Gauguin Le Christ jaune (1848-1903)

dal sito:
http://ospiti.peacelink.it/romero/servizio%20biblico/4annumB09.htm
Omelie di Mons. Romero
IV settimana del Tempo ordinario
Dt 18,5-20: Vi susciterò un profeta in mezzo al popolo
Sal 94: Ascoltate la voce del Signore
1Cor 7,32-35: La nubile si preoccupa delle cose del Signore
Mc 1,21-28: Gesù insegnava con autorità
Commento
La parola Deuteronomio deriva da deuteros=secondo e nomos=legge. E’ la seconda versione della legislazione mosaica. La prima parte è distribuita nei primi quattro libri del Pentateuco, specialmente in Esodo, Levitico e Numeri.
Il Deuteronomio fu elaborato a partire da piccoli frammenti compilati dagli autori lungo un periodo superiore ai seicento anni. Il materiale che conosciamo ebbe origini molto diverse. Una parte appartiene alla grande tradizione orale, che la confederazione delle tribù utilizzò per regolare l’applicazione della giustizia all’interno della comunità e tra le tribù al tempo dei Giudici. Un’altra parte proviene dalle tradizioni del Regno del nord, elaborata da gruppi che si opponevano alla monarchia e proponevano legislazioni alternative per cercare di cambiare il governo dispotico installato in Samaria. Un’altra parte è composta da tradizioni orali del Regno del sud, del tempo del re Giosia. Questa diversità fu rielaborata dopo l’esilio dai sacerdoti e dai saggi, fino a raggiungere la forma che oggi conosciamo.
Questo documento ebbe varie edizioni, nelle quali fu successivamente ampliato. Insiste sulla necessità di vivere relazioni interumane giuste. In questo documento, la legge non è una farragine di decreti isolati. Ciascun precetto è in funzione della difesa della vita e della dignità di ciascuna persona nella comunità. La legge esprime la vita intima della comunità, la necessità che ciascuno abbia il minimo necessario per sopravvivere e nessuno viva in una situazione obbrobriosa e miserabile. In questo modo, la legge cessa di essere un abominevole obbligo e diventa un dono che Dio offre a tutto il popolo. Questo dono o alleanza si fonda sul diritto di ciascuna famiglia di possedere il minimo necessario, cioè un pezzo di terra da coltivare e dove possa vivere senza essere un peso per gli altri: « siccome Jahweh ha fatto dono di questo paese al tuo popolo, nessuno può appropriarsi della terra (Dt 15,4) ».
Per questo autore, l’alleanza, la legge o « dono » deve essere interiorizzata. La convivenza nel paese che Dio ha dato al popolo pellegrino esige un cambiamento di mentalità che si traduce in una organizzazione sociale dove il diritto divino prevale su tutte le istituzioni. L’aspetto centrale di questo diritto è la giustizia intraumana, intesa come fondamento della convivenza sociale. « Il re deve essere fratello e rifuggire da vantaggi e interessi personali. Questo aprirsi generosamente agli altri è ciò che dimostra l’appartenenza a Jahweh e ciò che permette l’appartenenza a questo popolo ».
Su questa stessa linea, si colloca la promessa sul profeta che deve venire. Questo profeta è paragonato a Mosé in quanto, è portatore della parola di Dio. Non viene a ricordare al popolo una cosa o l’altra. Viene per indicare quale sia la direzione che il popolo deve seguire. Il profeta si preoccuperà di mantenere vivo lo spirito della legge, sul quale insiste il Deuteronomio, in modo che non si trasformi in una mera formalità, ma che esprima le necessità vitali della comunità e di ciascun essere umano.
Il Deuteronomio da inizio ad una tendenza che Gesù porterà a perfezione. Per Gesù e in generale per tutti i profeti, l’aspetto fondamentale della legge è preservare la dignità, l’intimità ed il valore di ciascun essere umano, il diritto a vivere in una comunità di si è valorizzato per quello che è e non per quello che ha. In questo modo, la legislazione cessa di essere un precetto che dirige una cosa in particolare e si trasforma in espressione delle necessità vitali dell’uomo. La Bibbia chiama questo « portare la legge nel cuore ».
Questo nuovo modo di vedere la legge è quello che Paolo applica alla lettera ai Corinzi. Egli consiglia, suggerisce, da delle opinioni, esorta e ammonisce tendo in considerazione la situazione della comunità, nel contesto sociale e la situazione personale nel contesto comunitario. Non impone criteri rigidi che affliggano la coscienza delle persone, ma cerca che ciascuna persona stia bene nella propria situazione.
La comunità, preoccupata da opinioni contrarie al matrimonio, chiede all’apostolo Paolo: sarebbe meglio non sposarsi? Per Paolo l’importante è che ciascuna persona della comunità cristiana si senta bene e motivata a servire. Per questo il suo messaggio non da orientamenti a quelli che sono sposati, ma si preoccupa dei giudei e degli schiavi. I giudei perché non rinneghino la propria cultura e tradizione, ma perché nemmeno la impongano agli altri. Gli schiavi lì incoraggia a non abbattersi per la propria condizione e a cercare un’opportunità per liberarsi. In questo modo, nessuno può sentirsi inferiore o superiore agli altri. Tutti sono uguali perché all’interno della comunità si rispetta la differenza. Questo è il principio dell’uguaglianza.
In tutti i casi, situazioni, stati civili, posizioni sociali… Paolo insiste sull’urgenza di cercare un cammino per vivere la libertà che ci lasciò Cristo e, essendo liberi, preparare l’irruzione del Regno. Il Signore torna quando la comunità, libera da costrizioni sociali, culturali o ideologici, da testimonianza di un modo di vivere alternativo e liberatore.
Questa capacità di discernere ciascuna situazione nel particolare, fu una delle cose che la folla ammirò maggiormente in Gesù. Mentre altri maestri e leader rispondevano con spiegazioni esaustive e citando codici, precetti e dottrine, Gesù rispondeva con la verità semplice e chiara.
