Archive pour octobre, 2008

Padre Cantalamessa : omelia XXIX domenica del T.O.

dal sito: 

http://www.cantalamessa.org/it/omelieView.php?id=401

Padre Cantalamessa

XXIX Domenica
A – 2008-10-19 Isaia 45, 1.4-6; 1 Tessalonicesi 1, 1-5b; Matteo 22, 15-21

Si rivelano così due tipi qualitativamente diversi di sovranità di Dio sul mondo: la sovranità spirituale che costituisce il regno di Dio e che egli esercita direttamente in Cristo, e la sovranità temporale o politica che Dio esercita indirettamente, affidandola alla libera scelta delle persone e al gioco delle cause seconde.

Cesare e Dio non sono però messi sullo stesso piano, perché anche Cesare dipende da Dio e deve rendere conto a lui. « Date a Cesare quello che è di Cesare » significa dunque: « Date a Cesare quello che Dio stesso vuole che sia dato a Cesare ». È Dio il sovrano ultimo di tutti, Cesare compreso. Noi non siamo divisi tra due appartenenze; non siamo costretti a servire « due padroni ». Il cristiano è libero di obbedire allo stato, ma anche di resistere allo stato quando questo si mette contro Dio e la sua legge. In questo caso non vale invocare il principio dell’ordine ricevuto dai superiori, come sono soliti fare in tribunale i responsabili di crimini di guerra. Prima che agli uomini, occorre infatti obbedire a Dio e alla propria coscienza. Non si può dare a Cesare l’anima che è di Dio.

Il primo a tirare le conclusioni pratiche di questo insegnamento di Cristo, è stato san Paolo. Egli scrive: « Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio… Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio…Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio » (Rom 13, 1 ss.). Pagare lealmente le tasse per un cristiano (ma anche per ogni persona onesta) è un dovere di giustizia e quindi un obbligo di coscienza. Garantendo l’ordine, il commercio e tutta una serie di altri servizi, lo stato dà al cittadino qualcosa per il quale ha diritto a una contropartita, proprio per poter continuare a rendere questi stessi servizi.

L’evasione fiscale, quando raggiunge certe proporzioni – ci ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica -, è un peccato mortale, al pari di ogni altro furto grave. È un furto fatto non allo « stato », cioè a nessuno, ma alla comunità, cioè a tutti. Questo suppone naturalmente che anche lo stato sia giusto ed equo nell’imporre le sue tasse.

La collaborazione dei cristiani alla costruzione di una società giusta e pacifica non si esaurisce nel pagare le tasse; deve estendersi anche alla promozione dei valori comuni, quali la famiglia, la difesa della vita, la solidarietà con i più poveri, la pace. C’è anche un altro ambito in cui i cristiani dovrebbero dare un contributo più incisivo alla politica. Non riguarda tanto i contenuti quanto i metodi, lo stile. Occorre svelenire il clima di perpetuo litigio, riportare nei rapporti tra i partiti un maggiore rispetto, compostezza e dignità. Rispetto del prossimo, mitezza, capacità di autocritica: sono tratti che un discepolo di Cristo deve portare in tutte le cose, anche in politica. È indegno di un cristiano abbandonarsi a insulti, sarcasmo, scendere a risse con gli avversari. Se, come diceva Gesù, chi dice al fratello « stupido! », è già reo della Geenna, che ne sarà di molti uomini politici?

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18 ottobre – San Luca evangelista

dal sito:

http://santiebeati.it/

San Luca Evangelista

18 ottobre

Antiochia di Siria – Roma (?) – Primo secolo dopo Cristo

Luca, evangelista e autore degli Atti degli Apostoli, è chiamato « lo scrittore della mansuetudine del Cristo ». Paolo lo chiama « caro medico », compagno dei suoi viaggi missionari, confortatore della sua prigionia. Il suo vangelo, che pone in luce l’universalità della salvezza e la predilezione di Cristo verso i poveri, offre testimonianze originali come il vangelo dell’infanzia, le parabole della misericordia e annotazioni che ne riflettono la sensibilità verso i malati e i sofferenti. Nel libro degli Atti delinea la figura ideale della Chiesa, perseverante nell’insegnamento degli Apostoli, nella comunione di carità, nella frazione del pane e nelle preghiere. (Mess. Rom.)

Patronato: Artisti, Pittori, Scultori, Medici, Chirurghi

Etimologia: Luca = nativo della Lucania, dal latino

Emblema: Bue

Martirologio Romano: Festa di san Luca, Evangelista, che, secondo la tradizione, nato ad Antiochia da famiglia pagana e medico di professione, si convertì alla fede in Cristo. Divenuto compagno carissimo di san Paolo Apostolo, sistemò con cura nel Vangelo tutte le opere e gli insegnamenti di Gesù, divenendo scriba della mansuetudine di Cristo, e narrò negli Atti degli Apostoli gli inizi della vita della Chiesa fino al primo soggiorno di Paolo a Roma.

