buona notte

dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=01/04/2009#
Beato Guerrico d’Igny (circa 1080-1157), abate cistercense
Discorsi per il giorno di Natale, 5, 1-2 ; SC 166, 223-226
« Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi vedemmo la sua gloria »
Siamo tutti riuniti, fratelli, per ascoltare la Parola di Dio. Eppure Dio ci ha preparato qualcosa di migliore : ci viene donato oggi, non soltanto di ascoltare, ma pure di vedere il Verbo di Dio, purché noi « andiamo fino a Betlemme e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere » (Lc 2,15)…
Se è vero che « la fede dipende di ciò che ascoltiamo » (Rm 10,17), Dio sa che essa dipende più direttamente e più rapidamente da ciò che vediamo, come ce lo insegna l’esempio di Tommaso… Dio, volendo accondiscendere alla nostra ottusità, oggi ha reso visibile per noi il suo Verbo, che aveva prima reso udibile. Anzi, l’ha reso palpabile, al punto che alcuni tra noi hanno potuto dire : « Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita » (1 Gv 1,1)…
Se quindi si trova fra di noi un fratello che soffre di languore spirituale, non voglio che i suoi orecchi si affatichino più a lungo nell’ascoltare la mia povera parola. Che si rechi a Betlemme, e là, contempli colui « nel quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo » (1 Pt 1,12), che contempli colui « che il Signore ci ha fatto conoscere » (Lc 2,15). Che si rappresenti nella mente come la « Parola di Dio, viva e efficace » (Eb 4,12) giace lì, in una mangiatoia.
dal sito:
http://www.santiebeati.it/dettaglio/25625
Santissimo Nome di Gesù
3 gennaio – Memoria Facoltativa
Il Santissimo Nome di Gesù fu sempre onorato e venerato nella Chiesa fin dai primi tempi, ma solo nel secolo XIV cominciò ad avere culto liturgico. San Bernardino, aiutato da altri confratelli, sopratutto dai beati Alberto da Sarteáno e Bernardino da Feltre, diffuse con tanto slancio e fervore tale devozione che finalmente venne istituita la festa liturgica. Nel 1530 Papa Clemente VII autorizzò l’Ordine francescano a recitare l’Ufficio del Santissimo Nome di Gesù. Giovanni Paolo II ha ripristinato al 3 gennaio la memoria facoltativa nel Calendario Romano.
Martirologio Romano: Santissimo Nome di Gesù, il solo in cui, nei cieli, sulla terra e sotto terra, si pieghi ogni ginocchio a gloria della maestà divina.
Il significato e la proprietà del nome
Anzitutto i nomi hanno un loro significato intrinseco, come appare dai nomi teofori (evocatori della divinità) e da quelli di alcuni eroi, che sono il simbolo della missione adempiuta da costoro nella storia.
In secondo luogo, il nome ha un contenuto dinamico; rappresenta e in qualche modo racchiude in sé una forza. Esso designa l’intima natura di un essere, poiché contiene una presenza attiva di quell’essere.
Platone diceva che “Chiunque sa il nome, sa anche le cose”; conoscerlo vuol dire conoscere la ‘cosa’ in se stessa. Il nome “occupa” uno spazio, ha la “proprietà” della cosa e la spiega.
Il nome di nascita indica in primo luogo, l’”essenza” di una persona, le sue prerogative, le qualità e i difetti; pronunciandolo si è come in presenza di colui che si nomina, si dà ad esso una precisa dimensione.
Così come fra i ‘primitivi’ che cercavano di conoscere il nome al fine di esercitare un potere su una persona o su qualsiasi cosa vivente, il nome è ancora indispensabile nel praticare un incantesimo; infatti i cosiddetti ‘maghi’ vogliono conoscerlo, per inciderlo su amuleti e talismani, accanto a quello delle Entità Invisibili.
Il nome nelle società antiche
Nell’antica Grecia i nomi provenivano da due categorie: 1) nomi di un dio o derivati da quello portato dalla divinità (Apollodoro, Apollonio, Eròdoto, Isidoro, Demetrio, Teodoro, ecc.); 2) nomi scelti come augurio per la futura vita del bambino, seguiti da quello della località di residenza o provenienza.
I Romani imponevano ai neonati tre nomi: Il prenome scelto fra i diciotto più usati, che si abbreviava con la lettera iniziale, es. P = Publius (Publio), C = Caius (Caio), ecc. Il nome indicava la gens di appartenenza, es. Julius (della gens Julia). Il cognome indicante la famiglia, quando la gens d’origine si divideva in molte famiglie.
Nei nomi di origine ebraica, particolarmente quelli maschili, si nota quasi sempre una invocazione a Dio, l’eterno creatore, dal quale il popolo ebraico trasse sempre forza nella sua travagliata esistenza.
Il nome nella mentalità semitica
Per i semiti i nomi propri avevano un significato intrinseco; questo era indicato dalla loro stessa composizione, dalla etimologia od era evocato dalla pronuncia.
