Saint Paul – Ecole italienne

dal sito:
http://cattedrale.arcidiocesi.gorizia.it/parrocchia/spip.php?article155
Forte nella debolezza
Il 5 luglio 2009 par don Sinuhe Marotta
Che modo paradossale di sentire il proprio valore di uomo e di cristiano esprime oggi Paolo! La lunga discussione con i cristiani inquieti di Corinto lo ha appena visto rivelare, a fatica e con pudore, le sue eccezionali esperienze mistiche. È stato fatto entrare nel mondo di Dio. Cristo stesso gli ha parlato con parole indicibili. Paolo è presente su questa terra come uno appena tornato dal cielo.
Eppure… Non sono queste le esperienze di cui intende gloriarsi. “Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze”.Che cosa ci stai dicendo, Paolo? Che cos’è questa “spina nella carne”, questo inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarti e che, per ben tre volte, hai pregato il Signore che te ne liberi? È una malattia con effetti umilianti per il tuo corpo? È una tentazione sessuale dalla quale non sei in grado di preservarti? Ti riferisci alle incomprensioni e persecuzioni di cui sei costantemente oggetto e che ti rendono tutto più difficile? È una provocazione diretta del Maligno sulla tua persona?
È la tua debolezza, alla fine. Che sia causata da infermità, oltraggi, necessità o angosce non importa. Basta che sia vissuta per Cristo. Basta che sia vissuta in Cristo. Basta che la sua potenza si manifesti nella tua parola, che è debole, nel tuo corpo che è debole, nel riconoscimento sociale di cui godi che è debole.
Questo è il miracolo; di questo si vanta Paolo: che nella debolezza Cristo parla, che attraverso la debolezza Cristo agisce. Non solo nella salute, nella bravura o nella stima di cui gode il credente, ma nella mancanza di queste realtà il Signore è capace di agire ugualmente. Anzi, forse proprio in queste realtà di debolezza siamo capaci di contare solo sulla promessa e sulla grazia del Signore: “Ti basta la mia grazia”. Capita anche a noi. Le nostre forze, da sole, non ci sostengono.
Che cosa chiederemo allora al Signore, d’ora in poi? Di restare sempre in salute o di vivere sempre in grazia di Dio? Di riuscire bene in ogni cosa o di potergli restare fedeli in ogni cosa? Di morire il più tardi possibile o di saper vivere per Lui e secondo le sue parole il più a lungo possibile?
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Dalla seconda lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi 12,7-10
«Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte».
dal sito:
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#13
OSSERVATORE ROMANO – 20 OTTOBRE 2009
Memoria e definizione dello sterminio degli ebrei
Perché Shoah e non Olocausto
di Mordechay Lewy
Ambasciatore di Israele presso la Santa Sede
Per chiarezza qualsiasi discorso sulla Shoah dovrebbe affermare che essa è il male estremo. Un evento che proietta la sua ombra su ogni risultato che il progresso umano possa raggiungere, che ha scatenato una crisi di valori identificati con la civiltà occidentale e ha scosso la fede dell’umanità nell’esistenza di Dio.
All’inizio degli anni Novanta, durante un incontro con gli ambasciatori, un anziano funzionario del ministero degli Esteri israeliano disse che il ricordo della Shoah si sarebbe dovuto mantenere come intima memoria privata piuttosto che come esposizione in pubblico delle sofferenze e dei traumi. Solo così il ricordo sarebbe rimasto autentico e immune da banalità e strumentalizzazioni.
Queste osservazioni, benché di grande impatto, contrastano con l’esperienza pubblicamente condivisa sul modo in cui creare e conservare una cultura della memoria. Queste dichiarazioni sembrano di fatto minare alla base un certo concetto dell’ethos israeliano che lega la Shoah alla costituzione della patria ebraica.
Già prima della Shoah si pensava che la ragion d’essere dello Stato d’Israele più che la mera realizzazione del sogno di ritornare nella Terra promessa, fosse creare un porto sicuro per il popolo ebraico, disperso e perseguitato nella diaspora. Come conseguenza della Shoah è emersa un’ulteriore nozione: che non si sarebbe mai più permesso il verificarsi di una catastrofe simile. Israele non è stato fondato a motivo della Shoah, ma se fosse stato creato prima, essa si sarebbe evitata.