Ma che c’entra Teofilo? E chi lo conosce? Da sempre ci pare un po’ abusivo questo personaggio ignoto, che vediamo riverito e lodato all’inizio del vangelo di Luca e dei suoi Atti degli Apostoli. La risposta si trova nella formazione ellenistica dell’autore. Con la dedica fatta a Teofilo che doveva essere un cristiano eminente egli segue l’uso degli scrittori classici, che appunto erano soliti dedicare le loro opere a personaggi insigni. Luca, infatti, ha studiato, è medico, e tra gli evangelisti è l’unico non ebreo. Forse viene da Antiochia di Siria (oggi Antakya, in Turchia). Un convertito, un ex pagano, che Paolo di Tarso si associa nell’apostolato, chiamandolo « compagno di lavoro » (Filemone 24) e indicandolo nella Lettera ai Colossesi come « caro medico » (4,14). Il medico segue Paolo dappertutto, anche in prigionia: due volte. E la seconda, mentre in un duro carcere attende il supplizio, Paolo scrive a Timoteo che ormai tutti lo hanno abbandonato. Meno uno. « Solo Luca è con me » (2Timoteo 4,11). E questa è l’ultima notizia certa dell’evangelista. Luca scrive il suo vangelo per i cristiani venuti dal paganesimo. Non ha mai visto Gesù, e si basa sui testimoni diretti, tra cui probabilmente alcune donne, fra le prime che risposero all’annuncio. C’è un’ampia presenza femminile nel suo vangelo, cominciando naturalmente dalla Madre di Gesù: Luca è attento alle sue parole, ai suoi gesti, ai suoi silenzi. Di Gesù egli sottolinea l’invitta misericordia, e quella forza che uscendo da lui  » Gli Atti degli Apostoli raccontano il primo espandersi della Chiesa cristiana fuori di Palestina, con i problemi e i traumi di questa universalizzazione. Nella seconda parte è dominante l’attività apostolica di Paolo, dall’Asia all’Europa; e qui Luca si mostra attraente narratore quando descrive il viaggio, la tempesta, il naufragio, le buone accoglienze e le persecuzioni, i tumulti e le dispute, gli arresti, dal porto di Cesarea Marittima fino a Roma e alle sue carceri. Secondo un’antica leggenda, Luca sarebbe stato anche pittore e, in particolare, autore di numerosi ritratti della Madonna. Altre leggende dicono che, dopo la morte di Paolo, egli sarebbe andato a predicare fuori Roma; e si parla di molti luoghi. Di troppi. In realtà, nulla sappiamo di lui dopo le parole di Paolo a Timoteo dal carcere. Ma il vangelo di Luca continua a essere annunciato insieme a quelli di Matteo, Marco e Giovanni in tutto il mondo. E con esso anche gli Atti degli Apostoli. Nella liturgia della Parola, durante la Messa e in tutte le lingue, Luca continua davvero a predicare; anche ai nostri giorni, incessantemente.

Autore: Domenico Agasso

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Il Papa: la Chiesa, un’armoniosa melodia di carismi

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-15817?l=italian

Il Papa: la Chiesa, un’armoniosa melodia di carismi

Al termine del concerto dei Wiener Philharmoniker a San Paolo

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 17 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Questo giovedì sera Benedetto XVI ha preso parte, insieme ai Padri sinodali, al concerto tenutosi nella Basilica di San Paolo fuori le Mura e offerto dalla Fondazione Pro Musica e Arte Sacra in occasione dell’Anno Paolino.

Al termine della serata, inserita nella cornice del VII Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra, il Papa ha voluto ringraziare la Fondazione che ha organizzato l’evento e i componenti dei Wiener Philarmoniker, diretti da Christoph Eschenbach – da nove stagioni Direttore musicale dell’Orchestre de Paris – che hanno eseguito la sesta sinfonia di Anton Bruckner (1881), un’opera, ha commentato il Pontefice, “intrisa di religiosità e di profondo misticismo”.

“Nella sesta sinfonia si traduce la fede del suo autore, capace di trasmettere con le sue composizioni una visione religiosa della vita e della storia”, ha detto il Papa. “Anton Bruckner – ha poi spiegato –, attingendo al barocco austriaco e alla tradizione schubertiana del canto popolare, ha portato, potremmo dire, alle estreme conseguenze il processo romantico di interiorizzazione”.

