San Mosè e le Tavole della Legge

dal sito:
http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/arte/fanciullogesu.htm
Fedor Michajlovic Dostoevskij
IL FANCIULLO PRESSO GESÙ
Ma io sono romanziere, e, mi pare, ho inventato una “storia”. Perché scrivo “mi pare”? Io stesso infatti so di sicuro di averla inventata, ma ho sempre l’impressione che questo sia accaduto chi sa dove e chi sa quando, che sia accaduto precisamente la vigilia di Natale, in qualche immensa città, e con un terribile gelo.
Mi si presenta l’immagine di un fanciullo, molto piccino ancora, di forse sei anni o anche meno. Questo fanciullo si destò un mattino in un sotterraneo umido e freddo. Aveva indosso una specie di giubboncino e tremava. Il suo alito si sprigionava come un bianco vapore, ed egli, stando seduto in un angolo, su un baule, di proposito emetteva quel vapore e si divertiva a vederlo uscir dalla bocca. Aveva però una gran voglia di mangiare. Più volte, fin dal mattino, si era accostato a un tavolaccio dove, sopra un misero pagliericcio e con un fagotto sotto il capo a mo’ di guanciale, giaceva la sua madre inferma. Come mai ella si trovava lì? Probabilmente era venuta col suo bambino da un’altra città e d’improvviso si era ammalata. La padrona di quei “cantucci”[1] la polizia l’aveva arrestata due giorni prima; gli inquilini erano andati in giro, poiché la giornata era festiva, tranne un rivendugliolo rimasto in casa, che già da ventiquattro ore giaceva ubriaco morto, non avendo atteso la festa per ubriacarsi. In un altro angolo della stanza gemeva per i reumatismi una vecchia ottantenne che un tempo era stata bambinaia e ora se ne moriva solitaria, sospirando, borbottando e brontolando contro il fanciullo, tanto che questi temeva ormai di avvicinarsi al “cantuccio” di lei. Da bere egli ne aveva trovato in qualche posto, nell’andito, ma una crosta di pane non aveva potuto scovarla, e forse già per la decima volta si era accostato alla mamma per destarla. Infine cominciò ad aver paura del buio: da un pezzo ormai era scesa la sera, ma non era stato acceso un lume. Palpato il viso della mamma, si meravigliò che ella non facesse alcun movimento e fosse diventata fredda come il muro. “Fa troppo freddo”, qui pensò, e attese un poco, dimenticandosi, inconsciamente, di levar la mano dalla spalla della morta, poi si soffiò sui ditini per riscaldarli, e a un tratto, avendo a tastoni trovato sul tavolaccio il suo berrettino, uscì alla chetichella e a tentoni dal sotterraneo. Sarebbe già andato via prima, ma aveva sempre avuto paura d’un grosso cane che stava disopra, sulla scala, e ululava tutto il giorno presso la porta dei vicini. Ma il cane ora non c’era, ed egli a un tratto uscì in strada.
Dio mio, che città! Egli non ha ancora mai veduto nulla di simile! Laggiù, donde è venuto, l’oscurità di notte è così nera, con un solo lampione in tutta la via! Le basse casupole di legno hanno tutte le imposte chiuse; sulla strada, appena si fa buio, non c’è più nessuno, tutti si rinchiudono in casa, e solo i cani urlano e abbaiano l’intera notte. Ma laggiù, in compenso, si stava così al caldo e gli davan da mangiare. O Signore, se almeno potesse mangiare anche qui! E che strepito, che chiasso c’è lì, quanta luce, e gente, e cavalli, e vetture; e un gelo, un gelo! Un vapore gelido fluisce dai cavalli frustati, dai musi che respirano ardenti; sulla neve soffice i loro ferri tintinnano urtando nei sassi, e come tutti si sospingono! ed egli ha tanta voglia di mangiare, o Signore, non fosse che un pezzetto di pane, e a un tratto i ditini si son messi a fargli così male! Un guardiano dell’ordine gli è passato accanto e si è voltato in là per non vedere il fanciullo.
