Archive pour le 27 janvier, 2009

La spiritualità ebraica (metto questo articolo per la giornata della memoria)

dal sito:

http://www.nostreradici.it/spiritualita-ebraica.htm

Marco Morselli

Università di Modena e Reggio Emilia

La spiritualità ebraica

«Quanta gente è perplessa riguardo alla comprensione della Torah. Non ne percepiscono le verità segrete. La Torah li invita amorosamente ogni giorno, ma loro non ci badano. È proprio come ho detto prima: la Torah mette avanti una parola misteriosa, rivelandosi in questo modo, e poi subito si ritira. Ma questo essa non lo fa che per quelli che la amano e la studiano».(1)

1. La spiritualità ebraica è vita nella Toràh. Il primo versetto della Torah è «Bereshìt barà Eloqìm et ha-shammàyim we-et ha-àretz». Dunque la Torah inizia con una bet, la seconda lettera dell’alfabeto, che ha valore numerico 2. Alef indica l’assoluta unità divina, il Creatore. Ciò che viene creato è invece sotto il segno della dualità, delle opposizioni.

«All’inizio, in principio creò…» abbiamo poi uno dei due Nomi che nella Bibbia indicano il Santo, benedetto Egli sia. Uno è un plurale, l’altro è una sigla impronunciabile. Uno indica l’attributo della sua Giustizia, l’altro della sua Misericordia.

Questi Nomi, come tutti i nomi, sono intraducibili. Nelle circa 2000 traduzioni della Bibbia esistenti, sono invece stati tradotti, facendo ricorso ai nomi delle diverse divinità locali, di modo che il libro che avrebbe dovuto portare al mondo la conoscenza dell’Unità del molteplice è divenuto il ricettacolo di tutte le divinità.(2)

Dunque, che cosa creò il Signore? Lo sanno tutti: i cieli e la terra. Ma nell’originale ebraico prima di queste parole troviamo la particella et, che indica che ciò che segue è un complemento oggetto. Et è formato da una alef e da una taw, che sono la prima e l’ultima delle lettere dell’alfabeto. Che cosa ha creato allora il Santo innanzi tutto? Egli, che è infinito, ha creto l’inizio e la fine.

Eppure no: la prima cosa creata è stata la luce (come Es 20,11 conferma). Rashì (XI sec., il principale commentatore della Torah) scrive: «Questo testo non dice altro che: Interpretami!». I vv. 1-2-3 sono inseparabili, costituiscono un tutt’uno: Al principio della creazione dei cieli e della terra, la terra era turbamento, vuoto e tenebre, il Signore disse: «Sia la luce!».

Questo è solo un piccolo esempio di esegesi ebraica delle Scritture. È significativo anzi che in ebraico non si parli di Scritture, ma di Miqrà, che vuol dire lettura. La Parola del Signore ha infiniti significati, la sua lettura è infinita.

Occorre inoltre tenere presente che non vi è solo la Torah scritta, vi è anche la Torah orale, che precede e accompagna la Torah scritta. In una situazione di estremo pericolo per l’esistenza stessa del popolo ebraico(3) la Torah orale venne messa per iscritto, e abbiamo così la Mishnàh. I commenti alla Mishnah costituiscono il Talmùd. Abbiamo poi ancora il Midràsh e la Qabbalàh.

Elie Wiesel ha definito il Talmud «un oceano vasto, turbolento eppure confortante, che suggerisce l’infinita dimensione dell’esistenza e l’amore per la vita, oltre che il mistero della morte e dell’istante che la precede».

Il Talmud fa parte della storia degli Ebrei da millenni, se consideriamo la sua storia dalle tradizioni orali alla Mishnah, alla discussione della Mishnah, al Talmud orale, al Talmud manoscritto, poi stampato, poi su Internet. Al suo interno, il qui e l’ora sono intimamente connessi con altri tempi e altri luoghi, i Maestri del I secolo discutono con i Maestri del XX secolo, i Rabbini babilonesi con quelli francesi. Più che un libro, è un approccio all’esistenza, nel quale la ricerca e la discussione collegano le realtà di questo mondo alle realtà del mondo a venire.(4)

Quello che il Talmud è per la Mishnah, il Midrash è per la Torah. Il termine deriva da darash, ricercare. Vi sono moltissimi punti oscuri nella Bibbia, incomprensibili senza il riferimento a una tradizione esegetica che precede, accompagna e segue il testo.(5)

La Qabbalah è la mistica ebraica. La realtà è un’unità in cui il visibile e l’invisibile, la materia e lo spirito si compenetrano. Il progressivo disvelamento della Qabbalah ha valenze escatologiche. Vi sono dei momenti privilegiati del passaggio dei segreti dalla sfera esoterica a quella essoterica.