“Cari amici – si è quindi rivolto ai musicisti parlando in tedesco –, con la vostra professionalità e abilità artistica riuscite ogni volta a toccare i cuori di chi vi ascolta e in loro attraverso l’ascolto della meravigliosa musica di Bruckner a far vibrare tutte le corde del sentimento umano”. “Con il vostro talento musicale mostrate loro il divino a partire dall’umano”, ha aggiunto.

“Ascoltando questa celebre composizione nella Basilica dedicata a san Paolo – ha aggiunto il Pontefice –, è spontaneo pensare ad un passaggio della Prima Lettera ai Corinzi in cui l’Apostolo, dopo aver parlato della diversità e dell’unità dei carismi, paragona la Chiesa al corpo umano composto da membra tra loro molto diverse, ma tutte indispensabili per il suo buon funzionamento”.

“Anche l’orchestra e il coro sono costituiti da strumenti e voci diverse, che accordandosi tra loro offrono un’armoniosa melodia, gradevole all’orecchio e allo spirito”, ha poi concluso.

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buona notte

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Cardinale John Henry Newman : San Luca, evangelista, « servo della Parola » (Lc 1,2)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&ordo=&localTime=10/18/2008#

Cardinale John Henry Newman (1801-1890), sacerdote, fondatore di una comunità religiosa, teologo
PPS, vol. 3 no. 22 : « The Good Part of Mary »,

San Luca, evangelista, « servo della Parola » (Lc 1,2)

Buona è ogni parola di Cristo, ha la sua missione e la sua meta, non non si disperde. È impossibile che il Verbo di Dio abbia mai pronunciato parole effimere, poiché Egli esprime, secondo il suo volere, i consigli profondi e la volontà santa del Dio invisibile. Ogni parola di Cristo è buona. Anche se le sue parole ci fossero state trasmesse da gente qualsiasi, possiamo essere sicuri che nulla di ciò che è arrivato fino a noi – che si tratti di parole a un discepolo o a un oppositore, di avvertimenti, avvisi, rimproveri, parole di conforto, di persuasione o di condanna – nulla di queste ha un significato meramente accidentale, una portata limitata o parziale…

Anzi, tutte le parole di Cristo, pur rivestite di una forma temporanea e ordinate a uno scopo immediato, e per questo difficili da estrapolare da ciò che in esse c’è di momentaneo o contingente, conservano tutta la loro forza in ogni secolo. Rimanendo nella Chiesa, sono destinate a durare per sempre nei cieli (cfr Mt 24,35); si prolungano fino nell’eternità. Sono la nostra regola santa, giusta e buona, «lampada per i nostri passi, luce sul nostro cammino» (Sal 118,105), così pienamente e intimamente adatte a nostro tempo come quando sono state pronunciate.

Questo sarebbe stato vero anche se la premura di un solo uomo avesse raccolto queste briciole dalla tavola di Cristo. Ma abbiamo una speranza molto più grande, perché le riceviamo non dagli uomini bensì da Dio (1 Tes 2,13). Lo Spirito Santo, che è venuto a glorificare Cristo e a dare agli evangelisti l’ispirazione per scrivere, non ha tracciato per noi un Vangelo sterile. Sia lodato di aver scelto e salvaguardato per noi le parole che sarebbero dovute essere particolarmente utili nei tempi a venire, le parole cioè che possono servire di legge alla Chiesa, per la fede, la morale e la disciplina. Non una legge scritta su delle tavole di pietre (Es 24,12), bensì una legge di fede e di amore, dello spirito non della lettera (Rm 7,6), una legge per dei cuori generosi, che accettano di «vivere di ogni parola – per quanto modesta e umile sia – che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8,3; Mt 4,4).

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 17 octobre, 2008 |Pas de commentaires »

Sant’Ignazio d’Antiochia

Sant'Ignazio d'Antiochia dans immagini sacre

http://santiebeati.it/

Publié dans:immagini sacre |on 17 octobre, 2008 |Pas de commentaires »

17 ottobre – Sant’ Ignazio di Antiochia Vescovo e martire

dal sito: 

http://www.santiebeati.it/dettaglio/24900

Sant’ Ignazio di Antiochia Vescovo e martire

17 ottobre

m. 107 circa

Fu il terzo vescovo di Antiochia, in Siria, terza metropoli del mondo antico dopo Roma e Alessandria d’Egitto e di cui san Pietro era stato il primo vescovo. Non era cittadino romano, e pare che non fosse nato cristiano, convertendosi in età non più giovanissima. Mentre era vescovo ad Antiochia, l’Imperatore Traiano dette inizio alla sua persecuzione. Arrestato e condannato, Ignazio fu condotto, in catene, da Antiochia a Roma dove si allestivano feste in onore dell’Imperatore e i cristiani dovevano servire da spettacolo, nel circo, sbranati dalle belve. Durante il viaggio da Antiochia a Roma, Ignazio scrisse sette lettere, in cui raccomandava di fuggire il peccato, di guardarsi dagli errori degli Gnostici, di mantenere l’unità della Chiesa. Di un’altra cosa poi si raccomandava, soprattutto ai cristiani di Roma: di non intervenire in suo favore e di non salvarlo dal martirio. Nell’anno 107 fu dunque sbranato dalle belve verso le quali dimostrò grande tenerezza. «Accarezzatele  » scriveva  » affinché siano la mia tomba e non faccian restare nulla del mio corpo, e i miei funerali non siano a carico di nessuno». (Avvenire)