Gesù era interessato alla situazione particolare di ciascun essere umano: alle sue sofferenze, alle idee che lo tormentano, a quelle cose che impediscono di vivere liberamente e spontaneamente. Questo interesse non obbediva ad un interesse politico nascosto, ma ad una genuina valorizzazione di ciascuna persona che incontrava nel cammino. Molti movimenti e gruppi mostrano interesse per gli individui perché questi servono ai propri interessi di proselitismo, mentre poi quando sono diventati propri adepti si disinteressano di loro, lì ignorano o persino lì emarginano. Gesù si manifestò apertamente contro questo modo di agire e lo dichiarò pubblicamente: il sabato – ossia la legge – i costumi, tutto ciò che è prescritto sta al servizio di ciascun uomo e non vale il contrario.
In particolare la sua lotta contro i demoni fu una lotta contro le ideologie delle sinagoghe che cercavano un Messia glorioso, un militare implacabile, un riformatore religioso. Gesù non si identificò mai con questi propositi. Per questa ragione, comanda agli « spiriti immondi » o ideologie oppressive di restare in silenzio e non cercare di sedurlo con false acclamazioni e riconoscimenti.
Il popolo semplice riconosceva questa lotta contro il formalismo della legge e l’ideologia che la sosteneva. La proposta di Gesù lì liberava dal pesante carico morale, economico e culturale che supponeva il compimento dei più di 6000 precetti che erano vigenti per regolare tutti gli aspetti della vita personale e comunitaria. Molta gente si domandava: non sarà quest’uomo il nuovo legislatore? Non sarà l’uomo promesso come sostituto del profeta Mosé? Non sarà la proposta di Gesù, il Regno di Dio, la « nuova legge »? Perché le sue azioni liberatrici e la sua lotta contro il male sono tanto efficaci?
Oggi dobbiamo chiederci: abbiamo seguito la proposta di Gesù secondo cui ciascun essere umano ha un valore infinito? Crediamo che il nostro compito, come annunciatori della Buona Notizia, è quello di aiutare tutti gli uomini a liberarsi dai vincoli che non gli permettono di crescere con libertà e spontaneità? Ha carattere normativo la Buona Notizia di Gesù o la prendiamo alla leggera, come le notizie di ogni giorno?
dal sito:
http://www.lachiesa.it/calendario/Detailed/20090201.shtml
Omelia (01-02-2009)
don Marco Pratesi
Profeti
La sezione 12,1-26,15 del Deuteronomio costituisce il cosiddetto « codice deuteronomico », una raccolta di leggi che regolano il culto e la vita civile. Il brano 18,9-22 riguarda la figura del profeta (ma vedi anche 13,2-6), colui che parla al popolo a nome di Dio, rendendo nota la volontà divina. Non è infatti possibile una presenza aperta e diretta di Dio, che risulterebbe temibile e addirittra devastante. Al momento dell’alleanza sul Sinai Mosè aveva svolto l’ufficio profetico (cf. Es 20,18-21). Ebbene, Dio assicura che questo ministero non finirà con Mosè: manderà alcuni, scelti in mezzo al popolo, attraverso i quali accompagnerà e illuminerà il cammino di Israele nella storia.
Al profeta si chiede prima di tutto di dire solo quanto Dio ordina e di non farsi portavoce di altri dèi. Una volta che queste due condizioni sono soddisfatte, l’eccellenza del profeta dipenderà dal suo grado di intimità con Dio: la grandezza di Mosè come rivelatore di Dio e profeta sta appunto nel suo intrattenersi « faccia a faccia » con Dio (Dt 34,10). Il profeta autentico non si attribuisce da sé questa missione, è scelto da Dio; ha esperienza di lui; è in grado di distinguere la parola di Dio da quella proveniente da altre fonti, e solo quella vuole portare.
Al popolo è affidato l’impegno di ascoltare e obbedire. Con ciò viene rifiutato ogni tentativo umano di carpire in proprio il mistero delle cose per potersi assicurare la vita con proprie tecniche, di qualunque tipo. All’epoca, l’ancestrale diffidenza nei confronti di Dio e la pretesa di assicurarsi la vita in proprio e senza di lui, assumeva soprattutto la forma del ricorso alla magia e alla divinazione, oggi tutt’altro che tramontato. In generale però qualunque tentativo di impadronirsi del segreto della vita evitando la porta stretta della consegna di sé a Dio nella fede e nell’obbedienza, è da ritenere idolatrico. Da questo punto di vista la superstizione moderna assume molteplici forme, ciascuna delle quali ha i suoi profeti: dai nuovi spiritualismi al razionalismo scientista, dal tecnologismo alla religione della salute.
La fede cristiana legge in questo passo anche una profezia di Gesù, colui che « ha visto il Padre » (cf. Gv 1,18; 6,46; 14,9) e perciò rispecchia fedelmente – non solo con la parola, ma in tutta la persona e la vita – il volto di Dio. In questa intimità unica si radica la sua stupefacente « autorità » dottrinale (cf. Mt 7,29; Mc 1,22.27; Lc 4,32.36). Nella misura in cui ci si mette in ascolto di lui, si è anche in grado, per dono battesimale, di essere veri portavoce dei progetti di Dio, non solo per sé ma anche – nella misura in cui questi ci sono affidati – per i fratelli.
dal sito:
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa/070807tincq.pdf
Jean-Marie Lustiger
di Henri Tincq
in “Le Monde” del 7 agosto 2007
(Figlio della Antica e Nuova Alleanza, parte seconda)
Nessun uomo di Chiesa in Francia ha avuto un destino così singolare e una carriera così atipica. Non solo perché Aaron Lustiger, figlio di una famiglia di immigrati ebrei proveniente dalla Polonia – nato il 17 settembre 1926 a Parigi – ha percorso tutte le tappe fino a quella di arcivescovo della capitale (Parigi) e di persona molto ascoltata dal papa a Roma, e già questo sarebbe bastato a distinguerlo. Ma perché in Francia, per più di un quarto di secolo, è riuscito ad incarnare il volto di una Chiesa senza dubbio più brillante e dialogica di quanto essa sia in realtà. Riuniva in sé la “verticalità” dell’ebreo che era per nascita, radicalmente rivolto a Dio e alla sua parola, e l’ “orizzontalità” del cristiano che era diventato a 14 anni, ultraclericale e contemporaneamente molto laico, tradizionale e insieme moderno.