Nel costume popolare, due usanze sembrano comunemente diffuse; in primo luogo l’imposizione di nomi teofori, con cui si voleva porre il bambino sotto la protezione della divinità, oppure si intendeva ringraziare e pregare la divinità per il lieto evento (es. Isaia = Iahvé salva; Giosuè = Iahvé è salvezza, ecc.).
In secondo luogo, l’attribuzione di nomi che esprimono qualche circostanza o particolarità della nascita dei bambini, es. (Gen. 35, 16-18) “… Rachele, sul punto in cui le sfuggiva l’anima, perché stava morendo a causa del penoso parto, chiamò il figlio appena nato, col nome di Ben-Oni (figlio del mio dolore)…”.
Così pure, per gli ebrei c’era la tendenza a fare del nome, il simbolo del significato religioso o politico degli eroi nazionali e religiosi; così interpretato, il nome era in un rapporto molto più significativo con la persona che caratterizzava; Eva è “la madre di tutti i viventi”, Abramo è “il padre di una moltitudine”, Giacobbe è “colui che soppianta”, ecc.
Nella concezione semitica, il nome ha anche un aspetto dinamico, che corrisponde alla forza, alla potenza che il nome rappresenta e in qualche modo include; dove c’è il nome c’è la persona, con la sua forza, pronta a manifestarsi.
Conoscere qualcuno per nome, vuol dire conoscerlo fino in fondo e poter disporre della sua potenza. Questo concetto svolge un ruolo importante applicato agli esseri superiori, che non sono conoscibili normalmente da parte dell’uomo; la sola conoscenza che si può avere di essi è quella del loro nome.
Il nome del dio nasconde la sua presenza misteriosa e rappresenta il mezzo più accessibile di comunicazione tra l’uomo e lui. Quindi nella sfera del ‘mistero’ sia esso magico che religioso, chi conosce il nome del dio e lo pronunzia, ha la forza di farsi ascoltare da lui e di farlo intervenire a suo favore.
Infine nella Tradizione semitica c’è inoltre il concetto, che chi impone a qualcuno il nome che deve portare o gli cambia il nome che possiede, esprime il potere assoluto, la sovranità, che detiene su quello (Ge. 2), così come Adamo impose i nomi a tutto il bestiame di cui poteva usufruire.
Anche il Dio degli Ebrei esprime il suo dominio assoluto, imponendo e mutando i nomi di Abram in Abraham e Sarai in Sara (Ge. 17, 5-15) e di Giacobbe in Israel (Ge. 32, 29), acquistando così tali nomi nuovi significati.
Il nome di Dio nella Bibbia
L’esigenza di sapere il nome della divinità in cui si crede, è stato sempre intrinseco nell’animo umano, perché il nome stesso è garanzia della sua esistenza; a tal proposito si riporta un passo dell’opera di Francesco Albergamo “Mito e Magia” che scrive: “Una bambina di nove anni chiede al padre se Dio esiste; il padre risponde che non ne è troppo sicuro, al che la piccola osserva: Bisogna pure che esista, dal momento che ha un nome”.
Quindi quando Mosè (Es. 3) viene chiamato da Dio alla sua missione fra il popolo ebraico, logicamente gli chiede il suo Nome da poter comunicare al popolo, che senz’altro gli chiederà “Chi ti ha riconosciuto principe su di noi?”. E il Dio di Israele, conosciuto inizialmente come il “Dio degli antenati”, il “Dio di Abramo di Isacco di Giacobbe”, oppure con espressioni particolari: “El Shaddai”, “Terrore di Isacco”, “Forte di Giacobbe”, rivela il suo nome “Iahvé”, che significa “Egli è”; e questo Nome entrò così a far parte della vita religiosa degli israeliti, e mediante gli interventi sovrani nella storia, il nome di Iahvé divenne famoso e noto.
I profeti ed i sommi sacerdoti, lungo tutta la storia d’Israele, posero al centro della liturgia il nome di Iahvé, con la professione di fede del profeta, l’invocazione solenne di Dio, la fede e la glorificazione di tutto il popolo (Commemorazione, invocazione, glorificazione del suo Nome).
Nel tardo giudaismo però, per il bisogno di sottolineare la trascendenza divina, il nome di Iahvé non è stato più pronunciato e Dio è stato designato col termine Nome e con altri appellativi, come Padre a sottolineare lo speciale rapporto che lega Dio e il suo popolo.
Il nome del Padre
Ma solo nel Nuovo Testamento, sulla bocca di Gesù e dei credenti, il nome di Padre attribuito a Dio, assume il suo vero significato.
Solo Gesù, infatti conosce il Padre e può efficacemente rivelarlo (Mt.11, 27-28). Gesù si è riferito spesso a Dio chiamandolo Padre, nel Vangelo di s. Giovanni, Padre viene usato addirittura come sinonimo di Dio e secondo l’evangelista questa è la sua vera definizione, questo è il nome che esprime più profondamente l’essere divino. Tale nome è stato manifestato agli uomini da Gesù, ed essi ora sanno che, se credono, sono figli insieme a lui.