Ecco un’altra via: oh, com’è larga! Qui lo schiacceranno certamente; e come tutti gridano, corrono, a piedi o in carrozza, e quanta luce, quanta luce! Ma che è questo? Oh, che vetro grande! e dietro quel vetro una stanza, e nella stanza un albero che arriva al soffitto: è un abete, e sull’abete quanti lumi, quante carte dorate e quante mele, e lì intorno fantocci e cavallini; e per la stanza corrono dei bimbi ben vestiti e lindi, che ridono, giuocano, mangiano e cantano. Ecco una bambina che s’è messa a ballare con un ragazzo, che graziosa bambina! Ed ecco anche una musica, attraverso il vetro la si sente. Il piccolo guarda, è meravigliato e già ride, ma gli fanno male anche i ditini dei piedi, e quelli delle mani si son fatti tutti rossi, non si piegano più e muoverli è doloroso. E a un tratto il piccino s’è accorto che le dita gli dolgono tanto, s’è messo a piangere ed è corso oltre, ma ecco che attraverso un altro vetro torna a scorgere una stanza, e anche lì degli alberi e, su tavole, pasticcini d’ogni sorta – con mandorle, rossi, gialli – e lì stan sedute quattro ricche signore che danno pasticcini a quanti vengono; la porta si apre ogni momento e molti signori entrano e vanno verso quelle signore. Il piccino s’è fatto avanti furtivo, d’un tratto ha aperto la porta ed è entrato. Oh, come si son messi a sgridarlo e ad agitare le mani verso di lui! Una signora gli si è avvicinata in fretta, gli ha ficcato in mano una copeca e gli ha aperto la porta per farlo uscire. Come s’è spaventato! E in quello stesso momento la copeca gli è scivolata di mano, tintinnando sui gradini: egli non ha potuto piegare i ditini arrossati per trattenerla. Il piccino è corso fuori e si è avviato lesto, ma senza sapere egli stesso da che parte. Vorrebbe di nuovo mettersi a piangere, ma ha troppa paura e corre, corre, soffiandosi sulle manine. E l’angoscia lo afferra, perché improvvisamente si è sentito così solo e pieno di paura. Ma a un tratto, o Signore, che c’è là ancora? Una folla di gente che sta lì e guarda con ammirazione: in una finestra, dietro il vetro, ci sono tre piccoli fantocci agghindati con vestitini rossi e verdi, proprio, proprio come vivi! Uno di essi è un vecchietto seduto che par che suoni un grosso violino, gli altri due sono in piedi e suonano dei violini piccoli piccoli, chinando le testine al ritmo della musica e guardandosi a vicenda; le loro labbra si muovono e parlano, parlano proprio; solo che attraverso il vetro non si sente nulla. Il piccino dapprima pensò che quelle fossero persone vive, ma quando capì che erano fantocci scoppiò a ridere! Aveva anche voglia di piangere, ma gli veniva tanto da ridere davanti a quei fantocci! A un tratto gli parve che qualcuno lo avesse afferrato di dietro per il giubboncino: un ragazzaccio cattivo gli stava accanto, e d’improvviso lo colpì sulla testa, gli strappò via il berrettino, e intanto gli diede uno sgambetto. Il piccino cadde a terra, la gente si mise a gridare, egli rimase intontito, balzò su, e via a correre, correre, e a un tratto entrò di corsa, senza rendersene conto, in un portone, in un cortile, e si accucciò dietro un mucchio di legna: “Qui non potranno trovarmi, e poi è buio”.
Si accucciò e si raggomitolò, e intanto non poteva riprender fiato dallo spavento, e a un tratto, proprio a un tratto, si senti così bene: le manine e i piedini avevano cessato di dolere e gli era venuto caldo, tanto caldo, come in vicinanza di una stufa; ma eccolo sussultar tutto: ah, stava per addormentarsi! Com’era bello addormentarsi là: “Rimarrò qui un momento, poi andrò di nuovo a guardare i fantocci”, pensò il piccino e sorrise, ricordandosene: “proprio come vivi!”. E all’improvviso sentì che la sua mamma s’era messa a cantare sopra di lui: « Mamma, io dormo, ah! com’è bello dormire qui!”…
«Vieni da me a veder l’albero di Natale, piccino», mormorò a un tratto sopra di lui una voce sommessa.
