Archive pour janvier, 2009

Paolo: un aborto convertito alla Vita

dal sito:
http://www.zenit.org/article-16923?l=italian

Paolo: un aborto convertito alla Vita

III Domenica del Tempo Ordinario e Festa della Conversione di san Paolo

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 23 gennaio 2009 (ZENIT.org).- “Colui che una volta ci perseguitava, ora va annunciando la fede che un tempo voleva distruggere” (Gal 1,23).

La conversione di Saulo in Paolo è un evento che Dio può rinnovare in qualunque tempo e momento, poiché la Sua misericordia è sempre in grado di volgere il male al bene, in modo che la cattiva notizia della persecuzione e dell’avversione al Vangelo, sia trasformata nella buona novella del Vangelo stesso.

Paolo era un nemico acerrimo del Vangelo, perché ai suoi occhi rappresentava il crollo e non il compimento dell’antica Legge, cosa che il suo zelo religioso non poteva tollerare, in nome del Dio di Israele.

E’ lui stesso a raccontarlo oggi: “Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne […] per esservi puniti” (At 22,4-5).

Sembra la confessione a Norimberga di un ufficiale della Gestapo!

Il terrore che il nome di Saulo suscitava nella comunità cristiana, ci permette di presupporre che, a Damasco, la notizia del suo imminente arrivo fosse giunta prima della sua caduta a terra sulla via: una notizia cattiva quanto un annuncio di morte. Chi poteva pensare che Saulo stava invece per giungere a Damasco “guidato per mano”? (At 22,11).

E’ lo stile di Dio e l’essenza stessa dell’evento pasquale, poter suscitare la vita dalla morte, ciò che è bene da ciò che è male, l’impensabile positivo dal suo opposto negativo, come il Risorto ricorda ai discepoli in cammino verso Emmaus: “Stolti e lenti di cuore a credere […] non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,25).

La notizia della crocifissione e morte del Signore Gesù li aveva abbattuti, perché, apparentemente, dava ragione agli stolti descritti dal salmo 14/13, del re Davide: “Lo stolto pensa: ‘Dio non c’è’. Sono corrotti,  fanno cose abominevoli: non c’è chi agisca bene” (v. 1).

Questo salmo, quanto mai attuale, viene intitolato “Il canto dell’ateo”, intendendo con questo termine non tanto colui che nega teoricamente l’esistenza di Dio, quanto piuttosto chi Lo ritiene lontano e indifferente nei confronti dell’uomo e della storia.

Leggo da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi: “Protagonista di questo salmo, che ha il tono di un’invettiva profetica, è l’ ‘ateo’. Il vocabolo ebraico che lo definisce è nabal, il cui significato comprende un ventaglio di possibilità: persona incosciente, irresponsabile,  folle, malvagia, stolta, immorale, assurda. E’ una follia radicale che si misura anche a livello morale […] Il nostro nabal dichiara che è irrilevante per l’uomo che Dio esista o non esista, dato che in ogni caso non interverrà nella nostra storia”

Al tempo di Davide non esistevano gli autobus, ma gli “stolti” circolavano come oggi.

Il messaggio lanciato nel mondo dall’ “Unione atei e agnostici razionalisti” (Uaar) per mezzo degli autobus cittadini,  dimostra tale stoltezza. 

Dice: “La cattiva notizia è che, probabilmente Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno”. E’ questa la versione italiana di uno slogan tradotto da quello inglese: “There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life= probabilmente Dio non esiste; smettila di preoccuparti e goditi la vita”. Questo “probabilmente”, serve a far capire che, anche se Dio esistesse, non avrebbe comunque nulla a che fare con la vicenda umana, sarebbe un “Motore immobile”, un Dio muto, impersonale.

Ma l’iniziativa dei bus atei, io credo, è destinata ad avere l’esito della missione di Paolo in viaggio per Damasco.

Leggiamone il racconto:

“Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me, caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? […] Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti” (22,6-8). Ecco: in un attimo il persecutore trasformato in apostolo.

Ironia della sorte? No, disegno provvidenziale di Dio! Saulo voleva spegnere l’Emittente divina e mettere in carcere gli ascoltatori-ripetitori, ma fu ammutolito e divenne il più formidabile araldo di quella notizia che voleva soffocare ed annientare, la buona notizia del  Vangelo.

Ciò non costituì, tuttavia, una interruzione della sua vita, un’inversione di marcia paragonabile ad uno che dovendo andare da Bologna a Bolzano, si rende finalmente conto di aver imboccato l’autostrada per Bari. Paolo lo afferma chiaramente altrove: “Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia” (Gal 1, 15-16).

Egli fa risalire il piano divino del “blitz” di Damasco (“sono stato afferrato da Cristo Gesù” – Fil 3,12b) all’inizio stesso della sua vita nel grembo materno. In effetti, se la sua fosse stata una “conversione” sarebbe tornato indietro verso Gerusalemme, come nell’esempio autostradale; invece proseguì, accettando di lasciarsi guidare per mano. Damasco, per Paolo, fu anzitutto rivelazione della sua nativa vocazione e missione; il contesto, tuttavia, rende chiaro che nello stesso tempo si trattò di un cambiamento radicale dell’orientamento della sua vita.

Potrei ancora spiegare così, estendendolo ad ognuno di noi: come non esiste soluzione di continuità tra l’inizio della vita umana nel concepimento e il suo termine alla morte, così la vocazione e missione personale che Dio assegna ad ogni uomo (quello di Paolo è un esempio paradigmatico per tutti, anche se il suo caso fu del tutto eccezionale), è una Parola già detta da Dio all’alba dell’esistenza, quando: “ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro” (Sal 139,16). Crescendo, l’uomo deve solo scoprirla, comprenderla e metterla in pratica, alla luce e con la forza della fede.