Inoltre Gesù ha anche insegnato a pregare Dio con questo titolo “Padre nostro…” e questa è diventata la preghiera per eccellenza della comunità cristiana.
Gesù aveva chiesto al Padre di glorificare il suo nome (Giov. 12, 28) e aveva invitato i discepoli a pregare così: “Sia santificato il tuo nome”; Dio ha risposto a queste preghiere, manifestando la potenza del suo nome e glorificando il proprio figlio.
Ai credenti è affidato il compito di prolungare questa azione di glorificazione; essi lodano, testimoniano il nome di Dio e devono comportarsi in modo che il nome divino non riceva biasimo e bestemmie (Rom. 2, 24).
Il nome del Signore Gesù
Il Messia ha portato durante la sua vita terrena il nome di Gesù, nome che gli fu imposto da san Giuseppe dopo che l’angelo di Dio in sogno gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché ciò che in lei è stato concepito è opera dello Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt.1, 21-25).
Quindi il significato del nome Gesù è quello di salvatore; gli evangelisti, gli Atti degli Apostoli, le lettere apostoliche, citano moltissimo il significato e la potenza del Nome di Gesù, fermandosi spesso al solo termine di “Nome” come nell’Antico Testamento si indicava Dio.
Nel corso della vita pubblica di Gesù, i suoi discepoli, appellandosi al suo nome, guariscono i malati, cacciano i demoni e compiono ogni sorta di prodigi:
Luca, 10, 17, “E i settantadue tornarono pieni di gioia dicendo: Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome”; Matteo 7, 22, “… Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti prodigi nel tuo nome?”.
Atti 4, 12, “…Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale possiamo avere la salvezza”.
Risuscitando Gesù e facendolo sedere alla sua destra, Dio “gli ha donato il nome che è sopra di ogni nome” (Ef. 1, 20-21); si tratta di un “nome nuovo” (Ap. 3, 12) che è costantemente unito a quello di Dio.
Questo nome trova la sua espressione nell’appellativo di Signore, che conviene a Gesù risorto, come allo stesso Dio Padre (Fil. 2, 10-11). Infatti i cristiani non hanno avuto difficoltà ad attribuire a Gesù, gli appellativi più caratteristici che nel giudaismo erano attribuiti a Dio.
Atti 5, 41: “Ma essi (gli apostoli) se ne partirono dalla presenza del Sinedrio, lieti di essere stati condannati all’oltraggio a motivo del Nome”.
La fede cristiana consiste nel professare con la bocca e credere nel cuore “che Gesù è il Signore, e che Dio lo ha ridestato dai morti” e nell’invocare il nome del Signore per conseguire la salvezza (Rom. 10, 9-13).
I primi cristiani, appunto, sono coloro che riconoscono Gesù come Signore e si designano come coloro che invocano il suo nome, esso avrà sempre un ruolo preminente nella loro vita: nel nome di Gesù i cristiani si riuniranno, accoglieranno chiunque si presenti nel suo nome, renderanno grazie a Dio in quel nome, si comporteranno in modo che tale nome sia glorificato, saranno disposti anche a soffrire per il nome del Signore.
L’espressione somma della presenza del Nome del Signore e dell’intera SS. Trinità nella vita cristiana, si ha nel segno della croce, che introduce ogni preghiera, devozione, celebrazione; e conclude le benedizioni e l’amministrazione dei sacramenti: “Nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Il culto liturgico del Nome di Gesù
Il SS. Nome di Gesù, fu sempre onorato e venerato nella Chiesa fin dai primi tempi, ma solo nel XIV secolo cominciò ad avere culto liturgico.
Grande predicatore e propagatore del culto al Nome di Gesù, fu il francescano san Bernardino da Siena (1380-1444) e continuato da altri confratelli, soprattutto dai beati Alberto da Sarteano (1385-1450) e Bernardino da Feltre (1439-1494).
Nel 1530, papa Clemente VII autorizzò l’Ordine Francescano a recitare l’Ufficio del Santissimo Nome di Gesù; e la celebrazione ormai presente in varie località, fu estesa a tutta la Chiesa da papa Innocenzo XIII nel 1721.
Il giorno di celebrazione variò tra le prime domeniche di gennaio, per attestarsi al 2 gennaio fino agli anni Settanta del Novecento, quando fu soppressa.
Papa Giovanni Paolo II ha ripristinato al 3 gennaio la memoria facoltativa nel Calendario Romano.
Il trigramma di san Bernardino da Siena
Affinché la sua predicazione non fosse dimenticata facilmente, Bernardino con profondo intuito psicologico inventò un simbolo dai colori vivaci che veniva posto in tutti i locali pubblici e privati, sostituendo blasoni e stemmi delle varie Famiglie e Corporazioni spesso in lotta fra loro.
