Archive pour janvier, 2009

Sant’Agostino : La vita si è manifestata nella carne

dal sito:

http://www.vangelodelgiorno.org/www/main.php?language=IT&localTime=01/22/2009#

Sant’Agostino (354-430), vescovo d’Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Discorsi sulla prima lettera di Giovanni, 1,1

La vita si è manifestata nella carne
»Quello che era da principio, quello che abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi e le nostre mani hanno toccato del Verbo di vita» (1 Gv 1, 1). Quegli che colle sue mani tocca il Verbo, può farlo unicamente perché «il Verbo si è fatto carne ed abitò tra noi» (Gv 1, 14). Questo Verbo fatto carne fino a potersi toccare con le mani, incominciò ad essere carne nel seno della Vergine Maria. Non fu invece a quel tempo che egli incominciò ad essere Verbo, perché Giovanni dice che il Verbo «era fin dall’inizio».

Qualcuno potrebbe riferire l’espressione «Verbo di vita» a qualche particolare modo di parlare del Cristo e non allo stesso suo corpo che fu toccato con le mani. Ma osservate le parole che seguono: «La vita stessa si è manifestata». Dunque Cristo è il Verbo di vita. Ma come si è manifestata? Essa era fin dall’inizio, ma ancora non si era manifestata agli uomini; s’era invece manifestata agli angeli che la contemplavano e se ne cibavano come del loro pane. Ma che cosa afferma la Scrittura? «L’uomo mangiò il pane degli angeli» (Sal 78, 25).

Dunque la vita stessa si è manifestata nella carne; perché si è manifestata affinché fosse visto anche dagli occhi ciò che solo il cuore può vedere e così i cuori avessero a guarire. Solo col cuore si vede il Verbo; cogli occhi del corpo invece si vede anche la carne. Noi potevamo vedere la carne, ma per vedere il Verbo non avevamo i mezzi. Allora il Verbo si è fatto carne e questa la potemmo vedere, onde ottenere la guarigione di quella vista interiore che sola ci può far vedere il Verbo.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 22 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

Sant’Agnese

Sant'Agnese dans immagini sacre

http://santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 21 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

LA « RADICE » EBRAICA DELLO SPIRITO SANTO

 dal sito:
 http://www.nostreradici.it/la_radice.htm 

LA « RADICE » EBRAICA DELLO SPIRITO SANTO
Lea Sestieri

 scritto nell’Anno dello Spirito Santo in presparazione del Giubileo del 2000

(non è importante certo, ma è stata la mia prima, primissima, insegnante di religione)

Nei «Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa Cattolica» del 1985 i cristiani sono invitati ad avere una conoscenza più rispettosa ed adeguata del patrimonio comune a cristiani ed ebrei perché tale conoscenza «può aiutare a comprendere meglio alcuni aspetti della vita della Chiesa» (I, 3).

Tale conoscenza riguarda anche il mistero dello Spirito Santo che il Nuovo Testamento e soprattutto la tradizione cristiana professano come la terza Persona della Santa Trinità, consustanziale al Padre e al Figlio e «con il Padre e il Figlio adorato e glorificato» (Simbolo di Nicea-Costantinopoli).

Anche se nelle scritture ebraiche lo Spirito Santo non viene mai presentato come una persona ma come una forza divina capace di trasformare l’essere umano e il mondo, resta comunque il fatto che la teologia pneumatologica cristiana si radica su quella ebraica. Nella predicazione e nella catechesi sarà necessario pertanto richiamare questo legame, sottolineandone gli aspetti principali:

il nome: «Spirito» traduce il termine ebraico «Ruah» che, nel suo senso primario significa soffio, aria, vento. Gesù utilizza proprio l’immagine sensibile del vento per suggerire a Nicodemo la novità trascendente dello Spirito divino in persona (Catechismo della Chiesa Cattolica 691). Lo spirito come irruzione e come trascendenza: operante nella storia ma altro dalla storia, irriducibile alle sue logiche e instauratrice di un’altra logica, quella della responsabilità e dell’amore per l’altro;

la funzione ordinatrice: «In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gn 1.1). Sul mondo informe si posa «lo spirito di Dio» e la sua discesa produce il miracolo della creazione: la trasformazione del caos in cosmos, del disordine in ordine;

la funzione vivificante: «il Signore Dio plasmò l’essere umano con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici uno spirito di vita e l’essere umano divenne uno spirito vivente» (Gn 2, 7). Sull’essere umano-polvere viene soffiato lo spirito di Dio e, in conseguenza di questo soffio, l’essere umano è trasformato in essere vivente: non più essere animale ma partner con il quale e al quale Dio parla e affida la responsabilità del mondo;

la funzione di guida: «Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza, di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore» (Is 11. 2). Lo spirito di Dio si impadronisce di determinate persone (patriarchi, matriarche, giudici, re, profeti, sapienti, ecc,) e, dotandole di poteri particolari, le abilita alla funzione di guida e di maestri interpreti, nel mondo, della volontà di Dio;

la funzione risanatrice: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo… Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi» (Ez 36, 27). Entrando nell’essere umano, lo spirito lo ricrea e lo risana, vincendone il peccato e ricostituendolo partner di Dio nell’alleanza e nell’osservanza della Torah;

la dimensione universale: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito» (Gl 3f 1-2). Verrà un giorno in cui tutti gli esseri umani saranno posseduti dallo spirito e questo giorno coinciderà con il giorno messianico;

la festa di Pentecoste «Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire… essi [gli apostoli] furono tutti ripieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2 1,4). L’effusione dello Spirito operata dal Risorto coincide con la festa ebraica della Pentecoste che celebra il dono dell’alleanza e della Torah ad Israele. Lo Spirito del Risorto non è cancellazione ma rinnovamento dell’alleanza del Sinai: responsabilità di fronte all’uomo producendo frutti di giustizia e santità nel mondo.

Lo Spirito Santo o lo Spirito di Santità nel pensiero ebraico

 L’espressione «Spirito Santo» come tale (sostantivo più aggettivo attributivo) non si trova nel testo biblico ebraico dove il riferimento allo Spirito è sempre accompagnato da un genitivo di appartenenza. È pertanto lo Spirito di Dio (ruah Elohim) nel caso della creazione; Spirito del Signore (ruah Jhwh) nel caso della relazione di Dio con le sue creature. Solo due volte si trova un riferimento alla Santità (ruah qodesh) Spirito di Santità, in cui Santità è sinonimo di Dio (Is. 63,10s., Sal 51,13). Se nella creazione rappresenta la premessa ordinatrice, «la prima rivelazione di Dio al mondo, quasi l’annuncio, il germe delle rivelazioni future» tanto da suggerire nel Targum Neofiti l’interpretazione delle parole «Lo Spirito di Dio si librava» come «uno spirito d’amore da davanti al Signore»; nella vita delle creature si versa su alcuni, trasmette loro «la sua intenzione, la direzione della sua volontà», li investe con particolare intensità (giudici, re) e fa sì che la loro parola diventi parola di profezia e il profeta sia riconosciuto come ish haruah, un uomo dello spirito (Os. 9,7). Ma lo Spirito in determinate circostanze può investire tutti; i versi di Gioele 3,1-2 sono in questo caso i più indicativi (v. appendice). Ezechiele inoltre in 36, 24 a proposito del cuore di pietra e del cuore di carne suggerisce l’impegno dello Spirito nella realizzazione della rivoluzione spirituale, nel desiderio di cambiamento attraverso la teshuvah (pentimento, conversione), che deve portare al compimento dell’«amare il tuo prossimo che è come te». Si potrebbe suggerire pertanto che lo Spirito pur non avendo né corporeità, né materialità è presente nell’intimità delle creature per arricchirle.

 Nel pensiero rabbinico si parte dallo Spirito come Spirito di profezia che sarebbe cessato come tale con Aggeo, Zaccaria e Malachia (Yoma 9b), lo si riconosce poi come ispirazione carismatica e sarebbe promesso agli studiosi. La Mishnah ne parla come di qualcosa che può essere raggiunto dall’uomo pio attraverso varie tappe spirituali (v. appendice). Mai nei testi rabbinici si considera lo Spirito come entità separata da Dio, anche se a volte è usato come sinonimo di Dio e intercambiabile con la Shekinah (maestà di Dio presente in mezzo agli uomini e alla natura; l’immanenza).