Nell’anno 1240, corrispondente all’anno 5000 nella datazione ebraica, ha avuto inizio il sesto millennio, e ha fatto la sua comparsa lo Zohar, il principale testo cabbalistico. Altra data importante è il 1840, corrispondente al 5600. Siamo ora nell’anno 5766, in un’epoca in cui la preparazione messianica si intensifica.(6)

2. Per millenni l’ebraismo è stato accusato di essere una religione particolaristica. Rav Elia Benamozegh (Livorno 1823-1900) è tra coloro che più si sono adoperati per dimostrare l’infondatezza di tale accusa. Come sarebbe mai stato possibile che da tale particolarismo scaturissero due religioni universali (o meglio: aspiranti all’universalità) come il cristianesimo e l’islamismo? Vi è nell’ebraismo una duplice struttura, articolata in mosaismo e noachismo. L’alleanza con Noè non è in nulla inferiore all’alleanza con Mosè. Colui che si convertiva doveva presentarsi davanti a tre rabbini e dichiarare di voler appartenere alla religione noachide. È probabile che la conversione fosse accompagnata dal battesimo, ossia dall’immersione nelle acque del miqweh. Il noachide si impegna a rispettare sette comandamenti: 1) istituzione di tribunali (= ogni società umana ha bisogno di giustizia); 2) divieto di blasfemia; 3) divieto di idolatria; 4) divieto di adulterio; 5) divieto di omicidio; 6) divieto di furto; 7) divieto di mangiare una parte di un animale vivo (= divieto di crudeltà nei confronti degli animali). Rispettando tali comandamenti il noachide entrerà nel mondo a venire, ossia avrà parte alla vita eterna.(7)

La Torah è dunque un libro da fare: 613 mitzwot per gli Ebrei e per chi voglia entrare nell’alleanza di Mosè, 7 mitzwot per chi voglia entrare nell’alleanza di Noè, con la libertà di osservare, volendo, anche un certo numero delle restanti.

Il Santo, benedetto Egli sia, nella sua trascendenza è assolutamente inconoscibile. Di Lui possiamo conoscere ciò che Lui ha voluto rivelarci: la sua volontà. Aderendo alla sua volontà noi ci avviciniamo a Lui. Come Lui è santo, così noi cerchiamo di santificarci, anche nelle minute attività della nostra vita quotidiana.

Ciò che la Torah ci indica, più che una ortodossia, è una ortoprassi. Il primato dell’etica non è un rifiuto della Rivelazione, ma proprio il contenuto della Rivelazione, con il quale la teologia dovrebbe confrontarsi.

3. So per esperienza che non è facile parlare davanti a un uditorio cristiano dell’antiebraismo cristiano, e dunque non lo farò. Posso rinviare ad alcuni testi che consentono di avviare una riflessione su questo aspetto delle relazioni ebraico-cristiane.(8) Posso anche aggiungere che l’importanza dell’argomento è tale che ne dipende la Redenzione. Posso infine cedere la parola a due cristiani.

Il primo è il Cardinale Jean-Marie Lustiger: «Il massacro e la persecuzione d’Israele ad opera dei pagani [cioè dei goyim] – bisognerebbe dire dei pagano-cristiani – sono la prova della loro menzogna o della loro presunta adorazione di Cristo. […] L’atteggiamento concreto dei pagano-cristiani verso il popolo d’Israele è il sintomo della loro reale infedeltà a Cristo o della loro menzogna nella loro pseudo-fedeltà a Cristo. È la confessione involontaria del loro paganesimo e del loro peccato».(9)

Il secondo è il Pastore Martin Cunz: «Auschwitz è la negazione più assoluta dell’uomo, o più precisamente dell’uomo al cospetto di D. come ce lo presenta il popolo ebraico. E la negazione del popolo ebraico è la negazione più assoluta del D. d’Israele. Se i non ebrei battezzati avessero avuto la minima idea del D. d’Israele e il minimo amore per lui, non avrebbero lasciato morire gli ebrei».(10)