A questo punto sorge una domanda su Paolo, una domanda ineludibile anche e soprattutto se, a partire da lui, ci si interroga poi sull’iniziativa dei bus-atei: come si spiega, in profondità, l’accanimento con cui Saulo infieriva contro i cristiani? Ovverosia: come si spiega il successo dell’idea dei bus atei, che dalla British Humanist Association è stata ripresa negli U.S.A., in Australia, in Spagna ed ora approda anche in Italia?

Ecco una risposta verosimile, data sul piano delle naturali dinamiche psicologiche, che nulla toglie tuttavia al primato assoluto dell’iniziativa divina, ma anzi lo riconosce radicalmente: “C.G. Jung cercò di spiegare la conversione di Paolo con i suoi termini e concetti psicologici, e scrisse: ‘Saulo era già da tempo un cristiano, ma lo era inconsciamente: così si spiega il suo odio fanatico per i cristiani; perché il fanatismo è sempre presente in coloro che debbono soffocare un dubbio interiore […] Quello che non è in noi, non ci eccita neppure” (Anselm Grun, “Paolo e l’esperienza religiosa cristiana”, p. 22ss).

A sostegno di tale interpretazione, Grun cita la testimonianza resa dallo stesso Paolo: “Nel suo secondo discorso sull’esperienza della conversione, tenuto davanti al re giudeo Agrippa […] Paolo aggiunge queste parole di Gesù: ‘E’ duro per te rivoltarti contro il pungolo’ (At 26,14). Gesù gli spiega in maniera psicologica la persecuzione da lui intrapresa. Paolo non combatte solamente contro Gesù, bensì anche contro la propria convinzione. Nel suo intimo più profondo Saulo sa che cosa è la verità, ma non ne vuole prendere atto. Però a lungo andare non può andare contro il proprio essere. La fede cristiana, così ci dice Luca con questa frase, corrisponde all’essenza dell’uomo spirituale. Nessun uomo che cerca sinceramente, può, a lungo andare, imperversare contro il Cristo in lui presente” (pp. 25-6).

Il “pungolo” citato indica il bastone appuntito utilizzato per spingere il bestiame nella direzione voluta, ed è un modo di dire per significare la forza irresistibile del pungolo della misericordia di Cristo nei confronti del Suo persecutore, predestinato a diventare apostolo. Un pungolo che si vale anche dei meccanismi dell’inconscio. Un pungolo che rappresenta efficacemente la forza sempre vincente dell’Amore e della Vita. Colui che voleva sopprimere Cristo dichiarerà: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).

Al riguardo, in 1 Cor 15,8-9, Paolo narra la grazia di Damasco in termini  insoliti: “Ultimo fra tutti (Cristo) apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio”.

Definendosi un aborto, Paolo non manifesta solamente un senso di indegnità, per la quale Dio avrebbe dovuto scartarlo piuttosto che sceglierlo; egli tocca qui il mistero della vita e della morte, mistero che sta nelle mani di Dio solo, “Autore della vita” (At 3,15a).

Per definizione “aborto” è un cadavere, il corpo morto che viene espulso dal grembo. Paolo si definisce aborto perché egli era morto spiritualmente quando Gesù gli apparve; un aborto al quale il Pungolo divino restituì la vita quando lo afferrò e lo ghermì irresistibilmente sulla via di Damasco, dopo averlo tallonato fin dal grembo di sua madre.

Questa immagine dell’Amore instancabile e seducente di Dio, per contrasto, ne richiama una di segno opposto, suscitata inevitabilmente dalla parola “aborto”. Ha l’aspetto anch’essa di un pungolo, un pungolo di materia plastica tagliato a becco di flauto, un pungolo assassino che va a cercare nel grembo un uomo che tenta disperatamente di sfuggire alla morte. Alla fine lo raggiunge, ed egli muore lanciando un grido che nessuno può udire.

Ogni anno decine di milioni di esseri umani vengono fatti a pezzi così, da medici “persecutori” della Vita. Molti di loro, però, come Saulo, un giorno non hanno potuto più rivoltarsi contro il pungolo della Vita, al punto che ne sono diventati apostoli, e il loro annuncio risuona ancora oggi nel mondo intero.

L’Amore è un’onda più alta della morte, perché è l’onda insopprimibile e divina della Vita, dal concepimento all’eternità. Poiché l’Amore si è fatto carne in Gesù, che è risorto, la Vita ha vinto definitivamente la morte, per Sé e per tutti coloro che credono nel suo nome.  E’ questa la buona notizia che sta circolando da duemila anni, anche sugli autobus atei.

———

* Padre Angelo, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

Publié dans:San Paolo, ZENITH |on 24 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo: Paolo sopportò ogni cosa per amore il Cristo

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/santo/148.html

Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo
Paolo sopportò ogni cosa per amore il Cristo