Etimologia: Ignazio = di fuoco, igneo, dal latino

Emblema: Bastone pastorale, Palma

Martirologio Romano: Memoria di sant’Ignazio, vescovo e martire, che, discepolo di san Giovanni Apostolo, resse per secondo dopo san Pietro la Chiesa di Antiochia. Condannato alle fiere sotto l’imperatore Traiano, fu portato a Roma e qui coronato da un glorioso martirio: durante il viaggio, mentre sperimentava la ferocia delle guardie, simile a quella dei leopardi, scrisse sette lettere a Chiese diverse, nelle quali esortava i fratelli a servire Dio in comunione con i vescovi e a non impedire che egli fosse immolato come vittima per Cristo.

Dalla data del 1° febbraio, la memoria di Sant’Ignazio Martire è stata riportata ad oggi, data tradizionale del suo martirio, dal nuovo Calendario ecclesiastico, che la prescrive come obbligatoria per tutta la Chiesa.
Sant’Ignazio fu il terzo Vescovo di Antiochia, in Siria, cioè della terza metropoli del mondo antico dopo Roma e Alessandria d’Egitto.
Lo stesso San Pietro era stato primo Vescovo di Antiochia, e Ignazio fu suo degno successore: un pilastro della Chiesa primitiva così come Antiochia era uno dei pilastri del mondo antico.
Non era cittadino romano, e pare che non fosse nato cristiano, e che anzi si convertisse assai tardi. Ciò non toglie che egli sia stato uomo d’ingegno acutissimo e pastore ardente di zelo. I suoi discepoli dicevano di lui che era  » di fuoco « , e non soltanto per il nome, dato che ignis in latino vuol dire fuoco.
Mentre era Vescovo ad Antiochia, l’Imperatore Traiano dette inizio alla sua persecuzione, che privò la Chiesa degli uomini più in alto nella scala gerarchica e più chiari nella fama e nella santità.
Arrestato e condannato ad bestias, Ignazio fu condotto, in catene, con un lunghissimo e penoso viaggio, da Antiochia a Roma dove si allestivano feste in onore dell’Imperatore vittorioso nella Dacia e i Martiri cristiani dovevano servire da spettacolo, nel circo, sbranati e divorati dalle belve.
Durante il suo viaggio, da Antiochia a Roma, il Vescovo Ignazio scrisse sette lettere, che sono considerate non inferiori a quelle di San Paolo: ardenti di misticismo come quelle sono sfolgoranti di carità. In queste lettere, il Vescovo avviato alla morte raccomandava ai fedeli di fuggire il peccato; di guardarsi dagli errori degli Gnostici; soprattutto di mantenere l’unità della Chiesa.
D’un’altra cosa poi si raccomandava, scrivendo particolarmente ai cristiani di Roma: di non intervenire in suo favore e di non tentare neppure di salvarlo dal martirio.
 » lo guadagnerei un tanto – scriveva – se fossi in faccia alle belve, che mi aspettano. Spero di trovarle ben disposte. Le accarezzerei, anzi, perché mi divorassero d’un tratto, e non facessero come a certuni, che han timore di toccarli: se manifestassero queste intenzioni, io le forzerei « .
E a chi s’illudeva di poterlo liberare, implorava:  » Voi non perdete nulla, ed io perdo Iddio, se riesco a salvarmi. Mai più mi capiterà una simile ventura per riunirmi a Lui. Lasciatemi dunque immolare, ora che l’altare è pronto! Uniti tutti nel coro della carità, cantate: Dio s’è degnato di mandare dall’Oriente in Occidente il Vescovo di Siria! « .
Infine prorompeva in una di quelle immagini che sono rimaste famose nella storia dei Martiri:  » Lasciatemi essere il nutrimento delle belve, dalle quali mi sarà dato di godere Dio. lo sono frumento di Dio. Bisogna che sia macinato dai denti delle belve, affinché sia trovato puro pane di Cristo « .
E, giunto a Roma, nell’anno 107, il Vescovo di Antiochia fu veramente  » macinato  » dalle innocenti belve del Circo, per le quali il Martire trovò espressioni di una insolita tenerezza e poesia:  » Accarezzatele, scriveva infatti, affinché siano la mia tomba e non faccian restare nulla del mio corpo, e i miei funerali non siano a carico di nessuno « .

