Archive pour le 25 octobre, 2009

Don Gnocchi/ Il padre dei mutilatini è beato, in 50mila in Duomo (altre foto sul sito)

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Don Gnocchi/ Il padre dei mutilatini è beato, in 50mila in Duomo

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Don Gnocchi, sulle vette della carità

dal sito:

http://www.famiglieperaccoglienza.it/?idPagina=832&Titolo=Don%20Gnocchi,%20sulle%20vette%20della%20carit%E0

Il « prete degli alpini », la cui opera per l’infanzia sofferente ha segnato la storia del dopoguerra, sarà proclamato beato il 25 ottobre. La celebrazione al Duomo di Milano

Don Gnocchi, sulle vette della carità

di Stefano Zurlo, ilsussidiario.net, giovedì 10 settembre 2009

« …Assiste alla morte dell’Uomo, calpestando il ghiaccio sconfinato della Russia. Torna a casa deciso a caricarsi sulle spalle il dolore innocente dei bambini feriti e abbandonati. È il genio del cristianesimo: trasformare la morte in vita, la disperazione in speranza, la barbarie in civiltà… »                                      

Lo beatificheranno il 25 ottobre, ma in una nicchia starà senz’altro scomodo. Don Carlo Gnocchi non era un santino, semmai, alla sua maniera, sul lato della carità, uno dei protagonisti del miracolo italiano. Solare, ottimista, gran lavoratore, con quella positività tutta lombarda che sin dai tempi dell’Illuminismo intreccia terra e cielo e coniuga gli ideali dell’anima con i bisogni del corpo.                            

La storia di don Carlo è dunque quella di un prete coraggioso, ardimentoso, quasi temerario che scopre di avere addosso una vocazione particolare, quella per i mutilatini, e scommette tutto su quell’intuizione. Sono paradossalmente gli anni della guerra quelli in cui matura l’idea di occuparsi degli ultimi fra gli ultimi, le piccole e incolpevoli vittime dell’odio, i bambini che sono saltati sulle bombe e sui residuati bellici. Insomma, quello di Carlo è un percorso controcorrente: va in guerra come cappellano degli Alpini, osserva tutto il male quasi irredimibile del conflitto, assiste alla morte degli uomini e dell’Uomo, calpestando il ghiaccio sconfinato della Russia. Torna però a casa non ripiegato su se stesso, ma deciso a caricarsi sulle spalle il dolore innocente di quei bambini feriti, umiliati e abbandonati al loro destino. È il genio del cristianesimo: trasformare la morte in vita, la disperazione in speranza, la barbarie in civiltà. O, se si preferisce, costruire sul dolore, dove tutti gli altri pensano che non ci sia più nulla da fare. Come ha fatto Cristo in croce.                                      

Il resto è la storia prodigiosa delle opere create freneticamente nell’arco di poco più di dieci anni, dal 1945 al 1956, quando don Carlo muore prematuramente. Il suo ragionamento è evangelicamente semplice: ai mutilatini è stato tolto molto, molto dev’essere restituito. L’importante è non abbandonarsi ad una carità alla vecchia maniera, fra paternalismo e fioretti. No, ci vuole altro. Medicine. Riabilitazione. Studio. Giochi. La prospettiva di creare tante famiglie e di tornare nella società. Mai, mai piangersi addosso e maledire la sorte. Don Carlo diventa per tanti piccoli sfortunati un padre e l’espressione non ha alcuna retorica per centinaia di bambini che erano stati parcheggiati, spesso da famiglie poverissime, in istituto.

Lui li segue uno ad uno, per loro va a battere cassa presso le grandi famiglie della borghesia ambrosiana, per loro tesse una fitta trama di rapporti politici che lo portano a Roma, da Andreotti e De Gasperi. Con loro va in udienza da Pio XII e al papa, che vorrebbe farlo vescovo, replica con garbata fermezza: «Santità, la ringrazio ma se mi lascia con i miei ragazzi sarei anche più contento».                                 