Che cosa sia l’uomo e quanta la nobiltà dela nostra natura, di quanta forza sia capace questo essere pensante, lo mostra in un modo del tutto particolare Paolo. Ogni giorno saliva più in alto, ogni giorno sorgeva più ardente e combatteva con sempre maggior coraggio contro le difficoltà che incontrava. Alludendo a questo diceva: Dimentico il passato e sono proteso verso il futuro (cfr. Fil 3, 13). Vedendo che la morte era ormai imminente, invita tutti alla comunione di quella sua gioia dicendo: «Gioite e rallegratevi con me» (Fil 2, 18). Esulta ugualmente anche di fronte ai pericoli incombenti, alle offese e a qualsiasi ingiuria e, scrivendo ai Corinzi, dice: Sono contento delle mie infermità, degli affronti e delle persecuzioni (cfr. 2 Cor 12, 10). Aggiunge che queste sono le armi della giustizia e mostra come proprio di qui gli venga il maggior frutto, e sia vittorioso dei nemici. Battuto ovunque con verghe, colpito da ingiurie e insulti, si comporta come se celebrasse trionfi gloriosi o elevasse in alto trofei. Si vanta e ringrazia Dio, dicendo: Siano rese grazie a Dio che trionfa sempre in noi (cfr. 2 Cor 2, 14). Per questo, animato dal suo zelo di apostolo, gradiva di più l’altrui freddezza e le ingiurie che l’onore, di cui invece noi siamo così avidi. Preferiva la morte alla vita, la povertà alla ricchezza e desiderava assai di più la fatica che non il riposo. Una cosa detestava e rigettava: l’offesa a Dio, al quale per parte sua voleva piacere in ogni cosa.
Godere dell’amore di Cristo era il culmine delle sue aspirazioni e, godendo di questo suo tesoro, si sentiva più felice di tutti. Senza di esso al contrario nulla per lui significava l’amicizia dei potenti e dei principi. Preferiva essere l’ultimo di tutti, anzi un condannato, però con l’amore di Cristo, piuttosto che trovarsi fra i più grandi e i più potenti del mondo, ma privo di quel tesoro. Il più grande ed unico tormento per lui sarebbe stato perdere questo amore. Ciò sarebbe stato per lui la geenna, l’unica sola pena, il più grande e il più insopportabile dei supplizi.
Il godere dell’amore di Cristo era per lui tutto: vita, mondo, condizione angelica, presente, futuro, e ogni altro bene. All’infuori di questo, niente reputava bello, niente gioioso. Ecco perché guardava alle cose sensibili come ad erba avvizzita. Gli stessi tiranni e le rivoluzioni di popoli perdevano ogni mordente. Pensava infine che la morte, la sofferenza e mille supplizi diventassero come giochi da bambini quando si trattava di sopportarli per Cristo.(Om. 2, Panegirico di san Paolo, apostolo; PG 50, 477-480)

La celebrazione
Questa celebrazione, già presente in Italia nel sec. VIII, entrò nel calendario Romano sul finire del sec. X. Coclude in modo significativo la settimana dell’unità dei cristaini, ricordando che non c’è vero ecumenesimo senza conversione.
La conversione di Paolo rivela la potenza della grazia che sovrabbonda dove abbonda il peccato. La svolta decisiva della sua vita si compie sulla via di Damasco, dove egli scopre il mistero della passione di Cristo che si rinnova nelle sue membra. Egli stesso perseguitato per Cristo diraà: «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa».

buona notte

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stratocumulus clouds at sunset.

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Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 24 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

Imitazione di Cristo : Consegnato agli uomini e al Padre suo, Cristo ci nutre della Parola e del Pane di vita

dal sito:

http://www.vangelodelgiorno.org/www/main.php?language=IT&localTime=01/24/2009#

Imitazione di Cristo, trattato spirituale del 15o secolo
Libro IV, cap. 11

Consegnato agli uomini e  al Padre suo, Cristo ci nutre della Parola e del Pane di vita.
Tu mi sei testimone, o Dio, che non c’è cosa che mi possa dare conforto, non c’è creatura che mi possa dare contentezza, all’infuori di te, che bramo contemplare in eterno. Ma ciò non è possibile mentre sono in questa vita mortale; … Frattanto terrò, « come conforto » e specchio di vita, i libri santi; soprattutto terrò, come unico rimedio e come rifugio, il tuo Corpo santissimo.

In verità, due cose sento come massimamente necessarie per me, quaggiù; senza di esse questa vita di miserie mi sarebbe insopportabile. Trattenuto nel carcere di questo corpo, di due cose riconosco di avere bisogno, cioè di alimento e di luce. E a me, che sono tanto debole, tu hai dato, appunto come cibo il tuo santo corpo, e come lume hai posto dinanzi ai miei piedi « la tua parola » (Sal 118,105). Poiché la parola di Dio è luce dell’anima e il tuo Sacramento è pane di vita, non potrei vivere santamente se mi mancassero queste due cose.

Le quali potrebbero essere intese come le « due mense » poste da una parte e dall’altra nel prezioso tempio della santa Chiesa; una, la mensa del sacro altare, con il pane santo, il prezioso corpo di Cristo; l’altra la mensa della legge di Dio, compendio della santa dottrina, maestra di vera fede, e sicura guida, al di là del velo del tempio, al sancta sanctorum.

Ti siano rese grazie, Creatore e Redentore degli uomini, che, per dimostrare al mondo intero il tuo amore, hai preparato la grande cena, in cui disponesti come cibo, non già il simbolico agnello, ma il tuo corpo santissimo e il tuo sangue, inebriando tutti i tuoi fedeli al calice della salvezza e colmandoli di letizia al tuo convito: il convito che compendia tutte le delizie del paradiso.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 24 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

buona notte

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Iris sibirica

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Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 23 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

Concilio Vaticano II, LG : « Chiamò a sé quelli che egli volle »

dal sito:

http://www.vangelodelgiorno.org/www/main.php?language=IT&localTime=01/23/2009#

Concilio Vaticano II
Constituzione dogmatica sulla Chiesa « Lumen Gentium », § 18-19

« Chiamò a sé quelli che egli volle »
Il santo Sinodo, sull’esempio del Concilio Vaticano primo, insegna e dichiara che Gesù Cristo, pastore eterno, ha edificato la santa Chiesa e ha mandato gli apostoli, come egli stesso era stato mandato dal Padre, e ha voluto che i loro successori, cioè i vescovi, fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli. Affinché poi lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione…

Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il regno di Dio; ne fece i suoi apostoli dando loro la forma di collegio, cioè di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro. Li mandò prima ai figli d’Israele e poi a tutte le genti affinché, partecipi del suo potere, rendessero tutti i popoli suoi discepoli, li santificassero e governassero, diffondendo così la Chiesa e, sotto la guida del Signore, ne fossero i ministri e i pastori, tutti i giorni sino alla fine del mondo. In questa missione furono pienamente confermati il giorno di Pentecoste secondo la promessa del Signore: « Riceverete una forza, quella dello Spirito Santo che discenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e sino alle estremità della terra ».