Fonte: Archivio Parrocchia

Publié dans:Santi |on 17 octobre, 2008 |Pas de commentaires »

di Sandro Magister : L’arte di leggere le Scritture. Una lezione per gli analfabeti d’oggi

dal sito: 

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/208629

L’arte di leggere le Scritture. Una lezione per gli analfabeti d’oggi

È la liturgia che deve tornare a plasmare la lettura e la comprensione della Bibbia. Come nel monachesimo medievale, creatore della moderna civiltà. Timothy Verdon spiega perché, in un sinodo dei vescovi giunto a metà strada

di Sandro Magister

ROMA, 16 ottobre 2008 A quasi metà del suo percorso, il sinodo dei vescovi dedicato a « La parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa » ha chiesto consulto anche alla sociologia.

Il consulto è avvenuto non nell’aula sinodale, ma poco lontano, nella sala stampa della Santa Sede. Lì, martedì 14 ottobre, il professor Luca Diotallevi, dell’Università di Roma Tre, ha presentato i risultati di una grande inchiesta condotta da GFK-Eurisko in dodici paesi del mondo: Stati Uniti, Regno Unito, Olanda, Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia, Russia, Hong Kong, Filippine, Argentina.

Il primo dato è che un’ampia maggioranza delle popolazioni adulte di questi paesi dichiara di aver fatto esperienza di Dio: un Dio che « veglia sulla propria vita e la protegge ».

Inoltre, una maggioranza altrettanto ampia dice di pregare. La credenza in Dio non risulta dunque in regresso. Anzi, in paesi come la Russia e Hong Kong appare in impetuosa ripresa.

A fronte di questa diffusa, persistente domanda di senso religioso, appare invece insufficiente la risposta che le Chiese e le comunità cristiane sanno dare ad essa. Assumendo infatti la Bibbia come misura di questa risposta, l’indagine mostra che sono pochi coloro che ne hanno letto almeno un brano negli ultimi dodici mesi.

Soprattutto in Europa, il contatto che si ha con la Bibbia è quasi soltanto quello che avviene in chiesa, con l’omelia. I soli paesi in cui la Bibbia è letta da un’ampia maggioranza della popolazione sono gli Stati Uniti e le Filippine.

Nonostante sia poco letta e conosciuta, la Bibbia gode comunque di una considerazione molto positiva. In larga maggioranza, gli intervistati giudicano il suo contenuto « reale », « interessante », « vero ». Ma nello stesso tempo « difficile »: il che chiama di nuovo in causa le responsabilità delle Chiese.

In termini sociologici, il professor Diotallevi ha così sintetizzato la lezione ricavata dall’indagine:

« Il livello del consumo di riti religiosi ha enormi margini di crescita, ma l’offerta religiosa è ben lontana dall’aver soddisfatto tutta la potenziale domanda già presente ».

* * *

Naturalmente, dell’analfabetismo biblico contemporaneo si possono dare altre letture, oltre a quella sociologica.

È quanto ha fatto, ad esempio, Timothy Verdon in un magistrale articolo pubblicato su « L’Osservatore Romano » di domenica 12 ottobre.

Verdon è storico dell’arte. Dirige, a Firenze, lufficio diocesano per la catechesi attraverso larte e partecipa al sinodo dei vescovi come esperto. In questo articolo egli spiega in chiave artistica, liturgica, teologica lo smarrimento di senso che le Sacre Scritture hanno patito nelle età moderna e contemporanea.

La ricostruzione che Verdon fa è affascinante. Ma per comprenderla appieno occorre guardare anche al suo sfondo.

Che è la grande lezione letta da Benedetto XVI a Parigi, al Collège des Bernardins, lo scorso 12 settembre:

> « Cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui »

Ecco dunque l’articolo di Verdon su « L’Osservatore Romano » del 12 ottobre 2008:

Alla ricerca del simbolo perduto. L’analfabetismo biblico contemporaneo

di Timothy Verdon

Mentre il sinodo dei vescovi medita la Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, può essere utile riflettere su ciò che si potrebbe chiamare « l’analfabetismo biblico contemporaneo », sulla perdita pressoché totale degli istinti e delle tecniche, cioè, che nei secoli hanno plasmato il modo cristiano di accostarsi alla sacra pagina.

