Il Papa allo Yad Vashem

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http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1338380
Il papa in Israele. Primo giorno, sorpresa doppia
Il mondo lo aspettava al varco sulle questioni più esplosive: l’antisemitismo, la guerra. Ma Benedetto XVI ha fatto a modo suo. Ha estratto dalla Bibbia due parole. E con la prima ha spiegato le condizioni della pace. Con la seconda ha illuminato il mistero della Shoah
di Sandro Magister
ROMA, 12 maggio 2009 – Appena arrivato lunedì in terra d’Israele, Benedetto XVI ha immediatamente preso di petto le questioni più controverse: prima la pace e la sicurezza, poi la Shoah e l’antisemitismo.
Su entrambi i fronti era atteso al varco. Sottoposto a pressioni incessanti e non sempre leali. Per molti suoi critici il copione era già scritto, ed essi aspettavano solo di giudicare se e come il papa l’avrebbe osservato.
Invece Benedetto XVI s’è mosso con sorprendente originalità. In un caso e nell’altro.
L’avvento della pace l’ha legato indissolubilmente a quel « cercare Dio » che era già stato il tema dominante del suo memorabile discorso di Parigi al mondo della cultura: uno dei discorsi capitali del suo pontificato. Mentre il tema della sicurezza – nevralgico per Israele – l’ha svolto a partire dalla parola biblica « betah », che vuol dire sì sicurezza ma anche fiducia: e l’una non può stare senza l’altra.
Nella visita allo Yad Vashem – il memoriale delle vittime della Shoah con incisi i loro nomi a milioni – il papa ha poi illuminato il senso di un’altra parola biblica: il « nome ». I nomi di tutti « sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente ». E quindi « non si può mai portar via il nome di un altro essere umano », nemmeno quando gli si vuol toglier tutto. Il grido degli uccisi sale dalla terra come dai tempi di Abele, contro ogni spargimento di sangue innocente, e Dio tutti ascolta, perché « non sono esaurite le sue misericordie ». Queste ultime parole, tratte dal libro delle Lamentazioni, il papa le ha scritte firmando il libro d’onore.
Il discorso di Benedetto XVI allo Yad Vashem, e prima di questo l’altro pronunciato su pace e sicurezza durante la visita al presidente Shimon Peres, sono riprodotti qui di seguito. Entrambi sono di lunedì 11 maggio 2009, primo giorno della sua visita in Israele.
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« Cercate Dio e la pace vi sarà data »
di Benedetto XVI
Signor presidente, [...] oggi desidero assicurare a lei [...] come pure a tutti gli abitanti dello Stato di Israele che il mio pellegrinaggio ai Luoghi Santi è un pellegrinaggio di preghiera in favore del dono prezioso dell’unità e della pace per il Medio Oriente e per tutta l’umanità. In verità, ogni giorno prego affinché la pace che nasce dalla giustizia ritorni in Terra Santa e nell’intera regione, portando sicurezza e rinnovata speranza per tutti.
La pace è prima di tutto un dono divino. La pace infatti è la promessa dell’Onnipotente all’intero genere umano e custodisce l’unità. Nel libro del profeta Geremia leggiamo: “Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza”. Il profeta ci ricorda la promessa dell’Onnipotente che “si lascerà trovare”, che “ascolterà”, che “ci radunerà insieme”. Ma vi è anche una condizione: dobbiamo “cercarlo”, e “cercarlo con tutto il cuore” (Geremia 29, 11-14).
Ai leader religiosi oggi presenti vorrei dire che il contributo particolare delle religioni nella ricerca di pace si fonda primariamente sulla ricerca appassionata e concorde di Dio. Nostro è il compito di proclamare e testimoniare che l’Onnipotente è presente e conoscibile anche quando sembra nascosto alla nostra vista, che Egli agisce nel nostro mondo per il nostro bene, e che il futuro della società è contrassegnato dalla speranza quando vibra in armonia con l’ordine divino.