Gli apostoli, quindi, predicando dovunque il Vangelo, accolto dagli uditori grazie all’azione dello Spirito Santo, radunano la Chiesa universale che il Signore ha fondato su di essi e edificato sul beato Pietro, loro capo, con Gesù Cristo stesso come pietra maestra angolare. La missione divina affidata da Cristo agli apostoli durerà fino alla fine dei secoli, poiché il Vangelo che essi devono predicare è per la Chiesa il principio di tutta la sua vita in ogni tempo.

Riferimenti biblici : Gv 20,21; Mc 3,13-19; Mt 10,1-42; Lc 6,13; Gv 21,15-17; Rm 1,16; Mt 28,16-20; Mc 16,15; Lc 24,45-48; Gv 20,21-23; Mt 28,20; At 2,1-36; At 1,8; Mc 16,20; Ap 21,14; Mt 16,18; Ef 2, 20; Mt 28,20.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 23 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

San Basilio : Bellezza del mare

dal sito:

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20030114_basilio_it.html

Basilio il Grande, Esamerone, 4,6-7
Bellezza del mare

« E Dio vide che era bello ». La Scrittura non intende affermare che il mare abbia offerto agli occhi di Dio uno spettacolo affascinante. Il Creatore, infatti, non contempla con gli occhi la bellezza della creazione, ma osserva i fenomeni con la sua ineffabile sapienza.

È davvero uno spettacolo magnifico quello offerto dalla distesa del mare biancheggiante di spuma, mentre vi regna una calma sovrana; ovvero quando la superficie delle acque, increspata da un venticello leggero, mostra a chi guarda un colore purpureo o azzurro. Gradevole è anche contemplare il mare, non quando flagella con violenza la terra vicina, ma quando l’abbraccia con pacifici amplessi.

Ciò nondimeno, non è da ritenersi, secondo quanto afferma la Scrittura, che la vista del mare fu per Dio bella e gradevole: lì, invece, il mare è giudicato bello in rapporto all’insieme della creazione. Anzitutto perché l’acqua del mare costituisce la fonte e l’origine di tutta l’umidità della terra… Essa, infatti, riscaldata dai raggi del sole, si trasforma in vapore acqueo che, levandosi sempre più in alto e raffreddandosi quando manchi la rifrazione dei raggi dal suolo, producendo nello stesso tempo la fresca ombra delle nubi, genera la pioggia e rende più fertile la terra. Di ciò, nessuno che abbia visto riscaldare dei recipienti, può dubitare. Questi infatti, in origine pieni di liquido, spesso rimangono vuoti quando tutto ciò che veniva riscaldato si sia dissolto sotto forma di vapore. Anzi, si può anche vedere come l’acqua del mare venga bollita dai marinai che, raccogliendone il vapore a mezzo di spugne, provvedono in qualche modo, ove fosse necessario, alla carenza d’acqua.

Il mare è anche bello (ma in modo diverso secondo il punto di vista di Dio) perché circonda le isole, offrendo loro ornamento e sicurezza; e perché congiunge terre assai distanti fornendo ai naviganti spostamenti veloci. Dalla loro bocca ci fa conoscere storie di avvenimenti, prima ignorati, procura ricchezze ai mercanti, facilmente rimedia alle necessità della vita: infatti, a coloro che posseggono in sovrabbondanza una quantità di cose, offre la possibilità di esportare quelle superflue in un altro luogo; per coloro che, invece, ne scarseggiano, fa sì che possano procurarsi ciò che manca loro.

Donde proviene a me la possibilità di ammirare attentamente tutta la bellezza del mare, quale si manifestò in origine all’occhio del Creatore? D’altronde, se al cospetto di Dio il mare è bello e gradevole quanto gli apparirà più bella questa assemblea in cui la voce confusa di uomini, di donne e di fanciulli, simile a quella dell’onda che s’infrange sulla riva, si rivolge a Dio nelle nostre preghiere?

Una tranquillità profonda la conserva nella pace non potendo gli spiriti della malizia turbarlo con le loro dottrine eretiche. Diventate dunque, degni della approvazione del Signore, osservando rigorosamente questa disciplina, nel nostro Signore Gesù Cristo. » 

Publié dans:Padri della Chiesa e Dottori |on 23 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

I protomartiri cristiani, l’immagine si riferisce a Santo Stefano

I protomartiri cristiani, l'immagine si riferisce a Santo Stefano  dans immagini sacre stephen_martyr

http://oneyearbibleimages.com/

Publié dans:immagini sacre |on 22 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

I martiri nella prospettiva della carità cristiana

dal sito:

http://www.zenit.org/article-12492?l=italian

I martiri nella prospettiva della carità cristiana

CITTA’ DEL VATICANO, sabato, 10 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della relazione pronunciata dal prof. Fabrizio Bisconti, Presidente della Pontificia Accademia dei Virtuosi al Panteon, in occasione della XII Sessione Pubblica delle Pontificie Accademie tenutasi l’8 novembre sul tema: “Testimoni del suo amore. L’amore di dio manifestato dai martiri e dalle opere della Chiesa”.

* * *

Nel cuore dell’Esortazione Apostolica post-sinodale “Sacramentum Caritatis”, proprio laddove il Sommo Pontefice Benedetto XVI entra nel merito del suggestivo nodo, che lega intimamente l’Eucaristia e la testimonianza, intesa come offerta della vita, si apre una pista suggestiva che, dall’esortazione paolina di Rm 12,1 “Offrite i vostri corpi”, ci accompagna speditamente verso le gesta e le storie dei martiri della prima ora e, segnatamente, verso gli episodi, che condussero alla prova estrema Policarpo di Smirne ed Ignazio di Antiochia.

