LUTHER PRAYER BEFORE MEAL_ DAILY BREAD
LUTHER PRAYER BEFORE MEAL_ DAILY BREAD
http://www.artbible.net/3JC/-Mat-06,01-Prayer%20Our%20Father_Priere%20Notre%20Pere/index2.html

LUTHER PRAYER BEFORE MEAL_ DAILY BREAD
http://www.artbible.net/3JC/-Mat-06,01-Prayer%20Our%20Father_Priere%20Notre%20Pere/index2.html
dal sito:
http://oratoriotirano.files.wordpress.com/2008/11/abba_padre_-_lyonnet_2.doc
LA PREGHIERA AL PADRE: ABBÀ, PADRE!
(Efesini 1,3-6)
S. LYONNET
Per penetrare più a fondo nella concezione paolina della preghiera ne esamineremo una, che forse è tra le più caratteristiche di quante se ne incontrano nelle lettere dell’Apostolo: quella che dà inizio alla lettera agli Efesini e si estende per undici versetti (Ef. 1,3-14). San Paolo ha riunito in essa i temi essenziali della rivelazione cristiana, e, poiché sembra che si sia ispirato a una delle preghiere giudaiche che gli erano più familiari, questo passo offre oltre tutto il vantaggio di permetterci un confronto quanto mai istruttivo fra questa rivelazione e quella che più le si avvicina perché l’annuncia e la prefigura, quella cioè dell’A.T. Ci soffermeremo per ora solo sui primi quattro versetti di questa «benedizione» che apre la lettera agli Efesini, cercando di precisare in quale senso Dio vi è chiamato Padre:
Benedetto sia il Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni sorta di benedizioni spirituali nei cieli, nel Cristo.
In lui egli ci ha scelti fin dalla creazione del mondo per essere santi e immacolati alla sua presenza, nell’amore, predestinandoci ad essere per lui figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà, in lode della gloria della sua grazia di cui ci ha gratificati nell’Amato.
Non solo la forma letteraria, ma i temi evocati nel corso di questa preghiera e perfino certe formule tipiche richiamano stranamente la seconda ‘benedizione’ che mattina e sera nella liturgia del tempio precedeva la recita ufficiale della professione di fede dell’israelita: «Ascolta, Israele! il Signore, tuo Dio, è unico: amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore…». Come l’inno di ringraziamento paolino, questa preghiera è interamente consacrata a celebrare l’amore per il suo popolo di Colui che è Dio e Padre. Tra tutte le preghiere del rituale giudaico essa è quella in cui il termine ‘amore’ ricorre più frequente, la sola che inizia e finisce con esso. Eccone l’inizio e la fine:
Con un amore eterno ci hai amati, o Signore, nostro Dio; con una pietà estrema e sovrabbondante hai avuto pietà di noi, o Padre nostro, nostro Re… Ci hai eletti tra tutti i popoli… affinché ti lodassimo e proclamassimo che tu sei unico nell’ amore.
Benedetto sii tu, Signore che hai eletto il tuo popolo d’Israele nell’amore! Benedetto sia il Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo.
Lo sguardo dell’Apostolo si ferma prima di tutto sulla persona del Padre, anche se la lettera è tutta intesa a esaltare il primato di Cristo. Al Padre viene rivolta direttamente la lode, così come da lui procedono tutti i benefici che si appresta ad elencare; egli ci ha eletti nell’amore (v. 4), ci ha predestinati ad essere suoi figli (v. 4), ci ha elargito la sua grazia (vv. 6,7,8), ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà salvifica (v. 9) e ha realizzato in Gesù Cristo il disegno prestabilito (v. 10). Da lui tutto proviene e a lui tutto deve ritornare, poiché tutto è «per la lode della sua gloria», secondo la formula che Paolo ripete a tre riprese (VV.5,12,14), come per scandire una ad una le strofe di questo canto di riconoscenza. È vero che il Cristo viene nominato ad ogni versetto, ma non a lui è rivolta direttamente la preghiera: egli è mediatore. Certo il Nuovo Testamento non ignora la preghiera a Cristo (per es. Atti 7,59). Ma ciò che propriamente distingue il cristiano dall’israelita, non è il fatto che egli invoca Cristo in luogo di Jahvé, ma piuttosto che invoca Jahvé «nel nome di Gesù» (1), cioè, come pare, in unione con lui (2), così che la sua preghiera diventa la stessa che Gesù rivolge al Padre, come quando la liturgia prega: per Dominum nostrum Iesum Christum (3).