 La filosofia ebraica avvicina lo Spirito alla Shekinah rabbinica (Filone), alla Gloria di Dio (Jehudah HaLevi); mentre Maimonide lo designa come ispirazione dell’Intelletto divino (emanato da Dio sui profeti) e Nahmanide, a proposito di Gn. 2,7 sottolinea «è lo spirito del grande nome, dalla cui bocca viene conoscenza e intelligenza»(Perushe haTorah 1,33).

 La Mistica del Hassidismo renano (sec. XII-XIII) si riferisce di nuovo alla Gloria «è il grande splendore che si chiama Shekinah e pertanto identico allo Spirito di Santità dal quale provengono la voce e la parola di Dio». Lo Zohar (I, 15a) mostra che è grazie allo Spirito che il mondo è stato creato, in quanto esso è l’emanazione di questo chiarore punto splendente e primordiale, come già era stato espresso dal filosofo Saadia (sec. IX).

 In questo ultimo secolo l’idealismo ritrova lo Spirito assoluto come nome per l’Io assoluto. F. Rosenzweig, riferendosi alla creazione sottolinea «lo spirito covante di Gn 1, 2 come qualcosa che tende alla spersonalizzazione cioè alla maggiore trascendenza». A. Neher lo definisce un principio assoluto di rivelazione. Infine lo Spirito divino è considerato come ciò che rappresenta la inscindibile correlazione fra Dio e l’uomo (Herman Cohen).

APPENDICE (Testi)

 Gioele 3,1-2: «E accadrà dopo di questo e Io verserò il mio Spirito su ogni carne e profetizzeranno i vostri figli e le vostre figlie, i vostri anziani avranno sogni profetici, i vostri giovani avranno visioni profetiche, ed anche sugli schiavi e sulle schiave in quei giorni verserò il mio Spirito».

 Ezechiele 36, 25-27: «Poi verserò sopra di voi acqua pura e diventerete puri. Io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri atti di idolatria, e vi darò un cuore nuovo metterò in voi uno spirito nuovo, toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne, metterò in voi il mio Spirito».

 Mishnah, Sota 9,15: «R. Pinehas ben Jair diceva: La diligenza porta all’innocenza; l’innocenza porta alla castità; la castità porta all’astinenza; l’astinenza porta alla purità; la purità conduce all’umiltà; l’umiltà conduce al timore del peccato; il timore del peccato conduce alla pietà; la pietà conduce al santo spirito (ruah haqodesh) e il Santo Spirito ci rende degni della resurrezione dei morti, la quale resurrezione dei morti si compirà a mezzo di Elia».

 Talmud, Pesahim 117a: «Il titolo Per David un salmo ci insegna che David s’è messo a dire il salmo e la Presenza divina s’è subito posata su lui. Ciò prova che la Presenza divina non si manifesta quando ci lasciamo andare o alla tristezza o alla frivolezza o alle parole futili, ma solo grazie alla gioia che si mette nel compiere un comandamento come è detto in II Re 3,15: « E mentre il sonatore toccava le corde, la mano del Signore (cioè lo Spirito profetico) si posò su di lui »».

Publié dans:ebraismo, teologia: lo Spirito Santo |on 21 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

Sant’ Agnese Vergine e martire

dal sito:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/22350

Sant’ Agnese Vergine e martire

21 gennaio
 
Roma, fine sec. III, o inizio IV

Agnese nacque a Roma da genitori cristiani, di una illustre famiglia patrizia, nel III secolo. Quando era ancora dodicenne, scoppiò una persecuzione e molti furono i fedeli che s’abbandonavano alla defezione. Agnese, che aveva deciso di offrire al Signore la sua verginità, fu denunciata come cristiana dal figlio del prefetto di Roma, invaghitosi di lei ma respinto. Fu esposta nuda al Circo Agonale, nei pressi dell’attuale piazza Navona. Un uomo che cercò di avvicinarla cadde morto prima di poterla sfiorare e altrettanto miracolosamente risorse per intercessione della santa. Gettata nel fuoco, questo si estinse per le sue orazioni, fu allora trafitta con colpo di spada alla gola, nel modo con cui si uccidevano gli agnelli. Per questo nell’iconografia è raffigurata spesso con una pecorella o un agnello, simboli del candore e del sacrificio. La data della morte non è certa, qualcuno la colloca tra il 249 e il 251 durante la persecuzione voluta dall’imperatore Decio, altri nel 304 durante la persecuzione di Diocleziano. (Avvenire)

Patronato: Ragazze

Etimologia: Agnese = pura, casta, dal greco

Emblema: Agnello, Giglio, Palma

Martirologio Romano: Memoria di sant’Agnese, vergine e martire, che, ancora fanciulla, diede a Roma la suprema testimonianza di fede e consacrò con il martirio la fama della sua castità; vinse, così, sia la sua tenera età che il tiranno, acquisendo una vastissima ammirazione presso le genti e ottenendo presso Dio una gloria ancor più grande; in questo giorno si celebra la deposizione del suo corpo.
 

In data odierna, 21 gennaio, il Calendario liturgico romano fa memoria della santa vergine Agnese, la cui antichità del culto presso la Chiesa latina è attestata dalla presenza del suo nome nel Canone Romano (odierna Preghiere Eucaristica I), accanto a quelli di altre celebri martiri: Lucia, Cecilia, Agata, Anastasia, Perpetua e Felicita.
Nulla sappiamo della famiglia di origine di Sant’Agnese, popolare martire romana. La parola “Agnese”, traduzione dell’aggettivo greco “pura” o “casta”, fu usato forse simbolicamente come soprannome per esplicare le sue qualità. Visse in un periodo in cui era illecito professare pubblicamente la fede cristiana. Secondo il parere di alcuni storici Agnese avrebbe versato il sangue il 21 gennaio di un anno imprecisato, durante la persecuzione di Valeriano (258-260), ma secondo altri, con ogni probabilità ciò sarebbe avvenuto durante la persecuzione dioclezianea nel 304. Durante la persecuzione perpetrata dall’imperatore Diocleziano, infatti, i cristiani furono uccisi così in gran numero tanto da meritare a tale periodo l’appellativo di “era dei martiri” e subirono ogni sorta di tortura.
Anche alla piccola Agnese toccò subire subire una delle tante atroci pene escogitate dai persecutori. La sua leggendaria Passio, falsamente attribuita al milanese Sant’Ambrogio, essendo posteriore al secolo V ha perciò scarsa autorità storica. Della santa vergine si trovano notizie, seppure vaghe e discordanti, nella “Depositio Martyrum” del 336, più antico calendario della Chiesa romana, nel martirologio cartaginese del VI secolo, in “De Virginibus” di Sant’Ambrogio del 377, nell’ode 14 del “Peristefhanòn” del poeta spagnolo Prudenzio ed infine in un carme del papa San Damaso, ancora oggi conservato nella lapide originale murata nella basilica romana di Sant’Agnese fuori le mura. Dall’insieme di tutti questi numerosi dati si può ricavare che Agnese fu messa a morte per la sua forte fede ed il suo innato pudore all’età di tredici anni, forse per decapitazione come asseriscono Ambrogio e Prudenzio, oppure mediante fuoco, secondo San Damaso. L’inno ambrosiano “Agnes beatae virginia” pone in rilievo la cura prestata dalla santa nel coprire il suo verginale corpo con le vesti ed il candido viso con la mano mentre si accasciava al suolo, mentre invece la tradizione riportata da Damaso vuole che ella si sia coperta con le sue abbondanti chiome. Il martirio di Sant’Agnese è inoltre correlato al suo proposito di verginità. La Passione e Prudenzio soggiungono l’episodio dell’esposizione della ragazza per ordine del giudice in un postribolo, da cui uscì miracolosamente incontaminata.
Assai articolata è anche la storia delle reliquie della piccola martire: il suo corpo venne inumato nella galleria di un cimitero cristiano sulla sinistra della via Nomentana. In seguito sulla sua tomba Costantina, figlia di Costantino il Grande, fece edificare una piccola basilica in ringraziamento per la sua guarigione ed alla sua morte volle essere sepolta nei pressi della tomba. Accanto alla basilica sorse uno dei primi monasteri romani di vergini consacrate e fu ripetutamente rinnovata ed ampliata. L’adiacente cimitero fu scoperto ed esplorato metodicamente a partire dal 1865. Il cranio della santa martire fu posto dal secolo IX nel “Sancta Sanctorum”, la cappella papale del Laterano, per essere poi traslato da papa Leone XIII nella chiesa di Sant’Agnese in Agone, che sorge sul luogo presunto del postribolo ove fu esposta. Tutto il resto del suo corpo riposa invece nella basilica di Sant’Agnese fuori le mura in un’urna d’argento commissionata da Paolo V.
Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, nella suddetta opera “De Virginibus” scrisse al riguardo della festa della santa: “Quest’oggi è il natale di una vergine, imitiamone la purezza. E’ il natale di una martire, immoliamo delle vittime. E’ il natale di Sant’Agnese, ammirino gli uomini, non disperino i piccoli, stupiscano le maritate, l’imitino le nubili… La sua consacrazione è superiore all’età, la sua virtù superiore alla natura: così che il suo nome mi sembra non esserle venuto da scelta umana, ma essere predizione del martirio, un annunzio di ciò ch’ella doveva essere. Il nome stesso di questa vergine indica purezza. La chiamerò martire: ho detto abbastanza… Si narra che avesse tredici anni allorché soffrì il martirio. La crudeltà fu tanto più detestabile in quanto che non si risparmiò neppure sì tenera età; o piuttosto fu grande la potenza della fede, che trova testimonianza anche in siffatta età. C’era forse posto a ferita in quel corpicciolo? Ma ella che non aveva dove ricevere il ferro, ebbe di che vincere il ferro. […] Eccola intrepida fra le mani sanguinarie dei carnefici, eccola immobile fra gli strappi violenti di catene stridenti, eccola offrire tutto il suo corpo alla spada del furibondo soldato, ancora ignara di ciò che sia morire, ma pronta, s’è trascinata contro voglia agli altari idolatri, a tendere, tra le fiamme, le mani a Cristo, e a formare sullo stesso rogo sacrilego il segno che è il trofeo del vittorioso Signore… Non così sollecita va a nozze una sposa, come questa vergine lieta della sua sorte, affrettò il passo al luogo del supplizio. Mentre tutti piangevano, lei sola non piangeva. Molti si meravigliavano che con tanta facilità donasse prodiga, come se già fosse morta, una vita che non aveva ancora gustata. Erano tutti stupiti che già rendesse testimonianza alla divinità lei che per l’età non poteva ancora disporre di sé… Quante domande la sollecitarono per sposa! Ma ella diceva: « È fare ingiuria allo sposo desiderare di piacere ad altri. Mi avrà chi per primo mi ha scelta: perché tardi, o carnefice? Perisca questo corpo che può essere bramato da occhi che non voglio ». Si presentò, pregò, piegò la testa… Ecco pertanto in una sola vittima un doppio martirio, di purezza e di religione. Ed ella rimase vergine e ottenne il martirio”. (tratto da De Virginibus, 1. 1)