La storia dei due campioni della fede si propone come testimonianza paradigmatica di chi –secondo l’Esortazione del Santo Padre – “entra nella piena comunione con la Pasqua di Gesù Cristo e così diviene egli stesso con Lui Eucaristia”. Il vescovo di Antiochia, scrivendo alla comunità cristiana di Roma, esorta i destinatari a non intercedere nei suoi confronti per evitargli la damnatio ad bestias e dunque a non provocare ostacolo alcuno al suo desiderio di unirsi a Cristo, di incitarlo proprio nella sua passione, istituendo una sorta di carta di fondazione della mistica del martirio. Un filo rosso unisce il vescovo di Antiochia all’anziano padre Policarpo, martire a Smirne, negli anni centrali del II secolo. Il redattore della lettera (alla comunità di Filomelio, una città della Frigia posta tra Licaonia e Antiochia di Pisidia) scende nei particolari e nella dinamica di un martirio, che è vera ed esemplare imitazione di Cristo, talché la sua storia sembra traguardare e drammatizzare l’evento estremo del Calvario: “Non lo inchiodarono, ma lo legarono – recita il passaggio più teso della lettera – con le mani dietro la schiena e, legato come un capro scelto da un gregge per il sacrificio, disse: Lasciatemi così. Chi mi dà la forza di sopportare il fuoco mi concederà anche, senza l’espediente dei chiodi, di rimanere fermo sulla pira”.

Qualche anno più tardi, tra il 163 e il 167, si consumò a Roma uno dei maxi processi più serrati della storia del Cristianesimo. Il filosofo Giustino, maestro laico cristiano, fu denunciato, assieme ad altri fratelli della comunità nascente di Roma, per l’invidia del filosofo cinico Crescente. Il resoconto, di autore ignoto, del processo di fronte a Rustico, prefetto di Roma, rappresenta uno dei primi Atti giudiziari, che rispetta perfettamente la dinamica delle fonti, da cui emerge una personalità potente, alla ricerca della verità, che accompagna il maestro verso la pace incontrata nella fede cristiana, ma anche, ed ancora una volta, la messa in opera dell’imitatio Christi, quando i processati, “rendendo gloria a Dio, vennero al solito luogo delle esecuzioni – secondo quanto riferiscono gli Atti nell’Epilogo – e portarono a compimento la loro testimonianza con la professione di fede nel Salvatore, al quale è gloria e potenza, insieme con il Padre e con lo Spirito Santo”.

Il martirio, come testimonianza, come sacrificio, come eucaristia, come segno simbolico, eppure concreto, dell’offerta del corpo, come consegna incondizionata della propria vita si diffonde rapidamente e capillarmente per tutto l’orbis christianus antiquus, fino all’orizzonte africano, dove precocemente con fervore i fratelli corrono sicuramente verso la prova del martirio, che li accomuna al destino e al sacrifico del Cristo, a cominciare dall’eccidio di Cartagine, che si consumò nell’anfiteatro il 7 marzo del 203 e che vide protagoniste Perpetua, Felicita e i compagni. La passio, che “fotografa” il tragico evento, si svolge secondo il genere letterario misto che intreccia la rievocazione storica alle visioni apocalittiche, ma mostra – come sempre – la forza e le idee riconducibili al concetto del sacrificio-testimonianza, come viene concepito, in quegli anni, dalla teologia del martirio tertullianeo. “Brillò finalmente il giorno della loro vittoria – ricorda enfaticamente la passio -, camminarono dalla prigione all’anfiteatro come se andassero al cielo. Lieti e composti nel volto; se, per caso trepidavano, era di gioia, non di paura. Perpetua incedeva con passo tranquillo, come una matrona di Cristo, una prediletta di Dio; la forza del suo sguardo costringeva tutti ad abbassare gli occhi”. Il vigore di questo commovente passaggio narrativo – tanto potente, che ha fatto pensare ad una stesura diretta di Tertulliano ormai montanista – riemerge nell’epilogo mesto, raccolto, ancorato solidamente alla passio Christi, quando si conclude, ricordando che “le loro salme furono raccolte di nascosto dai cristiani e conservate per la gloria di Cristo e la lode dei martiri”.

La terra d’Africa ha donato sicuramente le figure più potenti alla storia del martirio cristiano, anche quando allunghiamo lo sguardo verso le persecuzioni storiche, per giungere a quella efferata di Valeriano, in occasione della quale – come è noto – fu trucidato il vertice della Chiesa romana, con l’uccisione del pontefice Sisto II, i suoi diaconi e il più stretto entourage della gerarchia ecclesiastica dell’Urbe. Erano i primi giorni dell’agosto del 258. Di lì a qualche giorno e, segnatamente, il 14 settembre dello stesso anno, trovò la morte il vescovo di Cartagine Cipriano. La dinamica del suo martirio segue da vicino la passio Christi. “Egli stesso fu condotto al campo di Sesto – scrive il redattore degli Atti – dove si spogliò del suo mantello e, genuflesso in terra, si prostrò in preghiera davanti al Signore. Poi si tolse la dalmatica e la diede ai diaconi; rimase in sottoveste di lino ed aspettò il carnefice. Quando costui venne, diede ordine ai suoi di consegnargli 25 monete d’oro, mentre i fratelli stesero di fronte a lui lenzuola e fazzoletti. Poi Cipriano si coprì gli occhi con le proprie mani, ma siccome non potè legarsi da solo, lo legarono i diaconi. Così soffrì il beato Cipriano. Il suo corpo, sottratto alla curiosità dei pagani, fu deposto nelle vicinanze e poi, tolto di notte, fu portato alla luce dei ceri e delle torce al cimitero di Macrobio Candidiano. Fu un corteo con preghiere e grande trionfo”.

