messaggio è quello di non compromettere l’immagine divina: non bisogna spodestare, falsificare, privare di identità, coprire di menzogna quest’immagine divina che è in noi e che deve essere il centro delle nostre attenzioni. Sì a qualsiasi passione umana, ma queste passioni umane devono essere in qualche modo marginali, funzionali e mai il centro.
Maimonide, nelle regole sul pentimento, rappresenta il rapporto che deve esistere con D-o, come quello di un innamorato. L’innamorato è quello che pensa soltanto a questa cosa. Questo deve essere il tipo di rapporto che noi dobbiamo avere con il Signore. Questo tema dell’amore compare alla fine del comandamento: questo D-o geloso. Com’è possibile che D-o sia geloso? Com’è possibile che D-o sia geloso di qualche cosa che non è D-o? Se D-o è geloso di qualcosa che non è D-o, del tradimento potenziale dell’uomo, dà dignità agli oggetti che sono culto estraneo… Com’è possibile che D-o si metta sullo stesso piano di ciò che è culto estraneo? E’ una contraddizione in termini! Cosa vuol dire secondo la nostra tradizione questo D-o geloso? Significa che ci sono due tipi di gelosia. C’è la gelosia del possesso in cui – ecco il fatto del verbo “avere” che neppure esiste in ebraico – io voglio le cose per me, ho qualche cosa, possiedo qualche cosa, lo controllo totalmente perché lo voglio far diventare mio. Questa è la gelosia del possesso. E poi c’è la gelosia dell’amore, quella nella quale il tradito ama tanto la persona che si sente tradito non perché il possesso gli è venuto meno, ma perchè la persona che lui ama e che vorrebbe veder crescere, la vede scendere… Quando una persona si dedica ad un amore falso, degrada il suo livello. Allora la gelosia del Signore è una gelosia di amore che si preoccupa per la nostra crescita spirituale. Nel momento nel quale noi ci dedichiamo ad altri déi, quelli che sono déi per noi, e non sono comunque déi, la gelosia divina si scatena perché vede che l’immagine divina nell’uomo, la sua crescita, si sta interrompendo, si sta compromettendo.
Grazie
dal sito:
http://www.certosini.info/lezion/prima_settimana_del_to.htm#certosini
Dal « Commento al Padre nostro » di san Massimo il Confessore.
FG 2°,297s.311.
Cominciando questa preghiera siamo condotti a venerare la Trinità consustanziale e sovrasostanziale, come Causa creatrice della nostra nascita. E impariamo inoltre a proclamare la grazia a noi concessa della filiazione, perché siamo fatti degni di chiamare Padre per grazia colui che è nostro creatore per natura. Così, pieni di riverenza per il titolo del nostro genitore per grazia, siamo solleciti nel mostrare nella nostra vita i caratteri di chi ci ha generati, santificando il suo nome sulla terra, imitandolo come padre, mostrandoci figli con le nostre azioni, e magnificando con ciò che pensiamo e facciamo, il Figlio naturale del Padre, autore di questa filiazione.
Noi santifichiamo il nome del nostro Padre celeste per grazia, quando mortifichiamo la nostra concupiscenza attaccata alla materia e ci purifichiamo delle passioni corruttrici. Il nostro scopo, nella preghiera, tenda dunque a questo mistero della deificazione, affinché possiamo conoscere da quale stato ci ha presi e che cosa ha fatto di noi l’annientamento nella carne dell’Unigenito; e conosciamo da dove e dove, con la potenza della sua mano amante, ha fatto risalire noi che avevamo toccato il punto più basso di tutto, a cui il peso del peccato ci aveva sprofondati. Ameremo così di più Colui che ha sapientemente preparato per noi una tale salvezza. Mostreremo con le nostre azioni il compimento della preghiera e appariremo annunciatori di Dio, nostro vero Padre per grazia.
Dal « Commento al Padre nostro » di san Gregorio di Nissa.
Oratio H. PGL 24,599.601-602.
Quando il Signore ci insegna nella preghiera a chiamare Dio Padre, mi sembra non faccia altro se non stabilire una vita sublime ed elevata; infatti la verità non ci insegna certo a mentire: a dire quello che non siamo: a chiamarci col nome che non abbiamo avuto per natura. Vuole invece che mentre affermiamo incorrotto, giusto, buono nostro Padre, riconosciamo autentica la parentela che ci lega a lui. Vedi di quale vita abbiamo bisogno? Capisci quanto e quale amore ci necessita per elevare la nostra coscienza a tanta libertà di parola da osar dire a Dio Padre?
E chi si è conformato alla nobiltà divina, chiamando Padre il Re dei cieli, e sua patria la beatitudine celeste, guarda verso di essa. Il suo intendimento lo porta a considerare le realtà superne dove è Dio; a porre lì le fondamenta della propria casa; a collocare lì i tesori del cuore; a guardare sempre verso la bellezza paterna e adornare la propria anima come è quella. Il divino è puro da invidia e da ogni macchia viziosa. Non lo contrassegnano neppure le passioni come l’invidia o la superbia: nulla di ciò contamina la bellezza divina. Se tale sei, invoca pure Dio con voce familiare, osa dire Padre a colui che è padrone di tutto. Egli ti guarderà con occhi paterni, ti circonderà della stola divina, ti adornerà con l’anello, ti preparerà i piedi per il viaggio verso l’alto con i calzari evangelici, ti riporterà nella patria celeste.
Abutilon x hybridum
http://toptropicals.com/html/toptropicals/catalog/photo_db/A.htm?NumPerPage=20&NumPerLine=4&
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100116
Sabato della I settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 2,13-17
Meditazione del giorno
San Pietro Crisologo (circa 406-450), vescovo di Ravenna, dottore della Chiesa
Discorsi, 30. CCL 24, p. 173-177. PL 52, 284
« L’uomo, alzatosi, lo seguì »
Fratelli, seduto al suo banco delle imposte, questo povero pubblicano era in una situazione peggiore di quella del paralitico di cui vi ho parlato l’altro giorno, che giaceva sul suo lettuccio (Mc 2,1s). Uno era affetto da una paralisi nel suo corpo ; l’altro nella sua anima. Nel primo, tutti le membra erano deformi ; nel secondo, il giudizio, nel suo insieme, era nella confusione. Il primo giaceva, prigioniero della sua carne ; l’altro era seduto, schiavo nella sua anima e nel suo corpo. Il paralitico soccombeva alle sofferenze suo malgrado. Invece il pubblicano era spontaneamente schiavo dei suoi vizi. Questo, che si riteneva innocente, era accusato di cupidigia dagli altri. Quello, in mezzo alle sue sofferenze, si sapeva peccatore. Uno accumulava guadagni su guadagni, e tutti erano peccati. L’altro cancellava i suoi peccati gemendo nei dolori. Perciò, erano giuste queste parole rivolte al paralitico : « Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati » ; infatti, con le sue sofferenze compensava le sue colpe. Quanto al pubblicano, udì questa parola : « Seguimi », cioè « Otterai riparazione seguendomi, tu che ti sei smarrito seguendo il denaro ».
Sicuramente si dirà : perché il pubblicano, che sembra più colpevole, riceve un dono più grande ? Infatti egli diventa subito apostolo… Ha ricevuto lui il perdono ; e concede ad altri la remissione dei peccati e illumina tutta la terra con lo splendore della predicazione evangelica. Invece il paralitico è appena ritenuto degno di ricevere il solo perdono. Vuoi sapere perché il pubblicano ha ottenuto grazie più numerose ? È perché, secondo la parola dell’apostolo Paolo : « Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia » (Rm 5, 20).