Il suo nonno materno si chiamava come lui Aaron Lustiger, rabbino di Bedzin, in Slesia (Polonia), portava barba e filatteri ed era arrivato in Francia prima della guerra del 1914. I suoi genitori, naturalizzati agli inizi degli anni 20, sono commercianti nella via Simart, nel 18° arrondissement di Parigi. Non frequentano la sinagoga, ma educano i loro due figli nella coscienza della loro identità ebraica, stimolando il loro gusto per lo studio e la loro fedeltà ad una morale esigente.
Aaron Lustiger, la cui infanzia è “felice, ma rigorosa”, studia al liceo Montaigne di Parigi, scopre
l’Antico Testamento e il Vangelo da un professore di pianoforte, poi l’antisemitismo nei racconti
dei suoi genitori e nella letteratura. Ma non mette allora in connessione l’antisemitismo e la fede cristiana, che scopre provvidenzialmente nel 1937, in occasione di un soggiorno in Germania presso una famiglia protestante.
La guerra costringe i suoi genitori a rifugiarsi a Orléans. E’ lì che compie l’atto decisivo della sua vita: la sua conversione al cristianesimo durante la Settimana santa del 1940. Il futuro cardinale ha 14 anni quando viene battezzato, il 25 agosto 1940. Mantiene il suo nome Aaron – che figura nel calendario cristiano – a cui aggiunge quelli di “Jean” et “Marie”. Su questo battesimo fatto nel periodo dell’occupazione nazista sorgeranno molti interrogativi. Per tutta la sua vita, a rischio di irritare, spiegherà che il suo cristianesimo non ha mai significato una rinuncia alla sua identità ebraica.
Alla fine del 1940, quando sono promulgate le prime leggi antiebraiche del governo di Vichy, il
giovane Lustiger vive nascosto, con sua sorella, a Orléans, ma i suoi genitori portano la stella gialla. E si compie il dramma: mentre suo padre è in viaggio, sua madre, rimasta sola a Parigi per tenere la merceria di famiglia, è denunciata da un vicino, arrestata il 10 settembre 1942, condotta a Drancy e deportata ad Auschwitz.
Con la sua fede di neofita, Lustiger entra in seminario ed è ordinato prete nel 1954 a Parigi. E’
all’inizio cappellano alla Sorbona, dove il suo carisma attira molti studenti, futuri professori, ingegneri, alti funzionari, giuristi. Ma, quando sembra giunto il tempo di“raccogliere la messe”, il maggio 68 infiamma l’Università. Quegli avvenimenti lo sorprendono. Le sue certezze rischiano di crollare. “Non c’è posto per il Vangelo in questa baraonda”, ruggisce in una di quelle formule maligne che non dispiacevano a questo “monello” parigino, che amava anche lo sberleffo.
Nel 1969 diventa parroco di Sainte-Jeanne-de-Chantal, una parrocchia borghese del 16° arrondissement di Parigi vicino alla circonvallazione. Lì sconvolge le abitudini e tesse i suoi primi rapporti – ad esempio con André Vingt-Trois, che sarà suo successore a capo della diocesi di Parigi – prima di tornare nel 1979 come vescovo ad Orléans dove frequenta assiduamente le parrocchie. Molto presto dimostra la sua attenzione puntigliosa per la liturgia, la sua intransigenza intellettuale, il suo temperamento di capotribù. Il suo percorso si accelera, quando Giovanni Paolo II lo rimanda a Parigi, il 2 febbraio 1981, questa volta al primo posto, quello di arcivescovo, per succedere al cardinale François Marty, pastore ricolmo d’umore e d’umorismo, tutto l’opposto delle rigidità e angolosità di Jean-Marie Lustiger.
Diventa ben presto famoso per la corazza in cui si trincera. Dominique Wolton e Jean-Louis
Missika ci metteranno anni a convincerlo ad aprirsi nel suo libro-confessione Le Choix de Dieu (La scelta di Dio – ed. De Fallois, 1987). Eppure è inesauribile nelle sue omelie curate, spesso pungenti. E’ morbosamente perfezionista, giungendo a pronunciare i suoi discorsi ad alta voce prima di passare alla stesura definitiva.
Del monello parigino ha la franchezza. Sono famose le sue collere, le sue decisioni spesso imperiose. E’ ossessionato dalla paura di complotti, ha un senso acuto della sua superiorità intellettuale e di una missione che lo divora interamente. Chi non lo segue fino in fondo o si oppone a lui è perduto. Gli capita di far saltare le teste del suo “entourage” più prossimo o del suo clero, o ancora di manifestare irritazione nei confronti dei suoi colleghi vescovi.
Il suo anticonformismo fa di lui una personalità battagliera nel dibattito pubblico e mediatico,
impulsiva, sempre controcorrente. Nel 1984 guida la contestazione contro la legge Savary tendente a creare il servizio pubblico dell’istruzione. Un milione di difensori della scuola cattolica scendono in piazza e François Mitterrand fa marcia indietro. In seguito sarà su tutti i fronti della battaglia sociale: la “follia” degli apprendisti-stregoni in medicina, la difesa dell’embrione, il divieto dell’eutanasia, della clonazione, poi le rivolte dei giovani, la disoccupazione, gli immigrati e i “feriti dalla vita”, invitati esclusivi una notte di Natale a Notre-Dame, e infine l’Europa.