* * *

Questo epilogo così toccante e così aderente al concetto sfaccettato della carità paleocristiana, osservata dalla postazione privilegiata del martirio, inteso come sacrificio eccellente, come dono ed emulazione dell’eucarestia, ci suggerisce di riflettere, in seconda battuta, sul concetto, più largo, ma non meno interessante, della carità, considerata nell’interazione con l’idea, pure fondamentale, sin dal Cristianesimo della prima ora, della solidarietà. La concezione bipolare, che annoda la carità e la solidarietà, trova la sua manifestazione più concreta nella genesi dei primi cimiteri esclusivi e comunitari cristiani.

Allo scadere del II secolo, le comunità trovarono la forza e l’organizzazione per svincolarsi dalla consuetudine di seppellire i fedeli nella aree pagane, di cui, sino a questo momento, si erano servite. In questo frangente, muta completamente il concetto individuale delle sepolture e si solidifica quel “senso comunitario”, che guiderà l’ideologia cristiana dei primi secoli. Questo spirito nuovo spinge i fratres a creare delle vere e proprie “areae sepulturarum nostrarum”, come precisa autorevolmente Tertulliano, quando, in occasione di un contenzioso sorto tra i fratres christiani e la plebe pagana, quest’ultima gridava “areae non sint!”, nel senso che non si volevano concedere ai cristiani delle aree speciali, comuni e distinte dalle necropoli pagane.

Negli stessi anni, nell’estremo scorcio del II secolo e agli esordi del seguente, anche i cristiani di Roma creano degli spazi funerari propri, talora gestiti dalla più alta gerarchia della Chiesa, come nel caso della cosiddetta “area prima” del complesso di S. Callisto, il cimitero voluto da papa Zefirino (199-217) e affidato alle cure dell’allora diacono e futuro papa Callisto (217-222). Anche in Oriente, il concetto di cimitero, inteso come “dormitorio comune”, inizia a diffondersi, secondo quanto specifica Giovanni Crisostomo, che definisce i cimiteri come un luogo di riposo provvisorio in attesa della resurrezione finale, e come conferma, per Alessandria, lo stesso Origine, che ricorda l’esistenza di grandi necropoli comunitarie attestate nel suburbio della città.

In tutto il mondo cristiano antico si sviluppa, dunque, il desiderio di creare delle aree cimiteriali comuni, se non altro per offrire a tutti i fratelli, anche ai meno abbienti, una degna sepoltura, coniugando quel binomio carità-solidarietà, con cui abbiamo avviato questo ragionamento. Per assolvere a queste esigenze, si creano, secondo la testimonianza di Tertulliano, delle “casse comuni” utili ad espletare tutte le pratiche delle tumulazioni, anche per tutti coloro che non potevano permetterselo. Tra gli obblighi sociali della comunità, infatti, secondo la Tradizione Apostolica, si annovera quello di occuparsi delle sepolture dei poveri, che non dovranno affrontare nessuna spesa, né per la chiusura delle tombe, né per la cura delle stesse.

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Ora che è stata disegnata la parabola relativa alla genesi e alla prima evoluzione dei cimiteri cristiani, guidata – come si è detto – dalle leggi inalienabili della carità e della solidarietà, occorre chiudere il cerchio e tentare di comprendere le dinamiche che si scatenano, a livello monumentale, all’interno dei complessi funerari, a cominciare dal momento apostolico, allorquando viene deposto, tra i defunti ordinari, un “corpo eccellente”, quello del martire. La nostra attenzione non può non tornare alle origini e, segnatamente, nel suburbio romano, per controllare i primi interventi che i fratelli organizzarono attorno alle tombe dei principi degli apostoli.

Si tratta di organismi semplici, degli pseudocibori, dei trofei a cui allude Eusebio di Cesarea, in un veloce passaggio dell’Historia Ecclesiastica quando rievoca la fortuita scoperta, in una biblioteca di Gerusalemme, di un prezioso documento che riporta, tra l’altro, un dialogo tra l’uomo di Chiesa Gaio ed un tal Proclo, che, a Roma, guidava la setta eretica dei montanisti. Per rispondere a Proclo, che vantava l’antichità e il prestigio del suo movimento, ricordando che, nella terra dei catafrigi e, segnatamente, a Ierapoli, era ancora possibile ammirare la tomba di Filippo –forse l’apostolo, forse il diacono – e delle sue quattro figlie, il presbitero romano Gaio porta l’attenzione dell’interlocutore sulle memorie apostoliche in questi termini essenziali, ma puntuali: “Ed io posso mostrare i trofei degli apostoli. Se, infatti, ti incamminerai per la via Regia, verso il Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa”.

Le parole di Eusebio trovarono una sorprendente corrispondenza con i risultati delle campagne di scavo effettuate, durante il secondo conflitto mondiale, nella necropoli vaticana. Come è noto, si rinvenne un’area aperta, definita “campo P”, con il celebre “muro rosso”, a cui si addossava un singolare organismo, costituito da due nicchie sovrapposte, distinte da una sorta di mensa sostenuta da due colonne. L’edicola, che fu creata simultaneamente al “muro rosso”, e, dunque, negli anni centrali del II secolo, come ha dimostrato lo scavo, segnalava la tomba terragna, dove, con tutta la probabilità, era stato sepolto Pietro. Senza entrare nelle tante questioni polemiche, che vertevano su una eventuale risepoltura del principe degli apostoli in un loculo ricavato nel muro G, dei due che furono creati per delimitare la “memoria petrina”, appare incontrovertibile l’attenzione, che si era posta per questa tomba occasionale, specialmente se guardiamo al palinsesto di graffiti ancora apprezzabile sulla parete esterna del muro G, che ci parlano di una prima forma di culto e di pellegrinaggio alla tomba santa.