Il trigramma del nome di Gesù, divenne un emblema celebre e diffuso in ogni luogo, sulla facciata del Palazzo Pubblico di Siena campeggia enorme e solenne, opera dell’orafo senese Tuccio di Sano e di suo figlio Pietro, ma lo si ritrova in ogni posto dove Bernardino e i suoi discepoli abbiano predicato o soggiornato.
Qualche volta il trigramma figurava sugli stendardi che precedevano Bernardino, quando arrivava in una nuova città a predicare e sulle tavolette di legno che il santo francescano poggiava sull’altare, dove celebrava la Messa prima dell’attesa omelia, e con la tavoletta al termine benediceva i fedeli.
Il trigramma fu disegnato da Bernardino stesso, per questo è considerato patrono dei pubblicitari; il simbolo consiste in un sole raggiante in campo azzurro, sopra vi sono le lettere IHS che sono le prime tre del nome Gesù in greco ??S??S (Iesûs), ma si sono date anche altre spiegazioni, come l’abbreviazione di “In Hoc Signo (vinces)” il motto costantiniano, oppure di “Iesus Hominum Salvator”.
Ad ogni elemento del simbolo, Bernardino applicò un significato, il sole centrale è chiara allusione a Cristo che dà la vita come fa il sole, e suggerisce l’idea dell’irradiarsi della Carità.
Il calore del sole è diffuso dai raggi, ed ecco allora i dodici raggi serpeggianti come i dodici Apostoli e poi da otto raggi diretti che rappresentano le beatitudini, la fascia che circonda il sole rappresenta la felicità dei beati che non ha termine, il celeste dello sfondo è simbolo della fede, l’oro dell’amore.
Bernardino allungò anche l’asta sinistra dell’H, tagliandola in alto per farne una croce, in alcuni casi la croce è poggiata sulla linea mediana dell’H.
Il significato mistico dei raggi serpeggianti era espresso in una litania; 1° rifugio dei penitenti; 2° vessillo dei combattenti; 3° rimedio degli infermi; 4° conforto dei sofferenti; 5° onore dei credenti; 6° gioia dei predicanti; 7° merito degli operanti; 8° aiuto dei deficienti; 9° sospiro dei meditanti; 10° suffragio degli oranti; 11° gusto dei contemplanti; 12° gloria dei trionfanti.
Tutto il simbolo è circondato da una cerchia esterna con le parole in latino tratte dalla Lettera ai Filippesi di san Paolo: “Nel Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, sia degli esseri celesti, che dei terrestri e degli inferi”. Il trigramma bernardiniano ebbe un gran successo, diffondendosi in tutta Europa, anche s. Giovanna d’Arco volle ricamarlo sul suo stendardo e più tardi fu adottato anche dai Gesuiti.
Diceva s. Bernardino: “Questa è mia intenzione, di rinnovare e chiarificare il nome di Gesù, come fu nella primitiva Chiesa”, spiegando che, mentre la croce evocava la Passione di Cristo, il suo Nome rammentava ogni aspetto della sua vita, la povertà del presepio, la modesta bottega di falegname, la penitenza nel deserto, i miracoli della carità divina, la sofferenza sul Calvario, il trionfo della Resurrezione e dell’Ascensione.
In effetti Bernardino ribadiva la devozione già presente in san Paolo e durante il Medioevo in alcuni Dottori della Chiesa e in s. Francesco d’Assisi, inoltre tale devozione era praticata in tutto il Senese, pochi decenni prima dai Gesuati, congregazione religiosa fondata nel 1360 dal senese beato Giovanni Colombini, dedita all’assistenza degli infermi e così detti per il loro ripetere frequente del nome di Gesù.
La Compagnia di Gesù, prese poi queste tre lettere come suo emblema e diventò sostenitrice del culto e della dottrina, dedicando al Ss. Nome di Gesù le sue più belle e grandi chiese, edificate in tutto il mondo.
Fra tutte si ricorda, la “Chiesa del Gesù” a Roma, la maggiore e più insigne chiesa dei Gesuiti; vi è nella volta il “Trionfo del Nome di Gesù”, affresco del 1679, opera del genovese Giovanni Battista Gaulli detto ‘il Baciccia’; dove centinaia di figure si muovono in uno spazio chiaro con veloce impeto, attratte dal centrale Nome di Gesù.
Autore: Antonio Borrelli
dal sito:
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San Giovanni Crisostomo (circa 345-407), vescovo d’Antiochia poi di Costantinopoli, dottore della Chiesa
Commento sul vangelo di Giovanni, 18
« Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo »
«Ecco l’Agnello di Dio» disse Giovanni, non parla Gesù Cristo; è Giovanni Battista a dire tutto. Lo sposo è solito agire in questo modo; non dice ancora nulla alla sposa, ma sta alla sua presenza in silenzio. Altri lo annunziano e gli presentano la sposa. Quando lei compare, lo sposo non la prende, bensì la riceve dalle mani di un altro. Ma dopo averla ricevuta, si lega tanto strettamente a lei, che lei non ricorda più coloro che ha dovuto lasciare per seguirlo.
