buona notte

dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100131
IV Domenica delle ferie del Tempo Ordinario – Anno C : Lc 4,21-30
Meditazione del giorno
San Cirillo Alessandrino (380-444), vescovo, dottore della Chiesa
Commento sul profeta Isaia, 5, 5; PG 70, 1352-1353
Per « rinnovare la faccia della terra » (Sal 104, 30)
Cristo, volendo restaurare il mondo e ricondurre tutti gli uomini al Padre, trasformare in meglio tutte le cose e rinnovare la faccia della terra, « assunse la condizione di servo » (Fil 2, 7) – egli Signore dell’universo – e annunziò la buona novella ai poveri, affermando che proprio per questo era stato mandato. Per poveri si possono intendere quelli che soffrono nella totale indigenza, ma anche, come dice la Scrittura, tutti quelli che non posseggono la speranza e che nel mondo sono privi di Dio (Ef 2, 12).
Arrivati a Cristo dal paganesimo, arricchiti dalla fede in lui, hanno conseguito un tesoro divino venuto dal cielo, la predicazione del Vangelo della salveza, resi partecipi in tal modo del regno dei cieli e consorti dei santi, eredi di quei beni che non si possono né immaginare, né domandare : « Cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo ; queste ha preparato Dio per coloro che lo amano » (1 Cor 2, 9).
Quanto ai fratelli venuti dal giudaismo, anch’essi erano poveri, col cuore spezzato, come schiavi e nelle tenebre. Ma venne Cristo, e a Israele prima che agli altri si annunziò con le benefiche e fulgide manifestazioni della sua potenza, proclamò « l’anno di misericordia del Signore » e il « giorno della salvezza ».
Saint Paul Description : vers 1600 Auteur : Nagel Jan (vers 1550/1560-1616 ?)
http://www.artbible.net/2NT/PORTRAITS%20OF%20%20PAUL/index7.html
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/9219.html
http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/9219.html
Omelia (28-01-2007)
padre Raniero Cantalamessa
Il più celebre e sublime inno all’amore
Dedichiamo la nostra riflessione alla seconda lettura, dove troviamo un messaggio importantissimo. Si tratta del celebre inno di san Paolo alla carità. Carità è il termine religioso per dire amore. Questo dunque è un inno all’amore, forse il più celebre e sublime che sia mai stato scritto.
Quando apparve sulla scena del mondo il cristianesimo, l’amore aveva avuto già diversi cantori. Il più illustre era stato Platone che aveva scritto su di esso un intero trattato. Il nome comune dell’amore era allora eros (da cui il nostro erotico ed erotismo). Il cristianesimo sentì che questo amore passionale di ricerca e di desiderio non bastava a esprimere la novità del concetto biblico. Perciò evitò del tutto il termine eros e ad esso sostituì quello di agape, che si dovrebbe tradurre con dilezione o con carità, se questo termine non avesse acquistato ormai un senso troppo ristretto (fare la carità, opere di carità).
La differenza principale tra i due amori è questa. L’amore di desiderio, o erotico, è esclusivo; si consuma tra due persone; l’intromissione di una terza persona significherebbe la sua fine, il tradimento. A volte perfino l’arrivo di un figlio riesce a mettere in crisi questo tipo di amore. L’amore di donazione, o agape, al contrario, abbraccia tutti, non può escludere nessuno, neppure il nemico. La formula classica del primo amore è quella che sentiamo sulle labbra di Violetta nella Traviata di Verdi: « Amami Alfredo, amami quant’io t’amo ». La formula classica della carità è quella di Gesù che dice: « Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri ». Questo è un amore fatto per circolare, per espandersi. Un’altra differenza è questa. L’amore erotico, nella forma più tipica che è l’innamoramento, per sua natura non dura a lungo, o dura soltanto cambiando oggetto, cioè innamorandosi successivamente di diverse persone. Della carità invece S. Paolo dice che « rimane », anzi è l’unica cosa che rimane in eterno, anche dopo che saranno cessate la fede e la speranza.
Tra i due amori però – quello di ricerca e quello di donazione –, non c’è separazione netta e contrapposizione, ma piuttosto sviluppo, crescita. Il primo, l’eros, è per noi il punto di partenza, il secondo, la carità, il punto di arrivo. Tra i due c’è tutto lo spazio per una educazione all’amore e una crescita in esso. Prendiamo il caso più comune che è l’amore di coppia. Nell’amore tra due sposi, all’inizio prevarrà l’eros, l’attrattiva, il desiderio reciproco, la conquista dell’altro, e quindi un certo egoismo. Se questo amore non si sforza di arricchirsi, cammin facendo, di una dimensione nuova, fatta di gratuità, di tenerezza reciproca, di capacità di dimenticarsi per l’altro e proiettarsi nei figli, tutti sappiamo come andrà a finire.
Il messaggio di Paolo è di grande attualità. Tutto il mondo dello spettacolo e della pubblicità sembra impegnato oggi a inculcare ai giovani che l’amore si riduce all’eros e l’eros al sesso. Che la vita è un idillio continuo, in un mondo dove tutto è bello, giovane, sano; dove non c’è vecchiaia, malattia, e tutti possono spendere quanto vogliono. Ma questa è una colossale menzogna che genera attese sproporzionate, che, deluse, provocano frustrazione, ribellione contro la famiglia e la società, e aprono spesso la porta al crimine. La parola di Dio ci aiuta a far sì che non si spenga del tutto nella gente il senso critico di fronte a quello che quotidianamente le viene propinato.
Dedichiamo la nostra riflessione alla seconda lettura, dove troviamo un messaggio importantissimo. Si tratta del celebre inno di san Paolo alla carità. Carità è il termine religioso per dire amore. Questo dunque è un inno all’amore, forse il più celebre e sublime che sia mai stato scritto.
Quando apparve sulla scena del mondo il cristianesimo, l’amore aveva avuto già diversi cantori. Il più illustre era stato Platone che aveva scritto su di esso un intero trattato. Il nome comune dell’amore era allora eros (da cui il nostro erotico ed erotismo). Il cristianesimo sentì che questo amore passionale di ricerca e di desiderio non bastava a esprimere la novità del concetto biblico. Perciò evitò del tutto il termine eros e ad esso sostituì quello di agape, che si dovrebbe tradurre con dilezione o con carità, se questo termine non avesse acquistato ormai un senso troppo ristretto (fare la carità, opere di carità).