Mette in chiaro i rischi e l’importanza dei temi in discussione e colpisce ben al di là dell’opinione
cattolica, nonostante un tono che è sempre quello dell’imprecazione: contro l’Illuminismo e i “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud, etc.) che, rompendo i legami con la Rivelazione e volendo la “morte di Dio”, hanno rischiato di provocare la “morte dell’uomo” a Auschwitz e nei gulag. Contro la “modernità” di un mondo senza Dio. Contro l’avanzata di un “neopaganesimo” che intuisce nelle tesi del Front National. Contro gli idoli del denaro, del sesso, del potere.
Per lui, il vescovo non è un uomo a parte. Deve uscire dalle sacrestie, partecipare ai dibattiti della società civile e del gota intellettuale. Lustiger coltiva le relazioni più audaci. Con i presidenti François Mitterrand e Jacques Chirac gioca “al gatto e al topo”, come afferma lui stesso. La seduzione reciproca è grande, ma le delusioni numerose. Davanti a loro, il cardinale Lustiger sostiene la causa per la libertà delle scuole private, per dei ritmi scolastici conciliabili con la catechesi, per una laicità insieme ferma e rispettosa, per un dialogo ufficiale e regolare tra le autorità della Repubblica e della gerarchia cattolica. Questo sforzo giunge ad un esito positivo con Lionel Jospin e continua anche in seguito. Pur considerandosi figlio della Repubblica francese, si rifiuta, in nome del clero vittima del Terrore, di associarsi, nel 1989, alla commemorazione del bicentenario della Rivoluzione e alla “panteonizzazione” dell’abbé Grégoire, prete costituzionale.
Fin dalla prima volta in cui si presenta il problema del velo in Francia (1989), difende con ardore la legge del 1905 relativa alla separazione delle Chiese e dello Stato. Non smetterà di farlo, protestando anche contro i tentativi di Nicolas Sarkozy di organizzare l’islam di Francia, come se fosse una “religione di Stato”! Per riguardo a Jacques Chirac, allontana, proprio prima delle elezioni presidenziale del 1995, il padre Alain de la Morandais, giudicato troppo a favore dell’altro candidato Balladur, dal suo posto di ambasciatore della Chiesa nell’ambiente politico. Sono queste relazioni atipiche per un uomo di Chiesa che rendono il cardinal Lustiger tanto vicino alla società civile quanto straniero talvolta nella propria Chiesa.
Concezione radicale della fede
Nel collegio cardinalizio – in cui è entrato nel 1983 – Monsignor Lustiger diventa tuttavia uno dei favoriti di Giovanni Paolo II (1978-2005). I due uomini hanno le stesse origini in Polonia, lo stesso amore per la filosofia, una concezione altrettanto radicale della fede cristiana, la stessa visione tragica della storia e della libertà e l’esperienza di due totalitarismi che hanno forgiato il loro temperamento eccezionale. Karol Wojtila incarna la resistenza spirituale in un società comunista atea. Lustiger, da parte sua, lo fa in una società francese laicizzata, secolarizzata all’estremo. Nasce una forte amicizia.
Cresce anche la simpatia tra il papa polacco e una Francia a lungo scettica nei suoi riguardi. La
svolta ha luogo nel 1996, in occasione di un riuscito viaggio di Giovanni Paolo II a Reims il 1500° anniversario del battesimo di Clodoveo – in un contesto di ostilità e di derisione laiche – e soprattutto nel 1997, in occasione delle Giornate mondiali della gioventù di Parigi. Un milione di giovani invadono il prato di Longchamps in agosto. E’ un trionfo per il papa e per il cardinal Lustiger, apostolo per la Francia della nuova evangelizzazione e di un cattolicesimo giovane e
libero da complessi. A Parigi, le sue iniziative non ricevono mai un consenso unanime. Ridefinisce e rilancia le parrocchie, si scontra con dei parroci onnipotenti, crea nel 1981 Radio Notre-Dame, poi nel 1999 la prima televisione cattolica, KTO. Il suo clero e i suoi confratelli vescovi lo accusano di “culto della personalità” quando crea i suoi percorsi per la formazione dei preti e per l’insegnamento teologico (la Scuola-Cattedrale).
Sordo alle critiche, Lustiger procede. La sua ultima grande iniziativa è stata una manifestazione di massa dei cattolici di Parigi per la festa di Ognissanti 2004. Paradossalmente, questo cardinale, che ottenne il massimo riconoscimento con l’elezione all’Académie Française nel 1995, è sempre stato battuto nelle elezioni per la presidenza della Conferenza episcopale francese. Ma quest’uomo, che conosce bene la sua storia ebraica, sa che nessuno è profeta in patria.
Figlio dell’Antica e Nuova Alleanza
E’ nella riconciliazione tra la Chiesa e l’ebraismo che Aaron Lustiger, figlio di una famiglia ebrea e di una madre deportata ed uccisa ad Auschwitz ha mostrato la sua statura. Figlio dell’Antico e del Nuovo Testamento, come lui stesso si definiva, ha portato nella carne la sofferenza e la vocazione proprie del popolo ebraico. La singolarità della Shoah stava per lui nella volontà assoluta di sterminare “il popolo ebraico in quanto portatore della Parola divina, della Legge, dei Comandamenti”. Ossia una rottura per la cancellazione delle frontiere fra bene e male, rimasta una “tentazione universale”. Non spiegava altrimenti i drammi posteriori della Cambogia, del Ruanda o della Bosnia.
Non aveva ricevuto una grande educazione ebraica, ma aveva un senso acuto del destino del popolo ebraico e del suo posto privilegiato nella storia della salvezza. Con la sua conversione e la sua entrata nella Chiesa, compiva la vocazione di Israele, la “promessa” fatta da Dio al suo popolo, ma anche alle “nazioni”, ai gentili, ai pagani. Amava dire che più la sua fede cristiana era maturata, più il Cristo gli era apparso come il “Messia di Israele”. (La Promesse, Parole et silence, 2002).