Così successe a Gesù Cristo. È venuto per sposare l’unmanità. Lui non ha detto nulla, non ha fatto nulla se non presentarsi. È Giovanni, l’amico dello Sposo, ad aver messo nella sua mano quella della Sposa – in altri termini, il cuore degli uomini che aveva convinti con la sua predicazione. Allora Gesù Cristo li ha ricevuti e colmati di beni tanto numerosi, che non sono più tornati da colui che li aveva condotti a lui…
È Giovanni, l’amico dello Sposo, l’unico ad essere stato presente al suo sposalizio. Ha fatto tutto ; vedendo Gesù venire verso di lui disse : « Ecco l’Agnello di Dio ». Così facendo, rendeva testimonianza allo Sposo non soltanto con la voce, ma anche con gli occhi. Egli ammirava Cristo e, contemplandolo, il suo cuore trasaliva di gioia. Se non predica, ammira colui che è presente e fa conoscere il dono che Gesù è venuto a portare. Insegna a prepararsi per riceverlo. « Ecco l’Agnello di Dio ! » Ecco colui, disse, che toglie il peccato del mondo. Lo fa incessantemente. Anche se offre una sola volta il suo sacrificio per i peccati del mondo, questo unico sacrificio ha un effetto perpetuo.
dal sito:
http://liturgia.silvestrini.org/santo/114.html
SAN BASILIO MAGNO E GREGORIO NAZIANZENO
S. Basilio nacque nel 330 a Cesarea di Cappadocia da genitori santi. Di buona educazione letteraria e di egregie virtù, prese a condurre vita di eremitica, ma nel 370 fu fatto vescovo della sua città. Il tema che ricorreva più spesso e con più forza era quello della carità, dell’aiuto ai fratelli bisognosi. Lottò contro gli Ariani e scrisse eccellenti opere, specialmente le regole monastiche che ancor oggi sono seguite da moltissimi monaci orientali. Morì povero, come era vissuto, nell’anno 379.
Tra i primi e più preziosi amici di S. Basilio, notiamo S. Gregorio Nazianzeno: essi si stimolavano a vicenda alla pratica delle virtù e all’acquisto della scienza. Nato come S. Basilio nel 330 a Nazianzo da nobili genitori, sopravvisse una decina d’anni all’amico. Uomo di studio e poeta, per la sua eccellente dottrina ed eloquenza ricevette l’appellativo di “teologo”. Intraprese molti viaggi a scopo di istruzione e seguì poi nel deserto l’amico Basilio. Ma fu poi ordinato sacerdote e vescovo di Costantinopoli. Ma a causa delle fazioni che dividevano la sua chiesa, si ritirò a Nazianzo dove spirò nel 390.
dal sito:
http://198.62.75.5/www1/ofm/sites/TSbtbott1.html
La nascita di Gesù nel silenzio
G. Claudio Bottini
Studio Biblico Francescano, Gerusalemme
Chi non ha mai ascoltato, e forse anche cantato, con commozione melodie natalizie come: « Che magnifica notte di stelle /… Quale pace divina, solenne / hai prescelto o Bambino— In notte placida / per muto sentier /… Nell’aura è il palpito / d’un grande mister — Fermarono i cieli / la loro armonia »? Sono versi che esprimono lo stupore attonito e la trepida attesa con cui tutto l’universo dovette accompagnare la venuta al mondo di Gesù, Figlio di Dio e di Maria.
Probabilmente molti pensano che si tratti solo di un ingenuo abbellimento poetico del quadro natalizio: dinanzi al Dio Bambino tutti gli uomini tornano fanciulli in un mondo di sogno. Forse non tutti sanno che questo « motivo » è antichissimo e non è soltanto ispirato dalla poesia
1. La tradizione apocrifa
Si sa che attorno al Natale son fioriti racconti popolari e leggende che, prendendo spunto dai Vangeli canonici, hanno dato origine a dei complessi cicli letterari.
L’apocrifo « Protovangelo di Giacomo » o « Natività di Maria », molto antico e tanto diffuso, raccontando la nascita di Gesù, riferisce questa visione di Giuseppe: « Io, Giuseppe, camminavo e non camminavo. Guardai nell’aria e vidi l’aria colpita di stupore; guardai verso la volta del cielo e la vidi ferma, e immobili gli uccelli del cielo; guardai sulla terra e vidi un vaso giacente e degli operai coricati con le mani nel vaso: ma quelli che masticavano non masticavano, quelli che prendevano su il cibo non l’alzavano dal vaso, quelli che lo stavano portando alla bocca non lo portavano; i visi di tutti erano rivolti a guardare in alto. Ecco delle pecore spinte innanzi che invece stavano ferme: il pastore alzò la mano per percuoterle, ma la sua mano restò per aria. Guardai la corrente del fiume e vidi le bocche dei capretti poggiate sull’acqua, ma non bevevano. Poi, in un istante, tutte le cose ripresero il loro corso » (XVII 2-3; L. Moraldi, Apocrifi del N.T., Torino 1971,83).