Per rendersi conto della gravità di questa situazione, basta considerare i libri miniati prodotti nei monasteri medievali per l’uso liturgico. Il fruitore moderno che viene a contatto con simili tesori nell’ambito di una mostra o di un testo di storia dell’arte, forse non capisce neanche la distanza che oggi ci separa dal mondo che li ha plasmati: tra la nostra esperienza « libraria » e quella medievale ci sono infatti differenze così basilari che rischiamo di non avvertirle. Nell’era di internet, già il concetto di « libro » comincia a sfuggirci, e alla luce di moderni studi biblici e liturgici l’idea tradizionale di un « libro sacro » similmente ha un peso diverso che in passato. In pratica, oggi è quasi impossibile concepire l’autorità sacrale che un testo biblico o liturgico aveva nel medioevo.

Lo stesso vale per le miniature che adornano il testo. Il nostro tempo, saturo d’immagini brillantemente colorate nelle riviste, sui giornali, in televisione foto istantanee, riprese in diretta, immagini fabbricate dal computer non riesce a cogliere la sorpresa, la deliziosa freschezza di miniature dalle tinte limpide, splendenti d’oro tra fitte colonne di scrittura in un codice. Né abbiamo modo di ripristinare il rapporto intellettuale e affettivo sussistente tra l’immagine fissa e un testo antico, conosciuto, amato, creduto.

Eppure per più di mille anni di storia europea il contesto tipico dei libri era precisamente quello di una fede intensamente vissuta, profondamente meditata, e nutrita da testi così antichi da sembrare « eterni »: testi che collocavano il lettore sul confine tra la propria situazione e realtà universali, il contesto liminale che possiamo definire semplicemente con il termine « preghiera ». I libri liturgici servivano infatti alla preghiera comunitaria, e le Bibbie alla « lectio divina », che a sua volta era nutrita e in qualche modo plasmata dalla liturgia e dalla devozione.

Per liturgia intendiamo qui l’intero complesso di riti ecclesiastici, con al suo centro la liturgia eucaristica o messa. I testi della messa, che variano secondo la festività o periodo dell’anno, effettivamente obbligano a una sorta di « lectio divina » comunitaria, a una duttilità, nell’interpretazione dell’evento o personaggio celebrato, che dobbiamo chiamare contemplativa. Ogni cosa viene continuamente riportata al mistico centro della fede cristiana, il sacrificio di se stesso che Cristo compì morendo in croce, e alla vita nuova della sua risurrezione. Perfino la notte di Natale i testi della messa obbligano a collegare la gioia di una nascita con il fatto drammatico della morte in croce; il corpicciolo nella mangiatoia, il corpo dell’uomo adulto crocifisso, il « Corpus Christi » realmente presente nel pane eucaristico e il « Corpo Mistico » costituito dalla comunità raccolta in preghiera diventano una sola cosa. Ecco perché nell’affresco della basilica di Assisi raffigurante san Francesco che pone il Bambino nella mangiatoia del presepe di Greccio, questa viene collocata sotto una grande croce e accanto all’altare.

Si tratta di un modo di vedere e comprendere i rapporti di causalità tra eventi storici, metastorici e soprannaturali, diverso dal nostro: un modo di vedere e comprendere che influiva sul modo di leggere e quindi anche d’immaginare e di raffigurare i contenuti dei testi.

Prendiamo l’esempio dell’illustrazione riprodotta sopra: una splendida iniziale dipinta nel trecentesco breviario della biblioteca civica Queriniana di Brescia; è il « B » della prima parola del salmo 1 nel latino della Vulgata: « Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum », beato l’uomo che non sta con i peccatori. I padri della Chiesa leggevano questo inizio del salmo in riferimento a Cristo, e così il miniaturista dell’iniziale « B » usa gli spazi aperti nella « B » per evocare l’intera vita di Cristo, con scene dell’annunciazione, della natività, della crocifissione e della sepoltura. Situando le parole « Beatus vir » nell’iniziale e nel bordo sotto queste scene, l’anonimo artista associa la « beatitudine » del rapporto umano con Dio il tema del salmo con Gesù il Cristo.