4. A partire dal Concilio Vaticano II ha avuto inizio il percorso di teshuvah dei cattolici (e più o meno contemporaneamente dei cristiani di altre confessioni). Possa questo cammino dell’abbandono della teologia della sostituzione e dell’insegnamento del disprezzo proseguire, nella sequela di Rav Yeshua ben Yosef (= Gesù), fino a raggiungere il monte Sion, il luogo in cui viene imbandito il banchetto messianico: «Sul monte Sion il Signore dell’universo preparerà per tutte le nazioni del mondo un banchetto imbandito di ricche vivande e di vini pregiati. All’improvviso farà sparire su questo monte il velo che copriva tutti i popoli» (Is 25,6-7).
_____________________

(1) Zohar, in S. Avisar, Tremila anni di letteratura ebraica, Carucci 1980, vol. I, p. 555. Per una prima introduzione: L. Sestieri, La spiritualità ebraica, Studium 1986; Ead., Gli ebrei nella storia di tre millenni, Carucci 1986.

(2) Su questo si veda: A. Chouraqui, Mosè, Marietti 1996.

(3) Mi riferisco a quelle che i Romani chiamarono la I e la II Guerra Giudaica. Durante la I venne distrutto il Tempio di Gerusalemme e, riferisce Flavio Giuseppe, non vi erano più alberi in Israele perché centinaia di migliaia di Ebrei erano stati crocifissi dalle truppe di occupazione romane. «Secondo i dati forniti indipendentemente da Giuseppe e da Tacito, oltre 600.000 Ebrei avrebbero trovato la morte nel corso delle operazioni militari, circa il 25% della popolazione, e molti altri vennero fatti prigionieri e venduti come schiavi. Con ciò sembra possibile che qualcosa come la metà della popolazione ebraica sia stata eliminata fisicamente» (J. A. Soggin, Storia d’Israele, Paideia 1984, p. 485). Nel 135 i morti furono 850.000 (Soggin p. 492).

(4) E. Wiesel, Sei riflessioni sul Talmud, Bompiani 2000; Id., Celebrazione talmudica, Lulav 2002; A. Steinsaltz, Cos’è il Talmud?, Giuntina 2004.

(5) G. Stemberger, Il Midrash, Dehoniane 1992.

(6) A. Safran, Saggezza della Cabbalà, Giuntina 1998; Id., Tradizione esoterica ebraica, Giuntina 1999; A. Steinsaltz, La rosa dai tredici petali, Giuntina 2000; G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi 1993.

(7) E. Benamozegh, Israele e l’umanità, Marietti 1990; A. Pallière, Il Santuario sconosciuto, Marietti 2005.

(8) J. Isaac, Gesù e Israele, Marietti 2001; L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo, 5 voll., La Nuova Italia 1974-96 (Sansoni 2004).

(9) J.-M. Lustiger, La Promessa, Marcianum 2005, p. 67.

(10) M. Cunz, Il silenzio ad Auschwitz. Gli interrogativi dopo Auschwitz, in «Sefer», 1990 n. 52, p. 3.

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buona notte

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Medicinal plants -  Drosera rotundifolia

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Beato Guerrico d’Igny : « Ecco mia madre e i miei fratelli »

dal sito:

http://www.vangelodelgiorno.org/www/main.php?language=IT&ordo=&localTime=01/27/2009#

Beato Guerrico d’Igny (circa 1080-1157), abate cistercense
Discorso per la Natività della Beata Vergine Maria, § 3-4 ; SC 202, 491

« Ecco mia madre e i miei fratelli »
Il Vangelo ci mostra il volto più bello di Cristo, cioè la sua vita e l’insegnamento che ha dato con la sua parola e con il suo esempio. Conoscere Cristo sotto questa forma costituisce, nella vita presente, la devozione dei cristiani… Per questo Paolo, sapendo che «la carne non giova a nulla senza lo Spirito che dà la vita» (Gv 6,63), non vuole più conoscere Cristo secondo la carne (2 Cor 5,16) per rivolgersi completamente verso colui che è lo Spirito datore di vita (1 Cor 15,45);

Ora, Maria sembra condividere questo sentimento quando, desiderando fare entrare nel cuore di tutti il Diletto nato dal suo seno, l’Amato dei suoi desideri, lo descrive non secondo la carne, ma secondo lo Spirito. Anche lei sembra dire, con Paolo: «Anche se ho conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosco più così» (2 Cor 5,16). Desidera infatti anche lei, formare il suo Figlio unico in tutti i suoi figli adottivi. Per cui, pur essendo già stati generati dalla parola di verità (Gc 1,18), Maria non smette per questo di darli alla luce ogni giorno, grazie ai desideri e alla sollecitudine della sua tenerezza materna, finché arrivino «allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità» di suo Figlio (Ef 4,13), che lei ha una volta per tutte partorito e messo al mondo….