ORAZIONE DAL MESSALE
Dio onnipotente ed eterno,
che scegli le creature miti e deboli per confondere le potenze del mondo,
concedi a noi, che celebriamo la nascita al cielo di sant’Agnese vergine e martire,
di imitare la sua eroica costanza nella fede.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.

TRIDUO A SANT’AGNESE
1. O singolare esempio di virtù, gloriosa Santa Agnese, per quella viva fede da cui fosti animata fin dalla più tenera età e che ti rese così accetta a Dio da meritare la corona del martirio, ottienici la grazia di conservare intatta la fede e di professarci sinceramente cristiani non a parole, ma con le opere, affinché confessando Gesù innanzi agli uomini, Gesù faccia di noi favorevole testimonianza innanzi all’eterno Padre.
- Gloria al Padre
2. O Santa Agnese, martire invitta, per quella ferma speranza che avesti nell’aiuto divino, quando condannata dall’empio preside romano a veder macchiato il giglio della tua purezza, non ti sgomentasti poiché eri fermamente abbandonata alla volontà di quel Dio che manda i suoi Angeli per proteggere quelli che in Lui confidano, con la tua intercessione ottienici da Dio la grazia di custodire gelosamente la purezza affinché ai peccati commessi non aggiungiamo quello abominevole della diffidenza nella Misericordia divina.
- Gloria al Padre
3. O Vergine forte, purissima Santa Agnese, per la carità ardente non offesa dalle fiamme della voluttà e del rogo con cui i nemici di Cristo cercavano di perderti, ottienici da Dio che si estingua in noi ogni fiamma non pura e arda soltanto il fuoco che Gesù Cristo venne ad accendere sopra la terra affinché, dopo aver vissuto con purezza, possiamo essere ammessi alla gloria che meritasti con la tua purezza e con il martirio.
- Gloria al Padre

PREGHIERA A SANT’AGNESE
O ammirabile Sant’Agnese,
quale grande esultanza provasti quando alla tenerissima età di tredici anni,
condannata da Aspasio ad essere bruciata viva,
vedesti le fiamme dividersi intorno a te,
lasciarti illesa ed avventarsi invece contro quelli che desideravano la tua morte!
Per la grande gioia spirituale con cui ricevesti il colpo estremo,
esortando tu stessa il carnefice a conficcarti nel petto
la spada che doveva compiere il tuo sacrificio,
ottieni a tutti noi la grazia di sostenere con edificante serenità tutte le persecuzioni
e le croci con cui il Signore volesse provarci
e di crescere sempre più nell’amore a Dio per suggellare con la morte dei giusti
una vita di mortificazione e sacrificio.
Amen.
Autore: Fabio Arduino  

Publié dans:Santi, santi martiri |on 21 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno camellia_05-1

Camellia

http://www.flowerpictures.net/blooming/dec_jan.htm

Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 20 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

Elredo di Rievaulx: « Il signore del sabato »

dal sito:

http://www.vangelodelgiorno.org/www/main.php?language=IT&localTime=01/20/2009#

Elredo di Rievaulx ( 1110-1167), monaco cistercense inglese
Specchio della carità, III, 3,4,6

« Il signore del sabato »
Quando l’uomo, sradicandosi dal vocìo esteriore, si è raccolto nel segreto del suo cuore, quando ha chiuso la sua porta alla folla rumorosa delle vanità, e ha passato in rassegna i suoi tesori, quando non c’è più in lui nessuna agitazione né disordine, nulla che lo tiranneggi, nulla che lo attanagli, quando tutto il piccolo mondo dei suoi pensieri, parole e azioni sorride all’anima, come si sorride al padre in una famiglia tutta unita e in pace, allora nasce nel cuore improvvisamente, una certezza meravigliosa. Da questa certezza nasce una gioia straordinaria, e da questa gioia zampilla un canto di esultanza che scoppia in lodi a Dio, tanto più ferventi, quanto più siamo coscienti che tutto il bene che vediamo in noi stessi è un puro dono di Dio.

Questo è la gioiosa celebrazione del sabato, che deve essere preceduto da sei altri giorni, cioè dal pieno compimento delle opere. Dobbiamo prima affaticarci nel fare opere buone, per poi riposarci nella pace della nostra coscienza… In questo sabato, l’anima gode quanto dolce è Gesù.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 20 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

St. Paul preaching to the Jews in the synagogue at Damascus

St. Paul preaching to the Jews in the synagogue at Damascus dans immagini sacre 164_PreachingToJews

St. Paul preaching to the Jews in the synagogue at Damascus, 12th c. mosaic

http://www.traditioninaction.org/SOD/j164sd_PaulToTimothy_1-24.shtml

Publié dans:immagini sacre |on 19 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