La differenza principale tra i due amori è questa. L’amore di desiderio, o erotico, è esclusivo; si consuma tra due persone; l’intromissione di una terza persona significherebbe la sua fine, il tradimento. A volte perfino l’arrivo di un figlio riesce a mettere in crisi questo tipo di amore. L’amore di donazione, o agape, al contrario, abbraccia tutti, non può escludere nessuno, neppure il nemico. La formula classica del primo amore è quella che sentiamo sulle labbra di Violetta nella Traviata di Verdi: « Amami Alfredo, amami quant’io t’amo ». La formula classica della carità è quella di Gesù che dice: « Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri ». Questo è un amore fatto per circolare, per espandersi. Un’altra differenza è questa. L’amore erotico, nella forma più tipica che è l’innamoramento, per sua natura non dura a lungo, o dura soltanto cambiando oggetto, cioè innamorandosi successivamente di diverse persone. Della carità invece S. Paolo dice che « rimane », anzi è l’unica cosa che rimane in eterno, anche dopo che saranno cessate la fede e la speranza.
Tra i due amori però – quello di ricerca e quello di donazione –, non c’è separazione netta e contrapposizione, ma piuttosto sviluppo, crescita. Il primo, l’eros, è per noi il punto di partenza, il secondo, la carità, il punto di arrivo. Tra i due c’è tutto lo spazio per una educazione all’amore e una crescita in esso. Prendiamo il caso più comune che è l’amore di coppia. Nell’amore tra due sposi, all’inizio prevarrà l’eros, l’attrattiva, il desiderio reciproco, la conquista dell’altro, e quindi un certo egoismo. Se questo amore non si sforza di arricchirsi, cammin facendo, di una dimensione nuova, fatta di gratuità, di tenerezza reciproca, di capacità di dimenticarsi per l’altro e proiettarsi nei figli, tutti sappiamo come andrà a finire.
Il messaggio di Paolo è di grande attualità. Tutto il mondo dello spettacolo e della pubblicità sembra impegnato oggi a inculcare ai giovani che l’amore si riduce all’eros e l’eros al sesso. Che la vita è un idillio continuo, in un mondo dove tutto è bello, giovane, sano; dove non c’è vecchiaia, malattia, e tutti possono spendere quanto vogliono. Ma questa è una colossale menzogna che genera attese sproporzionate, che, deluse, provocano frustrazione, ribellione contro la famiglia e la società, e aprono spesso la porta al crimine. La parola di Dio ci aiuta a far sì che non si spenga del tutto nella gente il senso critico di fronte a quello che quotidianamente le viene propinato.
dal sito:
http://www.cistercensi.info/monari/1981/mc030181.htm
Il messaggio biblico sulla Carità
3 Gennaio 1981
Fonte, volume “Credo in Cristo mia vita” – “Le virtù teologali nella vita del laico” – A cura di Ernesto Cappellini – Editrice A.V.E. Roma 1981 – “Capitolo III” (pp 72-97).
B / San Paolo
Non sarebbe difficile ripercorrere uno ad uno questi punti nelle lettere di San Paolo e vedere come – con differenti accenti e prospettive – è la stessa fede che si esprime. “Con differenti accenti” perché certo a ogni autore del Nuovo Testamento bisogna riconoscere una sua originalità. Per quanto riguarda Paolo la sua dottrina sull’amore è strettamente legata a quella della giustificazione mediante la fede e, insieme a questa, è legata alla comprensione del mistero pasquale come mistero di redenzione.
– I –
«[6]Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. [7]Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. [8]Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 6-8).
Al centro dunque c’è la croce, la morte di Cristo come segno di amore, e di un amore gratuito. Perché negli “empi” per cui Cristo è morto non c’è nulla di gradevole, di attraente, nulla che possa spingere “naturalmente” a sacrificarsi per loro. La morte di Cristo è quindi un gesto gratuito, creativo, nel senso più pieno perché crea la bontà e la amabilità di ciò che ama. La preziosità dell’uomo peccatore è data esattamente dal fatto che Cristo muore per lui e non viceversa.
Ma la riflessione di Paolo ha un altro punto importante; leggiamo nel v. 8: «Dio dà prova del suo amore verso di noi perché (…) Cristo è morto per noi». Noi avremmo detto più facilmente: «Cristo dà prova del suo amore…», ma Paolo opera uno spostamento molto significativo: «Dio dà prova…». Ciò significa che nella visione paolina Dio e Cristo sono una cosa sola per quanto riguarda l’opera della salvezza. In Cristo Dio stesso si fa vicino agli uomini, li ama, li salva: «[19]È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe» (2 Cor 5, 19).
In questo modo-, la croce di Cristo diventa il “vanto” del cristiano (cfr. Gal 6, 14), diventa cioè il fondamento unico sul quale possiamo mettere la nostra fiducia; è da lì che viene la nostra salvezza. Non quindi nella nostra intelligenza o scienza o buona volontà, ma nell’amore di Dio che ci ha riconciliati in Cristo. Se San Paolo combatte strenuamente la sua battaglia per affermare che la giustificazione avviene mediante la fede, il motivo è che su questo si decide il valore della croce di Cristo. Ai Galati che “ammaliati” da dei Giudaizzanti sentono la tentazione forte di ritornare alle pratiche della legge come via verso la salvezza, Paolo ricorda con serietà: «Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla(…) Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia(…) Noi infatti per virtù dello spirito attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5, 2.4-6). “La fede che opera per mezzo della carità”; è una delle formulazioni più tipiche della teologia paolina. Non c’è giustificazione dell’uomo se non mediamente la fede, cioè mediante l’accoglimento umile e obbediente del dono di Dio. A sua volta la fede rende possibile e necessaria la carità; dove non c’è fede la carità non può nascere; ma d’altra parte una fede che non si esprima nella carità è inefficace, anzi contraddittoria, perché non produce quel frutto di libertà di cui solo l’amore è il segno.