È la presenza dinamica di Dio che raduna insieme i cuori ed assicura l’unità. Di fatto, il fondamento ultimo dell’unità tra le persone sta nella perfetta unicità e universalità di Dio, che ha creato l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza per condurci entro la sua vita divina, così che tutti possano essere una cosa sola.
Pertanto, i leader religiosi devono essere coscienti che qualsiasi divisione o tensione, ogni tendenza all’introversione o al sospetto fra credenti o tra le nostre comunità può facilmente condurre ad una contraddizione che oscura l’unicità dell’Onnipotente, tradisce la nostra unità e contraddice l’Unico che rivela se stesso come “ricco di amore e di fedeltà” (Esodo 34, 6; Salmo 138, 2; Salmo 85, 11). Cari amici, Gerusalemme, che da lungo tempo è stata un crocevia di popoli di diversa origine, è una città che permette ad ebrei, cristiani e musulmani sia di assumersi il dovere che di godere del privilegio di dare insieme testimonianza della pacifica coesistenza a lungo desiderata dagli adoratori dell’unico Dio; di svelare il piano dell’Onnipotente, annunciato ad Abramo, per l’unità della famiglia umana; e di proclamare la vera natura dell’uomo quale cercatore di Dio. Impegniamoci dunque ad assicurare che, mediante l’ammaestramento e la guida delle nostre rispettive comunità, le sosterremo nell’essere fedeli a ciò che veramente sono come credenti, sempre consapevoli dell’infinita bontà di Dio, dell’inviolabile dignità di ogni essere umano e dell’unità dell’intera famiglia umana.
La Sacra Scrittura ci offre anche una sua comprensione della sicurezza. Secondo il linguaggio ebraico, sicurezza – « batah » – deriva da fiducia e non si riferisce soltanto all’assenza di minaccia ma anche al sentimento di calma e di confidenza. Nel libro del profeta Isaia leggiamo di un tempo di benedizione divina: “Infine in noi sarà infuso uno spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva. Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre” (32, 15-17). Sicurezza, integrità, giustizia e pace: nel disegno di Dio per il mondo esse sono inseparabili. Lungi dall’essere semplicemente il prodotto dello sforzo umano, esse sono valori che promanano dalla relazione fondamentale di Dio con l’uomo, e risiedono come patrimonio comune nel cuore di ogni individuo.
Vi è una via soltanto per proteggere e promuovere tali valori: esercitarli! viverli! Nessun individuo, nessuna famiglia, nessuna comunità o nazione è esente dal dovere di vivere nella giustizia e di operare per la pace. Naturalmente, ci si aspetta che i leader civili e politici assicurino una giusta e adeguata sicurezza per il popolo a cui servizio essi sono stati eletti.
Questo obiettivo forma una parte della giusta promozione dei valori comuni all’umanità e pertanto non possono contrastare con l’unità della famiglia umana. I valori e i fini autentici di una società, che sempre tutelano la dignità umana, sono indivisibili, universali e interdipendenti. Non si possono pertanto realizzare quando cadono preda di interessi particolari o di politiche frammentarie. Il vero interesse di una nazione viene sempre servito mediante il perseguimento della giustizia per tutti.
Gentili Signore e Signori, una sicurezza durevole è questione di fiducia, alimentata nella giustizia e nell’integrità, suggellata dalla conversione dei cuori che ci obbliga a guardare l’altro negli occhi e a riconoscere il “tu” come un mio simile, un mio fratello, una mia sorella. In tale maniera non diventerà forse la società stessa un “giardino ricolmo di frutti” (cfr. Isaia 32, 15), segnato non da blocchi e ostruzioni, ma dalla coesione e dall’armonia? Non può forse divenire una comunità di nobili aspirazioni, dove a tutti di buon grado viene dato accesso all’educazione, alla dimora familiare, alla possibilità d’impiego, una società pronta ad edificare sulle fondamenta durevoli della speranza?