Per cui ci fa l’elogio del frutto del suo seno con queste parole: «Io sono la madre del puro amore, del timore, della conoscenza e della degna speranza» (Sir 24,24 volg.). – È forse questi, tuo figlio, o Vergine delle vergini? È forse lui, il tuo Diletto, o «tu la più bella fra le donne» (Ct 5,9)?  « Certo, questi è il mio Diletto; e questi è il mio figlio, o figlie di Gerusalemme (vs.16). In lui, mio Diletto, è il puro amore, e in chi è nato da lui, il mio Diletto, è il puro amore, il timore, la speranza e la conoscenza».

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Il Papa ai Vescovi caldei dell’Iraq: perseverate con coraggio

dal sito:

http://www.zenit.org/article-16962?l=italian

Il Papa ai Vescovi caldei dell’Iraq: perseverate con coraggio

Riceve due ricordi di monsignor Rahho e padre Ganni, entrambi assassinati

di Inma Álvarez

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì 26 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Papa Benedetto XVI ha ricevuto sabato scorso in Vaticano i Vescovi della Chiesa caldea, guidati dal Patriarca Emmanuel III Delly, e li ha esortati a “continuare a dare una coraggiosa testimonianza” tra le difficoltà, soprattutto in Iraq.

In un lungo discorso, il Pontefice ha voluto ricordare in modo particolare i cristiani iracheni che subiscono la persecuzione: “Provo ammirazione per il loro coraggio e la loro perseveranza di fronte alle prove e alle minacce di cui sono oggetto”, ha affermato.

Il Papa si è poi mostrato emozionato per aver ricevuto dai Vescovi una cappa pluviale e una stola appartenenti all’Arcivescovo di Mosul, monsignor Paulos Faraj Rahho, e a padre Ragheed Aziz Ganni, assassinati alcuni mesi fa.

Per Benedetto XVI, la testimonianza che i cristiani iracheni stanno dando al Vangelo “è un segno eloquente della vivacità della loro fede e della forza della loro speranza”.

Allo stesso modo, li ha incoraggiati a perseverare “con coraggio e speranza” nonostante le persecuzioni. “La preghiera e l’aiuto dei vostri fratelli nella fede e di numerosi uomini di buona volontà in tutto il modo vi accompagnano perché il volto amorevole di Dio possa continuare a brillare sul popolo iracheno che sopporta tante sofferenze”.

“Agli occhi dei credenti, questi, uniti a Cristo, diventano elementi di unione e speranza. Il sangue dei martiri di questa terra è poi un’intercessione eloquente di fronte a Dio”, ha aggiunto.

In questi momenti difficili, soprattutto per la Chiesa caldea che è maggioritaria nel Paese, il Papa ha chiesto ai cristiani in primo luogo di dare una testimonianza di unità tra loro e di rimanere saldi perché la presenza cristiana rimanga nel Paese, in secondo luogo di praticare la carità nei confronti dei più bisognosi, senza distinzione di religione o di razza.

“Vi esorto vivamente a sostenere i fedeli perché superino le difficoltà attuali e affermino la loro presenza, facendo appello alle autorità responsabili perché riconoscano i loro diritti umani e civili, esortandoli anche ad amare la terra dei loro antenati, alla quale rimangono profondamente legati”, ha affermato.

Proprio la testimonianza della carità “disinteressata della Chiesa”, ha spiegato, richiederà “l’espressione della solidarietà di tutte le persone di buona volontà” verso i cristiani. Per questo, ha chiesto che il maggior numero possibile di fedeli partecipi allo sviluppo delle opere caritative della Chiesa.

Testimonianza di unità

Il Vescovo di Roma ha anche insistito sull’importanza di testimoniare l’unità tra i cristiani in un Paese in cui la Chiesa è divisa in vari riti e tradizioni, sottolineando il ruolo della Chiesa caldea al momento di promuovere questa unità.