San Paolo poi non si contenta, come la preghiera giudaica, di dare a Dio il titolo di Padre, ma volutamente precisa: «Padre di nostro Signore Gesù Cristo». Tutto procede da Dio in quanto è Padre non del popolo d’Israele, ma del suo unico Figlio: in lui ci ha eletti nell’amore, per lui ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi, favore incomparabile che ci ha accordato «nell’Amato», colui che la lettera ai Colossesi (1,3) chiamava «il Figlio del suo amore». L’amore di Dio sorgente della nostra filiazione non è solo l’amore – per quanto grande fosse – con cui secondo l’Antico Testamento Dio amava Israele, suo «figlio primogenito» (Es. 4,22), ma è l’amore stesso con cui il Padre ama il suo Figlio unico.
Nessuno mai aveva potuto sospettar ciò; l’israelita sapeva di essere amato da Dio come da un padre (4), anzi più che da una madre (5); ma aveva sempre una gran cura di evitare ogni possibile confusione tra questa paternità fondata su una elezione del tutto gratuita e la paternità più o meno «naturalista» che i pagani attribuivano di fatto ai loro dei, a Zeus o Giove (cioè «Iupiter», ossia Zeus-padre). Perciò, a differenza di costoro, l’Antico Testamento non ha mai una preghiera in cui il fedele si rivolga a Dio chiamandolo «Padre»: lo invoca col titolo di Dio, Signore, Salvatore, Redentore, con quello di Padre mai (6). L’invocazione è vero, appare in epoca più recente, per esempio nella liturgia giudaica, cioè quando il pericolo di confusione era scomparso; ma la preoccupazione di salvaguardare il carattere assolutamente unico della paternità divina non vien meno. Un ragazzo ebreo era solito rivolgersi a suo padre col titolo di abbà cioè «padre» o, forse meglio, «papà»; ma rivolgendosi a Dio un ebreo dirà generalmente abinu, «padre nostro», e per lo più aggiungerà qualche altro titolo, come «nostro re», «nostro signore», oppure una qualifica come «che sei nei cieli». Studi recenti hanno mostrato che l’ebreo non diceva mai abbà.
Apriamo ora il vangelo, ed eccoci davanti a una scena del tutto diversa. Non solo Cristo invoca suo Padre col titolo abbà, ma praticamente non ne conosce un altro. Per lo più gli evangelisti hanno la traduzione greca pater, ma San Marco ha tenuto a riprodurre l’originale aramaico abbà (Mc 14,36) (7) che certamente va messo ovunque il testo greco porta pater, oppure o pater (Padre, o: il Padre), segnatamente in San Giovanni (8) e nella preghiera di Cristo in croce riferita da San Luca: Padre, perdona loro, perché non sanno ciò che fanno (Lc. 23,34). Se egli grida: Mio Dio perché mi hai abbandonato? (Mt.27,46; Mc. 15,34), non è perché Dio non gli appare più come un «padre», ma perché si propone di citare alla lettera l’inizio del Salmo 22, che del resto «termina in un’azione di grazie per la liberazione attesa» (Bibbia di Gerusalemme). E poco appresso, quando si accontenterà di ispirarsi a un’espressione biblica presa da un altro salmo senza voler fare una vera e propria citazione, là dove il salmista aveva detto «Signore» sulla sua bocca verrà spontaneo abbà: «Padre, nelle tue mani io rimetto il mio spirito» (9).