Per concludere, desidero rivolgermi alle comuni famiglie di questa città, di questa terra. Quali genitori vorrebbero mai violenza, insicurezza o divisione per il loro figlio o per la loro figlia? Quale umano obiettivo politico può mai essere servito attraverso conflitti e violenze? Odo il grido di quanti vivono in questo paese che invocano giustizia, pace, rispetto per la loro dignità, stabile sicurezza, una vita quotidiana libera dalla paura di minacce esterne e di insensata violenza. So che un numero considerevole di uomini, donne e giovani stanno lavorando per la pace e la solidarietà attraverso programmi culturali e iniziative di sostegno pratico e compassionevole; umili abbastanza per perdonare, essi hanno il coraggio di tener stretto il sogno che è loro diritto.
Signor presidente, la ringrazio per la cortesia dimostratami e la assicuro ancora una volta delle mie preghiere per il governo e per tutti i cittadini di questo Stato. Possa un’autentica conversione dei cuori di tutti condurre ad un sempre più deciso impegno per la pace e la sicurezza attraverso la giustizia per ciascuno. Shalom!
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« I loro nomi sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio »
di Benedetto XVI
“Io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome… darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Isaia 56, 5).
Questo passo tratto dal libro del profeta Isaia offre le due semplici parole che esprimono in modo solenne il significato profondo di questo luogo venerato: « yad », memoriale, « shem », nome. Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria dei milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoah. Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia, e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità. I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente.
Uno può derubare il vicino dei suoi possedimenti, delle occasioni favorevoli o della libertà. Si può intessere una insidiosa rete di bugie per convincere altri che certi gruppi non meritano rispetto. E tuttavia, per quanto ci si sforzi, non si può mai portar via il nome di un altro essere umano.
La Sacra Scrittura ci insegna l’importanza dei nomi quando viene affidata a qualcuno una missione unica o un dono speciale. Dio ha chiamato Abram “Abraham” perché doveva diventare il “padre di molti popoli” (Genesi 17, 5). Giacobbe fu chiamato “Israele” perché aveva “combattuto con Dio e con gli uomini ed aveva vinto” (cfr. Genesi 32, 29). I nomi custoditi in questo venerato monumento avranno per sempre un sacro posto fra gli innumerevoli discendenti di Abraham.
Come avvenne per Abraham, anche la loro fede fu provata. Come per Giacobbe, anch’essi furono immersi nella lotta fra il bene e il male, mentre lottavano per discernere i disegni dell’Onnipotente. Possano i nomi di queste vittime non perire mai! Possano le loro sofferenze non essere mai negate, sminuite o dimenticate! E possa ogni persona di buona volontà vigilare per sradicare dal cuore dell’uomo qualsiasi cosa capace di portare a tragedie simili a questa!
La Chiesa cattolica, impegnata negli insegnamenti di Gesù e protesa ad imitarne l’amore per ogni persona, prova profonda compassione per le vittime qui ricordate. Alla stessa maniera, essa si schiera accanto a quanti oggi sono soggetti a persecuzioni per causa della razza, del colore, della condizione di vita o della religione: le loro sofferenze sono le sue e sua è la loro speranza di giustizia. Come vescovo di Roma e successore dell’apostolo Pietro, ribadisco – come i miei predecessori – l’impegno della Chiesa a pregare e ad operare senza stancarsi per assicurare che l’odio non regni mai più nel cuore degli uomini. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio della pace (cfr. Salmo 85, 9).
Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose ed imperscrutabili vie. Egli ha rivelato se stesso e continua ad operare nella storia umana. Lui solo governa il mondo con giustizia e giudica con equità ogni popolo (cfr. Salmo 9, 9).
Fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua che si stende silenzioso all’interno di questo memoriale, non si può fare a meno di ricordare come ciascuno di loro rechi un nome. Posso soltanto immaginare la gioiosa aspettativa dei loro genitori, mentre attendevano con ansia la nascita dei loro bambini. Quale nome daremo a questo figlio? Che ne sarà di lui o di lei? Chi avrebbe potuto immaginare che sarebbero stati condannati ad un così lacrimevole destino!
Mentre siamo qui in silenzio, il loro grido echeggia ancora nei nostri cuori. È un grido che si leva contro ogni atto di ingiustizia e di violenza. È una perenne condanna contro lo spargimento di sangue innocente. È il grido di Abele che sale dalla terra verso l’Onnipotente. Nel professare la nostra incrollabile fiducia in Dio, diamo voce a quel grido con le parole del libro delle Lamentazioni, così cariche di significato sia per gli ebrei che per i cristiani:
“Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie; Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà. Mia parte è il Signore – io esclamo –, per questo in lui spero. Buono è il Signore con chi spera in lui, con colui che lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (3, 22-26).
Cari amici, sono profondamente grato a Dio e a voi per l’opportunità che mi è stata data di sostare qui in silenzio: un silenzio per ricordare, un silenzio per sperare.
dal sito:
http://www.zenit.org/article-18228?l=italian
La stampa laica trascura i tesori dei discorsi papali
Padre Thomas Wiliams commenta il pellegrinaggio in Terra Santa
GERUSALEMME, martedì, 12 maggio 2009 (ZENIT.org).- Il sacerdote della Congregazione dei Legionari di Cristo, padre Thomas Williams (www.thomasdwilliams.com), un teologo statunitense che vive a Roma, segue per la CBS News la storica visita di Benedetto XVI in Terra Santa. Per l’occasione offrirà una cronaca del suo viaggio anche a ZENIT. Di seguito riportiamo il suo primo commento.
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Sono arrivato in Israele domenica sera, per essere qui per l’arrivo di Benedetto XVI lunedì mattina. Il proverbiale sistema di sicurezza israeliano è stato aumentato per la visita del Santo Padre, ma nonostante polizia e telecamere ovunque siamo riusciti ad attraversare l’aeroporto con ritardi minimi. Per fortuna non ero andato in Messico la settimana scorsa, visto che dei cartelli invitavano quanti c’erano stati a recarsi al posto sanitario dell’aeroporto per gli accertamenti contro l’influenza A.
Gerusalemme dista solo 30 miglia dall’Aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, per cui il viaggio non è durato più di 45 minuti. Il mio taciturno autista Hezi mi dava segnalazioni occasionali durante il viaggio (indicando anche il suo quartiere) mentre attraversavamo rombando l’autostrada con la sua malridotta Subaru bianca, ma è diventato estremamente cordiale quando gli ho detto che non mi dava fastidio se fumava in macchina.
Quando la Città Santa di Gerusalemme è apparsa all’orizzonte, emergendo dal panorama come una versione bianco-mediterraneo della Città di Smeraldo di Oz, mi ha tolto il fiato. E’ solo la mia seconda visita in Terra Santa, e camminare dove ha camminato Gesù e guardare la città che ha amato così profondamente è una sensazione indescrivibile.
La città è abbellita per la visita del Papa con bandiere bianche e gialle che costellano il viale principale intorno alla Città Vecchia, intervallate dalle bandiere dello Stato di Israele, bianche con la stella di Davide blu. Gli emblemi papali non sono gli unici segni da notare, ovviamente, e molti cartelloni annunciano l’arrivo sugli schermi della versione cinematografica di “Angeli e demoni”. Ovunque, qui, il sacro e il profano sono fianco a fianco.
In questo pellegrinaggio papale precedente all’arrivo del Pontefice in Israele sono già avvenute molte cose. Benedetto XVI ha trascorso tre giorni proficui nel Regno di Giordania, dove ha visitato il Monte Nebo, da dove Mosè fece spaziare lo sguardo dal fiume Giordano alla Terra Promessa, così come la Moschea Al-Hussein Bin Talal, dove ha pronunciato un brillante discorso sul dialogo interreligioso e interculturale.