Sulle prime ha creduto che sia stata ancora la mamma a dir questo, invece no, non è stata lei; egli non vede chi l’ha chiamato, ma qualcuno si è chinato su di lui e lo ha abbracciato nel buio; il piccino gli ha teso una mano e… e improvvisamente, oh, quale luce! Oh, che albero di Natale! Anzi non è nemmeno un albero di Natale, egli non ha ancor veduto simili alberi! Dove mai si trova, adesso? Tutto riluce, tutto splende, e tutt’intorno non ci sono che fantocci… ma no, son tutti bambini e bambine, così luminosi, però, e tutti gli turbinano attorno volando, tutti lo baciano, lo prendono e lo portano con sé, e vola anche lui, e vede la mamma che lo guarda e ride gioiosamente.
«Mamma, mamma! Ah, com’è bello qui!» le grida il piccino, e torna a scambiar baci coi bimbi e vorrebbe narrar loro, al più presto, di quei fantocci nella vetrina. «Chi siete voi, bambini? Chi siete voi, bambine?» domanda ridendo, pieno d’amore per essi. «Questo è “l’albero di Natale di Gesù”», gli rispondono. «Gesù ha sempre, in questo giorno, un albero di Natale per i piccoli bimbi che laggiù non ne hanno uno proprio».
Ed egli apprese che tutti quei bambini e quelle bambine erano stati come lui, ma alcuni erano rimasti assiderati già nei panieri entro i quali li avevano abbandonati sulle scale, davanti alle porte degli impiegati di Pietroburgo, altri erano periti presso le balie finlandesi, durante l’allattamento per conto dell’orfanotrofio; altri erano morti sul seno inaridito delle loro madri (al tempo della carestia di Samara); altri ancora erano morti dal puzzo nei carrozzoni di terza classe, e tutti adesso erano lì, in veste di angeli, tutti presso Gesù, ed Egli era in mezzo ad essi e tendeva loro le braccia, benedicendoli insieme con le loro madri peccatrici… E anche tutte le madri di quei bimbi erano lì, in disparte, e piangevano; ciascuna riconosceva il suo bambino o la sua bambina, ed essi volavano verso di loro e le baciavano e asciugavano con le manine le loro lacrime, supplicandole di non piangere, perché lì essi erano tanto felici!…
E laggiù, all’alba, il portiere trovò il cadavere del fanciullo che, entrato là di corsa, era morto di freddo dietro il mucchio di legna; scovarono anche la sua mamma… Era morta ancor prima di lui, ed entrambi si erano incontrati in cielo, presso il Signore…
Da: F. M. D., Il fanciullo presso Gesù e altri racconti, a cura di Eva Amandola Kuhn, Milano 1953.
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Il Papa presenta la figura di san Bernardo di Chiaravalle
Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 21 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI nell’incontrare i fedeli e i pellegrini in piazza San Pietro per la tradizionale Udienza generale.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153).
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare su san Bernardo di Chiaravalle, chiamato « l’ultimo dei Padri » della Chiesa, perché nel XII secolo, ancora una volta, rinnovò e rese presente la grande teologia dei Padri. Non conosciamo in dettaglio gli anni della sua fanciullezza; sappiamo comunque che egli nacque nel 1090 a Fontaines in Francia, in una famiglia numerosa e discretamente agiata. Giovanetto, si prodigò nello studio delle cosiddette arti liberali – specialmente della grammatica, della retorica e della dialettica – presso la scuola dei Canonici della chiesa di Saint-Vorles, a Châtillon-sur-Seine e maturò lentamente la decisione di entrare nella vita religiosa. Intorno ai vent’anni entrò a Cîteaux, una fondazione monastica nuova, più agile rispetto agli antichi e venerabili monasteri di allora e, al tempo stesso, più rigorosa nella pratica dei consigli evangelici. Qualche anno più tardi, nel 1115, Bernardo venne inviato da santo Stefano Harding, terzo Abate di Cîteaux, a fondare il monastero di Chiaravalle (Clairvaux). Qui il giovane Abate, aveva solo venticinque anni, poté affinare la propria concezione della vita monastica, e impegnarsi nel tradurla in pratica. Guardando alla disciplina di altri monasteri, Bernardo richiamò con decisione la necessità di una vita sobria e misurata, nella mensa come negli indumenti e negli edifici monastici, raccomandando il sostentamento e la cura dei poveri. Intanto la comunità di Chiaravalle diventava sempre più numerosa, e moltiplicava le sue fondazioni.