La vocazione è diventata una missione. Il cappellano si rivela un grande uomo. In altre parole, un santo. Anticonformista fino all’ultimo giorno. Muore donando le cornee con un gesto di amore e libertà che supera i divieti della legge, che all’epoca proibiva i trapianti, e i dubbi dei teologi moralisti, divisi sul punto. Lui è oltre. A ben guardare, avanti. Già in cielo. Ma ben saldo sulla terra, dove le sue opere avranno dopo la sua morte una grande fioritura.                                     

Ai suoi funerali in Duomo, il cardinal Montini, futuro Paolo VI, chiama al microfono un mutilatino che inventa la più bella delle prediche: «Ciao, prima ti chiamavo don Carlo, adesso ti chiamo San Carlo». Sono in centomila ad applaudire.

Speriamo che la beatificazione spinga i milanesi e gli italiani a togliere la polvere dall’immagine di don Carlo Gnocchi.

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Giovanni Paolo II ai partecipanti della Fondazione « Don Carlo Gnocchi »

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/2002/november/documents/hf_jp-ii_spe_20021130_don-carlo-gnocchi_it.html

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PARTECIPANTI AL PELLEGRINAGGIO

DELLA FONDAZIONE « DON CARLO GNOCCHI »

Sabato, 30 novembre 2002
 

Signori Cardinali,
Cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Carissimi Fratelli e Sorelle!

1. È per me motivo di grande gioia accogliervi quest’oggi nel contesto delle celebrazioni per il centenario della nascita di don Carlo Gnocchi, e del cinquantesimo della Fondazione sgorgata dal suo cuore di insigne « prete educatore e imprenditore della carità », come ebbe a definirlo il Cardinale Carlo Maria Martini, aprendo nel 1987 il processo di beatificazione. Grazie per la vostra visita, che mi offre l’occasione di manifestare sincero apprezzamento per il benemerito servizio che rendete a quanti si trovano in difficoltà.

Vi saluto tutti con affetto: ospiti, dirigenti, operatori, volontari, ex allievi ed amici della grande famiglia spirituale di don Carlo Gnocchi, senza dimenticare l’Associazione Nazionale Alpini e l’Associazione Nazionale Donatori Organi, particolarmente legate alla figura e all’opera di questo zelante sacerdote. Saluto i rappresentanti degli Istituti religiosi maschili e femminili voluti da don Gnocchi e il Presidente della Fondazione, Mons. Angelo Bazzari, che ringrazio per i devoti sentimenti che ha voluto esprimere a nome vostro. Saluto la giovane ospite del Centro di Milano, che si è fatta interprete di tutti gli ospiti della Fondazione. Un deferente pensiero rivolgo al Sindaco di Milano e alle altre autorità civili e militari, che hanno voluto essere presenti a questo incontro.

2. Il servo di Dio don Carlo Gnocchi, « padre dei mutilatini », fu educatore di giovani sin dall’inizio del suo ministero sacerdotale. Conobbe gli orrori della seconda guerra mondiale quale cappellano volontario prima sul fronte greco-albanese e, in seguito, con gli alpini della Divisione « Tridentina », nella campagna di Russia. Si prodigò con eroica carità verso i feriti e i moribondi, e maturò il disegno di una grande opera destinata ai poveri, agli orfani e agli sventurati.

Nacque così la Fondazione Pro Juventute, attraverso la quale egli moltiplicò iniziative sociali ed apostoliche a favore dei tanti orfani di guerra e piccoli mutilati per lo scoppio di ordigni bellici. La sua generosità si spinse oltre la morte, sopravvenuta il 28 febbraio del 1956, mediante il dono delle sue cornee a due ragazzi non vedenti. Fu un gesto precorritore, se si considera che in Italia il trapianto d’organi non era ancora regolato da provvedimenti legislativi.

3. Carissimi Fratelli e Sorelle! Le celebrazioni giubilari vi hanno permesso durante quest’anno di approfondire ancor più le ragioni del vostro impegno nella società e nella Chiesa. Dalla riabilitazione e integrazione sociale dei mutilatini di guerra siete oggi passati a gestire diversificate attività a favore di ragazzi, adulti e anziani non autosufficienti. Rispondendo, inoltre, ai nuovi bisogni emergenti nella società, avete aperto le vostre case a malati oncologici terminali. Non avete al tempo stesso trascurato di investire nella ricerca scientifica, curando la formazione professionale per disabili attraverso scuole e corsi in varie regioni d’Italia.