Fin dal 1981 aveva interpretato la sua nomina ad arcivescovo di Parigi come la “evidenziazione” della parte di ebraismo che il cristianesimo porta in sé. Ed aveva usato questa formula che allora a molti non era piaciuta: “E’ come se tutto ad un tratto i crocifissi si fossero messi a portare la stella gialla!” Chiaramente il suo discorso fu largamente incompreso nella comunità ebraica. Gli è valso dei battibecchi con il suo amico Elie Wiesel ed una polemica, in visita a Tel-Aviv nel 1996, con il gran rabbino Meïr Lau d’Israele.
Nel dialogo ufficiale tra cattolici ed ebrei, compariva poco sulla scena, spingendo invece in primo piano il suo amico Albert Decourtray (morto nel 1994), arcivescovo di Lione, unico ad accompagnarlo, il 23 giugno 1983, nella sua prima visita ad Auschwitz, la “tomba” di sua madre. Con Théo Klein e altre personalità ebraiche e cattoliche, ha condotto le delicate trattative per tentare di risolvere nel 1983 il caso della carmelitane polacche che si erano stabilite nel campo di Auschwitz e che accetteranno di lasciare questo luogo solo dieci anni dopo (nel 1994).
Dopo l’irritazione degli inizi, il suo ruolo e il suo prestigio non cesseranno più di aumentare nella comunità ebraica. Monsignor Lustiger sarà uno dei primi ispiratori ed autori della dichiarazione di “pentimento” dell’episcopato francese nel settembre 1997 a Drancy e un artigiano del successo della visita di Giovanni Paolo II a Gerusalemme nel 2000. La loro visita a Yad Vashem e al muro del pianto fu un pellegrinaggio della memoria, del riconoscimento del debito cristiano ai “fratelli maggiori” ebrei. Un passo inaudito, ma non ancora conclusivo, della riconciliazione tra “l’ulivo buono” di cui parlava San Paolo e “l’ulivo selvatico”.
Alla fine della sua vita, Monsignor Lustiger rappresenta ancora il papa nel gennaio 2005, in occasione delle cerimonie del 50° anniversario della liberazione del campo di Auschwitz. E, nel
maggio 2006, sarà presente a Birkenau, sulla rampa della morte, accanto a Benedetto XVI. Nonostante il procedere della malattia guidava delegazioni di cardinali di tutto il mondo e di vescovi francesi negli ambienti ebrei più ortodossi di New York. La sua ultima visita risale al marzo 2007.
dal sito:
http://www.vangelodelgiorno.org/www/main.php?language=IT&localTime=01/31/2009#
Sant’Agostino (354-430), vescovo d’Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Discorso 63
Il vento cessò e vi fu grande bonaccia
Il tuo cuore è agitato. All’udire l’insulto tu desideri vendicarti: ed ecco ti sei vendicato e… hai fatto naufragio. E perché? Perché in te dorme Cristo. Che vuol dire: « In te dorme Cristo »? Ti sei dimenticato di Cristo. Risveglia dunque Cristo, ricordati di Cristo, sia desto in te Cristo… Ti eri dimenticato ch’egli, essendo crocifisso, disse: «Padre, perdona loro perché non sanno che cosa fanno» (Lc 23,34)? Egli che dormiva nel tuo cuore non volle vendicarsi.
Sveglialo, ricordalo. Il ricordo di lui è la sua parola; il ricordo di lui è il suo comando. Se in te è desto Cristo, tu dirai tra te stesso: « Che razza d’uomo sono io, che mi voglio vendicare?… Non mi accoglierà Colui che disse: «Date e vi sarà dato, perdonate e vi sarà perdonato» (Lc 6,37). Frenerò dunque la mia collera e tornerò alla quiete del mio cuore ». Cristo comandò al mare e si fece una grande bonaccia… Sveglia Cristo: parli egli con te. «Chi è mai costui, dal momento che anche il vento e le onde gli ubbidiscono?» . Chi è costui al quale ubbidisce il mare?». «Suo è il mare e lo ha creato proprio lui» (Sal 94,5). «Tutto è stato creato per mezzo di lui» (Gv 1,3). Tu imita piuttosto i venti e il mare: ubbidisci al Creatore. Il mare dà ascolto al comando di Cristo e tu sei sordo? Il mare ascolta e il vento cessa, e tu ancora soffi?… Parlare, agire, macchinare inganni: che cos’altro è questo se non continuare a soffiare e non voler cedere all’ordine di Cristo? Cercate di non lasciarvi abbattere dalle onde nel turbamento del vostro cuore.
Tuttavia, siccome siamo uomini, se il vento ci stimolasse al male, se eccitasse le cattive passioni dell’anima nostra, non dobbiamo disperare. Svegliamo Cristo affinché possiamo fare la traversata del mare della vita nella calma e arrivare alla patria.
LUK1310 JHEALS CRIPPLEWOMAN 20 R B LE SOURD GUÉRISON DU PARALYTIQUE
devo dire che ho cercato una preghiera « scritta » da una detenuto, l’idea mi era venuta perché in francese ho trovato molte belle preghiere, forse non ho saputo cercare, però non ne ho trovate, mettto questa, scritta dal Card. Tettamanzi – ossia X – che, comunque è molto bella:
http://www.diocesi.genova.it/documenti.php?idd=358
Preghiera del detenuto
Sia lode a te, Padre Creatore,
per il dono della vita
che hai affidato alla mia custodia
e accompagni con cura provvidente.
Concedimi di conservare sempre
la consapevolezza della mia dignità,
fa’ che nessuno neghi mai
la ricchezza della mia umanità.
Sia lode a te, Gesù Salvatore,
per il dono della libertà
che tu hai promesso a coloro
che sanno aprirsi alla Verità.
Aiutami a capire
che né catene, né prigione
possono privarmi della gioia
di chiamarmi ed essere figlio di Dio.