– II –
Proprio l’essere amati gratuitamente da Dio è il fondamento della libertà cristiana di cui Paolo è un irriducibile difensore: «[35]Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (…) [37]Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. [38]Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, [39]né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 35-37-39). Il senso è che in mezzo alle numerose paure che accompagnano la nostra vita ci rimane come punto di appoggio saldo e incrollabile l’amore che Cristo ci ha dimostrato. La vita dell’uomo è infatti collocata su un dedicato equilibrio; è una vita fragile, bisognosa di mille cose, condizionata da mille fattori. Non c’è da meravigliarsi se a volte l’uomo si lascia sedurre dalle promesse del mondo e ne diviene schiavo; il denaro, il potere, il benessere si presentano come sicurezze consolanti in mezzo al mare di incertezze che ci paralizzano. «Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati». E cioè, l’amore di Cristo ci libera dalla paura. Nell’essere amati da Cristo la nostra vita acquista un senso e non siamo più costretti a cercare di darle un senso noi stessi col successo o con la bella figura o con qualunque altro surrogato; se «Cristo mi ha amato e ha dato la sua vita per me» (Gal 2, 20) non c’è bisogno di altro perché la mia vita abbia valore. Ecco allora che tribolazione o angoscia o persecuzione non si tramutano più in disperazione; al contrario può succedere che «sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4; cfr 2 Cor 4, 7ss).
Il cristiano è dunque libero da tutte queste cose, è signore della vita e della morte perché la vita non lo seduce e la morte non lo terrorizza; parimenti il presente non lo imprigiona e il futuro non lo sconvolge (cfr. 1 Cor 3, 21-23). È iniziato a tutto; alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Può tutto nella forza che gli viene da Cristo (cfr. Fil 4, 12s).
– III –
Ma che libertà è questa di cui il cristiano gode, anzi a cui il cristiano non può rinunciare se non vuole rinunciare nello stesso tempo alla sua condizione di “salvato”? Per Paolo la prospettiva è chiara; il cristiano ha una sola libertà, quella di amare e di servire gli altri: “13]Voi fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5, 13). Paradossale libertà! È libertà dalla carne, cioè dall’egoismo e da tutte le schiavitù che l’egoismo ci impone; ma e libertà che si esercita nel servizio premuroso e attento degli altri.
Ma come si possono conciliare queste due cose: libertà e servizio? Non c’è una contraddizione evidente? Libero è “colui che esiste per se stesso e non per gli altri” (Aristotele); servo è esattamente il contrario: chi vive per un altro e non per se stesso. Eppure per Paolo il cristiano può esercitare la sua libertà solo mettendosi a servire, imparando a portare i pesi degli altri (cfr. Gal 6, 2). Il fatto è che per Paolo la carità, il servizio, non sono una legge esterna da osservare scrupolosa mente ma sono prima di tutto un dinamismo interiore da lasciar sviluppare e crescere. «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). L’amore con cui Dio ci ama (cfr. la nota della BJ) si diffonde nel nostro cuore per mezzo dello Spirito Santo. Siamo sommersi dall’amore di Dio che ci domina e questo amore diventa nei nostri cuori sorgente di amore e di servizio fraterno. È come un seme, lo Spirito, che genera una vita nuova, una vita che ha i suoi frutti caratteristici (anzi il suo frutto; San Paolo usa il singolare; i nove termini indicano quindi tutti la stessa realtà contemplata nella sua multiforme ricchezza): «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22).
IV
Ma forse la descrizione più ricca del mondo in cui la carità diffusa nei nostri cuori opera e si manifesta si trova nell’“Inno alla carità” di 1 Cor 13. Per capirlo bisogna tenere presente anzitutto il contesto. Paolo sta parlando dei doni dello Spirito e della gerarchia di valore che esiste tra questi doni diversi. A Corinto gli è stata posta una domanda precisa a riguardo di due carismi diversi: la profezia e il parlare in lingue (una specie di parlare estatico, con suoni non articolati, incomprensibile quindi ma che faceva molta impressione perché sembrava un parlare angelico). A quale di questi due carismi bisogna riconoscere il primato? Quale dei due bisogna piuttosto ricercare? L’apostolo darà la sua risposta nel cap. 14 assegnando il primo posto alla profezia perché essa edifica tutta la comunità cristiana mentre il parlare in lingue non edifica gli altri che non lo capiscono. Ma prima, dice Paolo “vi insegnerò una via che sorpassa ogni altra”. Al di sopra del parlare in lingue, al di sopra della profezia, al disopra di ogni altro dono dello Spirito sta la carità.
É anch’essa, certamente, un dono dello Spirito (cfr. Gal 5, 22) e tuttavia non un dono accanto agli altri; piuttosto è quel dono che dà valore e consistenza a tutti gli altri. E Paolo, con un termine significativo, la chiama una “via”, un cammino sempre aperto, senza fine. La carità è esattamente questo: non una virtù che si può conquistare; non un pacifico possesso di cui godere, ma solo una via per la quale si deve camminare senza mai superarla del tutto, un “compito immenso” che non si potrà mai esaurire.
L’Inno si articola chiaramente in tre parti: anzitutto Paolo fa il confronto tra la carità e tutti gli altri carismi; poi – con una serie di 15 verbi – descrive la carità in atto; infine insiste sulla permanenza eterna della carità in confronto con tutti gli altri carismi che sono destinati a scomparire. Vediamo.
I vv. 1-3 prendono successivamente in esame i diversi carismi con un “crescendo” significativo: il parlare in lingue, la profezia, la scienza, la fede (cioè in questo caso il dono di fare miracoli), l’elemosina, il sacrificio della vita. Evidentemente bisogna intendere la lista come fosse completa: questi o qualunque altro carisma possa esistere, dal più umile al più elevato. E ripetutamente Paolo afferma che il valore dei singoli carismi e loro dato dalla carità. Senza la carità «sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna… non sono nulla… nulla mi giova» (1 Cor 13, 1). È impressionante questa serie di affermazioni che elimina ogni illusione di grandezza fondata sul possesso dell’uno o dell’altro dono. Paolo non dice solo che la carità è il massimo dei carismi, il primo, il più importante; dice chiaramente che qualsiasi carisma se non e vivificato dalla carità non ha nessun valore. Può anche essere, in sé, importante; può ottenere riconoscimenti elevati; può addirittura servire alla edificazione degli altri; ma non ha nessun valore per chi lo pratica.
Possiamo forse accostare a questa riflessione il testo di Rm 13, 8: «Non abbiate con nessuno altro debito se non quello di un amore vicendevole», che vuol forse dire: se devi qualcosa a qualcuno, guarda di darglielo per amore; è l’unica motivazione valida. Se fai l’elemosina, falla per amore e non per farti vedere; se elogi una persona, che sia per amore e non per adulazione. Solo in questo modo ciò che doni a un altro diventerà anche motivo di edificazione per te.