Sembra dunque che gli israeliani siano destinati a vivere in uno stato permanente di paranoia giustificata. Il 12 agosto 2009 « The New York Times » ha attribuito grande importanza alla questione in un articolo intitolato: « È tutto troppo tranquillo per gli israeliani? Cresce l’apprensione per capire quale asso i nemici nascondono nella manica ». Pare che gli israeliani non si permettano il lusso di concepire una vita quotidiana priva di minacce. L’altra faccia di questa medaglia è l’assunzione di un atteggiamento eroico motivato dall’essere israeliani, invece che gli ebrei massacrati, indifesi e privi di un proprio Stato. Senza dubbio coltivare la memoria collettiva di un evento così traumatico, unico nel suo genere, è una necessità perché, con il trascorrere del tempo, i sopravvissuti scompaiono e il ricordo dei fatti potrebbe sbiadire.
I primi anni Cinquanta furono caratterizzati dal silenzio delle vittime e degli aguzzini, un silenzio che lentamente si ruppe alla fine di quel decennio e durante gli anni Sessanta. Nonostante il processo Eichmann abbia portato a elaborare una nuova formulazione della Shoah fra i membri della seconda generazione – sia delle vittime sia degli aguzzini – è stata proprio la seconda generazione a promuovere più di ogni altra la cultura della memoria della Shoah.
Si ritiene che la memoria si mantenga viva grazie alla ripetizione. Il tema della Shoah divenne una parte essenziale della letteratura postbellica e dei mezzi visivi di comunicazione sociale. Tuttavia l’avere modellato con successo una cultura della memoria ha causato anche effetti negativi.
Con il passare dei decenni, da quell’evento unico emerse il problema della sua rilevanza, specialmente quando quegli eventi indescrivibili dovevano essere spiegati alle generazioni più giovani. Con il trascorrere del tempo nulla fu più così ovvio e, forse inevitabilmente, si aprì la strada alla banalizzazione. Inoltre, poiché per correttezza politica si usava il termine « olocausto » per descrivere il male estremo, la tentazione di etichettare altri eventi come olocausti divenne politicamente conveniente. Olocausti in Biafra, in Cambogia, in Burundi o nel Darfur hanno riempito i titoli dei media, contribuendo a richiamare l’attenzione su eventi che lo meritavano. Tuttavia lo scotto da pagare è stato il venir meno dell’unicità della Shoah e della sua memoria. Il termine « olocausto » si è politicamente inflazionato. È divenuto un mezzo per definire afflizioni politiche e umane di ogni tipo.
« Olocausto » è la traduzione in greco del termine ebraico olah, adottata dalla versione dei Settanta. Olah è un sacrificio in cui tutto viene bruciato sull’altare. Secondo la Torah l’uso di questo termine religioso non riguardava gli esseri umani ma nel libro di Geremia (19, 4-5) i tanto esecrati sacrifici umani del culto pagano di Baal sono definiti, al plurale olot. La Bibbia di Donay-Rheims (edizione del 1750), che ha cercato di restare il più possibile fedele alla versione dei Settanta, offre la seguente traduzione: « E hanno fabbricato altari a Baal per bruciare nel fuoco i loro figli in olocausto a Baal: cose che io non comandai, né mai mi vennero in mente ».
Non è noto se lo stesso termine greco holòkauston si riferisse a un rito sacrificale pagano o ebraico. Nell’Anabasi, molto antecedente alla traduzione della Bibbia in greco, Senofonte utilizza la forma verbale holokàutei in riferimento al rito sacrificale pagano greco. Il testo di Senofonte è stato letto praticamente da ogni classe istruita nel corso di tutta la storia europea. Anche per questo i termini « sacrificio » e « olocausto » sono stati spesso associati ai riti pagani, con il significato di « offerta interamente bruciata ».
Nella Encyclopédie (1765) di Diderot e D’Alambert, la voce Olocausto, in trenta righe, non fa alcun riferimento a ebrei o a pratiche ebraiche, ma solo a sacrifici in onore di « divinità infernali ». Nel 1929 Winston Churchill definì le atrocità turche contro gli armeni come « olocausto amministrativo ». D’altra parte, a New York, nel 1932, un annuncio pubblicitario di una grande svendita promozionale affermava che tappeti orientali e nazionali erano oggetto di un « grande olocausto del prezzo ».
Il termine « olocausto » per indicare lo sterminio nazista degli ebrei fu utilizzato per la prima volta nel novembre 1942 in un editoriale del « Jewish Frontier ». Tuttavia, anche dopo il 1945, non è mai divenuto un sinonimo preciso di sterminio degli ebrei, infatti, fino ai primi anni Sessanta, era usato principalmente nel contesto della catastrofe nucleare. Fu il pensatore cattolico François Mauriac, nel 1958, nella prefazione al libro di Eli Wiesel La notte ad adottare il significato religioso del termine « olocausto » utilizzato in Geremia 19, 4-5 per indicare grave peccato: « Per Wiesel (…) Dio è morto (…) il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe si è dileguato per sempre (…) nel fumo dell’olocausto preteso dalla razza, la più ingorda di tutti gli idoli ».