4. « Restaurare la persona umana » è il principio che continua ad ispirarvi, in fedeltà allo spirito di don Carlo Gnocchi. Egli era convinto che non basta assistere il malato; occorre « restaurarlo », promuovendolo attraverso pertinenti terapie atte a fargli recuperare la fiducia in se stesso. Se ciò esige un aggiornamento tecnico e professionale, domanda ancor più un costante supporto umano e soprattutto spirituale. « Condividere la sofferenza – amava ripetere questo insigne pedagogo sociale – è il primo passo terapeutico; il resto lo fa l’amore ».

E fu proprio l’amore il segreto di tutta la sua vita. In ogni sofferente vedeva Cristo crocifisso, tanto più se si trattava di individui fragili, piccoli, indifesi. Comprese che la luce capace di dar senso al dolore innocente dei bambini viene dal mistero della Croce. Ogni mutilatino era per lui « una piccola reliquia della redenzione cristiana e un segnale che anticipa la gloria pasquale ».

5. Carissimi Fratelli e Sorelle! Continuate a seguire le orme di questo indimenticabile maestro di vita. Come lui, siate buoni samaritani per quanti bussano alla porta delle vostre case. Il suo messaggio rappresenta oggi una singolare profezia di solidarietà e di pace. Servendo infatti gli ultimi e i piccoli in modo disinteressato, si contribuisce a costruire un mondo più accogliente e solidale.

Quasi tutti i vostri centri di ricupero e riabilitativi sono dedicati alla Vergine. Sia Lei – la Madre della speranza, a cui don Gnocchi si rivolgeva con filiale devozione – a sostenervi e a guidarvi verso nuovi traguardi di bene.

Io vi assicuro la mia preghiera, mentre di cuore benedico voi qui presenti e quanti compongono la grande famiglia della « Fondazione don Carlo Gnocchi ».

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buona notte

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Omelia per domenica 25 otobre 2009: Avere la fede e’ piu’ che ritrovare la vista

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/8355.html

Omelia (29-10-2006) 

don Roberto Rossi
Avere la fede e’ piu’ che ritrovare la vista

Mons. Angelo Comastri presenta questo racconto.