Se consideriamo i graffiti dei pellegrini come “fossile guida” per l’archeologo e lo storico, che si pongono alla ricerca delle mete primitive, selezionate dai cristiani dei primi tempi, il pensiero corre ad un altro monumento romano della Roma paleocristiana, ovvero la memoria apostolorum, situata al III miglio della via Appia, in piena area catacombale, che, insieme ai sepolcri del Vaticano e dell’Ostiense, rappresenta il terzo polo della devozione per i principi degli apostoli, già attivo alla metà del III secolo.

Di questo monumento complesso e stratificato, ci interessa un singolare organismo, definito triclia dagli archeologi, che si propone come un cortile con scopi funerari e devozionali, come testimoniano gli innumerevoli graffiti, che rievocano i refrigeria, conservati in loro onore. Questi graffiti rivelano un pellegrinaggio largo e internazionale, che si muove dall’hinterland romano, per abbracciare tutto l’orbis, dall’Oriente all’Africa. Presso le tombe dei primi martiri, dunque, sin dal III secolo, si innesca una forma di culto estremamente semplice, all’insegna di una serie di gesti rapidi e simbolici, come i refrigeria, ossia i banchetti consumati presso queste memorie e ricordati dai graffiti dei commensali. Questi banchetti si rivelano come pasti funebri, che rievocano situazioni di convito diverse, ma sempre riconducibili al concetto basico di una ritualità, che riunisce un’assemblea, una piccola comunità, un gruppo di fratelli per ricordare il dies natalis di un martire, ma anche di un defunto ordinario. La memoria della sinassi eucaristica, della moltiplicazione dei pani, della nozze di Cana, del banchetto celeste e, dunque, della condizione paradisiaca contribuisce a dar luogo ad un significato complesso e ricco di spunti semantici.

È sintomatico poter constatare come questi pasti funebri, così simbolici e così improntati alla concezione della convivialità, della solidarietà, della memoria comunitaria nei confronti dei fratelli scomparsi e dei defunti eccellenti, dei martiri, che rappresentano i punti di riferimento ineliminabili della comunità cristiana in formazione, si colleghino naturalmente ai fratelli, in nome della commemorazione.

I banchetti funebri, assumeranno, nel tempo, dimensioni ed aspetti importanti, in quanto legati alla generosità di alcuni evergeti ricchi e, spesso, ambiziosi, che desiderano rappresentare, con i conviti e con l’elemosina, il loro potenziale economico. Paolino di Nola ricorda il numero incredibile di indigenti che aveva partecipato al sontuoso convito organizzato dal nobile Pammachio nel 397, nella basilica di S. Pietro in Vaticano, in suffragio dell’anima di sua moglie. S. Agostino interverrà affinché questi conviti e queste forme di carità non degenerassero “in abundantia epularum et ebrietate”, affinché non si perdesse di vista il fine unico ed ultimo di queste manifestazioni, nate per onorare i martiri. Allo stesso problema allude Girolamo nelle lettere ad Eustochio, quando, con penna pungente, rievoca un episodio estremo capitato a Roma.

Per sottolineare il fenomeno della “falsa carità” di alcune matrone straricche ammonisce: “Quando fanno elemosina suonano la tromba, quando invitano ad un agape assoldano un banditore. Ho visto da poco –non faccio nomi affinché tu non pensi ad una satira- una mobilissima donna romana, nella basilica di S. Pietro, preceduta da eunuchi, distribuire ad ogni passo una moneta con la propria mano, per essere stimata più pia. E allora –con la pratica si impara molto facilmente- una vecchia carica di anni e di stracci si fece avanti per ricevere un’altra moneta; quando si arrivò a lei, invece del denaro le venne dato un pugno”.

L’aneddoto, pur drammatizzato dall’enfasi del racconto, dà il senso di una prassi evoluta in termini estremi, ma che, all’origine, metteva in intimo contatto la convivialità, la solidarietà e la carità in nome del culto, della commemorazione, del ricordo affettuoso dei fratelli scomparsi e, specialmente, dei martiri.

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L’amore per questi fratelli eccezionali, il desiderio di contattarne i sepolcri, per acquisire la forza di emulare la loro testimonianza, in nome e nella prospettiva di quella carità, di quell’offerta incondizionata ed estrema della loro persona, di quel sacrificio, così simile a quello paradigmatico del Cristo. Questo insieme di tensioni guida la mentalità di chi desidera sistemare e organizzare il culto martiriale. Se guardiamo al panorama romano, ben presto e all’indomani dell’editto di tolleranza, si assiste all’azione di un piccolo entourage di personaggi scelti, di veri e propri evergeti, che vogliono rendere i loca sanctorum –per usare una felice espressione di Peter Brown- come siti “eleganti e privati”.

In questi primi momenti, il culto comportava riti e gesti sobri, essenziali . Tutto si consumava nel sano gesto dell’ex contactu, nella sistemazione di lumi e lucerne sulle mense predisposte nei pressi del sepolcro, secondo una venerazione rapida e urgente, forse perché questa forma di pellegrinaggio embrionale soffriva per l’aspetto multiplo della devozione, che disegnava nel suburbio romano una densa mappa agiografica, che induceva il pellegrino a consumare la sua tensione verso il culto martiriale piuttosto in quella “terapia della distanza”, che nella sosta dinanzi alle singole tombe.

Intanto, a cominciare dal tempo dei Costantinidi, la definizione topografica e architettonica dei loca sancta, si puntualizza con una serie di interventi suggeriti dall’amplificazione del fenomeno del pellegrinaggio, nel senso che, attorno alle tombe degli “uomini santi”, vengono costruiti recinti di rispetto e vengono innalzati santuari, talora anche all’interno degli spazi angusti della catacombe, dove si creano delle piccole basiliche ipogee, che permettono, spesso, di poter identificare quei sepolcri particolari per le celebrazioni. Succede, insomma, che il culto dei martiri e la sinassi eucaristica si consumino nello stesso spazio e trovino il sito significativo in un unico luogo.