Ma perché alla carità è riconosciuto questo statuto speciale all’interno dei doni dello Spirito? Ci può aiutare a capirlo l’ultima parte del capitolo dove ritorna il confronto tra la carità e gli altri carismi per dire che «le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà», mentre al contrario «la carità non avrà mai fine». Paolo evidentemente contrappone “questo mondo” con il “mondo che viene”, per dire che la carità appartiene al mondo futuro mentre gli altri carismi appartengono a questo mondo. E allora, quando la scena di questo mondo sarà passata, passerà con lei anche tutto quello che è imperfetto e cioè tutti i carismi. Ma la carità no; perché la carità non è determinata dalle esigenze di questo mondo ma è la sostanza del mondo futuro. In altre parole la carità è “la forma escatologica di vita”, la forma della vita perfetta verso la quale siamo incamminati e che solo nel mondo futuro si realizzerà pienamente.
Ma se la carità appartiene al mondo futuro, al mondo di Dio e non a questo mondo, come essa è entrata nell’esperienza del cristiano? Come la possiamo vivere e sperimentare? Bisogna tornare a quanto abbiamo ascoltato più sopra: «La speranza non delude perché l’amore di Dio è stato, diffuso nei nostri, cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato» (Rm 5, 5). C’è dunque la carità nei nostri cuori; ma non c’è per un impulso naturale, nativo. C’è perché ve l’ha riversata lo Spirito Santo; c’è perché Dio ci ha amato. Ma è tempo che, guidati da Paolo, ci lasciamo istruire sull’opera della carità.
«La carità è paziente», longanime. Un gesto di rifiuto non la chiude in se stessa; la mancanza dì riconoscenza non la intristisce. È generosa, munifica, signorile. È la caratteristica di chi è ricco e non tanto di beni quanto di cuore; non meschino, non avaro, non meticoloso nel misurare ciò che dona. Così è Dio «misericordioso e pietoso… ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34, 6). Proprio perché è infinitamente ricco, Dio può permettersi di essere splendido, magnanimo; può donare gratuitamente e con sovrabbondanza. E la carità è “divina”; è ricca della ricchezza stessa di Dio e da lui impara a comportarsi. Si legga, come esempio, quello che Paolo scrive ai Corinzi: «Il nostro cuore si è spalancato per voi…!» (2 Cor 6, 11-13).
«É benigna la carità». È detto di Dio che è benevolo verso gli ingrati e i malvagi (cfr. Lc 6, 35) e cioè non restituisce male per male ma ama e benefica anche i cattivi; e proprio in questo modo Dio cerca di spingere il peccatore alla conversione (cfr. Rm 2, 4). Certamente anche Dio reagisce al peccato dell’uomo con l’ira e si mostra a volte severo; ma «l’ira di Dio dura in istante, la sua bontà per tutta la vita» (Sal 30, 6); e quando egli corregge lo fa sempre come un padre fa verso il suo figlio (cfr. Eb 12, 7),
«Non è invidiosa la carità», non considera cioè gli altri come degli. avversari e non è ossessionata dal bisogno di fare valere se stessa; non trova perciò nessuna compiacenza nell’abbassare gli altri. Per questo sa «piangere con quelli che sono nel pianto» e, cosa ancor più difficile, «rallegrarsi con quelli che sono nella gioia» (Rm 12, 15). L’invidia, al contrario, gode per gli insuccessi degli altri, e si rode per le loro gioie. In questo a carità si mostra semplice: prova la gioia e il dolore per quello che sono, non li trasforma con l’ottica deformata dell’egoismo e dell’interesse.
«Non si vanta»; non ha sempre sulla bocca il proprio io; sa apprezzare e stimare con gioia i doni degli altri. Non pretende che sulla scena tutti i riflettori siano puntati su di lei; lascia spazio agli altri. E anche quando ama non guarda troppo se stessa, non soffoca con spiegazioni e richiami e parole il suo comportamento. È umile, discreta, modesta.
«Non si gonfia» come gli gnostici di Corinto che, consapevoli di “avere la scienza”, disprezzano i deboli o, semplicemente, non li vedono neppure (cfr. 1 Cor 8, 1-2.11). La carità si prende così come è; non ha bisogno di ingrandirsi artificialmente con parole (cfr. l Cor 4, 18s.) per nascondere la sua povertà interiore.
«Non manca di rispetto»; ama la chiarezza, interiore ed esteriore; non cerca di fare colpo o di scandalizzare. È pudica, non sfacciata; educata ma non formalista.
«Non cerca ciò che è» suo (Bibbia CEI: “non cerca il suo interesse” ma il senso è anche “non è attaccata ai suoi diritti”). È una esortazione che ritorna spesso nelle lettere di Paolo: «Nessuno cerchi l’utile proprio, ma quello altrui» (1 Cor 10, 24 cfr 10, 33). «Senza cercare ìl proprio interesse ma anche quello degli altri» (Fil 2, 4). Quest’ultimo testo è illuminante perché è collegato con l’inno cristologico di Fil 2, 6-11, dove Paolo mette davanti agli occhi dei Filippesi l’esempio di Cristo che non si è aggrappato gelosamente ai diritti che gli spettavano in quanto Figlio di Dio, ma si è fatto servo, umiliato, obbediente fino alla morte. La carità non è ossessivamente legata ai suoi diritti; sa anche «subire l’ingiustizia… lasciarsi privare di ciò che le appartiene» (1 Cor 6, 7). La gratuità, il disinteresse sono regola delle sue azioni (cfr. Lc 6, 27-35). Essa sa, infatti, che alla sua difesa ci pensa Dio, può affidare a lui la rivendicazione dei propri diritti (Rm 12, 19; cfr. 1 Pt 2, 23; Lc 6, 38) ed è quindi libera di amare, di donare, di essere disinteressata.
«Non si adira»; è la conseguenza necessaria. L’ira esplode quando ci sembra che un nostro diritto sia stato calpestato (cfr. Lc 15, 28) e non è altro che il primo passo verso il far del male (cfr. Mt 5, 22). San Giacomo descrive il dinamismo così: «[1]Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? [2]Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra!» (Gc 4, 1-2). É vero che Paolo, citando il Sal 4, 4 (LXX) scrive: «Nell’ira non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4, 26) ma proprio l’ultima parte del versetto dimostra che qui si tratta di qualcosa altro. È l’“ira medicinale”, quella che reagisce salutarmente davanti al male (non al peccatore!) e lo respinge. Ma anche questa, che è pure ira salutare, deve sapersi contenere per non «dare occasione al diavolo» (Ef 4, 27) che potrebbe servirsi di questo per insinuare odio o malvagità.