A Lourdes, nello stradello che scende dalla Basilica superiore alla Grotta, c’è un monumento che raffigura un cieco. Alla base del monumento c’è scritto così: ritrovare la fede è più che ritrovare la vista. Queste parole le ha fatte scrivere una donna, che a Lourdes ha ritrovato la fede ed ha capito quanto fosse cieca prima di credere.
Sempre a Lourdes ho conosciuto un cieco, di nome Pietro: lo scoppio di una mina gli ha portato via una mano e l’ha privato della vista per sempre. Eppure la serenità di quest’uomo non si ritrova in tante altre persone che sono sane e vedenti. Egli è arrivato a dirmi: « Preghi per i miei figli perché credono poco: sono ciechi! Sì, io non vedo come voi, ma vedo quello che più conta ». L’atteggiamento di quest’uomo ci illumina sulla cecità più grave che esista: la cecità di coloro che non vedono il Signore e non sanno leggere il libro della vita.
Una suora missionaria racconta di aver conosciuto un cristiano di nome Giacinto, deturpato dalla lebbra nelle mani e nei piedi e in più reso cieco dal male. Quando la suora gli parla del Paradiso, il volto del cieco diventa raggiante ed è capace di dire: « Sì, credo nel Paradiso. E la prima persona che rivedrò sarà il Signore ».
Questa è fede. Questa è la fede che fa vedere. Questa è la fede che insegna il Vangelo di oggi.
Ed ecco il racconto riferito dall’evangelista Marco. « Un uomo, di nome Bartimeo, sedeva lungo la strada a mendicare » (Mc 10,46). Bartimeo era uno dei tanti disgraziati di questo mondo. Bartimeo è anche uno che rappresenta tutte le disgrazie della vita umana e soprattutto rappresenta la condizione di ogni uomo.
Chi siamo noi? Siamo tutti poveri mendicanti che cerchiamo, che aspettiamo. L’uomo è stato creato così, affinché si accorga di essere povero. Ma povero di che?
Continua il Vangelo: « Il cieco di Gerico sentì che c’era Gesù Nazareno e cominciò a gridare e a dire: Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! » (Mc 10,47).
Questo cieco ha individuato la sua povertà ed ha avuto la forza di gridarla per trasformarla in preghiera. È tanto difficile riconoscere di essere poveri, è tanto difficile riconoscere di essere bisognosi della vita che solo Dio può dare, è tanto difficile accostarsi a Dio con umiltà.
Il cieco di Gerico è riuscito in questo e, pur non avendo niente, è diventato l’uomo più ricco del mondo: l’uomo che ha trovato Dio. Notate che il cieco inizialmente non chiede nulla: soltanto si affida al Signore che passa; si consegna alla sua Pietà, perché ha riconosciuto in Gesù una bontà che merita tutta la fede.
La reazione della gente davanti alla fede del cieco: « Molti lo sgridavano per farlo tacere » (Mc 10,48). Succede spesso così: quando uno decide di vivere seriamente la fede, gli altri lo deridono. Quando Francesco d’Assisi decise di farsi povero, tutti lo ritennero un esaltato; quando Vincenzo de’ Paoli si consacrò agli ultimi della società, tutti all’inizio lo guardarono con diffidenza; quando S. Giovanni Bosco cominciò a raccogliere i giovani sbandati di Torino, tentarono di rinchiuderlo in un manicomio. Così è accaduto ai santi; così accade ogni volta che facciamo una scelta vera per il Signore.
« Gesù si fermò e disse: Chiamatelo! E chiamarono il cieco dicendogli: Coraggio, alzati! Ti chiama! » (Mc 10,49). Gesù si ferma davanti al cieco, perché Dio non resiste al grido degli umili.
E a noi, suoi discepoli, Gesù ha lasciato l’ordine preciso di servire i poveri, di curare gli ammalati, di consolare i sofferenti…
Per questo nella Chiesa Cattolica c’è tanta gente che offre la propria vita per gli altri. Noi siamo più felici di poter dire davanti al mondo: i poveri sono i nostri padroni. I poveri e gli ammalati sono per noi il tesoro più prezioso di tutta la terra.
Al cieco di Gerico Gesù disse: « Va’, la tua fede ti ha salvato ». E il cieco riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada. In verità questo cieco aveva cominciato a « vedere » prima della guarigione dei suoi occhi. Il miracolo fu soltanto un segno per premiare la sua fede e per scuotere l’incredulità degli altri. Chi crede, è già un vedente.
Ebbene, lo stesso Gesù che passò a Gerico, oggi è qui tra noi. I nostri occhi di carne vedono le cose, ma il nostro spirito ha la luce della fede per vedere il Signore e pregarlo?
Come Bartimeo gridiamo anche noi: « Signore, fa’ che io veda! ». 

padre Cantalamessa : Omelia (29-10-2006) per domenica 25 ottobre 2009

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/8367.html

Omelia (29-10-2006)  per domenica 25 ottobre 2009

padre Raniero Cantalamessa

Preso tra gli uomini e costituito tra gli uomini

Il brano evangelico narra la guarigione del cieco di Gerico Bartimeo… Bartimeo è uno che non si lascia sfuggire l’occasione. Ha sentito che passava Gesù, ha compreso che era l’occasione della sua vita e ha agito con prontezza. La reazione dei presenti (« lo sgridavano perché tacesse ») mette in luce la inconfessata pretesa dei « benestanti » di tutti i tempi che la miseria resti nascosta, non si mostri, non disturbi la vista e i sonni di chi sta bene.

Il termine « cieco » si è caricato di tanti sensi negativi che è giusto riservarlo, come oggi si tende a fare, alla cecità morale dell’ignoranza e dell’insensibilità. Bartimeo non è cieco, è solo un non-vedente. Con il cuore ci vede meglio di tanti altri intorno a lui, perché ha la fede e nutre la speranza. Anzi, è questa vista interiore della fede che l’aiuta a recuperare anche quella esteriore delle cose. « La tua fede ti ha salvato », gli dice Gesù.