In quegli stessi anni, prima del 1130, Bernardo avviò una vasta corrispondenza con molte persone, sia importanti che di modeste condizioni sociali. Alle tante Lettere di questo periodo bisogna aggiungere numerosi Sermoni, come anche Sentenze e Trattati. Sempre a questo tempo risale la grande amicizia di Bernardo con Guglielmo, Abate di Saint-Thierry, e con Guglielmo di Champeaux, figure tra le più importanti del XII secolo. Dal 1130 in poi, iniziò a occuparsi di non pochi e gravi questioni della Santa Sede e della Chiesa. Per tale motivo dovette sempre più spesso uscire dal suo monastero, e talvolta fuori dalla Francia. Fondò anche alcuni monasteri femminili, e fu protagonista di un vivace epistolario con Pietro il Venerabile, Abate di Cluny, sul quale ho parlato mercoledì scorso. Diresse soprattutto i suoi scritti polemici contro Abelardo, un grande pensatore che ha iniziato un nuovo modo di fare teologia, introducendo soprattutto il metodo dialettico-filosofico nella costruzione del pensiero teologico. Un altro fronte contro il quale Bernardo ha lottato è stata l’eresia dei Catari, che disprezzavano la materia e il corpo umano, disprezzando, di conseguenza, il Creatore. Egli, invece, si sentì in dovere di prendere le difese degli ebrei, condannando i sempre più diffusi rigurgiti di antisemitismo. Per quest’ultimo aspetto della sua azione apostolica, alcune decine di anni più tardi, Ephraim, rabbino di Bonn, indirizzò a Bernardo un vibrante omaggio. In quel medesimo periodo il santo Abate scrisse le sue opere più famose, come i celeberrimi Sermoni sul Cantico dei Cantici. Negli ultimi anni della sua vita – la sua morte sopravvenne nel 1153 – Bernardo dovette limitare i viaggi, senza peraltro interromperli del tutto. Ne approfittò per rivedere definitivamente il complesso delle Lettere, dei Sermoni e dei Trattati. Merita di essere menzionato un libro abbastanza particolare, che egli terminò proprio in questo periodo, nel 1145, quando un suo allievo, Bernardo Pignatelli, fu eletto Papa col nome di Eugenio III. In questa circostanza, Bernardo, in qualità di Padre spirituale, scrisse a questo suo figlio spirituale il testo De Consideratione, che contiene insegnamenti per poter essere un buon Papa. In questo libro, che rimane una lettura conveniente per i Papi di tutti i tempi, Bernardo non indica soltanto come fare bene il Papa, ma esprime anche una profonda visione del mistero della Chiesa e del mistero di Cristo, che si risolve, alla fine, nella contemplazione del mistero di Dio trino e uno: « Dovrebbe proseguire ancora la ricerca di questo Dio, che non è ancora abbastanza cercato », scrive il santo Abate « ma forse si può cercare meglio e trovare più facilmente con la preghiera che con la discussione. Mettiamo allora qui termine al libro, ma non alla ricerca » (XIV, 32: PL 182, 808), all’essere in cammino verso Dio.