Questo tema della sospensione della vita nell’universo si ritrova pure in due testi gemelli sul vangelo della natività, in parte dipendenti dal « Protovangelo ». I codici « Arundel 404″ « Hereford 0.3.9″ riportano la tradizione nel racconto che ne fa l’ostetrica chiamata da san Giuseppe per assistere la Madonna: « Nel più grande silenzio, in quel momento si sono fermate, tremanti, tutte le cose: infatti cessarono i venti, non dando più il loro soffio, non s’è più mossa alcuna foglia degli alberi, non s’è più udito alcun rumore di acque, non scorsero più i fiumi, non ci fu più il flusso del mare, tacquero tutte le fonti di acqua, non risuonò più alcuna voce umana: c’era un grande silenzio. In quel momento, lo stesso polo cessò l’agile movimento del suo corso. Le misure delle ore erano quasi tramontate. Con timore grande, tutte le cose tacevano stupite, mentre noi eravamo nell’attesa della venuta della maestà, del termine dei secoli » (72; Moraldi, 139 e 181 ).
Anche il « Vangelo armeno delI’infanzia » conosce il miracolo cosmico e lo racconta con vivacità: « E mentre (Giuseppe) camminava, vide che la terra si era sollevata e che il cielo si era abbassato, e alzò le mani come per toccare il punto in cui essi si congiungevano. E vide intorno a sé gli elementi intorpiditi e attoniti; i venti e l’aria del cielo, divenuti immobili, avevano interrotto il loro corso; gli uccelli e i volatili avevano trattenuto il loro volo. E, guardando a terra, vide una giara appena modellata: presso di essa era un vasaio che aveva impastato l’argilla e faceva il gesto di congiungere in aria le mani, ma quelle non si riavvicinavano. Tutti gli altri guardavano fisso in alto. Vide anche delle greggi condotte al pascolo: non avanzavano, non camminavano e non pascolavano. Il pastore brandiva il bastone e non poteva battere i montoni, ma teneva la mano sospesa in alto. Guardò pure un torrente in un burrone e vide dei cammelli che, passando di lì, tendevano la bocca sulle sponde del burrone e non mangiavano. Così, nel momento del parto della Vergine santa, tutti gli elementi restavano come immobili nel loro atteggiamento » (VIII, 10; C. Michel – P. Peeters, Evangiles Apochryphes, Paris 1911, 123s). Queste testimonianze mostrano che la tradizione era ampiamente diffusa e, di riflesso, che ad essa si dava importanza per il suo significato. Il fatto che la vita dell’universo si fermi come d’incanto al momento della nascita di Gesù indica la partecipazione cosmica, cioè di tutte le creature, all’avvenimento.
Alla luce di paralleli rilevati in altre culture qualcuno ha parlato persino di derivazione di questo tema dalla religione indiana o dalla mitologia greca. Ma, a parte il fatto che un parallelo non implichi sempre e necessariamente una dipendenza, non sarebbe più spontaneo e più logico rifarsi alla tradizione biblica e giudaica antica? Gli studi recenti mostrano sempre più chiaramente che tanta parte della letteratura apocrifa cristiana ha attinto temi e metodo di interpretazione dal mondo biblico e giudaico.
2. La tradizione biblica
Nella Bibbia assai spesso il silenzio e l’immobilità accompagnano le manifestazioni di Dio e i suoi interventi. Citiamo solo due testi, ma gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Il Salmo 76,9s, parlando del giudizio salvifico di Dio, dice: « Hai fatto udire dai cieli la sentenza: la terra è sbigottita e tace, quando Dio si alza per giudicare, per recare salvezza agli umili della terra ». Il profeta Abacuc, contrapponendo la maestà del Dio vivente alla falsità degli idoli, proclama: « YHWH invece è nel suo santo tempio: faccia silenzio davanti a lui tutta la terra » (2,20; cf. pure Es 15,16; Lev 10, 3; Is 41,1; Sof 1,7; Zac 2,17; Apoc 8,1). In questi testi biblici il silenzio esprime, dunque, il timore, il rispetto e l’adorazione delI’uomo e della terra stessa dinanzi al Signore che si fa presente.
3. La tradizione giudaica antica
E’ noto che la tradizione giudaica ha arricchito e abbellito fatti e personaggi della Bibbia con commenti e tradizioni di carattere popolare. La aggadah, commento biblico di tipo edificante e esortativo, è presentata come una via per comprendere meglio la Parola divina e conoscerne l’Autore. Un detto rabbinico dichiara: « Se tu vuoi conoscere ‘Colui che parlò e il mondo esistette’ (Sal 33, 9), studia la aggadah, poiché attraverso di essa l’uomo conosce il Santo, Egli sia benedetto » (Sifré Deut 11,22). Un testo richiama l’attenzione, perché offre un interessante parallelo della leggenda natalizia degli Apocrifi. Il « Midrash Rabbâ », collezione di commenti al Pentateuco e ad altri libri biblici, descrivendo lo scenario nel quale Dio donò la Legge al suo popolo, riporta questa tradizione: « Rabbi Abbahu (300 ca.) diceva in nome di Rabbi Jochanan ( m. 279): Quando Dio diede la Legge nessun uccello cinguettava, nessun volatile volava, nessun bue muggiva, nessuno degli Ofanim (ruote del carro divino, cf. Ez 1,15ss) muoveva un’ala, i Serafini non dicevano ‘Santo, Santo, Santo’, il mare non mormorava, le creature tacevano, tutto l’universo era ammutolito in un silenzio senza respiro, e venne la voce: ‘Io sono il Signore tuo Dio’ (Es 20,2) » (Esodo Rabbâ 29,9 a 20,1).