Mi fermo qui nella spiegazione del vangelo perché mi preme sviluppare un tema presente nella seconda lettura di questa domenica, riguardante la figura e il ruolo del sacerdote. Del sacerdote si dice anzitutto che è « preso di tra gli uomini ». Non dunque un essere sradicato o calato dal cielo, ma un essere umano che ha alle spalle una famiglia e una storia come tutti gli altri. « Preso di tra gli uomini » significa anche che il sacerdote è fatto della stessa pasta di ogni altra creatura umana: con i desideri, gli affetti, le lotte, le esitazioni, le debolezze di tutti. La Scrittura vede in questo un vantaggio per gli altri uomini, non un motivo di scandalo. In tal modo egli sarà infatti più preparato ad avere compassione, essendo rivestito anche lui di debolezza.

Preso di tra gli uomini, il sacerdote è poi « costituito per gli uomini », cioè ridonato ad essi, posto a loro servizio. Un servizio che tocca la dimensione più profonda dell’uomo, il suo destino eterno. San Paolo riassume il ministero sacerdotale con una frase: « Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio » (1 Cor 4,1). Questo non significa che il sacerdote si disinteressa dei bisogni anche umani della gente, ma che anche di questi si occupa con uno spirito diverso da quello dei sociologi e dei politici. Spesso la parrocchia è il più forte punto di aggregazione, anche sociale, nella vita di un paese o di un quartiere.

Questa che abbiamo tracciato è una visione in positivo della figura del sacerdote. Non sempre, sappiamo, è così. Ogni tanto le cronache ci ricordano che c’è anche un’altra realtà, fatta di debolezza e infedeltà…Di essa la Chiesa non può fare altro che chiedere perdono. C’è però una verità che va ricordata a parziale consolazione della gente. Come uomo, il sacerdote può sbagliare, ma i gesti che compie come sacerdote, all’altare o in confessionale, non risultano per questo invalidi o inefficaci. Il popolo non è privato della grazia di Dio a causa dell’indegnità del sacerdote. È Cristo infatti che battezza, celebra, perdona; lui è solo lo strumento.

Mi piace ricordare, a questo proposito, le parole che pronuncia prima di morire il « Curato di campagna » di Bernanos: « Tutto è grazia ». Anche la miseria del suo alcolismo gli appare grazia, perché lo ha reso più misericordioso verso la gente. A Dio non preme tanto che i suoi rappresentanti in terra siano perfetti, quanto che siano misericordiosi. 

Giovanni Taulero: « Subito l’uomo riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091025

XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno B : Mc 10,46-52
Meditazione del giorno
Giovanni Taulero (circa 1300-1361), domenicano a Strasburgo
Omelia 10

« Subito l’uomo riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada »

      « Io sono la luce del mondo » (Gv 8,12). E’ da questa luce che ricevono la propria luminosità tutte le luci delle terra: quelle materiali come il sole, la luna, le stelle e i sensi corporei dell’uomo, e anche quella spirituale, l’intelligenza dell’uomo, per cui tutte le creature rifluiscono alla loro origine. E se non vi rifluiscono, esse sono vere e proprie tenebre, di fronte a questa vera luce essenziale, che è la luce di tutto il mondo.

      Ora, il nostro amato Signore dice: « Abbandona la tua luce, che è in verità tenebra a confronto con la mia luce, e mi è contraria; poiché io sono la vera luce, voglio darti, al posto delle tue tenebre, la mia luce eterna, affinché essa ti appartenga come appartiene a me, e tu abbia, quanto me, il mio essere, la mia vita, la mia felicità e la mia gioia ».

      Qual è dunque la via più breve per giungere alla vera luce? Rinunciare veramente a se stesso, amare e non avere in vista null’altro se non Dio solo…, non cercare in nessun modo i propri interessi, ma desiderare e ricercare soltanto l’onore e la gloria di Dio, attendere tutto in ogni istante da Dio, e riferire immediatamente a Dio tutte le cose, da qualunque parte esse provengano, e a lui riportarle senza alcun rigiro e mediazione, in modo che vi sia un completo e immediato flusso e riflusso: questa è la vera e retta via. 

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 25 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

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