«Non tiene conto del male ricevuto», non lo computa meschinamente scrivendolo con inchiostro indelebile sul suo libro. Non rinfaccia il male che riceve come, parallelamente, non rinfaccia il bene che ha donato. Non aspetta l’occasione propizia per rivelarsi, «è la tomba dell’ingiustizia» (H. Schlier). Sa cancellare i debiti degli altri così come i propri crediti. Questo la rende, nello stesso tempo, riconoscente per ogni briciola di bene che riceve.
«Non gode dell’ingiustizia». Degli empi dice San Paolo che «non solo continuano a fare il male, ma approvano chi lo fa» (Rm 1, 32). >È un modo anche questo di giustificare se stessi e il proprio comportamento. La carità, al contrario, non sopporta l’ingiustizia, non la approva mai, non la accarezza.
Ma è un modo di godere dell’ingiustizia anche quel mormorare degli altri che nasconde solo il desiderio di sentirsi migliori; dietro a parole dure di censura c’è talvolta la gioia nascosta e ipocrita di trovare l’ingiustizia negli altri. La carità non ha mai bisogno di giustificare se stessa e non è costretta a ricorrere a sotterfugi di nessun genere (cfr. Gal 6, 3-4). Al contrario essa:
«gode della verità», la ama, se ne compiace; e non perché è sua o perché è dalla sua parte ma semplicemente perché è verità, perché è un riflesso dello bellezza luminosa di Dio. È anche questo un segno di distacco e di disinteresse. Non è vero che a volte la verità ci piace solo se è detta da noi o dai nostri? E che ci fa invece dispetto sulle labbra degli “altri”? Anche qui là carità ignora ogni doppiezza; è semplice.
A questo punto Paolo conclude la descrizione della carità con quattro affermazioni che definiscono la sua “intrepidezza”, il fatto che la carità non indietreggia di fronte a nulla. Nessuna cattiveria, nessuna ingratitudine, nessun rifiuto, nessun fallimento sono capaci di farla ripiegare su se stessa, di costringerla a un rifiuto sdegnoso degli altri, del mondo, della vita.
«Tutto copre», non mette il sale sulle ferite per renderle più brucianti; non amplifica le parole cattive fino a renderle assordanti; non offre al male quel rifiuto duro che lo fa riecheggiare all’infinito. Al contrario lenisce le sofferenze, attutisce i contrasti, accoglie dentro di sé il male e senza lasciarlo rimbalzare all’esterno; quando incontra una parola, un gesto dove ci sono cattiveria e odio, assorbe il veleno e in questo modo lo scioglie e libera la bontà delle cose e delle persone.
«Tutto crede», non perde mai la fiducia. Può sperimentare fallimenti e insuccessi; può incontrare opposizione e ingratitudine; può giungere a conoscere le miserie di cui è capace il cuoreumano ma non perde la fiducia. È fondata in Dio, nel suo amore solido come roccia; non vacilla e non viene meno.
«Spera tutto». Vede sempre davanti a sé un futuro aperto. Il presente, coi suoi limiti, non è capace di rinserrarla e imprigionarla. Crede nel futuro di Dio che si apre una strada anche in mezzo al peccato. Nelle persone sa vedere i progetti di Dio, sa apprezzare quello che ancora non si vede e in questo modo lo fa emergere attraverso la cappa di abitudini e di errori che lo nascondono.
«Sopporta tutto». Conosce il peso della vita ma non tenta di sottrarvisi; non carica gli altri dei suoi pesi ma piuttosto si fa carico dei pesi degli altri così come Cristo si è fatto carico dei pesi di tutti. Alla fine di questo cammino di amore e di sopportazione c’è ancora la croce. Sopportare tutto vuol dire in una parola sopportare anche la morte come segno supremo dell’amore che si dona.
Conclusione
Cercando ora di riassumere brevemente i punti della nostra riflessione su Giovanni e Paolo potremmo enumerarli così:
Cristo ci ha amato dando la sua vita per noi; in lui era Dio stesso che dimostrava il suo amore per noi.
A noi viene chiesto di accogliere questo amore nella fede. Solo in questo modo la nostra vita viene “giustificata” e ci diventa possibile essere in comunione con Dio.
L’amore di Dio accolto nella fede ci fa figli di Dio e quindi ci libera dalla debolezza e impotenza della “carne” per renderci capaci di una vita nuova.
La novità di questa esistenza è la forza dello Spirito e la capacità di amare. Questo “comandamento” è “nuovo” perché è la forma di esistenza che corrisponde alla “nuova creazione”.
Amare i fratelli significa “dare la vita per loro”, mettere gioiosamente l’altro al centro delle proprie scelte.
dal sito:
http://www.zenit.org/article-21077?l=italian
Mons. Forte: la teologia, scuola di umiltà contro il nichilismo
L’Arcivescovo di Chieti-Vasto analizza il pensiero teologico di Benedetto XVI
di Mirko Testa
ROMA, mercoledì, 20 gennaio 2010 (ZENIT.org).- In un’epoca che ha visto il tramonto della ragione totalizzante, la teologia come scuola di umiltà e ascolto della Parola di Dio può diventare un antidoto contro le tentazioni dell’oblio del senso, figlio del nichilismo.
Ne è convinto mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto e Presidente della Commissione per la Dottrina della Fede, l’Annuncio e la Catechesi della Conferenza Episcopale Italiana, che in questa intervista a ZENIT analizza gli ultimi interventi di Benedetto XVI in materia di teologia.
Lo scorso anno, nell’omelia per la messa celebrata alla presenza dei membri della Commissione Teologica Internazionale, il Papa ha spiegato che il vero teologo non è colui che cerca di misurare il mistero di Dio con la propria intelligenza ma colui che è cosciente della propria limitatezza. In quell’occasione il Papa ha indicato nell’umiltà la via per giungere alla verità, mettendo in guardia contro i teologi saccenti che si comportano come gli antichi scribi. Crede che il Papa faccia riferimento a una tendenza visibile ai nostri giorni?