Sia lode a te, Spirito Consolatore,
per il dono dell’amore
che mi comunica forza e coraggio
per vedere in ogni uomo il volto del fratello.
Ti affido coloro a cui voglio bene,
ti prego per coloro a cui ho fatto del male;
che in nessuno io veda più un nemico,
che tutti d’ora in poi possano essermi amici.
A te, Trinità beata,
rinnovo l’offerta della mia vita:
perdonami le colpe commesse,
accogli l’impegno a migliorare me stesso,
riaprimi le porte della società umana
perché io possa tornarvi a vivere
nella serenità e nella pace.
Amen.
X Dionigi Tettamanzi
Arcivescovo di Genova
dal sito:
http://www.nostreradici.it/banchetto_anafore.htm
BANCHETTO PASQUALE E ANTICHE ANAFORE CRISTIANE *
La liturgia cristiana della Parola non ha dimenticato fino ad oggi le sue origini, tanto che possiamo ancor oggi ritrovare in essa alcune tracce dell’antica liturgia sinagogale, che è essenzialmente liturgia della Parola. Non possiamo dire altrettanto per quel che riguarda la seconda parte della Messa, il Sacrificio, che – almeno nel rito romano, sul quale si sono venuti stratificando elementi diversi durante i secoli – non presenta assomiglianze con il rito ebraico, che ha servito di sfondo all’Ultima Cena.
Tuttavia se risaliamo nei secoli, o se allarghiamo lo sguardo oltre la liturgia romana, prendendo in esame le preghiere cristiane che inquadrano il momento centrale della Messa, la Consacrazione (preghiere dette anafore), vi possiamo riscontrare uno schema comune, che possiamo sintetizzare come segue :
la lode a Dio per la creazione;
e per la redenzione compiuta per mezzo di Cristo, e che culmina nella sua passione e morte;
il racconto dell’istituzione dell’Eucarestia, che riproduce la passione, morte e risurrezione di Gesù;
frequentemente l’attesa del ritorno finale di Cristo;
una dossologia finale.
Le anafore quindi si presentavano formate essenzialmente di due parti, la prima a carattere rimemorativo di avvenimenti passati, la seconda costituita dalla riattualizzazione di essi in un avvenimento, che li porta a compimento, e che a sua volta si proietta verso il futuro.
Se consideriamo questo schema alla luce di quello del banchetto pasquale ebraico, non possiamo non riscontrare tra di essi delle assomiglianze strutturali e teologiche che colpiscono.
Prendiamo in esame l’anafora di Ippolito, dottore della Chiesa di Roma del III sec., dove i temi sono trattati con la sobrietà propria della liturgia romana e appaiono quindi in tutta la loro chiarezza:
« Noi ti rendiamo grazie, o Dio, per il prediletto Tuo Servo, Gesù Cristo, che in questi ultimi tempi ci hai mandato per salvarci, redimerci ed evangelizzarci la Tua volontà, lui che è il Tuo inseparabile Verbo, per mezzo del quale hai fatto ogni cosa e l’hai trovata buona;
che hai inviato dal cielo nel seno della Vergine;
che nel suo seno si è incarnato, e si rivelò come Tuo Figlio nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine;
che adempiendo la Tua volontà e acquistandoti un popolo santo, stese le sue mani nella passione, per liberare dal castigo coloro che hanno creduto in Te.
Quando fu consegnato, lui volendolo, alla passione,
per distruggere la morte,
per spezzare le catene del diavolo,
per calpestare l’inferno,
per illuminare i giusti,
per stringere la (nuova) alleanza,
e manifestare la risurrezione,
prese del pane e rendendo grazie, disse: ‘Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo che per voi sarà spezzato’; similmente (disse) sul calice: ‘Questo è il mio Sangue che per voi sarà sparso. Quando fate questo, fatelo in mia memoria’.
…Per il Quale sale a Te e al Figlio, nell’unità dello Spirito Santo, gloria e onore nella Tua santa Chiesa, ora e per tutti i secoli dei secoli. Amen » (1).
La preghiera presenta all’inizio una breve sintesi della storia della salvezza, nella quale tuttavia riscontriamo una differenza di prospettiva di fronte a quella narrata nel banchetto ebraico: se nel testo cristiano, la storia della salvezza comincia con la creazione del mondo, considerato come primo atto salvifico di Dio, il testo ebraico inizia con la « creazione » del popolo eletto, chiamato dal Signore nella persona del suo capostipite, il patriarca Abramo, quando ancora non era che « un arameo errante ». La liturgia ebraica resta fedele alla formulazione delle più antiche sintesi della storia della salvezza che si trovano nella Bibbia, mentre quella cristiana si dimostra qui erede dello spirito profetico; è presso i profeti – in particolare presso Isaia, che la storia della salvezza subisce un cambiamento di prospettiva e, rotto il cerchio della storia d’Israele, comprende in sé anche la creazione, la creazione che è la prima manifestazione della potenza di Dio e della Sua bontà che vuole gli uomini salvi. Il cerchio della storia d’Israele più che rotto viene allargato e assume proporzioni cosmiche, per cui la creazione alle origini non è che il primo atto di un lungo sviluppo, che condurrà alla vocazione di Abramo e arriverà alla liberazione d’Israele e alla conquista della Terra, e infine all’avvento del Messia.
La concezione cristiana vede nella redenzione per opera di Cristo quel compimento che la creazione primigenia attendeva e di cui essa quasi portava in se l’esigenza. Quel compimento si attualizza nel banchetto eucaristico, che riproduce il Sacrificio di Cristo, e ripetendo l’atto centrale della storia della salvezza, la sintetizza in se stesso. La redenzione è già qui, la redenzione messianica, attesa per la fine dei tempi.
Nelle stringate parole della dossologia finale ritroviamo, in forma essenziale e teologicamente perfetta, quella lode a Dio che l’ebreo, con ridondanza prettamente orientale, esprimeva con i salmi di lode e con la « benedizione del canto ».