Lo stile antico di lettura aveva inoltre una dimensione parabolica che, nell’odierna epoca di studi biblici « scientifici », rischiamo di perdere. L’antifona del « Benedictus » per le lodi della solennità dell’Epifania, ad esempio, collega in modo straordinariamente suggestivo i tre eventi biblici che, nella loro sequenza cronologica, insieme costituiscono la prima manifestazione di Cristo al mondo: l’arrivo dei Magi portando doni al neonato Gesù (Matteo 2, 1-12); il battesimo di Gesù trentenne nel fiume Giordano (Matteo 3, 13-17; Marco 1, 9-11; Luca 3, 21-22); e la mutazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (Giovanni 2, 1-12). Ma l’anonimo autore dell’antifona inverte l’ordine cronologico e sovrappone le nozze al battesimo, dicendo: « Oggi lo Sposo celeste si unisce alla sua Chiesa che Cristo lava dal peccato nel Giordano ». Avendo in questo modo evocato il matrimonio di Dio con il suo popolo promesso dai profeti, nonché l’obbligo dello « sposo » di purificare la sua « sposa », lavandola (cfr. Efesini, 5, 25-27), l’autore inserisce poi i Magi, facendoli arrivare con i doni come invitati alla festa nuziale, i cui commensali verranno infine rallegrati dall’acqua mutata in vino del primo miracolo di Cristo, avvenuto a Cana: « Hodie caelesti Sponso juncta est Ecclesia, quoniam in Iordane lavit eius crimina: currunt cum munere Magi ad regales nuptias, et ex acqua facto vino laetantur conviviae, alleluia! ». Che tradotto dice: « Oggi al celeste Sposo s’è congiunta la Chiesa, poiché nel Giordano egli ha lavato i suoi peccati. Accorrono i Magi con doni alle nozze regali e sallietano i convitati dellacqua mutata in vino. Alleluia! ».

Sono la prima parola dell’antifona e l’ultima a spiegare questo stile di lettura: « hodie » e « alleluia! ». Qui i testi neotestamentari sono stati interpretati alla luce della liturgia, e nella liturgia cambia il senso del tempo, così che eventi passati e perfino tra loro sequenziali vengono vissuti in maniera estatica nell’unico « oggi » di Dio, con l’effetto di trasformare impossibili sovrapposizioni storiche in misteri compresenti e interpenetranti. Ogni evento getta luce su ogni altro evento, nell’unico progetto del Padre rivelato dalla vita-morte-risurrezione di Cristo: ecco la « forma mentis » che sottostà a innumerevoli immagini cristiane, dalle catacombe al XXI secolo.

Sia l’iniziale miniata che l’antifona dell’Epifania sono poi frutti dell’immaginazione monastica, e questa origine è di fondamentale importanza. Il monachesimo è in sé un’opera d’arte: rende visibile e tangibile un’intensità particolare della vita cristiana, perché il monaco vuole essere, come Cristo, icona o immagine della bellezza di Dio; e il monastero è quel luogo in cui, con l’aiuto di confratelli che condividono la stessa visone interiore, l’opera può essere tranquillamente perfezionata, in una sorta di laboratorio dell’anima.

La più diffusa formulazione occidentale della vita monastica, la « Regula monachorum » di san Benedetto da Norcia, invoca esplicitamente questa analogia quando paragona il monastero alla bottega di un artigiano, caratterizzando l’intera vita dei monaci come un processo creativo (Regula 4, 75-78). Questa affermazione fa eco poi a una tradizione più antica, che immaginava la vita di ogni credente impreziosita « con l’oro delle buone opere e con i mosaici della fede perseverante ». Ciò che differenzia i monaci dagli altri cristiani, almeno nel pensiero di san Benedetto, è la misura dell’impegno: i monaci investono la totalità delle loro energie umane nel progetto spirituale, avendo per « attrezzi » i precetti morali della vita cristiana, « instrumenta artis spiritalis » (Regula 4, 75).

Anche se il senso di queste frasi è chiaramente metaforico, non stupisce che la metafora si sia trasformata in realtà e che i monasteri siano diventati centri propulsori delle arti, come del resto san Benedetto s’aspettava (cfr. capitolo 57 della regola, su « Gli artigiani nel monastero »). Un clima di creatività in un settore dell’esperienza suscita analoga creatività in altri settori, e inoltre la vita monastica favorisce la produzione dell’arte sacra perché, escludendo distrazioni profane, permette all’artista di immergersi nelle Scritture e nelle azioni sacramentali che danno colore e forma alla sua fede, garantendogli inoltre un « pubblico » devoto e preparato.

Nella storia del cristianesimo, i frutti culturali del monachesimo non sono stati poi limitati ai monaci, dal momento che il silenzio e la vita ritirata dei monasteri, invece di allontanare la massa dei fedeli, l’hanno attirata, e la storia monastica conferma il fascino che i monaci hanno sempre suscitato in larghe fasce della società. Molto prima che Alcuino insegnasse o Anselmo scrivesse, i cittadini di Alessandria d’Egitto si inoltravano nel deserto per ascoltare sant’Antonio abate e i romani portavano i loro figli da san Benedetto. Anche quando l’età dell’oro della cultura monastica incominciò ad attenuarsi, a partire dal XIII-XIV secolo, l’ideale di una solitudine colma di preghiera sarebbe rimasta come paradigma per gli ordini religiosi attivi del tardo medioevo e per i laici a cui essi predicavano.