Vorrei ora soffermarmi solo su due aspetti centrali della ricca dottrina di Bernardo: essi riguardano Gesù Cristo e Maria santissima, sua Madre. La sua sollecitudine per l’intima e vitale partecipazione del cristiano all’amore di Dio in Gesù Cristo non porta orientamenti nuovi nello statuto scientifico della teologia. Ma, in maniera più che mai decisa, l’Abate di Clairvaux configura il teologo al contemplativo e al mistico. Solo Gesù – insiste Bernardo dinanzi ai complessi ragionamenti dialettici del suo tempo – solo Gesù è « miele alla bocca, cantico all’orecchio, giubilo nel cuore (mel in ore, in aure melos, in corde iubilum) ». Viene proprio da qui il titolo, a lui attribuito dalla tradizione, di Doctor mellifluus: la sua lode di Gesù Cristo, infatti, « scorre come il miele ». Nelle estenuanti battaglie tra nominalisti e realisti – due correnti filosofiche dell’epoca – l’Abate di Chiaravalle non si stanca di ripetere che uno solo è il nome che conta, quello di Gesù Nazareno. « Arido è ogni cibo dell’anima », confessa, « se non è irrorato con questo olio; insipido, se non è condito con questo sale. Quello che scrivi non ha sapore per me, se non vi avrò letto Gesù ». E conclude: « Quando discuti o parli, nulla ha sapore per me, se non vi avrò sentito risuonare il nome di Gesù » (Sermones in Cantica Canticorum XV, 6: PL 183,847). Per Bernardo, infatti, la vera conoscenza di Dio consiste nell’esperienza personale, profonda di Gesù Cristo e del suo amore. E questo, cari fratelli e sorelle, vale per ogni cristiano: la fede è anzitutto incontro personale, intimo con Gesù, è fare esperienza della sua vicinanza, della sua amicizia, del suo amore, e solo così si impara a conoscerlo sempre di più, ad amarlo e seguirlo sempre più. Che questo possa avvenire per ciascuno di noi!
In un altro celebre Sermone nella domenica fra l’ottava dell’Assunzione, il santo Abate descrive in termini appassionati l’intima partecipazione di Maria al sacrificio redentore del Figlio. « O santa Madre, – egli esclama – veramente una spada ha trapassato la tua anima!… A tal punto la violenza del dolore ha trapassato la tua anima, che a ragione noi ti possiamo chiamare più che martire, perché in te la partecipazione alla passione del Figlio superò di molto nell’intensità le sofferenze fisiche del martirio » (14: PL 183,437-438). Bernardo non ha dubbi: « per Mariam ad Iesum », attraverso Maria siamo condotti a Gesù. Egli attesta con chiarezza la subordinazione di Maria a Gesù, secondo i fondamenti della mariologia tradizionale. Ma il corpo del Sermone documenta anche il posto privilegiato della Vergine nell’economia della salvezza, a seguito della particolarissima partecipazione della Madre (compassio) al sacrificio del Figlio. Non per nulla, un secolo e mezzo dopo la morte di Bernardo, Dante Alighieri, nell’ultimo canto della Divina Commedia, metterà sulle labbra del « Dottore mellifluo » la sublime preghiera a Maria: « Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,/umile ed alta più che creatura,/termine fisso d’eterno consiglio, … » (Paradiso 33, vv. 1ss.).
Queste riflessioni, caratteristiche di un innamorato di Gesù e di Maria come san Bernardo, provocano ancor oggi in maniera salutare non solo i teologi, ma tutti i credenti. A volte si pretende di risolvere le questioni fondamentali su Dio, sull’uomo e sul mondo con le sole forze della ragione. San Bernardo, invece, solidamente fondato sulla Bibbia e sui Padri della Chiesa, ci ricorda che senza una profonda fede in Dio, alimentata dalla preghiera e dalla contemplazione, da un intimo rapporto con il Signore, le nostre riflessioni sui misteri divini rischiano di diventare un vano esercizio intellettuale, e perdono la loro credibilità. La teologia rinvia alla « scienza dei santi », alla loro intuizione dei misteri del Dio vivente, alla loro sapienza, dono dello Spirito Santo, che diventano punto di riferimento del pensiero teologico. Insieme a Bernardo di Chiaravalle, anche noi dobbiamo riconoscere che l’uomo cerca meglio e trova più facilmente Dio « con la preghiera che con la discussione ». Alla fine, la figura più vera del teologo e di ogni evangelizzatore rimane quella dell’apostolo Giovanni, che ha poggiato il suo capo sul cuore del Maestro.