Mons. Bruno Forte: Io credo che questo sia un punto fondamentale che distingue la teologia cristiana da ogni forma di gnosi. La differenza fondamentale è che nella teologia tutto nasce dall’ascolto, quindi dall’auditus Verbi, mentre nella gnosi tutto è autoproduzione intellettuale del soggetto. Questo è il vero motivo per cui l’unica autentica eresia cristiana è la gnosi: la presunzione di un’autoredenzione dell’uomo che non abbia bisogno dell’intervento dell’Altro e dall’Alto, cioè dell’intervento di Dio. Una teologia che si fondi, com’è nella sua natura, sulla Rivelazione, non può che essere innanzitutto ascolto e quindi è humilitas: un atteggiamento di profonda disponibilità e docilità di fronte all’azione di Dio, che entra nella storia in maniera sorprendente e al tempo stesso la conferma nella sua dignità, aprendola al novum adveniens della sua promessa.
E’ un tema che Ratzinger da teologo ha ripetutamente sottolineato e che gli deriva dalla sua frequentazione di Agostino, che è il genio dell’intellectus fidei vissuto nell’ascolto, nell’uso dell’intelligenza al servizio dell’ascolto della Parola di Dio e gli deriva anche da Bonaventura. Direi che è il filone agostiniano-francescano quello che predomina nella formazione teologica di Joseph Ratzinger, che nel suo magistero di Papa riemerge nel suo richiamo forte all’humilitas e all’auditus. Aggiungerei che questo tema risulta quanto mai importante oggi in una società che ha conosciuto l’ebrezza della ragione e dunque la tentazione gnostica nei vari volti della ideologia moderna e che oggi in questa inquietudine della post-modernità se non si apre all’ascolto e all’humilitas rischia la grande tentazione del nichilismo, cioè del non-senso. In altre parole: chi potrà salvarci? A questa domanda non si può che rispondere: l’Altro che viene a noi, cioè il Dio vivente e questo implica l’umiltà dell’accoglienza. La gnosi in questa società post-moderna, dove la ragione totalizzante ha conosciuto una crisi profonda e il bisogno del suo superamento critico, viene spiazzata nella sua stessa convinzione fondamentale, che è l’assolutezza del soggetto e della sua capacità di conoscenza o di produzione del vero.
Nel settembre del 2007, nel visitare l’abbazia cistercense di Heiligenkreuz il Papa ha denunciato una certa “teologia che non respira più nello spazio della fede”, ponendo l’accento invece sulla “teologia in ginocchio”, una bella espressione coniata da Hans Urs von Balthasar. Allo stesso modo nel presentare la figura di san Bernardo di Chiaravalle durante una Udienza generale, Benedetto XVI ha detto che senza fede e preghiera la ragione da sola non riesce a trovare Dio e la teologia diventa un “vano esercizio intellettuale”. E’ questo uno scenario presente nell’ambito della teologia attuale?
Mons. Bruno Forte: Il primo elemento decisivo è che proprio perché nasce dall’ascolto della Parola di Dio, la teologia ha bisogno non solo di una radicale humilitas ma anche di una forma di accoglienza amorosa, perciò orante di essa. Von Balthasar ha insistito moltissimo su questo aspetto, sostenendo che la santità non è un superfluo rispetto all’esercizio del teologo, ma ne è una condizione fondamentale. Non è un caso che grandissimi teologi, specie i Padri della Chiesa, sono stati anche dei santi. Dunque il bisogno di mettersi in ginocchio davanti al mistero e di ascoltare, di vivere l’auditus non solo con l’umiltà ma con l’amoroso e perseverante accoglienza della fede orante, è connaturale all’identità della teologia cristiana. E anche in questo nel pensiero di Joseph Ratzinger c’è non solo la continuità con il filone agostiniano e bonaventuriano, ma c’è anche un’altra intuizione molto importante, peraltro ripresa nel Vaticano II, e cioè che c’è un rapporto tra il vissuto cristiano, il pensato cristiano e la liturgia.
La liturgia in quanto culmen et fons, come dice il Vaticano II, è ciò da cui tutto parte e a cui tutto tende dell’esistenza cristiana, sia nel suo vissuto che nella sua dimensione riflessa. Ecco perché una teologia senza anima liturgica, cioè senza capacità di lodare e invocare Dio, è un vano esercizio intellettuale. E’ un’altra forma di quella gnosi che rischia di inquinare la capacità dell’uomo di aprirsi a Dio. Nella grande visione teologica cristiano-cattolica l’uomo è stato fatto capax Dei: ebbene questa capacità è condizionata da una parte dall’humilitas e dall’altra dalla capacità di invocare il dono di Dio e di lasciarsene pervadere in un atteggiamento dossologico e liturgico, e cioè di glorificazione di Dio, che è non di meno disponibilità a lasciarsi plasmare dalla Sua azione nella nostra vita. Quando tutto questo è portato alla parola nasce propriamente la teologia.
E qui c’è anche un’altra considerazione da fare sul rapporto tra teologia e spiritualità. Noi abbiamo vissuto una crisi di questo rapporto nell’epoca della teologia moderna, cioè di quella teologia influenzata dalla contrapposizione illuministica tra Vernunftswahrheit e Geschichtswahrheit, verità di ragione e verità di fatto. Nella concezione illuministica solo la verità di ragione è verità, perché presenta un’assolutezza e universalità che invece le verità di fatto non hanno. Il cristianesimo, al contrario, si fonda su una verità di fatto, che è la rivelazione storica di Dio. Allora sembrava a una certa teologia di impianto illuministico-liberale che non potesse conciliarsi l’esercizio teologico puro con una forma di spiritualità, di vissuto spirituale, lasciato piuttosto alla devozione.
Questo fossato tra teologia e spiritualità ha prodotto grandi danni nell’epoca della teologia moderna: lo si è visto soprattutto nella teologia liberale e in alcune forme del modernismo cattolico, ma continua a produrre danni laddove, per esempio, negli anni ’60 e ’70 alcune forme della teologia cristiana si sono lasciate condizionare dall’ideologia moderna anche rivoluzionaria. Oggi noi sentiamo, invece, di ritornare allo statuto originale fondante del fare teologia che è quello di portare al pensiero l’esperienza del Mistero proclamato e quindi ascoltato e celebrato nella liturgia, vissuto e testimoniato nella fede e nella carità.
Quindi teologia non è solo docta fides, cioè una fides quaerens intellectum, ma anche docta caritas, cioè è il portare alla parola il vissuto dell’amore, il dono dell’amore di Dio che ci viene fatto nella liturgia e nella Grazia dei sacramenti, ma che deve essere poi testimoniato nel vissuto dei gesti dell’eloquenza silenziosa della carità. Teologia e spiritualità così ritrovano il nesso fondamentale che le costituisce reciprocamente come teologia e spiritualità cristiane. Una teologia senza spiritualità rischia di essere vuota, una spiritualità senza teologia rischia di essere cieca, parafrasando il noto detto di Kant su intuizione e concetti.