Non si esagera affermando che le conquiste formali dei monaci la loro arte e architettura, le pratiche liturgiche e devozionali, le strutture organizzative e i metodi educativi, agricoli e mercantili abbiano plasmato la coscienza culturale d’Europa. Più ancora, la vita monastica stessa, considerata come scelta sociale creativa e libera, si è profondamente impressa nell’immaginario dei cristiani, fino al punto che alcune tra le più fondamentali aspirazioni della nostra civiltà sono leggibili solo alla luce della « impresa » monastica.

In tutto questo, è importante cogliere il duplice ruolo dell’immaginazione. Da una parte la vita monastica richiede uno sforzo d’immaginazione in chi l’abbraccia diventando monaco; dall’altra, richiede uno sforzo immaginativo in chi non si fa monaco, nella società cristiana in genere. L’uomo o donna che rinuncia ai beni legittimi della vita, ritirandosi per cercare Dio nel silenzio e nella preghiera, ha bisogno di una notevole capacità di « immaginazione » sociale e morale per perseverare nel credere in « quelle cose che occhio non vide mai, né orecchio udì, ma che Dio ha preparato per coloro che l’amano » (1 Corinzi 2, 9): questo passo è infatti citato nella regola di san Benedetto (4, 77). Soprattutto nel rapporto a volte problematico con i confratelli, oltre alla fede è anche l’immaginazione a permettere al monaco di sentire che « ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me » (Matteo, 25, 40; cfr. Regula 36, 3).

Per un analogo atto d’immaginazione, coloro che non entrano in monastero hanno scelto, attraverso i secoli, di considerare i monaci « sapienti » e « profeti » piuttosto che pericolosi dissidenti al margine alla società. Dalle migliaia di persone che andarono dall’abate Antonio nel deserto egiziaco, chiedendo una sua parola, alle centinaia di migliaia che oggi leggono Thomas Merton o Enzo Bianchi, i cristiani hanno creduto che la solitudine dei monaci non implichi disprezzo per gli altri, e che dal loro silenzio possa scaturire una sapienza al servizio dell’uomo.

Commovente nella sua semplicità, questa fiducia suggerisce la più importante funzione del monachesimo nella vita immaginativa dei cristiani, quella di « simbolo » che investe di santità ciò che gli viene avvicinato. I visitatori a un monastero, come i monaci stessi, hanno l’impressione che, nel raccoglimento contemplativo del chiostro, i luoghi e gli oggetti assumono qualcosa della intenzionalità e dedizione degli abitanti di quei luoghi. Gli oggetti, anche umili, a un tratto vengono percepiti come segni che dischiudono la solidarietà tra l’uomo e il sacro, gradini in una scala che sale dalla terra al cielo. Proprio in questo spirito, san Benedetto dice che perfino gli attrezzi comuni del monastero vanno trattati come se fossero vasi sacri per la liturgia (Regula 31, 10).

Si tratta di un modo di vedere sacramentale, in cui la superficie delle cose si fa trasparente per rivelare una prospettiva infinita, investendo le immagini di efficacia. Una raffigurazione dell’Ultima Cena in un refettorio monastico, come quella di Leonardo da Vinci a Santa Maria delle Grazie, a Milano, non è solo decorazione, ma un oggetto funzionale che comunica e nutre la fede da cui nasce. Le scelte operative nella genesi formale dell’opera, che normalmente rientrano nell’ambito della storia dell’arte, qui s’intrecciano con altre scelte, non estetiche, ma esistenziali.

Publié dans:Sandro Magister |on 17 octobre, 2008 |Pas de commentaires »

Marguerite Marie Alacoque

Marguerite Marie Alacoque dans immagini sacre stemarg

http://dieu-sauve.chez-alice.fr/apparitions/paray/paray.htm

Publié dans:immagini sacre |on 17 octobre, 2008 |Pas de commentaires »

Papa Benedetto XVI : « A voi miei amici dico: Non temete coloro che uccidono il corpo »

dal sito: 

http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=10/17/2008#

Papa Benedetto XVI
Lettera enciclica « Spe Salvi », 27 (© copyright Libreria Editrice Vaticana)

« A voi miei amici dico: Non temete coloro che uccidono il corpo »

Chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Ef 2,12). La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora « sino alla fine », « fino al pieno compimento » (Gv 13,1 e 19, 30).

Chi viene toccato dall’amore comincia a intuire che cosa propriamente sarebbe « vita ». Comincia a intuire che cosa vuole dire la parola di speranza che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: «Dalla fede aspetto la vita eterna » – la vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua pienezza è semplicemente vita. Gesù che di sé ha detto di essere «venuto perché noi abbiamo la vita e l’abbiamo in pienezza, in abbondanza» (Gv 10,10), ci ha anche spiegato che cosa significhi « vita »: « Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo » (Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e neppure solo da sé: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora « viviamo ».

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 17 octobre, 2008 |Pas de commentaires »
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