Poi il Midrash aggiunge che anche nella manifestazione di Dio sul monte Carmelo, al tempo di Elia (cf. 1 Re 18,20-40), tutto l’universo restò attonito, in silenzio. Quindi richiamandosi a Rabbi Simeone ben Lachish (250 ca.), il testo rabbinico conclude: « (Se vi fu silenzio allora), quanto più naturale che nel momento in cui Dio parlò sul monte Sinai, tutto l’universo restasse in silenzio, così che tutte le creature potessero conoscere che non vi era altro (Dio) al di fuori di Lui » (ivi).
E’ interessante notare che in questa tradizione la sospensione cosmica della vita ha un chiaro significato teologico. Il silenzio e l’immobilità di tutte le creature del cielo e della terra manifestano all’uomo la rivelazione del Dio unico.
Conclusione
La leggenda natalizia apocrifa, letta sullo sfondo biblico e giudaico qui presentato, forse si comprende meglio nel suo linguaggio e significato. Al momento della nascita di Gesù a Betlemme tutte le cose sulla terra, arrestandosi in un improvviso silenzio, ne avvertono e ne rivelano la venuta nel mondo. Certo, un racconto popolare con caratteri leggendari, ma pure con un toccante significato teologico. La liturgia del tempo natalizio sembra aver raccolto, almeno in parte, questo tema. Facendo uso del senso accomodatizio essa applica all’Incarnazione del Verbo e alla nascita di Gesù questo testo del libro della Sapienza: « Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa, mentre la notte giungeva a metà del suo corso, il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale » (18,14s; cf. Messale e Breviario romano, Tempo di Natale).
Forse S. Ignazio di Antiochia, martire a Roma nel 107, ricordava anche questa tradizione scrivendo ai cristiani di Efeso: « E la verginità di Maria, come pure il parto di lei, furono nascosti al demonio e così anche la morte del Signore; tre misteri di gloria, che furono compiuti nel silenzio » (Efes. 19). I maestri della vita spirituale e i mistici di tutti i tempi hanno fatto proprio il tema poetico e biblico-teologico. Il silenzio, nella loro esperienza e dottrina, è l’atteggiamento con cui il cristiano deve ascoltare e accogliere la grande Parola, che il Padre ha detto in un silenzio eterno, cioè il Suo Figlio Gesù Cristo.
dal sito:
http://198.62.75.5/www1/ofm/sites/TSbsacra_It.html
BETLEMME NELLA SACRA SCRITTURA
Betlemme, la ‘casa del pane’, Bèt-Lahm nell’antica lingua siro-caldaica, viene talvolta chiamata nella Bibbia anche Betlemme di Giuda, per evitare confusioni con l’omonima località nel territorio della tribù di Zabulon, che fu patria di uno dei Giudici di Israele, Ibsan (l’odierna Beth-Lehem che si trova 12 km ad Ovest di Nazaret). Identificata con l’antica Efrata, è a volte chiamata, sempre per lo stesso motivo, Betlemme-Efrata. Luca usa l’espressione ‘città di David’.
Betlemme ha radici profonde nel passato: ne parla già il Libro della Genesi, quando riferisce la morte di Rachele. Anche se il Genesi è stato redatto, nella sua forma definitiva, probabilmente nel periodo post-esilico (V sec. a.C.), le tradizioni che in esso vengono tramandate risalgono a tempi ben remoti, ai tempi dei Patriarchi (XVII-XVI sec. a.C.).
« Rachele … ebbe un parto difficile … Or avvenne che, mentre la sua anima si partiva pose (al figlio) nome Benoni, ma suo padre lo chiamò Beniamino. Rachele dunque morì e fu sepolta sulla strada di Efrata, cioè Betlemme » (Gen 35, 16. 19).
A Betlemme nacquero Elimelec e Noemi sua moglie. Dopo il soggiorno nella terra di Moab, a Betlemme ritornò Noemi, vedova, con la nuora moabita Rut, a sua volta vedova; a Betlemme la dolce e remissiva Rut conobbe l’agiato Booz. Bella, ricca di significato è la benedizione con la quale gli anziani ed il popolo santificano, le nozze di Rut e Booz:
« La donna che entra nella tua casa il Signore la faccia essere simile a Rachele e a Lia che edificarono la casa di Israele e faccia che tu diventi potente in
Efrata e ti acquisti un nome in Betlemme. Sia la tua casa come la casa di Fares che Tamar generò a Giuda, per la discendenza che il Signore ti darà da questa giovane » (Rut 4, 11-12).