Olivier Clément: La Filocalia

Olivier Clément

LA FILOCALIA:
I testi – La via – La pratica (« pràxis ») – La contemplazione della natura (‘phhysikè theorla ») – La deificazione (« théosis »), dal sito:

http://www.esicasmo.it/ESICASM/clement.htm

Filocalia significa ‘amore per la bellezza », o anche, più banalmente, florilegio, antologia. La bellezza in questione è quella di Dio, che si riflette nella creazione, sebbene le forze del nulla, con la nostra complicità, deturpino in parte il creato. Lo scopo dei testi filocalici è di aiutarci, in Cristo, a liberare ogni bellezza. Possiamo così capire la definizione di Dionigi l’Areopagita: la bellezza “suscita ogni comunione ». Per questo padre André Scrima ha potuto affermare che il genio dell’ortodossia è “filocalico ».
Ogni raccolta di testi spirituali destinata a favorire e interiorizzare la preghiera è una piccola filocalia. Ciascuno può così comporre la propria. Ma certe grandi filocalie sono state veri e propri eventi che hanno segnato la storia della chiesa. Fu così che Basilio il Grande e Gregorio il Teologo nel IV secolo salvarono, facendone una filocalia », i più bei testi di Origene, il cui sistema di pensiero era sempre più contestato. Analoghe, seppur più brevi, presentazioni di questo tipo appaiono anche nel periodo propriamente bizantino, come ad esempio il Trattato sulla sobrietà e sulla custodia del cuore’ di Niceforo l’Esicasta. Quella, tuttavia, che ha finito per essere riconosciuta come la « filocalia » per antonomasia, è la grande Filocalia greca, pubblicata a Venezia (lontano dai vincoli dell’Impero ottomano) nel 1782. Il solo autore non di lingua greca in essa è Giovanni Cassiano che è tuttavia tradotto.
La grande Filocalia è uno dei frutti, nonché uno degli strumenti, di quel rinnovamento spirituale che, negli ultimi decenni del XVIII secolo, strappò la chiesa ortodossa alla decadenza e la rese capace di affrontare i tempi nuovi dell’Europa dei « Lumi ».  in Grecia, grazie al messaggio e all’azione di Cosma Etolo; in Russia, con la spiritualità già dostoievskiana di Tichon di Zadonsk e il moltiplicarsi dei gruppi di preghiera femminili; nei paesi romeni, che servivano da rifugio ai monaci russi e ucraini più contemplativi, mediante l’irraggiamento dello starec Basilio di Poiana Màrului. La decadenza a cui alludo è quella evidenziata dallo scisma e dalle sette nella chiesa russa, il cui patriarcato era stato soppresso da Pietro il Grande; quella favorita dal dominio della Porta sul patriarcato ecumenico e dei pascià sull’episcopato, spesso forzato alla simonia; quella prodotta dall’oblio, nei monasteri, dei testi fondatori della vita spirituale… Il rinnovamento spirituale che contrastò tale decadenza avvenne grazie alla ripresa di una teologia e di una vita sacramentale fedeli alla tradizione. E’ a tal fine che i curatori della Filocalia, Macario (Notaras), già metropolita di Corinto, e Nicodemo l’Aghiorita (cioè della Santa Montagna, l’Athos) pubblicarono un’opera molto documentata che raccomandava una pratica regolare della comunione e che criticava il rito ad essa sostitutivo costituito dalla consumazione domenicale delle collive, i dolci per i morti (fu la celebre disputa dei « collivadi », che infuriò per molto tempo all’Athos). Nicodemo aveva iniziato a pubblicare a Vienna le opere di Gregorio Palamas e di Simeone il Nuovo Teologo, ma tutti i volumi che aveva stampato furono distrutti da un incendio, senza dubbio doloso.
I due amici si dedicarono allora alla Filocalia. Essa apparve senza complicazioni con il titolo: Filocalia dei santi padri neptici compilata a partire dai nostri padri santi e teofori, nella quale, attraverso la pratica (pràxis) e la contemplazione (theorìa) della filosofia morale, l’intelletto è purificato, illuminato e reso perfetto. Corretta con grandissima cura e stampata ora a spese del molto onorevole e molto amato da Dio signor Giovanni Maurokordatos per l’utilità comune degli ortodossi (Venezia 1782, nella stamperia di Antonio Bortoli). Spieghiamo qualche termine:

- neptico: che si dedica alla népsis, attenzione, vigilanza, veglia;

- filosofia morale: sapienza spirituale;

-intelletto: in greco nous, l’organo della contemplazione;

-Giovanni Maurokordatos: un signore romeno, forse il figlio di un principe moldavo. I romeni, che avevano salvaguardato una certa autonomia, furono i principali benefattori dei monaci dell’Athos e dei luoghi santi.

Macario e Nicodemo ricoprirono ruoli differenti ma ugualmente importanti nella genesi della Filocalia. Il primo ricercò, scoprì e scelse i testi in base alla loro qualità, il secondo redasse le introduzioni e l’importante prefazione.
Quello che la Filocalia vuole riproporre in modo aggiornato, forse per adattare la tradizione ai tempi nuovi, attraverso la divulgazione di ciò che, pur non essendo segreto, restava coperto da grande discrezione, è la tradizione esicasta (dal greco hesychia: pace, silenzio dell’unione con Dio) che è stata ed è tuttora l’anima del monachesimo orientale, e che Gregorio Palamas aveva giustificato teologicamente nel XIV secolo. Non si tratta dunque di una « scuola di spiritualità » nel senso occidentale dell’espressione, bensì del cuore stesso dell’esistenza ortodossa, in cui il dogma è inseparabile dalla preghiera.
Macario dice di aver scoperto nella biblioteca del monastero di Vatopedi « un’antologia sull’unione dell’intelletto con Dio, raccolta a partire dagli scritti degli antichi padri, per opera di pii monaci d’altri tempi »; egli afferma altresì d’aver trovato anche altri libri sulla preghiera « dei quali non aveva mai sentito parlare », il tutto notevolmente in cattivo stato. Senza dubbio è da qui che prende l’ispirazione per il suo grande lavoro. Del resto, a partire dal 1700, la versione greca delle opere di Isacco di Ninive era stata edita sotto il nome di Isacco il Siro – incrocio significativo del genio siriaco e di quello greco -.
La Filocalia, dice Nicodemo nella sua prefazione, è rivolta « sia ai monaci che ai laici », tutti chiamati a « unificarsi » interiormente unendosi a Dio, e mediante tale unione, in Cristo, a unirsi con tutti gli uomini, secondo la preghiera sacerdotale del Signore « che tutti siano uno come noi siamo uno » (Gv 17,22). Per questa ragione gli ultimi testi della raccolta, i quali insistono con maggior frequenza sull’uso concreto del « metodo », sono redatti in lingua popolare. E’ per questo motivo che in essi sono deliberatamente ignorati i riti e i dettagli della vita monastica. Per lo stesso motivo, infine, sono evitate le polemiche con gli altri cristiani.

I testi

Per quanto riguarda i testi inclusi nella Filocalia, solo raramente si tratta di estratti. Più spesso sono trattati, centurie e insiemi coerenti di capitoli a essere riportati integralmente. Ciascuno di essi è introdotto con cura, e Nicodemo utilizza le migliori conoscenze della sua epoca. Nel farlo, questo detrattore degli « illuministi si mostra perfettamente al corrente delle ricerche occidentali del suo tempo.
I vari autori sono disposti in ordine cronologico. Troviamo all’inizio le prime testimonianze monastiche, con un netto predominio di Evagrio Pontico. Costui, per primo, aveva cercato di concettualizzare  l’esperienza del deserto, attribuendo, in una prospettiva origeniana, un posto centrale al nous (l’intelletto). Le tappe della purificazione del nous, il discernimento e – se così si può dire – la classificazione delle passioni, l’approdo alla luce interiore e il suo superamento finale, sono tutte esperienze stabilite in modo chiaro. Molto più in là, alla ventesima posizione, troviamo la versione di Simeone Metafraste (fine del X secolo) del corpus macariano. Sappiamo che l’antropologia di « Macario » è molto più biblica ed è incentrata sul « cuore ». L’unione dell’intelletto e del cuore appare allora come il tratto essenziale della prassi esicasta, ma la tonalità della Filocalia resta evagriana.
Di seguito si trovano testi scritti durante il periodo propriamente patristico culminante in Massimo il Confessore. Sono inoltre compresi nell’antologia di Nicodemo gli apporti del Sinai e del monachesimo siro-palestinese. Il vescovo Diadoco di Fotica  (Epiro, fine del V secolo) menziona esplicitamente, per la prima volta, l’invocazione « Signore Gesù », e pone in risalto i sensi spirituali e l’esperienza della pienezza (plerophoria).
Dello stesso Massimo il Confessore sono riprese le Centurie sulla carità, a cui seguono i duecento Capitoli sulla teologia e sull’economia dell’incarnazione del Figlio di Dio e i cinquecento Capitoli vari sulla teologia e l’economia, sulla virtù e il vizio. Non ci si soffermerà mai troppo sull’immensa sintesi di Massimo, né è possibile presentarla in poche parole. Ci limitiamo a rilevare, essendo divenuto uno dei tratti salienti della via filocalica, il ruolo della « contemplazione naturale » (physikè theoria) che permette di discernere il Logos attraverso il velo trasparente della natura e delle Scritture.
Poi, all’incrocio tra il primo e il secondo millennio cristiano, nel cuore stesso di Costantinopoli, troviamo l’esplosione carismatica con i due Simeone, l’Anziano e il Nuovo Teologo, che continuerà con il discepolo del secondo, Niceta  Stethatos. In questi autori l’essenziale è il « battesimo dello Spirito », l »‘improvvisamente » della grazia e la relativizzazione della gerarchia dinanzi alla libera esperienza della Luce.
Alla fine del XIII e nel XIV secolo, in un’epoca tragica per la chiesa « greca » a motivo delle invasioni da oriente (turchi e mongoli) e da occidente (lo smembramento dell’impero bizantino dopo la quarta crociata, i cavalieri teutonici), delle guerre civili in ciò che restava di Bisanzio e della spinta serba nei Balcani, la via esicasta è riadattata e trasmessa in parte per iscritto. La forte sintesi palamita unisce esperienza e teologia, impedendo a quest’ultima di trasformarsi, come in occidente, in scienza speculativa. Un quarto della Filocalia è dedicato all’opera di Gregorio Palamas con, come è noto, le Triadi in difesa dei santi esicasti e i Capitoli fisici, teologici, etici e pratici. In tal modo si precisa l’antinomia tra il Dio inaccessibile, essenza sovraessenziale, e il medesimo Dio che, per amore, si rende partecipabile nelle sue « energie », cioè tramite le sue operazioni che ne comunicano la vita e la luce. Seguono i grandi mistici della seconda metà del XIV secolo, Callisto e Ignazio Xanthopouloi, Callisto Telikoudes e Callisto Kataphyghiotes.
La Filocalia si conclude con una mezza dozzina di piccoli trattati, tradotti (spesso molto liberamente) in greco moderno. Se si eccettuano due estratti della vita di Massimo il Kausokalyba (il « brucia capanne », perché rifiutava tutte le installazioni stabili all’Athos) e di Gregorio Palamas, si tratta di indicazioni concrete sull’uso della preghiera esicasta per aiutare coloro, monaci o semplici laici, che avrebbero voluto dedicarvisi:

- di un anonimo, Sulle parole della santa preghiera: Signore Gesù Cristo, Piglio di Dio, abbi pietà di me.

- di un altro anonimo, un trattato sul Kyrie eleison il cui uso giaculatorio precede di solito quello dell’invocazione del Nome di Gesù.

- attribuito a Simeone il Nuovo Teologo, in realtà più tardo, il Metodo, sui tre modi della preghiera.

- di Gregorio il Sinaita, grande difensore e propagatore della preghiera di Gesù all’Athos e in Bulgaria attorno al 1300, Come ciascuno deve dire la preghiera.

La via

La via filocalica implica una concezione unitaria dell’uomo e presuppone che tutto l’uomo, anima e corpo, si faccia preghiera, diventando pura relazione con Dio attraverso Gesù Cristo, e prenda così coscienza della propria resurrezione nel Risorto. L’intelletto deve porre le sue radici nel « cuore », dove l’uomo è chiamato a unificarsi e a superarsi, cioè a scoprire in se stesso, come dice Nicodemo, « il regno di Dio, il tesoro nascosto nel campo del cuore ». Questa discesa dell’intelletto si compie nell’ invocazione della presenza di Gesù e attraverso tale presenza, cioè mediante l’invocazione del suo Nome. A partire dall’Athos del periodo bizantino, la formula abitualmente impiegata è: « Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me ».
Formula implicitamente trinitaria:
- la parola « Signore » confessa la divinità di Gesù;
- la parola « Dio », come in tutto il cristianesimo antico, designa il Padre, sorgente della divinità;
- la parola « Cristo », cioè l’unto, evoca lo Spirito nel quale il Cristo è generato e che costituisce l’unzione messianica del Figlio.
Il Nome è invocato seguendo il ritmo del respiro, immagine in ogni essere umano del Soffio divino, poiché, come dice Giovanni Damasceno, « lo Spirito è l’enunciazione del Verbo ». Il corpo umano è destinato a divenire « tempio dello Spirito santo » (1Cor 6,19); il respiro lo si può non tanto dominare (non facciamo dello yoga), bensì offrire, pacificare, al fine di rappacificare tutto il nostro essere. L’ingiunzione evangelica e paolina di « pregare senza interruzione » presuppone (e permette di comprendere) che la preghiera rappresenti l’essere stesso dell’uomo, la relazione che lo costituisce, la risposta dell »‘immagine » al suo archetipo che, a poco a poco, la rende « somigliante ».
La formula non è un mantra. Molte altre formule, più brevi o più lunghe, sono state usate; ancora oggi il Kyrie eleison è spesso utilizzato prima di iniziare la vera e propria invocazione del Nome di Gesù.
Il « metodo » risale al monachesimo delle origini, e forse è radicato nella mistica ebraica della merkabah, il carro di fuoco del profeta Elia, carro al quale viene assimilato il cuore che, al culmine della preghiera, risulta come incendiato. La ripetizione di una breve formula per concentrare l’intelletto è universale, dallo hata-yoga indiano al nembutsu dell’amidismo giapponese (quanto al dhikr dei sufi, sembra che siano stati questi ultimi a mutuarlo dai monaci del cristianesimo orientale  i quali tuttavia non cercano mai la trance ).
L’uso esicasta di tali tecniche, nondimeno, è fondamentalmente biblico e cristiano.
La postura raccomandata simboleggia la supplica di fronte al Trascendente: essa non esprime padronanza e serenità, ma un appello de profundis, a capo chino, spalle dolorosamente incurvate, e qualche volta con la testa tra le ginocchia, come Elia sul Carmelo (cf. 1Re 18,42), così che il corpo in preghiera indica l’Altro. Il contesto è ascetico, non per schiacciare la natura, ma per liberarla dagli elementi di morte che la imprigionano, per strappare le pelli morte, affinché la vita stessa del Cristo possa penetrare nella natura e farla risorgere. L’ascesi, certo, è digiuno, castità e vigilanza (népsis).
- Il digiuno, non solamente dal cibo ma anche dalle « passioni », soprattutto dalla maldicenza, permette contemporaneamente ritiro e apertura, leggerezza interiore e accoglienza.
- La castità unifica l’anima e il corpo in uno slancio di comunione, sia essa relazione fedele nel matrimonio, o invece esaltazione e consumazione dell’ éros nell’agàpe divina (che la Filocalia, più spesso chiama éros), in modo che il monaco diventi « separato da tutti e unito a tutti ».
- La veglia è l’attesa dello Sposo che viene nel mezzo della notte, illuminando in maniera pasquale le tenebre. Gli esicasti praticano il sonno breve e interrotto, la veglia notturna, in parte liturgica, e in parte dedicata alla « preghiera di Gesù », come l’ha richiesta ai suoi monaci il padre spirituale contemporaneo Iosiph l’Esicasta.

Così articolata, la via esicasta comporta tre tappe principali:
- la pràxis,
- la physikè theoria,
- la théosis.

La pratica (« pràxis »)

E’ il combattimento – la « pratica »  per la custodia dei comandamenti, per liberarsi dalle « passioni » e cominciare a prendere coscienza della grazia battesimale. Le « passioni » sono le idolatrie, le illusioni che s’impadroniscono dell’uomo, lo « possiedono » (nel senso di una possessione diabolica), lo traviano, o  gli fanno cambiare direzione oppure bloccano le sue forze originariamente buone. La passione principale è la morte, che affascina l’uomo e al tempo stesso lo riempie di angoscia. La chiave della metànoia, che è il ribaltamento di tutto il nostro modo di cogliere il reale, è dunque la « memoria della morte », con la quale l’uomo, scoprendo in sé questo abisso, vi scopre altresì il Cristo che non cessa di discendere agli inferi per riportarlo alla vita. E’ l’esperienza, sempre da rinnovarsi, della grazia battesimale: « Grazia perfetta del santissimo Spirito che il Signore ha effuso nei nostri cuori come seme divino attraverso il battesimo », scrive Nicodemo. Il battesimo (la Filocalia ne parla molto di più che dell’eucaristia, citata solitamente in termini fortemente metaforici o in testi tardivi) è così la « radice della nostra resurrezione ». Il « dono delle lacrime » esprime questo rovesciamento: lacrime « ascetiche » anzitutto, quando scandagliamo l’abisso della morte; lacrime « pneumatiche », spirituali, quando comprendiamo con tutto il nostro essere che Cristo si frappone tra il nulla e noi, e dunque che il nulla non esiste più.