Potrebbe anzi darsi che il Cristo abbia iniziato a rivelare ai suoi discepoli il mistero della sua filiazione divina appunto servendosi di questa invocazione così caratteristica. Comunque, la prima volta che i vangeli riferiscono una preghiera di Cristo, a due riprese ricorre sulle sue labbra il termine «Padre» cioè abbà: Io ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto questo ai sapienti e agli scaltri e l’ hai rivelato ai semplici. Sì, Padre, perché questo è stato il tuo beneplacito! (Mt. 11,25-26; Lc. 10,21). Ma soprattutto la solenne dichiarazione che segue immediatamente sembra proprio destinata nel pensiero di Gesù a spiegare e quasi a giustificare agli occhi degli ascoltatori un’invocazione così inaudita da parte di un giudeo, che si rivolge non più al padre terreno, ma a Dio stesso: Tutto mi è stato dato dal Padre mio e nessuno conosce il Figlio se non il Padre, così come nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui il quale il Figlio vuol rivelarlo (Mt 11,27; Lc 10,22).
Ma ciò che più sorprende non è che Cristo nella sua preghiera si rivolga a Dio chiamandolo abbà – come se fosse la cosa più naturale – ma che questa invocazione sia diventata la preghiera anche del più umile cristiano. Infatti S. Paolo è esplicito: La prova che siete figli, scrive ai Galati, è che Dio ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del suo Figlio, che grida: Abbà, Padre (Gal 4,6). E ai Romani: Avete ricevuto uno Spirito di figli adottivi che ci fa gridare: Abbà, Padre (Rm 8,15). Si capisce che San Marco, abbia tenuto a riprodurre il termine aramaico abbà, e che per pronunciare un’invocazione siffatta sia necessario aver prima ricevuto lo Spirito del Figlio. Ma questo ci fa capire quanta differenza distingua la nostra filiazione da quella conosciuta nell’Antico Testamento: questa si basava sull’elezione, la nostra non si concepisce che in funzione e in dipendenza dalla filiazione «naturale» del Figlio unico. Dio ci ha predestinati ad essere per lui figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo in quanto è Padre di nostro Signore Gesù Cristo (10).
È però vero che Cristo, secondo San Matteo, ha insegnato ai discepoli a pregare dicendo non come lui abbà, ma come i Giudei: «Padre nostro» cioè abinu, e ad aggiungere anche, come essi facevano, «che sei nei cieli» (Mt 6,9). Se la preghiera abbà esigeva una giustificazione sulle sue labbra, come avrebbe potuto dir loro di primo acchito: «quando pregate, dite come me: abbà»? Il compito di «condurli verso la verità tutta intera» (Gv 16,13) era riservato allo Spirito. San Paolo ci insegna che lo Spirito Santo ha messo sulle labbra e nei cuori dei discepoli il termine abbà, «Padre». E San Luca, sostituendo al «Padre nostro che sei nei cieli» di San Matteo il semplice «Padre», che sicuramente rende abbà, intendeva probabilmente precisare il senso che i cristiani istruiti dallo Spirito davano alla formula ricevuta da Cristo e insegnarci a caricare l’espressione giudaica di tutta la confidenza, la tenerezza e l’amore che riempivano il cuore di un fanciullo quando si rivolgeva a suo padre dicendogli «papà» (11), o più ancora tutta la confidenza, la tenerezza e l’amore che riempiva il cuore di Cristo quando si rivolgeva a Dio dicendogli abbà, «Padre». Nessuna meraviglia che la liturgia, introducendo la solenne recita del Pater nella messa latina, parli di audacia: «osiamo dire» (audemus dicere). Singolare audacia è infatti ardire di assumere nei riguardi di Dio proprio lo stesso atteggiamento espresso da quel termine abbà, che poteva prendere il Figlio unico e prediletto nei riguardi del Padre suo. Ma è un’audacia legittima. Benedetto sia il Dio e Padre di nostro Signor Gesù Cristo che ci ha predestinati ad essere per lui figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo!
Note
[1]. Si paragoni la formula di Ef. 5,9 (preghiere indirizzate al Signore») e quelle del passo parallelo di Col. 3,16 (preghiere indirizzate «a Dio nel nome di nostro Signore Gesù Cristo»).
[2]. Cfr. Giov. 14,13 e la nota della Bibbia di Gerusalemme.
[3]. Cfr. J. GUILLET, L’action de graces du Fils, nel periodo «Christus» n. 16 (1957) pp. 438-453 e Le Christ prie en moi: ibid. n. 19 (1958), pp. 150-165; oppure Jésus Christ hier et aujourd’bui (collana «Christus» n. n), cap. 9 e 16.