Benedizione bella, benedizione profetica: dal figlio di Booz e Rut, Obed, nacque Iesse; da Iesse nacque David, progenitore dell’Emmanuele, del Messia.
Da Rama a Betlemme, su ordine dell’Altissimo, si recò Samuele per sacrificare ["La mia venuta è pacifica; vengo per sacrificare al Signore" (1 Sam 16, 5)] e per ungere re di Israele il giovane David, il prestante pastore, al posto di Saul che era incorso nell’ira divina ["Il Signore si era pentito di averlo fatto re su Israele" (1 Sam 15, 35)]. David, tuttavia, fu riconosciuto re dalla tribù di Giuda, e quindi da tutto Israele, soltanto molti anni dopo, e cioè alla morte di Isboset, figlio minore di Saul.
A Betlemme nacquero anche i tre nipoti di David: Ioab, l’eroico soldato e generale; Abisai, l’amico caro al cuore del re; Asrael, il valoroso che morì combattendo. Indubbiamente Betlemme era madre di eroi: vide nascere anche Elcana, l’uccisore di Gob, il gigante filisteo fratello di Golia.
Roboamo (2 Cron 11, 6) fortificò Betlemme, che venne a far parte di un sistema di città armate contro le invasioni degli Egizi, sempre convinti di avere dei diritti sul territorio palestinese.
In Michea troviamo Betlemme nel contesto di una grande profezia:
« E tu, Betlemme Efrata
pur essendo piccola tra i capoluoghi di Giuda
da te mi nascerà colui
che deve regnare su Israele… Egli starà ritto
e pascerà con la potenza del Signore
con la maestà del nome del Signore, suo Dio… E lui sarà la nostra pace » (Mi 5, 1-3).
Questa profezia si intreccia con quelle di Isaia:
« Ecco la giovane (la vergine, almah) concepisce e partorisce un figlio che chiamerà Emmanuele » (Is 7, 14); « Un rampollo spunterà dal tronco di lesse un virgulto germoglierà dalle sue radici » (Is 11,1); « Avverrà in quel giorno che la radice di lesse si ergerà a segnale per i popoli, ad essa si rivolgeranno ansiose le genti, e gloriosa sarà la sua sede » (Is 11, 10).
Alla pienezza dei tempi, dal seme di David e da Betlemme, la borgata di dove era David, venne il Cristo. Con brevi parole, Matteo ["Nato Gesù in Betlemme di Giuda... (2, 1)] e Luca ["Or avvenne che, mentre essi erano là, si compirono i giorni in cui essa doveva partorire e partorì il suo figlio..." (2, 6-7)], ci narrano la nascita del Bambino.
Betlemme esce dalla Bibbia ed entra nella storia con un episodio drammatico: la strage degli Innocenti. Erode, che aveva ordinato ai Magi di riferirgli dove si trovasse il re dei Giudei, vedendosi da essi deluso, « si adirò grandemente e mandò a uccidere tutti i fanciulli che erano in Betlemme e in tutto il suo territorio, dai due anni in giù » (Mt 2, 16).
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&ordo=&localTime=01/02/2009#
Sant’Agostino (354-430), vescovo d’Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Discorso 293, per la Natività di Giovanni Battista
« Io sono voce di uno che grida nel deserto »
Giovanni è la voce, il Signore, invece, «in principio era il Verbo» (Gv 1,1). Giovanni voce nel tempo, Cristo in principio Parola eterna. Togli la parola, che cos’è la voce? Non ha nulla di intellegibile, è strepito a vuoto. La voce, senza la parola, colpisce l’orecchio, non apporta nulla alla mente. Nondimeno, proprio nell’edificazione della nostra mente, ci rendiamo conto dell’ordine delle cose. Se penso a quel che dirò, la parola è già dentro di me; ma, volendo parlare a te, cerco in qual modo sia anche nella tua mente ciò che è già nella mia. Cercando come possa arrivare a te e trovar posto nella tua mente la parola che occupa già la mia, mi servo della voce e, mediante la voce, ti parlo. Il suono della voce ti reca l’intelligenza della parola; appena il suono della voce ti ha recato l’intelligenza della parola, il suono stesso passa oltre; ma la parola, a te recata dal suono, è ormai nella tua mente e non si è allontanata dalla mia.
Perciò il suono, proprio il suono, quando la parola è penetrata in te, non ti sembra dire: «Egli deve crescere ed io, invece, diminuire» (Gv 3,30)? La sonorità della voce ha vibrato nel far servizio, quindi si è allontanata, come per dire: «Questa mia gioia è completa» (v. 29). Conserviamo la parola, badiamo a non perdere la parola concepita nel profondo dell’essere.