Vorrei concludere queste riflessioni su san Bernardo con le invocazioni a Maria, che leggiamo in una sua bella omelia. « Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, – egli dice – pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l’aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l’esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta… » (Hom. II super «Missus est», 17: PL 183, 70-71).
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Milano si prepara alla beatificazione di don Carlo Gnocchi
Il sacerdote soccorse centinaia di vittime della Seconda Guerra Mondiale
di Carmen Elena Villa
MILANO, mercoledì, 21 ottobre 2009 (ZENIT.org).- La piazza del Duomo di Milano sarà lo scenario della beatificazione di don Carlo Gnocchi (1902-1956), ispiratore della Fondazione che porta il suo nome e che presta il proprio servizio in 28 centri in Italia a uomini e donne con handicap, anziani, malati di cancro e persone in stato vegetativo.
La cerimonia si celebrerà alle 10.00 del 25 ottobre e sarà presieduta dall’Arcivescovo di Milano, il Cardinale Dionigi Tettamanzi, contando sulla presenza di monsignor Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi e inviato di Papa Benedetto XVI alla cerimonia.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, don Gnocchi si offrì come cappellano volontario degli alpini che combattevano.
E’ anche ricordato come un eroe della solidarietà nei confronti delle vittime della guerra. Lo chiamavano “padre dei mutilatini” e degli orfani dei combattenti, visto che il centro da lui creato provvedeva alla riabilitazione di quanti soffrivano a livello fisico le conseguenze del conflitto.
Le sue parole sono ancora di enorme attualità nel XXI secolo: “Prima che la crisi politica o economica, c’è una crisi morale, anzi, una crisi metafisica. Come tale investe più o meno attualmente tutti i popoli, perché tocca l’uomo e il suo problema esistenziale”, scriveva nel 1946.
ZENIT ha parlato con il postulatore della causa di beatificazione di don Gnocchi, padre Rodolfo Cosimo Meoli F.S.C, che ha spiegato come la sua vita continui ad avere grande eco nel mondo odierno.
Come visse la sua infanzia don Carlo?
P. Rodolfo Cosimo Meloli: Fu un’infanzia attraversata da grandi lutti: suo padre morì di silicosi nel 1907, quando Carlo aveva soltanto 5 anni. Due anni dopo morì suo fratello Mario per meningite. L’altro fratello Andrea, il primogenito, sarà portato via dalla tubercolosi nel 1915. Carlo resta solo con la madre Clementina Pasta. Lei è donna coraggiosa e, nonostante sia costretta a vivere in condizioni difficilissime, non solo non perde la fiducia in Dio, ma arriva a pregare così: « Due miei figli li hai già presi, Signore; il terzo te l’offro io, perché tu lo benedica e lo conservi sempre al tuo servizio ».
In queste circostanze, come si rese conto della sua chiamata al sacerdozio?
P. Rodolfo Cosimo Meloli: La madre giocò senz’altro un ruolo fondamentale; la grazia di Dio e la frequenza alle attività parrocchiali fecero il resto. Ci fu poi la corrispondenza alle ispirazioni della grazia, fatto tutto personale questo, di cui Don Carlo ha dato ampie prove per tutto il corso della sua vita”.
Quali sono state le sue virtù principali?
P. Rodolfo Cosimo Meloli: Più che « delle virtù » parlerei « della virtù »: la carità, che tutte le racchiude e le nobilita. Carità fatta attenzione, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità…
Come decise di creare la fondazione « Pro Iuventute »?