Uno schema simile si ritrova nella liturgia siro-caldaica o persiana, quella conosciuta sotto il nome di Addeo e Maris, che si ritengono essere stati discepoli di Tommaso apostolo ed evangelizzatori della regione di Edessa; si tratta di una liturgia assai antica, anche se redatta non prima degli inizi del VII seco, diffusa nella Siria nord-orientale e ancora viva presso alcuni piccoli gruppi cattolici. La mentalità orientale, diversa da quella occidentale, si rivela qui nella forma dossologica più ampia e ridondante, al disotto della quale tuttavia ritroviamo lo stesso schema della storia della salvezza:
« Degno di essere lodato da ogni bocca e di essere glorificato da ogni lingua, degno di essere adorato e glorificato da ogni creatura è l’adorabile e glorioso Nome, poiché Tu creasti il mondo con la Tua grazia e i suoi abitanti con la Tua bontà, e salvasti il mondo con la Tua misericordia, concedendo la Tua grazia ai mortali »…
Esposti così i due momenti essenziali della storia della salvezza, segue il Sanctus, che si ritiene essere qui un’interpolazione, e si continua:
« Noi Ti ringraziamo, o Signore, anche noi Tuoi servi, deboli, fragili e miserabili, perché ci hai elargito un aiuto grande oltre ogni dire, vivificando la nostra umanità con la Tua divinità, esaltando il nostro basso stato e restaurandolo caduto, e innalzando la nostra umanità dimenticando le nostre colpe, giustificando i nostri trascorsi, illuminando le nostre menti »…
Ma il più grande atto che Dio ha compiuto per gli uomini è stato il Sacrificio di Cristo, attualizzato nella celebrazione eucaristica:
« E noi pure, o mio Signore, noi Tuoi deboli, fragili e miserabili servi, i quali si sono radunati insieme nel Tuo Nome e stanno dinanzi a Te, e hanno ricevuto per tradizione l’esempio che ci hai dato »… La « riunione nel Nome di Dio » è la sinassi eucaristica, che anche se solo accennata con scarne parole costituisce il centro di tutta l’anafora, dopo della quale si passa a una preghiera, con cui si implorano i benefici effetti della Comunione:
«Venga, o mio Signore, il Tuo Santo Spirito e si posi su questa offerta dei Tuoi servi, la benedica e la consacri perché serva a noi, o mio Signore, per il perdono delle offese e per la remissione dei peccati e per la grande speranza della risurrezione dai morti e per la nuova vita nel Regno dei Cieli con coloro che sono stati accetti al Tuo cospetto »; e si conclude come d’abitudine con una dossologia:
…« Per tutta questa meravigliosa dispensazione (di doni fatta) a noi, Ti ringraziamo e Ti lodiamo incessantemente nella Tua Chiesa, redenta dal prezioso sangue del Tuo Cristo, con aperta bocca e faccia elevata, innalzando lode, onore, adorazione, confessione al Tuo vivente e vivificante Nome, ora e sempre e per tutti i secoli ».
Se passiamo a considerare un altro filone della stessa liturgia orientale, quella siriaca di Giacomo, che rispecchia l’antico rito gerosolomitano, diffuso anch’esso nella Siria nord-occidentale, vediamo che le linee generali non cambiano: si parte dalla lode di Dio creatore, si ricorda la caduta dell’uomo, in occasione della quale il Signore si mostrò Padre misericordioso, aiutando l’umanità peccatrice per mezzo della Legge e dei profeti prima e mandando poi il Figlio, perché rinnovasse negli uomini la Sua immagine; il Figlio poi « quando stette per accettare volontariamente la sua morte vivificante per mezzo della Croce, senza peccato, a vantaggio di noi peccatori, nella notte in cui fu tradito, o piuttosto consegnò se stesso per la vita e la salvezza del mondo, prese il pane »…
Mentre però nelle anafore di Ippolito e di Addeo e Maris, l’attesa del ritorno glorioso di Cristo non è espressa chiaramente, qui, nella preghiera che segue immediatamente la consacrazione, leggiamo:
« E noi peccatori ricordando le sue sofferenze vivificatrici, la sua Croce salvatrice, la sua morte e sepoltura e la risurrezione il terzo giorno dalla morte, la sua sessione alla destra Tua, suo Dio e Padre, e il suo secondo e glorioso e terribile avvento, quando egli verrà a giudicare i vivi e i morti, quando rinnoverà ogni uomo secondo le sue opere, offriamo a Te, o Signore »…
L’attesa del ritorno di Cristo, quando « Dio sarà tutto in tutti » è qui esplicita e, insieme con gli atti salvifìci compiuti da Gesù durante la sua prima venuta, costituisce l’oggetto per cui l’uomo offre al Padre il sacrificio di lode.
Le cose non sono molto diverse nella tradizione siro-antiochena documentata nelle Costituzioni Apostoliche (IV sec.), in cui, come abbiamo detto, tutti gli studiosi sono d’accordo nel riconoscere un evidente carattere ebraico. La storia della salvezza parte anche qui dalla creazione e viene presentata in forma ampia e dettagliata, menzionandone i personaggi più rappresentativi; essa arriva a un momento cruciale, che si riattualizza nel banchetto eucaristico, e a sua volta il momento presente si proietta verso il futuro: « Ogni volta che mangerete questo pane e berrete questo calice, annuncerete la mia morte, fino a che io venga. Perciò ricordando la sua passione e morte, la risurrezione dai morti e il ritorno in cielo, così pure il suo futuro secondo avvento, nel quale con gloria e potenza verrà a giudicare i vivi e i morti e a dare a ciascuno secondo le proprie opere, offriamo a Te, re e Dio, questo pane e questo calice »… La storia della salvezza, anche se arrivata al suo momento culminante, è tuttora storia in cammino, fino a che « egli venga ».