Nell’ascesi – la pràxis -, come in seguito nella contemplazione, la Filocalia rifiuta ogni immaginazione; tuttavia l’esicasta vive in un mondo di icone, cioè di immagini che egli attraversa per diventare a sua volta icona. Nel dialogo tra Massimo il Kausokalyba e Gregorio il Sinaita, Massimo, interrogato sullo sbocciare in lui della preghiera continua, spiega che il suo cuore è stato infiammato da un raggio di fuoco scaturito da un’icona della Madre di Dio.
Le « passioni » mascherano e al tempo stesso vendono a basso prezzo quella passione fondamentale che è la morte. La Filocalia ne enumera sette o Otto: l’avidità (l’ingordigia), la dissolutezza, l’avarizia, la collera (che comprende l’odio e l’invidia), la tristezza (« tristezza per la morte », dice san Paolo), la pigrizia (come torpore spirituale), la vanagloria e l’orgoglio. Due di esse, l’avidità e l’orgoglio, sarebbero le « madri » delle altre; entrambe esprimono il ripiegamento del mondo attorno all’io (ciò che Massimo chiama philautia), un narcisismo spirituale.
Nella vita di chi ha fatto esperienza della resurrezione, al posto delle passioni si sostituiscono le « virtù », oppure la passione è trasformata in virtù attraverso la liberazione e « pneumatizzazione » della forza che quella passione monopolizzava. Le virtù sono forze « divino-umane », nella misura in cui in Cristo e per mezzo di lui le forze dell’umano sono vivificate dalle energie divine di cui esse sono un riflesso.
Le « virtù » – fede, timore di Dio, umiltà, continenza, pazienza, mitezza, speranza -, hanno il loro culmine nell’impassibilità (apdtheia) che ne è la sintesi. « L’impassibilità, dice Massimo il Confessore, non esclude affatto l’amore, ma lo genera ».  Infatti, l’impassibilità apre l’uomo all’amore di Dio per le sue creature. Essa cambia il nostro rapporto con il tempo: quest’ultimo non tende più al nulla, ma al Regno, e l’angoscia è sostituita dalla speranza. Chi sa – mediante una conoscenza amorosa – che il Cristo è risorto, e che dunque è presente in lui, in ogni essere e in ogni cosa, può « amare i propri nemici », come richiede l’Evangelo, e può « abbattere il muro di separazione che noi stessi abbiamo costruito », come dice Giovanni Climaco. L’impassibilità affina sentimenti, intuizioni, impressioni, essa permette di « sentire » gli altri come se fossimo dentro di loro, e consente di esprimere attenzione e delicatezza pur mantenendo un certo distacco. Essa è libertà interiore. Nello stesso tempo, l’uomo riceve con essa una dignità umile e regale: « Sii come un re nel tuo cuore, sul trono dell’umiltà. Tu comandi al riso di venire, ed egli viene. Tu comandi alle lacrime di venire, ed esse vengono. Tu comandi al corpo, non più tiranno ma servo: fa’ questo, ed egli lo fa ».

La contemplazione della natura (‘physikè theorìa »)

Una volta purificato e unito al cuore, l’intelletto diventa capace di penetrare la realtà creata con una profondità che sorpassa ogni altra forma di conoscenza, come per una sorta di anticipazione escatologica. Infatti, scrive Massimo nella sua Mistagogia, « il mondo intelligibile (spirituale) nella sua interezza sembra impresso nel sensibile in maniera misteriosa, e in forme simboliche per coloro che sanno vedere, e l’intero mondo sensibile è contenuto in quello intelligibile … Il loro operare è come quello di una ruota dentro a un’altra ruota, come dice il grande veggente Ezechiele quando parla, come mi sembra, di questi due mondi ».
Il Logos, dice Massimo, è il soggetto divino di tutti i logoi, parole essenziali che reggono le cose. L’uomo loghikòs, immagine personale del Logos, è chiamato a diventare il loro soggetto umano. Lo diventa in Cristo, attraverso di lui rivela queste parole essenziali, nello Spirito, non per appropriarsene ma per offrirle dopo aver dato loro un « nome », secondo il comando ricevuto da Dio nella Genesi, cioè dopo aver impresso su di esse il suo genio creatore. « Tutto prega, tutto canta la gloria di Dio », scriveva il pellegrino russo, aggiungendo altrove: « Compresi anche ciò che la Filocalia chiama la conoscenza del linguaggio della creazione, e vidi come è possibile parlare con le creature di Dio ».
Questa « contemplazione della natura », particolarmente cara alla tradizione ortodossa, può non soltanto permetterci di approfondire la conoscenza razionale, come ha sottolineato padre Dumitru Staniloae, ma anche donare senso e gusto a ogni cultura umana. Uno dei più grandi poeti del XX secolo, Rainer Maria Rilke, non ha forse scritto, per definire la propria arte, che essa consisteva nel « raccogliere il miele del visibile nel grande alveare d’oro dell’invisibile »?  
Per Massimo il Confessore il mondo, quando lo si vede alla luce dei logoi divini, appare come un’immensa eucaristia: le essenze delle cose sensibili sono il « corpo » di Cristo e quelle dei mondi spirituali il suo sangue . La « contemplazione della natura può, in effetti, diventare anche visione dei mondi angelici e delle cose future.
Se il mondo è una « prima Bibbia », l’altra incorporazione del Verbo che offre le chiavi per comprendere la prima è la Scrittura. In Cristo, infatti, la Parola cessa di essere ombra e mistero.
Lo stesso Spirito agisce nelle profondità del mondo, in quelle della Scrittura e nel cuore dell’uomo. La lettura orante della Scrittura ha dunque anch’essa un sapore eucaristico. All’infuori della « preghiera di Gesù », il solo metodo di preghiera indicato dalla Filocalia è tale lettura. In modo particolare la recitazione dei salmi: « Quando ci lasciamo penetrare dagli stessi sentimenti con cui il salmo è stato composto, è come se ne diventassimo gli autori … l’anima si apre a Dio con gemiti inesprimibili ». Quando un’espressione fa trasalire il cuore bisogna fermarsi, restare immobili e lasciar penetrare dolcemente in tutto il nostro essere questo tocco divino.
« Così si accede alla seconda tappa », scrive Staniloae, « ora il Logos divino si mostra attraverso il velo trasparente della natura e della Scrittura … questa visione si chiama contemplazione naturale, non perché si realizzi con l’aiuto esclusivo delle potenze della conoscenza  – essa è sempre sostenuta e pervasa dalla grazia -, ma perché da una parte si dirige verso la natura esteriore, e dall’altra presuppone una natura umana restaurata ».

La deificazione (« théosis »)

Sullo sfondo sempre necessario della metànoia, il cuore-spirito è incendiato da una luce che viene dall’aldilà, che non è interiore né esteriore. Esso passa attraverso un succedersi di negazioni che, al di là delle affermazioni e delle negazioni stesse, divengono « preghiera pura, pura attesa, in cui avviene, o attraverso un susseguirsi di sprazzi di una grande dolcezza, o nell »‘improvvisamente » caro a Simeone il Nuovo Teologo, l’irrompere del fuoco e quindi della luce. « Nella sovrabbondanza della sua bontà, Dio », scrive Gregorio Palamas, « esce in qualche modo dal suo abisso, esce da sé, dalla sua trascendenza, e si unisce a noi attraverso un unione al di là di ogni comprensione … E perché non dovrebbe discendere, lui che è disceso fino ad assumere un corpo, un corpo di morte e di morte sulla croce? ».
Il luogo – l’ òrganon -  della deificazione, è infatti Cristo, e più in particolare la sua morte-resurrezione. L’anima, trascinata, sollevata dallo Spirito negli spazi trinitari, partecipa all’eterna nascita del Figlio, intuisce l’abisso del Padre e, come ha sottolineato recentemente padre Boris Bobrinskoy, la sua misericordia smisurata.  Mistero, in Dio stesso, dell’unità nell’alterità e dell’alterità nell’unità. « Dimore » innumerevoli della casa del Padre. En-stasi ed estasi simultanee.
Questa « piccola resurrezione », di cui parla Evagrio Pontico negli Apoftegmi, anticipa la parusia. Nella « preghiera pura », l’intelletto unito al cuore « vede il proprio stato come simile allo zaffiro o al colore del firmamento ». Tuttavia l’anima cristiana, nella sua umiltà e nel suo desiderio non si dissolve in questa luce interiore: muore a se stessa per ritrovare, nell’unione stessa, l’alterità di Dio, e del prossimo. Allora avviene l’infinito incontro: « Talvolta è una gioia ineffabile e di grandi slanci … altre volte, tutta l’anima scende e si tiene nascosta in abissi di silenzio … a volte, infine, l’anima è a tal punto ricolma di dolorosa tenerezza, che solo le lacrime la possono lenire ». Più Dio riempie l’anima della sua luce, più essa si distende verso la sorgente sempre al di là di questa luce, per ricevere ancora e desiderare ancora di più, all’infinito: « L’amore è un abisso di luce, una sorgente di fuoco. Più cola, più rende assetato chi ha sete … Per questo l’amore è un’eterna progressione ».
Il criterio di un autentico progresso spirituale, diceva lo starec Silvano, è l’amore per i nemici. Tutti gli uomini, in Cristo, appaiono « membri gli uni degli altri », l’unico Adamo nell ‘ultimo Adamo. Nello stesso tempo, ognuno è differente e incomparabile.
« Fratello io ti raccomando questo: che in te il peso della compassione faccia pendere la bilancia fino a che tu possa sentire nel tuo cuore la compassione stessa che Dio ha per il mondo » (Isacco il Siro).
« Sorge in me, dentro il mio povero cuore, come il sole … io so che non morirò, perché sono dentro la vita e perché ho l’intera vita che scaturisce dentro di me » (Simeone il Nuovo Teologo).