L’adesione al “Processo di Bologna” da parte della Santa Sede ha portato a un riordino globale della formazione teologica in Italia, volto a ricalibrare gli standard curricolari esistenti alla luce di quelli richiesti. Secondo lei, il fatto di doversi conformare a delle precise caratteristiche di “scientificità” non porta l’insegnamento di questa disciplina a mettere da parte una concezione che presuppone la fede nella ricerca teologica?
Mons. Bruno Forte: Questa è un’antica questione che ritorna sempre e di nuovo nella storia della teologia. Vorrei dare due risposte: una di carattere storico e una di carattere attuale, ma anche di sapore metodologico. La prima è quella che diede San Tommaso alla stessa questione che lei mi sta ponendo, quando apre la Summa teologica con un’audacia impensabile al tempo dei Padri della Chiesa. Tommaso si chiede: utrum praeter philosophicas disciplinas aliam doctrinam haberi? Cioè si chiede non se siano legittime le discipline filosofiche, ma se sia legittima la teologia, con un impianto assolutamente moderno che sembra rivendicare l’autonomia della ragione. La sua risposta è che la razionalità richiesta alle discipline scientifiche è soprattutto nello scire per causas, nel conoscere attraverso le connessioni tra premesse e deduzioni. Ora questo scire per causas può essere esercitato in due modi: partendo dai principi primi interni alla scienza, le cosiddette scienze subalternanti (egli parla ad esempio della matematica che ha dei suoi principi più intrinseci dai quali si parte e che sono indimostrabili – in questo Tommaso anticipa Goedel – e da cui si deducono delle conseguenze); dall’altra parte ci sono però ci sono però delle scienze subalternate che usano i principi offerti loro da altre scienze. A questo proposito, Tommaso fa come esempio intrigante quello della musica che dipende dalla matematica, proprio per le sue armonie e i suoi rapporti di proporzione. Analogamente – dice Tommaso – la teologia dipende dalla scientia Dei et beatorum cioè dalla Rivelazione. In altre parole, la fonte della conoscenza teologica è lumen fidei per il naturale, quanto però all’argomentare essa ha lo stesso statuto epistemologico di tutte le altre scienze e quindi ha piena dignità della universitas scientiarum.
Come risponderemmo oggi di fronte agli sviluppi della teologia, ma anche della epistemologia moderna? Io risponderei rifacendomi alla grande conquista del Novecento filosofico e teologico che è la riscoperta poderosa della ermeneutica, cioè della scienza dell’interpretazione. Quando molti anni fa da Decano della Facoltà Teologica a Napoli invitai a una quaestio quodlibetalis Hans-Georg Gadamer, il padre dell’ermeneutica contemporanea, autore di “Verità e metodo”, un giovane di primo anno gli pose questa domanda: “che cos’è l’ermeneutica?”. Al che Gadamer, senza scomporsi, dopo un attimo di riflessione, disse: “Ermeneutica significa che quando lei ed io parliamo ci sforziamo di raggiungere il mondo vitale che è dietro le parole dell’altro e da cui esse provengono”.
Allora, l’epistemologia illuminata dall’ermeneutica vuol dire non solo comprendere l’immediatamente percettibile, il visibile, il fenomenico, il razionale, ma comprendere anche o perlomeno cercare di raggiungere quei mondi vitali da cui queste espressioni provengono. In questo contesto si scopre che scienza non è solo quella dei fenomeni, ma che c’è un insieme di scienze, che sono le scienze dello spirito, le quali si sforzano di raggiungere un non detto, un non dicibile, un non totalmente tematizzabile, che però è il mondo vitale in cui si situano i processi umani, i processi storici e così via. E c’è un ulteriore livello che attinge a quell’esperienza del mistero della vita e del mondo che noi tutti facciamo e che non è riconducibile a una mera formula linguistica o razionale, cioè un eccesso del Mistero che circonda il mondo, che circonda la vita di ognuno di noi e che noi attingiamo continuamente nella sorpresa, nello stupore, che soltanto fino a un certo punto riusciamo a ricondurre alla parola.
Ora, una scienza che prenda sul serio lo stupore davanti a questo Mistero, la possibilità che esso si dica senza tradirsi, cioè la possibilità della Rivelazione, e che ne faccia materia del suo pensare, diventa una scienza assolutamente preziosa. In una simile dimensione ermeneutica, interpretativa della realtà, che non si ferma all’immediato ma cerca sempre di cogliere le ulteriorità, le connessioni profonde, la teologia mi sembra che si presenti con piena dignità come una scienza di cui l’uomo ha bisogno per vivere e per morire, come ha bisogno per vivere e per morire di Dio e del senso della vita.
Nel 1986 intervenendo a Brescia a un incontro organizzato dalla redazione italiana della rivista “Communio” Ratzinger aveva affermato che nella coscienza diffusa della teologia cattolica l’autorità della Chiesa appare spesso come un’istanza estranea alla scienza, come qualcosa che limita se non mortifica la ricerca. Secondo lei, soprattutto dopo quanto avvenuto con la Teologia della Liberazione, è ancora così avvertita questa percezione?
Mons. Bruno Forte: Il compito del Magistero nella Chiesa non è un compito regressivo, ma un compito quasi prospettico. In un famoso saggio del 1953 che fece storia nel dibattito teologico, Karl Rahner interrogandosi sul Concilio di Calcedonia e sulla sua definizione dogmatica, che resta vincolante per ogni cristiano qualunque sia la sua appartenenza confessionale, di Cristo come una persona divina nelle due nature umana e divina, si chiedeva “Chalkedon – Ende oder Anfang?” (Calcedonia è una fine o un inizio?). La sua risposta era molto chiara: il dogma non è una fine, non arresta il pensiero, non lo paralizza, ma pone quei paletti rispetto ai quali indietro non si torna, perché voler tornare indietro significherebbe cadere da una parte nelle forme dell’arianesimo, cioè una visione solo umana e mondana di Cristo, che così non sarebbe più mediatore dell’Alleanza e Salvatore, dall’altra in una forma di modalismo, cioè un Dio che appare tra gli uomini ma che non ha veramente assunto la nostra carne mortale, non s’è veramente compromesso con l’umano.
