Gesù pane per la vita del mondo (2003, anno B)
dal sito:
http://www.pddm.it/vita/vita_03/n_07/2agosto.htm
Gesù pane per la vita del mondo
19a del t.o. – 10 agosto 2003 – anno B
Donatella Scaiola
Prima lettura: 1Re 19,4-8
Salmo responsoriale: Sal 33,2-9
Seconda lettura: Ef 4,30-5,2
Vangelo: Gv 6,41-51
Lo scandalo dell’incarnazione
La prima lettura è tratta dal ciclo del profeta Elia, colto in un momento di grande difficoltà e tristezza. Elia opera una sorta di ritorno alle sorgenti della tradizione e della fede del suo popolo perché si reca alla montagna sulla quale Dio si è fatto conoscere ad Israele proponendogli di entrare in alleanza con lui. Questo ritorno alle fonti sarà per Elia il luogo di una nuova missione al servizio di Dio che si svela a lui come a un nuovo Mosè. Il racconto segue l’itinerario di Elia che lascia il regno d’Israele per il paese di Giuda e il deserto. Come già è avvenuto in passato, anche adesso il profeta è invitato a riscoprire Dio, ma, a differenza di quanto era avvenuto a Sarepta di Sidone, dove una vedova aveva mediato il suo incontro con Dio, qui l’incontro avverrà direttamente, senza intermediari umani.
Il racconto si dilunga sulla sollecitudine di Dio che circonda il profeta: per due volte l’angelo lo invita a mangiare pane e a bere acqua, un cibo che altri inviati di Dio avevano già fornito a Elia in precedenza: i corvi (17,6) e la vedova di Sarepta (17,10.15). Questo cibo era stato condiviso dal popolo dell’Esodo durante il cammino nel deserto (Es 15,22-17,7). Alle porte del deserto Elia mangia questo cibo, segno che vuole vivere e attraversare la prova. Ma mangiare non basta. Elia nella sua preghiera si era assimilato agli Israeliti del deserto, infedeli al Signore perché lo avevano messo alla prova: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri ».
Adesso, nutrito come loro di pane e di acqua dal Signore, Elia riprende il loro stesso cammino verso l’Oreb. In questo contesto, quaranta giorni e quaranta notti evocano non solamente i quarant’anni passati dal popolo nel deserto, ma anche il tempo che Mosè trascorse sul monte Sinai (Es 24,18).
Si tratta di un ritorno alle sorgenti al quale il Signore guida il profeta allontanandolo dal proprio ambiente, condizione che prelude all’incontro con Dio. Questo cammino non è solo fisico, ma anche interiore, dal momento che il profeta deve spogliarsi del suo passato, deve rompere con le sue evidenze, per poter fare il suo esodo e incontrare Dio. In realtà, se Elia va verso Dio è solo perché il Signore va all’uomo e così ne anima il cammino con forza attrattiva. In altri termini, si potrebbe dire che l’incontro dell’uomo con Dio dipende dalla grazia e non dallo sforzo dell’uomo, il quale si deve solo aprire al dono.
In questo senso si esprime anche il Vangelo, là dove Gesù parla di sé come di pane di vita, dono che Dio fa ad ogni uomo che sia disposto ad accoglierlo. Ma questo dono della vita si scontra con la mormorazione degli uomini. Come era già avvenuto in passato, lungo tutta la storia della salvezza, le vie di Dio suscitano lo scandalo degli uomini. Qui lo scandalo sorge dalla disparità tra l’origine celeste proclamata da Gesù e l’evidenza della sua condizione umana. L’ostacolo che impedisce la fede è sottolineato dal fatto che Gesù ha dei genitori ben noti. Questa difficoltà viene presentata anche dagli altri evangelisti (Mc 6,3; Mt 13,55; Lc 4,22), e in fondo è la difficoltà che il mistero dell’incarnazione suscita anche in noi. L’obiezione dei Galilei concentra l’attenzione del lettore sul paradosso della Parola che ha preso un corpo, del Logos che è diventato un uomo.
Ambone della chiesa parrocchiale S. Giuseppe a Manfredonia (FG). La Parola qui proclamata ha pieno compimento nella liturgia sacramentale.
Gli uditori di Gesù non reagiscono apertamente, ma « mormorano tra loro ». Il richiamo va all’episodio della manna (Es 16), e mediante questo termine gli uditori di Gesù vengono assimilati alla generazione del deserto. Come i loro antenati, anch’essi resistono alla rivelazione di Dio, e, così facendo, mancano di fede. Forse Giovanni ha scelto questo verbo per suggerire l’idea che rifiutare di credere in Gesù (questo è il senso della mormorazione), significa rifiutare di aderire al disegno di Dio. La vita dell’uomo, la nostra, è chiamata a scegliere tra mormorazione e abbandono, tra cecità e interiorizzazione dell’insegnamento di Dio, tra morte e vita. È una scelta che si gioca e si conferma o smentisce nella vita concreta dell’uomo. La seconda lettura, tratta dalla lettera agli Efesini, applica questo discorso, che può apparire teorico, all’esistenza quotidiana della comunità. L’inizio della pericope: « Non vogliate contristare lo Spirito Santo di Dio », riecheggia un testo del profeta Isaia: « Ma essi si ribellarono e contristarono il suo santo Spirito » (Is 63,10), che fa riferimento alle ostinazioni di Israele durante la peregrinazione nel deserto.
»Contristare lo Spirito », un’espressione difficile da comprendere, allude forse ad ogni forma di ricaduta nell’uomo vecchio. Tra questi atteggiamenti viene ricordata, mediante l’accumulo di una serie di termini sinonimi, una situazione morale di rottura dei rapporti fraterni fra i membri della comunità, che è incompatibile con lo status di uomo nuovo.
Il vocabolario suggerisce l’idea che tra i cristiani deve esistere la stessa generosità e magnanimità che Dio ha dimostrato verso di loro in Cristo. In particolare, l’autore chiede ai suoi lettori di « camminare nell’amore », cioè di fare dell’amore l’ambito vitale e distintivo della propria vita. Dietro questa esortazione si sente l’eco del famoso inno alla carità di 1Cor 13, che celebra l’agape come « la via migliore di tutte », sintesi e compendio di tutta la Legge (Rom 13,8-10; Gal 5,13-14). Il nostro passo è però l’unico del Nuovo Testamento in cui si parla esplicitamente di una « imitazione di Dio ». Paolo propone come ideale l’amore con cui Dio ama. L’agape deve essere il tratto distintivo del cristiano, perché essa lo è di Dio, come ricorda anche l’apostolo Giovanni (1Gv 4,7-21).
Ma l’insistenza maggiore del brano è sulla dimensione cristologica dell’amore. Infatti è l’amore dimostrato da Cristo che « vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore », che rivela Dio.
Il linguaggio sacrificale che qui è usato viene dall’Antico Testamento, ma il suo significato non va frainteso. La morte di Cristo non è un fatto rituale, ma esistenziale, non subito, ma voluto da Cristo (« diede se stesso ») e per amore (« ci amò »).
È questo tipo di amore, totalmente altruista e senza riserve, che viene richiesto ai cristiani come metro della loro condotta, via pratica da seguire per superare lo scandalo della fede e accedere alla vita eterna.

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