L’interpretazione di Mauriac può condurre alla possibilità della formulazione di un impegno cattolico vincolante che dovrebbe considerare la negazione dell’ »olocausto » un peccato contro Dio. È interessante osservare come il nome della legge israeliana che nel 1953 istituì lo Yad Vashem sia Remembrance Authority of the Disaster and Heroism. In questo caso il termine Shoah è stato tradotto con « disastro » o « catastrofe », resa abbastanza precisa del suo significato biblico.
Il termine « olocausto » per indicare lo sterminio degli ebrei era dunque usato raramente e, perfino negli anni Sessanta, sempre insieme all’aggettivo « ebraico » o ad altri. Negli anni Settanta, nelle pubblicazioni americane l’uso del termine divenne più frequente per indicare lo sterminio degli ebrei. Nel 1978 la serie televisiva statunitense Holocaust fu trasmessa in tutto il mondo occidentale. E tuttavia il termine non poteva identificarsi esclusivamente con lo sterminio degli ebrei.
Sono numerosi i motivi per cui è divenuto preferibile il termine Shoah per indicare l’evento, unico nel suo genere, dell’uccisione sistematica e meccanizzata che portò allo sterminio di un terzo del popolo ebraico. In primo luogo, esso offre un’alternativa ai significati, in qualche modo vaghi, del termine « olocausto ». L’unicità è meglio mantenuta con il termine Shoah. In secondo luogo, utilizzando il termine Shoah si può mostrare rispetto e solidarietà alle vittime e al modo in cui esse stesse esprimono la propria memoria nella loro lingua ebraica. Più probabilmente dobbiamo questa sostituzione di termini al regista Claude Lanzmann, che, nel 1985, ha intitolato il suo acclamatissimo documentario di nove ore proprio Shoah. Ciò ha reso internazionalmente nota questa parola ebraica. La scelta è condivisa anche da Benedetto XVI, che, in occasione del settantesimo anniversario della « notte dei cristalli », ha definito, il 9 novembre 2008, « quel triste avvenimento » inizio della « sistematica e violenta persecuzione degli ebrei tedeschi, che si concluse nella Shoah ». Gli ebrei, fin dalla seconda generazione dei sopravvissuti alla Shoah, hanno sviluppato un atteggiamento paranoico per evitare la dimenticanza. Ciò viene mitigato dalla ripetizione o, in altre parole, dalla memoria ritualizzata. A tutt’oggi accomunare la loro unica esperienza di vittime con le atrocità commesse contro altre nazioni sembra equivalere al tradimento di un lascito trasmesso alle generazioni di ebrei sopravvissuti a quell’evento.
Infatti, se la possibile conseguenza della memoria è la banalizzazione, il prezzo della dimenticanza è molto più alto. Per questo all’entrata dello Yad Vashem si possono leggere le parole attribuite al fondatore del movimento chassidico, il Ba’al Shem Tov: « La memoria è la fonte della redenzione ».
(L’Osservatore Romano – 21 ottobre 2009)
dal sito:
http://www.zenit.org/article-20032?l=italian
Il priore di Taizé ringrazia il Papa per il suo impegno ecumenico
Alla Comunità di Taizé il premio per l’Ecumenismo dell’Accademia Cattolica bavarese
di Michaela Koller
MONACO DI BAVIERA, venerdì, 23 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Fratel Alois Löser, priore della Comunità di Taizé, ha ringraziato questo giovedì a Monaco di Baviera gli sforzi di Papa Benedetto XVI e il suo coraggio nel promuovere la riconciliazione con i tradizionalisti.
In alcune dichiarazioni a ZENIT, il priore ha affermato che “è un’iniziativa importante, anche se alcuni risultati non sono stati piacevoli”.
Fratel Alois si trovava a Monaco per ricevere il premio per l’Ecumenismo 2009 presso l’Accademia Cattolica della Baviera come rappresentante della sua Comunità.
Il priore ha espresso la particolare soddisfazione della Comunità per il dialogo cattolico-ortodosso grazie alla riunione della Commissione Mista Internazionale per il Dialogo Teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse a Paphos (Cipro), che rappresenta “un passo avanti”.
Tra la Comunità di Taizé e varie Chiese ortodosse esiste già da tempo un intenso scambio. Oltre alle visite di Taizé ai rispettivi Patriarchi, sia l’ex Patriarca ortodosso russo Alessio II che il suo successore Kirill I hanno visitato Taizé. “Abbiamo buoni rapporti – ha spiegato fratel Alois –. Il Patriarca Kirill è già stato due volte con noi”.