Destino della « Filocalia »

Se, da una parte, Nicodemo ha elaborato la Filocalia – vera enciclopedia della luce increata – per far fronte all’enciclopedia degli illuministi francesi, egli è nondimeno un bell’esempio di grande spirituale aperto al senso creatore della storia. Così, si è interessato a certe forme occidentali d’ascesi e di mistica, che egli riteneva convergenti con le vie della propria tradizione. Ha tradotto e adattato – aggiungendo per l’appunto un capitolo sulla preghiera di Gesù – il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli, un teatino napoletano, divenuto il Combattimento invisibile, e una parafrasi, realizzata da un religioso veneziano, degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola.
Diffusa in Grecia da alcuni monaci scacciati dall’Athos all’epoca della disputa dei collivadi, la Filocalia non è stata ripubblicata in questo paese che nel 1893. In compenso, nel XX secolo, la grande edizione del 1957-1963, ripresa nel 1974-1976, ha favorito il rinnovamento filosofico e teologico – su tutti il nome di Christos Yannaras – e la nuova fioritura della vita monastica, soprattutto all’Athos, con gli scritti di Iosiph l’Esicasta (+ 1954) e Paisios di Cappadocia (+ 1995). E’ così che all’Athos, in certi monasteri, le prime ore della notte sono dedicate alla preghiera di Gesù, cosa che implica una certa riduzione degli uffici liturgici: ricorso al silenzio e alla centralità della persona contro un comunitarismo talvolta un po’ pesante.
Già nel XIX secolo, un rinnovamento filocalico profondo s’era prodotto nei paesi romeni e soprattutto in Russia (che a quei tempi comprendeva l’Ucraina). Il ruolo essenziale fu espletato da uno starec ucraino: Paisij Velickovskij. Questi era nato a Poltava, sua nonna era ebrea, e si può quindi ipotizzare un qualche contatto tra neo-chassidismo e neo-esicasmo. Disgustato dall’insegnamento mediocremente scolastico dell’Accademia di Kiev, egli si rifugiò in Moldavia, dove sembra fu iniziato alla tradizione esicasta dallo starec Basilio di Poiana Màrului (del resto senza trovare in lui quel padre spirituale che mai riuscirà a trovare). Dopo un soggiorno all’Athos, dove divenne padre di diverse decine di monaci, lui che era stato orfano, Paisij trovò il suo vero posto in Moldavia, dove diresse, a Neamt soprattutto, questa volta alcune centinaia, anzi quasi un migliaio di discepoli. Là egli organizzò gruppi di traduttori e con essi procedette alla pubblicazione dei testi patristici e infine della Filocalia. Questa, tradotta in slavone, fu pubblicata in Russia nel 1793. Paisij, che aveva ricevuto il dono delle lacrime, morì il 5 dicembre 1794.
I suoi discepoli russi portarono al cuore della Russia la preghiera esicasta, facendo rivivere la tradizione di Sergio di Radonezv, Nil Sorskij e Massimo il Greco, tradizione sepolta sotto l’illusoria edificazione di una società sacrale.
Preghiera del cuore e paternità spirituale rinnovarono la vita monastica e permisero ad alcuni grandi starcy di toccare una parte importante dell’intelligencija.
La stirpe degli starcy di Optina è particolarmente conosciuta. Essa culmina nella figura di alta spiritualità e di grande cultura dello starec Ambrogio (+ 1891) che conobbe Dostoevskij, Solov’ev e Leont’ev.
I Racconti di un pellegrino russo, apparsi a Kazan’ verso il 1870, precisano il « metodo » mostrando come coordinare, per l’invocazione, il ritmo del respiro e i battiti del cuore.
Il vescovo Teofane il Recluso compila una grande Filocalia russa (Dobrotoliubie, amore del bello), pubblicata nel 1877; egli esclude da essa i capitoli propriamente « teorici », al tempo stesso speculativi e contemplativi, e tralascia gli aspetti « tecnici » del « metodo » (l’utilizzo del respiro, il luogo del cuore, la luce interiore). In compenso sviluppa la dimensione morale e affettiva, incorporando nella sua edizione ampi testi di Efrem il Siro, Doroteo di Gaza e Teodoro Studita.
La Filocalia russa riflette la sensibilità di un’epoca segnata dal pietismo. Monaci e laici si sono nutriti di questi testi, il che conferisce alla loro spiritualità un certo fervore psicologico a tratti lirico.
Purtroppo, nel 1912-1913, una dottrina un po’ rozza, l’onomatodossia (o onomatolatria, per i suoi detrattori) si sviluppa tra i monaci russi dell’Athos. Gli onomatodossi ritengono divino il Nome stesso di Gesù. Il Sinodo della chiesa russa chiede l’intervento dello stato, che invia alcune navi da guerra di fronte alla penisola athonita; i fucilieri di marina sbarcano e arrestano i monaci compromessi. Questi vengono esiliati nel Caucaso dove, più tardi, saranno massacrati dai bolscevichi. Questa vicenda sconvolse gli ambienti intellettuali dell’ortodossia russa. Berdjaev scrisse un violento articolo contro « coloro che soffocano lo Spirito ». In tali ambienti, la teologia ufficiale, soprattutto morale e psicologica, fu sostituita da una teologia « ontologica » e da una profonda riflessione sul linguaggio.
In terra romena, fino alla secolarizzazione massiccia degli anni sessanta del XIX secolo, che inflisse un colpo tremendo al monachesimo e ai suoi legami con l’Athos, si continuò, sulla scia di Paisij, la costituzione di un’importante biblioteca patristica e bizantina, comprendente le opere di Simeone il Nuovo Teologo e di Gregorio Palamas; al monastero di Cernica, il movimento paisiano assunse una diversa sfumatura, nel senso di un più grande servizio sociale, ad opera dell’ igumeno Calinic. Dopo il 1860, la tradizione filocalica si perse, eccetto in qualche eremitaggio.
È alla vigilia del secondo conflitto mondiale, in un’epoca di rinnovamento letterario e filosofico, che si opererà in Romania una riassunzione dei fondamenti della vita spirituale. Verso il 1935, padre Dumitru Staniloae, allora professore all’Accademia teologica di Sibiu, pubblica uno studio su La vita e l’opera di san Gregorio Palamas (Sibiu 1938), con la traduzione di quattro brevi scritti di quest’ultimo. In tal modo, nonostante i tempi non siano propizi, Staniloae finisce per progettare una traduzione della Filocalia. Egli non esita, per stabilire i testi, a utilizzare i lavori degli eruditi occidentali, e soprattutto commenta e spiega questi testi sia nella prospettiva della tradizione, sia in quella delle ricerche della cultura contemporanea e alla luce dei problemi posti da quest’ultima. Egli cita i filosofi religiosi russi della sua epoca, pensatori francesi come Maurice Blondel, o tedeschi come Martin Heidegger. All’indomani della guerra e prima della totale presa di potere comunista nel paese, la sua impresa si colloca in un rinnovamento globale della vita esicasta, con circoli di monaci e di laici come il « Roveto ardente ». Così appaiono dieci volumi dal 1945 al 1948, data del colpo di stato totalitario, e poi dal 1965 (nel frattempo padre Dumitru era stato imprigionato) al 1981, epoca della svolta nazionalista del regime.