Diceva Karl Rahner, giustamente, che la definizione dogmatica di Calcedonia in questo senso è un baluardo contro il regresso, non contro il progresso. Ilario di Poitiers, a sua volta, intuiva una bellissima dimensione di questo esercizio del discernimento magisteriale della Chiesa. Egli diceva: il dogma viene definito per una esigenza di carità, per aiutare a non perdere la rotta, a non perdere la strada rispettosa, quella che Dio ci ha indicato. Anche qui la visione era chiaramente non difensiva o repressiva, ma prospettica.
E proprio il caso della Teologia della Liberazione che lei citava, mi sembra un esempio eloquente, perché gli interventi fondamentali in proposito da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede sono stati due: uno eminentemente critico, che ha messo in luce i limiti spesso connessi con la dipendenza ideologica di questa teologia; l’altro che ne ha messo in luce invece le acquisizioni, i contributi positivi soprattutto in vista di una teologia ispirata al primato della carità e del servizio. Io credo che in questa azione il magistero abbia compiuto esattamente ciò che diceva Ilario di Poitiers, e che molto più recentemente affermava Karl Rahner, cioè una azione non repressiva per spegnere la vita, ma di custodia e di promozione di quella vita autentica che soltanto la verità di Dio riesce a far sprigionare in noi. Riassumerei con la frase di Giovanni 8,32, che Giovanni Paolo II amava ripetere e che ripetè ancora a noi della Commissione Teolgica Internazionale quando si lavorava sul documento “Memoria e riconciliazione” per accompagnare la richiesta di perdono per le colpe della Chiesa: “La verità vi farà liberi”.
E allora, quanto più si serve la causa della verità, quanto più il magistero si pone al sevizio della testimonianza della verità, tanto più esso favorisce la libertà, l’autentica libertà che dà senso, pienezza, vita e salvezza al cuore dell’uomo.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100130
Sabato della III settimana delle ferie del Tempo Ordinario : Mc 4,35-41
Meditazione del giorno
Sant’Agostino (354-430), vescovo d’Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Discorso 63, 1-3; PL 38, 424-425
Battuti dal vento e dalle onde
Per grazia di Dio vi rivolgo la parola sul passo del santo Vangelo letto poco fa e in nome di lui vi esorto a far sì che nei vostri cuori non si assopisca la fede con cui resistere alle tempeste e ai marosi di questo mondo. In effetti non è vero che Cristo nostro Signore avesse in suo potere la morte e non il sonno e che forse l’Onnipotente fu oppresso dal sonno contro la sua volontà mentre stava sulla barca. Se voi crederete questo, egli dorme nel vostro intimo; se invece Cristo è desto, è desta anche la vostra fede. L’Apostolo dice: « [Chiedo di] far abitare Cristo nei vostri cuori per mezzo della fede » (Ef 3,17).
Anche il sonno di Cristo è dunque un segno esteriore d’un simbolo. Sono come dei naviganti le anime che fanno la traversata di questa vita in una imbarcazione. Anche quella barca era la figura della Chiesa. Poiché anche ogni persona è tempio di Dio e naviga nel proprio cuore e non fa naufragio se nutre buoni pensieri. Se hai sentito un insulto, è come il vento; se sei adirato, ecco la tempesta. Se quindi soffia il vento e sorge la tempesta, corre pericolo la nave, corre pericolo il tuo cuore ed è agitato. All’udire l’insulto tu desideri vendicarti: ed ecco ti sei vendicato e, godendo del male altrui, hai fatto naufragio. E perché? Perché in te dorme Cristo. Che vuol dire: « In te dorme Cristo »? Ti sei dimenticato di Cristo. Risveglia dunque Cristo, ricordati di Cristo, sia desto in te Cristo: considera lui.
giovedì 28 gennaio « memoria » di San Tommaso D’Aquino avevo molti lavori per le mani e non avevo messo niente su San Tommaso, rimedio con questa preghiera, dal sito:
http://radicicristiane.splinder.com/post/15705589/Preghiera+di+San+Tommaso+d’Aqu
28 Gennaio
S. Tommaso d’Aquino – Sac. e Dottore della Chiesa.
PREGHIERA DI SAN TOMMASO D’AQUINO
Concedimi, Dio di misericordia
che io con fervore desideri,
con prudenza ricerchi,
con sincerità riconosca ed in perfetta guisa
adempia quel che a Te piace
in onore e gloria del tuo Nome Santissimo.
Aprimi Tu il sentiero della Vita,
e quanto da me vuoi,
fa’ che io sappia, fa’ che io operi
come occorre e conviene all’anima mia.
Dammi, Signore mio, fortezza nella prosperità
e nelle avversità, sì che io nel benessere non mi adagi
e nelle difficoltà non mi abbatta, e di niente io goda
e mi dolga se non di ciò che Ti appartiene, Signore.
Ogni allegrezza che sia senza di Te mi disgusti
né altro mi attragga che sia fuori di Te,
ma mi conforti ogni lavoro per Te intrapreso, o Signore,
e mi attenda ogni riposo che Tu non allieti.
Fa’, Signore, che io spesso a Te elevi il mio spirito
ed in ogni mio difetto io pensi a Te
con dolore e proposito di emendarmi.
Rendimi, Signore mio Dio,
obbediente senza ripugnanza,
povero senza rammarico, casto senza presunzione,
paziente senza mormorazione,
umile senza finzione, giocondo senza dissipazione,
austero senza tristezza, prudente senza fastidio,
pronto senza vanità, timoroso senza sfiducia,
veritiero senza doppiezza,
benefico senza arroganza,
sì che io senza superbia
corregga i miei fratelli,
e li edifichi con la parola e con l’affetto.
Dammi, Signore mio Dio, un cuore assai vigile
che mai vano pensiero distragga da Te;
cuore nobile che mai basso affetto seduca;
cuore retto che Ti cerchi;
cuore retto che nessuna mala intenzione contamini;
cuore saldo che per la tribolazione non s’infranga;
cuore libero che a torbida passione non ceda.
Infondimi, Signore mio Dio, intelletto che Ti apprenda;
amore che Ti cerchi;
sapienza che ti trovi; parola che Ti piaccia;
perseveranza che fiduciosa Ti aspetti;
e speranza di finalmente abbracciarti.
Fa’ che io qui penitente porti in pace i tuoi castighi;
pellegrino profitti dei tesori della tua Grazia
e dei tuoi gaudi;
possa poi in Patria raggiante di gloria, esultante, lodarti.
Amen.
(Indulgenza parziale)