Molti giovani delle Chiese ortodosse, come quelle di Serbia, Romania, Ucraina e Russia, vanno a Taizé. Fratel Alois e i suoi confratelli li esortano a recarsi nelle chiese in cui sono stati battezzati una volta tornati da Taizé.
“Taizé non può essere il punto di riferimento della loro fede – ha dichiarato –. Devono esserlo le chiese locali”.
L’ex Patriarca di Mosca Alessio conosceva e apprezzava questo atteggiamento dei fratelli di Taizé.
Allo stesso tempo, si è mostrato grato per la fiducia che Papa Benedetto XVI ha riposto nella Comunità e per il fatto che in un’udienza abbia esortato il suo impegno ecumenico.
Nelle sue parole di ringraziamento, di fronte alla persistente separazione delle Chiese, fratel Alois ha sottolineato: “Ciò che ci unisce è molto più importante di ciò che ci divide. I cristiani non devono continuare a perdere energie nelle piccole guerre, che a volte si verificano anche all’interno delle stesse Chiese”.
“Finché i cristiani vivranno separati il messaggio del Vangelo non si potrà comprendere”, ha avvertito. La riconciliazione è “il cuore del Vangelo”. Per questo, ha chiesto di organizzare in modo regolare notti di preghiera interconfessionali per i giovani, “nei luoghi importanti” come le frontiere, le carceri o le zone urbane in crisi.
Il premio prevede una somma di 10.000 euro concessa dalla Fondazione Wilhelm und Antonia Gierlichs Stiftung. Il vincitore precedente era stato il Presidente del Pontificio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, il Cardinale Walter Kasper.
Annunciando l’assegnazione del premio ecumenico 2009, l’Accademia Cattolica della Baviera ha spiegato che Taizé “è un modello, in quanto unisce l’apertura ecumenica e la scommessa sulla tradizione della propria fede, in vista del II Congresso Nazionale Ecumenico nel 2010 a Monaco”.
Il denaro del premio, ha riferito il priore della Comunità di Taizé, verrà utilizzato per stampare un milione di Bibbie da distribuire nella Repubblica Popolare Cinese.
La Comunità di Taizé è nata in Borgogna il 17 aprile 1949, fondata dal teologo riformato Roger Schutz. Le origini della Comunità, tuttavia, risalgono alla Seconda Guerra Mondiale.
Attualmente è formata da circa 100 fratelli di varie confessioni di più di 20 Nazioni, che lavorano e pregano, non solo a Taizé. In solidarietà con le persone che vivono nella povertà, c’è una piccola comunità di fratelli in Africa, Asia e America Latina.
Dal 1978 si celebra per vari giorni una riunione annuale europea. Quest’anno i fratelli si riuniranno a Poznan (Polonia) dal 29 dicembre 2009 al 2 gennaio 2010. A intervalli regolari si celebrano anche riunioni fuori dall’Europa.
La Comunità di Taizé è conosciuta in tutto il mondo non solo per i suoi obiettivi ecumenici, ma anche per le sue preghiere e i suoi canti, tradotti in molte lingue.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091024
Sabato della XXIX settimana del Tempo Ordinario : Lc 13,1-9
Meditazione del giorno
San Leone Magno ( ?-circa 461), papa e dottore della Chiesa
Discorso 20 sulla Passione del Signore ; SC 74bis, 245
« Se non vi convertite »
Mettiamoci all’opera, fratelli ! Dobbiamo compiere ogni sforzo per trovarci partecipi della risurrezione di Cristo, passando così dalla morte alla vita mentre siamo ancora in questo corpo. Per chiunque passi da un modo di vivere a un altro, qualunque sia la sua trasformazione, lo scopo non è quello di rimanere ciò che era, ma di rinascere quale non era. Fondamentale, però, è conoscere per chi si vive o si muore : perché vi è una morte che è fonte di vita, e una vita che è causa di morte.
E solo nel tempo presente si può scegliere l’una o l’altra : dalla natura delle azioni compiute in questa vita che passa, dipende una differente retribuzione per l’eternità. Si deve perciò morire al diavolo e vivere per Dio ; venir meno al male per risorgere alla giustizia. Che scompaia l’uomo vecchio, perché sorga l’uomo nuovo. E poiché, come dice la stessa Verità, nessuno può servire a due padroni (Mt 6,24), il Signore non sia per noi colui che abbatte i superbi, ma piuttosto colui che esalta gli umili alla gloria.