Ma succede anche che – al tempo di Costantino – oltre a santuari di enorme impatto, dove il sepolcro rappresenta il fuoco liturgico dell’edificio di culto, a cominciare dall’Anastasis di Gerusalemme e continuando con i santuari romani dedicati ai principi degli apostoli; succede anche – si diceva – che sorgano delle singolari basiliche funerarie, leggermente defilate rispetto alla tomba del martire, ma sempre caratterizzate da una funzione memoriale, nel senso che questi edifici, detti circiformi, ricordando le figure dei martiri, sepolti nei pressi della basilica, assolvono ad un ruolo funerario.

Questa intima congiunzione tra la tomba santa e i sepolcri ordinari innesca un meccanismo, forse ingenuo, ma eloquente per comprendere gli usi e le credenze funerarie paleocristiane. I cristiani vogliono essere sepolti vicino al martire e, per questo, nascono in catacomba e nelle altre aree sepolcrali i cosiddetti retrosanctos, ovvero una densissima concentrazione di sepolture ad sanctos, con l’intenzione di creare un intimo legame tra i defunti ordinari e i campioni della fede, secondo una prassi, che si attiverà –come vedremo- anche a livello iconografico.

La monumentalizzazione dei sepolcri si puntualizzerà durante il pontificato di papa Damaso (366-384), quando si innesca una ricerca sistematica delle tombe di coloro che erano stati sistemati con urgenza e senza particolari arredi nei cimiteri comunitari. Il pontefice, assieme al calligrafo Furio Dionisio Filocalo, dopo aver individuato i “sepolcri eccellenti”, spesso con difficoltà, in quanto, in molti casi, se ne era dimenticata la memoria, come nel caso emblematico del martire Eutichio, sepolto nel complesso di S. Sebastiano, e di cui, con tutta probabilità, è stato individuato – in tempi recenti – l’area catacombale di pertinenza, da attenti ed accurati scavi archeologici; il pontefice – si diceva – si preoccupa di monumentalizzare sobriamente le tombe. Tali interventi comportano, innanzi tutto, la preparazione e la sistemazione di carmina epigrafici, che rievocano, in maniera succinta, le gesta dei martiri.

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Sino a questo momento, dunque, non nasce un immaginario iconografico vero e proprio, ma le fonti ci parlano di qualche eccezione. In questo senso, dobbiamo leggere alcuni brani degli inni di Prudenzio, che fanno rifermento rispettivamente al santuario di Ippolito sulla via Tiburtina e a quello di Cassiano ad Imola. Anche se i versi di Prudenzio possono rivelarsi carichi della drammatizzazione poetica, non possiamo e non dobbiamo escludere l’esistenza di piccoli cicli agiografici od anche di megalografie santorali perdute.

Al di là di questi documenti e di queste testimonianze indirette, restano anche delle tracce archeologiche e delle manifestazioni iconografiche rare, ma significative, relativamente all’esordio di un’arte martiriale. Mi riferisco innanzi tutto, ai resti della monumentalizzazione della tomba dei SS. Nereo ed Achilleo, nella basilica di Domitilla sulla via Ardeatina. Una colonna, pertinente ad uno pseudo-ciborio, che doveva coprire la tomba dei martiri, reca un rilievo, che rappresenta il momento finale dell’esecuzione di Achilleo, che procede, discinto, trascinato da un militare verso il patibolo.

È interessante osservare come, alle spalle di questa scena drammatica – così rara in un repertorio rispettoso della legge dell’ottimismo, che attraversa tutta l’arte paleocristiana -; è interessante, dicevamo, intravedere un labarum, con il cristogramma costantiniano. Questo simbolo, che allude all’anastasis e alla resurrezione finale, serve ad attutire la componente violenta della situazione figurativa ed è altrettanto interessante poter constatare come questo signum salutis appaia anche al centro dei cd. sarcofagi di passione, che, nella seconda metà del IV secolo, alternano le scene dell’arresto e del giudizio del Cristo, la cattività di Pietro, la decollatio Pauli.

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Per il resto, l’iconografia martiriale, nota in età damasiana, sviluppata nel corso del IV secolo e diffusa dalla civiltà bizantina, comporta la genesi di una cultura figurativa proiettata verso l’atmosfera del trionfo finale. Per questo, i martiri più amati dai primi cristiani – da Agnese a Lorenzo, da Pietro a Paolo, da Pietro a Marcellino, da Ippolito a Sisto – compaiono nei cd. vetri dorati appartenuti ai cristiani ordinari e posti nella chiusura delle loro tombe, in segno di patronato e di protettorato.

Per questo, la martire Petronilla, accompagna in paradiso, con affetto e confidenza, la defunta Veneranda, in un affresco della seconda metà del IV secolo, nelle catacombe di Domitilla. Per questo i martiri delle catacombe sono rappresentati come icone, come poster, come manifesti della devozione lungo gli itinera ad sanctos, percorsi dai pellegrini dell’alto medio evo.

Tra i martiri e i defunti si stabilisce quella religio amicitiae, quel legame intimo inter pares, che qualifica i santi come patroni, intercessori, protettori e campioni della carità: essere vicino a loro, essere rappresentati in loro compagnia, significa rompere quel limite tra terra e cielo, che ispirerà, di lì a poco i grandi scenari musivi degli edifici di culto, come accade, alle soglie dell’età bizantina, nell’abside della basilica dei SS. Cosma e Damiano, laddove i santi medici sono accompagnati al cospetto del Cristo della parusia dai principi degli apostoli, che posano con confidenza e come per fare coraggio, la mano sulle spalle dei due “cristiani eccellenti”, aprendo un nuovo modo di pensare la santità e la carità e dando avvio ad un nuovo capitolo della storia dell’arte cristiana.

Fabrizio Bisconti

Publié dans:martiri |on 22 janvier, 2009 |Pas de commentaires »

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Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 22 janvier, 2009 |Pas de commentaires »
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