[4]. Così Deut. 32,6; Is. 63,16; 64.7; Ger. 31,20.
[6]. La sola vera eccezione è Sap. 14,3: «è la tua provvidenza, o Padre, che lo guida».
[5]. Così Is.49,14-16; cfr. 66,3; Sal. 27,10.
[7]. La lingua aramaica era la lingua usuale dei Giudei di Palestina al tempo di Gesù, e la lingua di Gesù stesso.
[8]. Così Giov. 11,41; 12,27-28; e la preghiera sacerdotale del cap. 17 (VV.I,5,1I,21,24,25).
[9]. Lc. 23,46, che cita Sal. 31,6.
[10]. Ef. 1,3-4. Cfr. 2 Cor. 1,3.
[11]. Confronta la parola di santa Teresa del Bambin Gesù a sua sorella, il 5 giugno 1897: «Se un mattino mi trovaste morta, non datevi pena; papà, il buon Dio, sarebbe semplicemente venuto a cercarmi» (Novissima verba, p. 28).
Tratto da:
“Dieci meditazioni su San Paolo”
PAIDEIA EDITRICE BRESCIA
Titolo originale dell’opera: lnitiatian à la Dactrine Spirituelle de Saint Paul
Dix méditations sur le texte des Epitres
Traduzione italiana di Felice Montagnini – 1° edizione: dicembre 1965
dal sito:
CULTURA&TEMPO LIBERO
ILSOLE24ORE.COM
San Paolo caduto tre volte
di Gianfranco Ravasi –
14 NOVEMBRE 2008
Le moi est haïssable, scriveva Pascal nei suoi Pensieri, e che l’io troppo ostentato nelle sue esperienze più profonde sia un po’ odioso era probabilmente una sensazione condivisa anche da san Paolo, che pure aveva lasciato impronte personalissime nel suo epistolario. Qualcosa del genere può, infatti, essere ripetuto anche per quell’evento capitale che aveva rivoluzionato la sua autobiografia, ossia la conversione avvenuta forse nell’anno 32 sulla strada che lo stava conducendo a Damasco. Scrivendo ai cristiani di Filippi, l’Apostolo ricorre soltanto a un folgorante verbo greco, katelémften, cioè «fui afferrato, ghermito, conquistato, impugnato» da Cristo (3, 12). In altri passi del suo epistolario si accontenta di indicare una divisione netta tra un «prima» e un «poi», linea di demarcazione tra il persecutore e l’apostolo di Cristo: non per nulla nel suo famoso oratorio Paulus il musicista Felix Mendelssohn-Bartholdy farà impersonare da due bassi diversi la voce di Paolo prima e dopo la conversione. Ai Corinzi semplicemente chiede con una domanda retorica: «Non ho io visto Gesù, il Signore?» (I, 9,1) e conferma: «Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (I, 15,8). Oppure, riferendosi a un simbolo luminoso (che poi riprenderemo), ricorda che «Dio rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che brilla sul volto di Cristo» (II, 4,6). Il massimo che riusciamo a strappargli è ciò che confessa ai Galati: «Quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunziassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco» (1, 15-17). Se vogliamo sapere qualcosa di più di ciò che accadde su quella strada che conduceva alla capitale siriana (diventata l’emblema delle conversioni: si pensi solo all’opera Verso Damasco del drammaturgo svedese August Strindberg), dobbiamo ricorrere a chi almeno per un certo periodo della sua vita fu compagno dell’Apostolo nei suoi viaggi missionari, cioè san Luca. Ebbene, egli nella sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli, per ben tre volte narra la svolta radicale che fece di Paolo un missionario di quella setta che egli voleva contrastare con fierezza fin nel territorio della Siria. Infatti, Luca ricorda che, durante quel viaggio, egli recava con sé «lettere» del sommo sacerdote gerosolimitano destinate alle comunità ebraiche damascene perché si impegnassero nel bloccare la nuova eresia che veniva denominata (a più riprese negli Atti) col suggestivo vocabolo «Via».