“Soprattutto in Iraq – ha ricordato –, la Chiesa caldea, che è maggioritaria, ha una particolare responsabilità nel promuovere la comunione e l’unità del Corpo mistico di Cristo”.

“In ogni eparchia, le varie strutture pastorali, amministrative ed economiche previste dal diritto sono per voi aiuti preziosi per realizzare efficacemente la comunione all’interno delle vostre comunità e favorire la collaborazione”.

Importante è poi il ruolo del Patriarcato nel rapporto con le altre confessioni cristiane e con la maggioranza musulmana.

“Mantenendo relazioni cordiali con i membri di altre comunità, la Chiesa caldea è chiamata a giocare un ruolo essenziale di moderazione in vista della costruzione di una nuova società in cui ciascuno può vivere in concordia e rispetto reciproci”, ha affermato.

I cristiani, “che vivono in Iraq da sempre, sono cittadini a pieno diritto con i loro diritti e doveri, senza distinzione di religione”, ha detto il Papa ai Vescovi. “Oggi la Chiesa caldea, che ha un posto importante tra le varie componenti dei vostri Paesi, deve portare avanti questa missione al servizio dello sviluppo umano e spirituale”.

Un terzo aspetto dell’unità è riferito ai fedeli della diaspora, che il Papa ha esortato a “stringere i legami con la Chiesa d’origine”, chiedendo poi ai cristiani caldei di altri Paesi di soccorrere i loro fratelli iracheni rifugiati.

“E’ indispensabile che i fedeli mantengano la propria identità culturale e religiosa e che i più giovani scoprano e apprezzino la ricchezza del patrimonio della loro Chiesa patriarcale”, ha osservato.

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26 gennaio, SS Timoteo e Tito: Ho combattuto la buona battaglia

26 GENNAIO: SS. TIMOTEO E TITO (m)


UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo
(Om. 2, Panegirico di san Paolo; PG 50, 480-484)

Ho combattuto la buona battaglia


Paolo se ne stava nel carcere come se stesse in cielo e riceveva percosse e ferite più volentieri di coloro che ricevono il palio nelle gare: amava i dolori non meno dei premi, perché stimava gli stessi dolori come fossero ricompense; perciò li chiamava anche una grazia divina. Ma sta’ bene attento in qual senso lo diceva: Certo era un premio essere sciolto dal corpo ed essere con Cristo (cfr. Fil 1, 23), mentre restare nel corpo era una lotta continua; tuttavia per amore di Cristo rimandava il premio per poter combattere: cosa che giudicava ancor più necessaria.
L’essere separato da Cristo costituiva per lui lotta e dolore, anzi assai più che lotta e dolore. Essere con Cristo era l’unico premio al di sopra di ogni cosa. Paolo per amore di Cristo preferì la prima cosa alla seconda.
Certamente qui qualcuno potrebbe obiettare che Paolo riteneva tutte queste realtà soavi per amore di Cristo. Certo, anch’io ammetto questo, perché quelle cose che per noi sono fonti di tristezza, per lui erano invece fonte di grandissimo piacere. Ma perché io ricordo i pericoli e i travagli? Poiché egli si trovava in grandissima afflizione e per questo diceva: «Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo che io non ne frema?» (2 Cor 11, 29).
Ora, vi prego, non ammiriamo soltanto, ma anche imitiamo questo esempio così magnifico di virtù. Solo così infatti potremo essere partecipi dei suoi trionfi.
Se qualcuno si meraviglia perché abbiamo parlato così, cioè che chiunque avrà i meriti di Paolo avrà anche i medesimi premi, può ascoltare lo stesso Apostolo che dice: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno, e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione» (2 Tm 4, 7-8). Puoi vedere chiaramente come chiama tutti alla partecipazione della medesima gloria.
Ora, poiché viene presentata a tutti la medesima corona di gloria, cerchiamo tutti di diventare degni di quei beni che sono stati promessi.
Non dobbiamo inoltre considerare in lui solamente la grandezza e la sublimità delle virtù e la tempra forte e decisa del suo animo, per la quale ha meritato di arrivare ad una gloria così grande, ma anche la comunanza di natura, per cui egli è come noi in tutto. Così anche le cose assai difficili ci sembreranno facili e leggere e, affaticandoci in questo tempo così breve, porteremo quella corona incorruttibile ed immortale, per grazia e misericordia del Signore nostro Gesù Cristo, a cui appartiene la gloria e la potenza ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen.

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