P. Rodolfo Cosimo Meloli: Era andato in guerra come cappellano volontario. « Un prete non può non stare dove si muore! », diceva. Poi la tragica esperienza della ritirata di Russia fece maturare in lui il disegno concreto di provvedere all’assistenza degli orfani dei suoi alpini e delle tante altre piccole vittime innocenti di ordigni bellici. « Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. E’ questa la mia ‘carriera’ », scriveva a un suo cugino. La prima istituzione da lui creata era denominata « Pro Infanzia Mutilata » (1947), divenuta « Fondazione Pro Iuventute » nel 1952.
Qual è lo scopo di questa fondazione?
P. Rodolfo Cosimo Meloli: L’opera sorse con lo scopo di soccorrere i « mutilatini di guerra ». Poi, nel corso degli anni e soprattutto con la graduale scomparsa dei mutilatini, l’opera di don Carlo ha progressivamente ampliato le attività assistenziali. Oggi nei Centri della Fondazione sono accolti pazienti con ogni forma di disabilità, pazienti che hanno bisogno di interventi e cure riabilitative, anziani non autosufficienti e malati oncologici in fase terminale.
In che modo la sua testimonianza può illuminare i sacerdoti in questo Anno Sacerdotale?
P. Rodolfo Cosimo Meloli: Don Carlo è il volto moderno della santità. Ha saputo interpretare in modo superlativo la sua vocazione: quella di essere luce, sostegno, conforto e speranza per tutti quelli che incontrava. La sua vita si è consumata per il bene degli altri. E’ stato l »alter Christus » che ieri, oggi, sempre è chiamato ad essere ogni sacerdote. Consiglierei a tutti la lettura meditata dei suoi scritti e delle sue lettere”.
Perché è importante la sua testimonianza per il XXI secolo e per la difesa della dignità umana?
P. Rodolfo Cosimo Meloli: Penso perché ha messo al centro della sua azione l’uomo, gli uomini, tutti gli uomini, la forza vitale dell’amore, il sogno della fraternità e della solidarietà universale, senza pregiudizi e senza preclusioni.
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20091022
Giovedì della XXIX settimana del Tempo Ordinario : Lc 12,49-53
Meditazione del giorno
Sant’Ambrogio (circa 340-397), vescovo di Milano e dottore della Chiesa
Trattato su San Luca, 7:131-132 ; SC 52
« Sono venuto a portare il fuoco sulla terra »
« Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! » Il Signore vuole che siamo vigilanti, attenti in ogni momento alla venuta del Salvatore… Ma poiché il guadagno è misero e scarso il merito quando solo il timore del supplizio impedisce di perdersi, mentre l’amore ha un valore superiore, il Signore stesso… infiamma il nostro desiderio di raggiungere Dio quando afferma: « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra ». Non certo il fuoco che distrugge, bensì quello che suscita la buona volontà, quello che rende migliori i vasi d’oro della casa del Signore, consumando il fieno e la paglia (1 Cor 3,12ss), divorando tutta la vanità del mondo accumulata dalla passione del piacere terreno, opera effimera della carne.
Questo fuoco divino infiammava le ossa dei profeti, come dichiara Geremia: « C’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa » (Ger 20,9). Infatti c’è un fuoco del Signore, di cui si dice : « Davanti a lui cammina il fuoco » (Sal 96,3). Il Signore stesso è fuoco « che arde senza consumarsi » (Es 3,2). Il fuoco del Signore è infatti luce eterna e, a questo fuoco, si accendono le lucerne dei credenti: « Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese » (Lc 12,35). Una lucerna è necessaria perché i giorni di questa vita sono ancora notte. Il Signore stesso, secondo la testimonianza dei discepoli di Emmaus, aveva messo questo fuoco nel loro cuore: « Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture ? » (Lc 24,32). Essi ci mostrano con evidenza qual è l’azione di questo fuoco, che rischiara il profondo del cuore dell’uomo. Perciò il Signore verrà con il fuoco (Is 66,15), per consumare tutte le colpe al momento della risurrezione, ricolmare con la sua presenza i desideri di ognuno, e proiettare la sua luce sui meriti e i misteri.