Questo mi fa venire in mente una riflessione per me ricorrente in questi giorni. Molte persone hanno sentore di ciò che Papa Benedetto dice o scrive quando qualche sua frase o qualche azione suscita proteste e viene ripresa dai media secolari. Ciò porta a una visione del tutto parziale e ingiustamente negativa del Papa. Quasi chiunque, quindi, sa che un commento a Ratisbona (Germania) nel 2006 ha infastidito i musulmani, e che ha rimesso la scomunica a quattro Vescovi scismatici, uno dei quali nega l’Olocausto, ma pochi hanno letto le sue Encicliche sull’amore e sulla speranza, o ascoltato i suoi discorsi su San Paolo e i Padri della Chiesa.
Questa domenica Benedetto XVI ha celebrato una Messa all’aperto nell’International Stadium di Amman, dove un altro gioiello di questo tipo è sfuggito all’attenzione dei media. In questo Paese a maggioranza musulmana, il Papa ha scelto di esporre un’approfondita riflessione sulla dignità delle donne, riferendosi al loro “carisma profetico” e lodandole come “portatrici di amore, maestre di misericordia e costruttrici di pace”.
“Con la sua pubblica testimonianza di rispetto per le donne e con la sua difesa dell’innata dignità di ogni persona umana, la Chiesa in Terra Santa può dare un importante contributo allo sviluppo di una cultura di vera umanità e alla costruzione della civiltà dell’amore”, ha aggiunto.
Arrivando in Israele questo lunedì mattina, il Papa ha subito voluto dissipare ogni dubbio residuo circa la sua posizione sull’Olocausto ebraico. Nel suo primo discorso, all’aeroporto di Tel Aviv, ha affermato: “È giusto e conveniente che, durante la mia permanenza in Israele, io abbia l’opportunità di onorare la memoria dei sei milioni di Ebrei vittime della Shoah, e di pregare affinché l’umanità non abbia mai più ad essere testimone di un crimine di simile enormità. Sfortunatamente, l’antisemitismo continua a sollevare la sua ripugnante testa in molte parti del mondo. Questo è totalmente inaccettabile. Ogni sforzo deve essere fatto per combattere l’antisemitismo dovunque si trovi, e per promuovere il rispetto e la stima verso gli appartenenti ad ogni popolo, razza, lingua e nazione in tutto il mondo”.
Il Papa non vuole che resti un’ombra di dubbio sulla sua ripugnanza nei confronti dell’antisemitismo, e sta cercando di uccidere rapidamente il drago prima che sollevi la sua terribile testa. Si spera che la sua evidente buona volontà ne susciti una uguale da parte di tutti coloro che lo ascoltano.
La sua toccante visita al Memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem lunedì pomeriggio ha offerto un’ulteriore conferma del suo impegno per promuovere le relazioni tra ebrei e cristiani e presentare una posizione unita a favore dei diritti umani. Dopo l’incontro, ho parlato con molti ebrei per la strada e la maggior parte di loro è stata soddisfatta di come sono andate le cose, anche se un uomo mi ha detto che il Papa avrebbe dovuto dire che milioni di ebrei sono stati “assassinati” e non “uccisi”. Onestamente ho qualche problema nel percepire questo livello di cavillosità semantica, ma ovviamente lui pensava che fosse importante.
Finora nelle sue varie attività in Terra Santa il Papa non solo ha evitato i problemi che molti avevano previsto, ma ha anche perseguito attivamente una via molto più elevata, sfidando i suoi ascoltatori alla pace, alla giustizia, al dialogo e al rispetto reciproco. Nei prossimi giorni ci si aspetta ancor di più.
[Traduzione dall'inglese di Roberta Sciamplicotti]