La prima narrazione è nel capitolo 9 ed è alla terza persona. Due sono gli atti. Da un lato, c’è l’incontro epifanico di Paolo con Gesù e poi quello più «quotidiano» con un membro della comunità cristiana di Damasco di nome Anania, che non solo gli va incontro accogliendolo come un fratello, ma che lo libera anche dalla cecità causata dal bagliore della visione. D’altro lato, c’è ormai l’Apostolo che «subito nelle sinagoghe annuncia che Gesù è il Figlio di Dio» (v. 20). Ma fermiamoci per un momento all’esperienza iniziale dell’incontro, che Luca dipinge coi contorni di una visione, simile a quelle che costellano la Bibbia e che hanno come destinatari, ad esempio, il patriarca Giacobbe o i profeti Ezechiele e Daniele. Ecco le parole dell’evangelista: «All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Rispose: Chi sei, o Signore? E la voce: Io sono Gesù, che tu perseguiti!» (9, 3-5). Come è evidente, non si parla di una caduta da cavallo come amerà immaginare l’iconografia successiva (è appunto il caso anche del celebre dipinto di Caravaggio in S. Maria del Popolo a Roma), ma di una folgorazione che fa incespicare e cadere a terra. C’è un elemento interessante in quel dialogo tra Saulo (che è il nome ebraico dell’Apostolo e che vuole idealmente marcare il suo passato, destinato ora a morire con « l’uomo vecchio », per usare una nota espressione paolina) e la voce di Cristo. Saulo stava recandosi a Damasco per incatenare i discepoli di Gesù; Cristo si identifica con loro: «Io sono Gesù, che tu perseguiti!». Come ha fatto notare Benedetto XVI nel suo discorso di apertura dell’anno paolino, Cristo stabilisce un nesso di identità con la Chiesa che è il suo corpo. Ed è altrettanto significativa una nota apparentemente marginale ma forse allusiva: Saulo rimane cieco per tre giorni (9,9) e quando viene battezzato si dice che i suoi occhi si illuminano ed egli «si alza»: ora il verbo greco anastas, l’ »alzarsi », è lo stesso che viene usato nel Nuovo Testamento per la risurrezione di Cristo. Ai tre giorni oscuri del sepolcro subentra il levarsi luminoso della risurrezione-rinascita: non si dimentichi che nella Lettera ai Romani Paolo descriverà il battesimo in modo analogo, secondo lo schema della «sepoltura-risurrezione » di Cristo (6, 3-9), mentre l’illuminazione era uno dei principali simbolismi battesimali.
Abbiamo detto che sono tre i racconti lucani di questa avventura spirituale radicale vissuta dall’Apostolo. Riserviamo un cenno anche agli altri due. Nel capitolo 22 degli Atti, la narrazione è in prima persona. Siamo nel tempio di Gerusalemme e Paolo sta per essere linciato dai suoi antichi correligionari. Ma il comandante della coorte romana di stanza in quell’area lo sottrae alla folla e lo conduce nella fortezza Antonia, ove gli concede di arringare il popolo che continua a pressarlo. In ebraico Paolo racconta autobiograficamente la vicenda della via di Damasco, ricalcando il primo testo degli Atti. Egli, però, sottolinea ora che i suoi compagni di viaggio «videro la luce, ma non udirono la voce di colui che mi parlava», a differenza del primo racconto («sentivano la voce, ma non vedevano nessuno» 9, 7). Si tratta, quindi, di un’esperienza che ha qualche eco esterna, ma che rimane profondamente personale e interiore. Ci sono stati, perciò, alcuni critici che hanno parlato in modo « razionalistico » di allucinazione. In realtà, la menzione esplicita dei personaggi coinvolti (anche con nomi propri, come Giuda che ospita Paolo a Damasco nella sua casa sulla « via Diritta » o come il citato Anania) attesta il realismo di un evento personale che è confermato, come si diceva, anche da una terza testimonianza. Essa è presente in Atti 26, 12-23. Ora l’Apostolo è agli arresti presso il governatore romano Festo nella città di Cesarea Marittima, la residenza degli alti funzionari imperiali in Palestina (si ricordi che qui si svolgerà anche la vicenda del centurione Cornelio, descritta nel capitolo 10). In visita ufficiale in quella città costiera si presenta la coppia principesca di Agrippa II, discendente del re Erode, e di sua sorella Berenice che era anche la sua compagna incestuosa. Ebbene, Paolo davanti a loro in attesa di essere trasferito a Roma per il processo d’appello da lui richiesto come cittadino romano ripete la storia della sua conversione al cristianesimo. La sostanza dell’evento è sempre la stessa, ma appaiono anche alcune variazioni e novità. Così, non entra più in scena Anania; a terra cadono pure i compagni di viaggio e non solo Paolo; curiosamente Cristo cita un proverbio greco, attestato anche dagli scrittori Euripide e Pindaro, che è però detto dalla voce divina in ebraico: «Duro è per te recalcitrare contro il pungolo» (26,14). L’immagine è forte e vivace ed è desunta dal mondo agricolo: il contadino stimola l’animale da soma con un bastone chiodato in punta. Si tratta, quindi, di un modo pittoresco per esaltare il primato della grazia divina nell’esperienza della conversione. Dopo tutto lo stesso Apostolo, scrivendo ai Romani, citava con passione una frase divina presente nel libro di Isaia: «Io – dice il Signore – mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano; ho risposto anche a quelli che non mi invocavano» (10, 20).