« Non è sufficiente comandare all’uomo, con belle parole, di vivere secondo la volontà di Dio; bisogna guidarlo … e mostrargli come progredire … verso la luce della conoscenza di Dio … è per questo che gli scritti filocalici ritengono così importante la custodia della mente. Si arriva a vincere realmente le proprie passioni solo quando si è abituati a scrutare attentamente ciascun pensiero per scacciarlo spontaneamente se esso è malvagio, o purificarlo e rivestirlo della memoria (anamnesi) di Dio ».

L’ordine di presentazione dei testi fu da principio cronologico, ma il secondo e terzo volume sono interamente dedicati a Massimo il Confessore. Il secondo volume contiene anche il Liber asceticus e le Quaestiones et dubia, il terzo volume le Quaestiones ad Thalassium. Si trattava di far fronte all’invasione di un marxismo che pretendeva di essere totalizzante ed esclusivo, offrendo una visione d’insieme del pensiero cristiano, e l’opera di Massimo rappresenta la piena maturità della grande patristica. I commenti di padre Dumitru assumono così l’ampiezza di un vero e proprio trattato. « È una legge suprema – conclude Staniloae : tutto ciò che è mortale deve morire per ricevere la resurrezione … O la creatura, se vuole vivere per Dio, s’immola misticamente in Lui, oppure è uccisa dal suo stesso rifiuto. Bisogna scegliere una morte: o la morte verso la vita, o la morte verso la morte ».
Il quarto e quinto volume presentano i padri ascetici dal VII al X secolo, tra i quali molti sinaiti, come nella Filocalia greca. Il sesto volume è dedicato a Simeone il Nuovo Teologo. Il settimo ai grandi bizantini: Niceforo, Teolepto, Gregorio il Sinaita e Gregorio Palamas (a partire dai testi stabiliti per l’edizione greca di Chrestou). L’ottavo volume comprende Callisto e Ignazio Xanthopouloi, Callisto Anghelikoudes, Callisto Kataphyghiotes e una storia dell’esicasmo in Romania. Il nono volume riporta il testo completo della Scala di Giovanni del Sinai (Climaco). Il decimo volume è dedicato a Isacco il Siro.
A differenza della Fiocalia russa di Teofane il Recluso, questa Filocalia riprende e sviluppa lo spirito speculativo e mistico così come il « metodo » corporeo. Sono anche aggiunti alcuni testi di Massimo il Confessore e di Gregorio Palamas. L’insieme ha un carattere fortemente teologico e dogmatico.

L’ultimo episodio, per il momento, di questo destino, è l’incontro tutt’ora in corso tra l’occidente e la Filocalia. La strada è stata aperta nel  1953  con la pubblicazione della Petite philocalie de la prière du coeur,  lunghi estratti molto ben tradotti e presentati da Jean Gouillard e presto riprodotti anche nelle principali lingue dell’Europa occidentale. I testi sono nello stesso ordine seguito dalla grande Filocalia greca, le note fanno il punto delle ricerche.
Poi sono venute le traduzioni integrali: in inglese nel 1979-1984 (a cura di Gerald E. H. Palmer, Philip Sherrard e Kallistos Ware); in italiano, nel 1982-1987 (a cura di alcune monache di Monteveglio); in francese, in fascicoli e poi in edizione completa nel 1995 (a cura di Jacques Touraille).
La diaspora russa ha certamente giocato un ruolo importante in questa diffusione, dato che le scuole neo-patristica e neo-palamita consideravano la Filocalia e l’esicasmo come la messa per iscritto contemplativa dell’esperienza cristiana. Tuttavia questa corrente è sfociata piuttosto in un notevole sviluppo della teologia sacramentale; tra i suoi grandi rappresentanti, solo Boris Bobrinskoy ha tentato di stabilire un legame tra l’esicasmo e tale spiritualità eucaristica.
Sono personalità isolate come André Scrima, il « monaco della chiesa d’Oriente » (Lev Gillet), Kallistos Ware, Elisabeth Behr-Sigel, che hanno fatto conoscere la « preghiera del cuore ». E forse soprattutto le molte traduzioni dei Racconti di un pellegrino russo.
La Filocalia era attesa, ed è stata profondamente recepita. La sete di vita spirituale è immensa. Crescono l’interesse per l’India e il buddismo, si inizia ad abbozzare un’antropologia capace di integrare il corpo con il cosmo. Ed ecco che appare, con la Filocalia, un cristianesimo che pur non ignorando alcun elemento delle tecniche ascetiche è però al servizio della persona e della comunione, e non di una mistica fusionale. Certo, le ambiguità non mancano: alcuni, del « metodo », considerano solo ciò che è più o meno simile al dhikr o al nembutsu. Ci si trova allora in pieno sincretismo. Ma altri, molto più numerosi, pregano la « preghiera di Gesù » perché lo amano e perché sentono in tal modo risvegliarsi il loro cuore.
Conosco molti monaci e laici, cattolici, anglicani, protestanti, veri « cercatori di Dio » al di là di ogni appartenenza confessionale che, nella discrezione e nel silenzio, sono impegnati su questa via. Tutta la loro visione di Dio, dell’uomo, della cultura ne risulta riplasmata.
La maggior parte degli ortodossi sono ignari di tutti questi sviluppi. E tuttavia, nella situazione attuale, piena di pericoli e promesse, si tratta di una immensa e feconda responsabilità.

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Traduzione dal francese a cura della Comunità di Bose

Publié dans:Ortodossia |on 19 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

È MORTO OLIVIER CLÉMENT

 È MORTO OLIVIER CLÉMENT

CULTURA. Morto a Parigi Olivier Clément
17 gennaio 2009 , dal giornale:

http://beta.vita.it/news/view/88415

Ieri a Parigi è morto un grande intellettuale cristiano ortodosso, un amico e maestro. Sono sue alcune delle letture più belle della mia giovinezza (Riflessioni sull’uomo, Il senso della terra, Il volto interiore, La rivolta dello spirito, tutti da Jaca Book). E l’incontro con lui è stato uno dei più illuminanti della mia vita. Ci incontrammo a Parigi per una lunga intervista sull’amore, su eros e agape, a casa sua. Una casa che nella memoria rimane in me come esempio di casa cristiana nella modernità, con un luogo per la preghiera e con un respiro insieme spirituale e concretissimo (sino nei particolari) che coinvolgeva tutti, la moglie, i figli, gli ospiti. E parlammo a lungo del 68, della religione, della cultura. Da allora, Clément rimase sempre uno dei miei interlocutori privilegiati quando avevo la necessità di capire di più, di dare respiro alle riflessioni nervose cui costringe il lavoro giornalistico.

Del resto il cuore della riflessione di Clément è stata proprio la questione del rapporto tra cristianesimo e modernità, una riflessione che ha attraversato tutte le questioni: dall’ateismo al posto del corpo, dal problema della morte al legame perduto con il cosmo, dalla terra alla bellezza.

Clément aveva 87 anni. Ne ha dato notizia ieri sera il « Service orthodoxe de presse », Sop, che lo presenta come « uno dei testimoni più significativi dell’ortodossia in Occidente nella seconda metà del 20° secolo ». Ed aggiunge: Olivier Clément « è stato colui che, senza dubbio, ha saputo mostrarsi sempre attento agli interrogativi della modernità, che ha cercato di affrontare attraverso una riflessione potente e poetica, radicata nella tradizione del Chiesa, ma al tempo stesso creatrice e innovativa ». Nato nel 1921, Olivier Clement ha dedicato gran parte della sua vita e della sua ricerca per facilitare l’incontro tra l’Oriente e l’Occidente cristiani. E’ stato un uomo di dialogo, e come tale interlocutore di diverse personalità spirituali del nostro tempo: dal Patriarca Atenagora a papa Giovanni Paolo II al fondatore della comunità ecumenica di Taizé, frère Roger con i quali era legato da rapporti di fiducia e di amicizia. Nel 1998, fu scelto da Giovanni Paolo II per scrivere le meditazioni che furono lette quell’anno durante la via crucis del Venerdì Santo al Colosseo.

Ci si vede Olivier.

Publié dans:Ortodossia |on 19 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno orchidea-selvatica
http://www.valbrembanaweb.it/valbrembanaweb/gallery/2_flora/index.html

Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 19 janvier, 2009 |Pas de commentaires »
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