Se abbiamo riportato per lo più brani di antichi rituali, non dobbiamo per questo pensare che lo schema che siamo venuti tracciando sia un bel pezzo da museo, relegato in alcune liturgie, cadute da lungo tempo in disuso. Se la liturgia di Addeo e Maris – come abbiamo detto – è tuttora in uso, anche se presso gruppi ristretti, anche la liturgia siriaca di Giacomo ad es., è viva ancor oggi, e i siro-maroniti che in parte si ricollegano ad essa, dopo la Consacrazione, esprimono ancor oggi la loro attesa del ritorno di Cristo: « Ricordiamo, o Signore, la tua morte, confessiamo la tua risurrezione e aspettiamo la tua se- conda venuta; da te imploriamo misericordia e pietà e domandiamo il perdono dei peccati. Abbracci noi tutti la tua misericordia » ( trad. P. Sfair) .
A differenza del banchetto ebraico, che attende per « quel giorno » -secondo l’espressione profetica – l’avvento del Messia, quello cristiano, di ieri e di oggi, si volge verso l’attesa di un avvenimento che ha già avuto inizio e che deve soltanto arrivare al suo momento conclusivo. Ambedue messianici, ambedue dinamicamente volti verso l’avvenire, banchetto ebraico e cristiano si differenziano però per quel che riguarda l’oggetto della loro attesa e della loro speranza; l’uno attende il realizzarsi di un avvenimento, l’altro ne ricorda l’inizio nel passato e attende che si compia: il Messia è già venuto e se ne attende il glorioso ritorno.
Potremmo così sintetizzare le assomiglianze e le differenze che siamo venuti osservando nella struttura del banchetto pasquale e delle anafore:
banchetto pasquale ebraico
anafore cristiane
1) lode a Dio per la « creazione » del popolo d’Israele al tempo di. Abramo;
1) lode a Dio per la creazione del mondo;
2) lode a Dio per la redenzione d’Israele, per mezzo di Mosè;
2) lode a Dio per la redenzione dell’umanità mezzo di Cristo;
3) riattualizzazione della salvezza d’Israele in ciascun ebreo che partecipa al banchetto;
3) riattualizzazione della salvezza nell’Eucarestia;
4) attesa della venuta del Messia;
4) attesa del ritorno del Messia;
5) salmi di lode.
5) dossologia finale.
Se le analogie tra banchetto pasquale e anafore cristiane fossero dovute solo a cause accidentali, sarebbero limitate ad alcuni casi particolari, ma il fatto che esse si ritrovino in ambienti diversi non può non indurci a pensare che le due istituzioni siano legate tra loro da concezioni teologiche simili, anche se viste in prospettive diverse: la concezione cioè di un Dio attivo artefice della storia del Suo popolo, nel corso della quale interviene continuamente e in modo particolare in alcuni momenti decisivi, di un Dio che guida la storia verso una meta precisa, verso il giorno in cui la conoscenza del Signore riempirà tutta la terra « come le acque riempiono il mare », il giorno in cui nel mondo ci sarà il « Signore unico e il Suo Nome unico ».
Una simile concezione teologica, fondamentale presso i cristiani e presso gli ebrei, non poteva mancare di imprimere la sua impronta anche sulla prassi cultuale. E a noi interessa qui sottolineare come, anche nel momento essenziale della sua vita di fedele, il cristiano possa sentire che le radici di essa affondano nella vita religiosa ebraica, costituendo un legame che è determinato certamente dall’eredità comune dell’Antico Testamento, ma anche da una affinità di prassi liturgica, che persiste attraverso i secoli.
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(1) Trad. Righetti, o.c.
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[*] Fonte: Sofia Cavalletti, Ebraismo e spiritualità Cristiana Cap.XI, Editrice Studium – Roma, 1966
dal sito:
http://www.zenit.org/article-17024?l=italian
Chi nega la Shoah non sa nulla della Croce di Cristo
Commento del portavoce vaticano nell’editoriale di « Octava Dies »
CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 23 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Negare la Shoah vuol dire non sapere nulla della Croce di Cristo. E’ quanto afferma padre Federico Lombardi, Direttore della Sala Stampa vaticana, nell’editoriale dell’ultimo numero di « Octava Dies », il settimanale del Centro Televisivo Vaticano, da lui stesso diretto.
« La Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo ». Con queste parole, ha ricordato il sacerdote gesuita, al termine dell’udienza di mercoledì 28 gennaio, il Papa ha ripreso la profonda meditazione del suo discorso nel campo di concentramento di Auschwitz.
Il Pontefice, ha osservato padre Lombardi, “non ha solo condannato ogni forma di oblio e di negazione della tragedia dello sterminio di sei milioni di ebrei, ma ha richiamato i drammatici interrogativi che questi eventi pongono alla coscienza di ogni uomo e di ogni credente”.
“Perché è la fede nella stessa esistenza di Dio che viene sfidata da questa spaventosa manifestazione della potenza del male – ha continuato –. La più evidente per la coscienza contemporanea, anche se non la sola”.
“Benedetto XVI lo ha riconosciuto lucidamente nel discorso di Auschwitz, facendo sue le domande radicali dei salmisti a un Dio che appare silente ed assente”.
“Di fronte a questo duplice mistero – della potenza orribile del male, e dell’apparente assenza di Dio – l’unica risposta ultima della fede cristiana è la passione del Figlio di Dio”.
“Queste sono le questioni più profonde e decisive dell’uomo e del credente di fronte al mondo e alla storia – ha aggiunto il portavoce vaticano –. Non possiamo e non dobbiamo evitarle e tanto meno negarle. Se no, la nostra fede è ingannevole e vuota”.
“Chi nega il fatto della Shoah non sa nulla né del mistero di Dio, né della Croce di Cristo. Tanto più è grave, quindi, se la negazione viene dalla bocca di un sacerdote o di un vescovo, cioè di un ministro cristiano, sia unito o no con la Chiesa cattolica”, ha poi concluso.