Ma le parole di Cristo, in questo racconto, vanno oltre e delineano la futura missione dell’Apostolo, «ministro e testimone», quella di «aprire gli occhi a ebrei e pagani, proprio come era accaduto allo stesso Paolo perché passino dalle tenebre alla luce, dal potere di Satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità » della salvezza (26,18). Sono queste le ultime parole di Cristo presenti nell’intera opera lucana, un mirabile suggello alla storia di un convertito, che per tutta la sua vita e con tutta la sua stessa esistenza ripeterà le prime parole di Gesù citate dai Vangeli: «Convertitevi e credete!» (Marco 1,15).
dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/
San Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra, dottore della Chiesa
Lettere
« Coraggio ! Sono io »
Tutte le navi hanno una bussola, il cui ago, toccato dalla calamita, guarda sempre verso la stella polare, e anche se la barca fosse diretta verso mezzogiorno, l’ago non smetterebbe di guardare sempre verso il Nord.
Così… la sottile punta dello spirito guarda sempre verso il suo Dio che è il suo Nord… State per prendere il largo nel mondo: non cambiate per questo né quadrante, né albero, né vela, né ancora, né vento. Abbiate sempre Gesù Cristo per quadrante, la sua croce per albero, sul quale stenderete le vostre risoluzioni come vele; la vostra ancora sia una profonda fiducia in lui, e andate spediti nel tempo opportuno. Voglia per sempre il vento propizio delle ispirazioni celesti gonfiare sempre di più le vele della vostra nave e farvi giungere felicemente al porto della santa eternità…
Seppur tutto fosse sottosopra, non dico soltanto attorno a noi, ma dico dentro di noi, cioè sia che la nostra anima sia triste, gioiosa, nella dolcezza, nell’amarezza, nella pace, nel turbamento, nella luce, nelle tenebre, nelle tentazioni, nel riposo, nel gusto, nel disgusto, nell’aridità, nella tenerezza, che il sole la bruci o che la rugiada la rinfreschi, ah, occorre tuttavia che sempre la punta del nostro cuore, cioé il nostro spirito, la nostra volontà superiore, che è la nostra bussola, guardi incessantemente e tenda perpetuamente verso l’amore di Dio.
REGALA CIÒ CHE NON HAI
Occupati dei guai,
dei problemi del tuo prossimo.
Prenditi a cuore gli affanni,
le esigenze di chi ti sta vicino.
Regala agli altri la luce che non hai,
la forza che non possiedi,
la speranza che senti vacillare in te,
la fiducia di cui sei privo.
Illuminali dal tuo buio.
Arricchiscili con la tua povertà.
Regala un sorriso
quando hai voglia di piangere.
Produci serenità
dalla tempesta che hai dentro.
« Ecco, quello che non hai, te lo do ».
Questo è il tuo paradosso.
Ti accorgerai che la gioia
a poco a poco entrerà in te,
invaderà il tuo essere,
diventerà veramente tua
nella misura in cui
l’avrai regalata agli altri.
A. Manzoni