buona notte

dal sito:
http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=10/02/2008#
San Bernardo (1091-1153), monaco cistercense e dottore della Chiesa
Discorso sul salmo 90, 12
« Ecco io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato » (Es 23,20)
« Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi » (Sal 90,11). Quale rispetto questa parola deve suscitare in te, quale fervore deve fare nascere, quale fiducia deve ispirarti! Il rispetto a motivo della loro presenza, il fervore a motivo della loro benevolenza, la fiducia a motivo della loro vigilanza… Sono dunque lì, accanto a te, non solo con te ma per te. Sono presenti per proteggerti, per soccorrerti. Che cosa renderesti al Signore per quanto ti ha dato? (Sal 115,3). A lui solo dobbiamo rendere gloria e onore per tale soccorso; lui in prima persona ne ha dato loro l’ordine. «Ogni dono perfetto» (Gc 1,17) non può venire che da lui. Ma non possiamo per questo mancare di riconoscenza nei confronti degli angeli, a motivo della grandissima carità con la quale obbediscono e del grandissimo bisogno che abbiamo del loro aiuto.
Siamo dunque pieni di riconoscenza per tale vigilanza da parte loro, amiamoli in cambio e onoriamoli quanto possiamo, quanto dobbiamo… In Dio amiamo i suoi angeli consapevoli che saranno un giorno i nostri coeredi e che fino a quel momento il Padre dispone e ordina che siano per noi delle guide e degli educatori. Infatti «fin d’ora siamo figli di Dio» benché questo non sia stato ancora rivelato (1 Gv 3,2), poiché siamo ancora dei bambini sottomessi a degli intendenti e a degli educatori, e sembriamo per ora non differire in nulla dai servi.
Eppure per quanto piccoli siamo e per quanto lunga e pericolosa sia la strada che resta ancora da percorrere, cosa avremmo da temere sotto una così buona custodia?… Gli angeli sono fedeli, sono saggi, sono potenti; cosa dovremmo temere? Seguiamoli soltanto, attacchiamoci a loro, e rimarremo sotto la protezione del Dio del cielo.
dal sito:
http://www.archaeogate.org/classica/article/935/1/i-colori-dellara-pacis.html
Visualizza le immagini della ricostruzione virtuale da La Repubblica
http://roma.repubblica.it/multimedia/home/3048702I colori dell’Ara Pacis
Redazione Archaeogate, 24-09-2008
I marmi antichi erano colorati. Colori forti, vivi, essenziali. Oggi siamo abituati al bianco perché quei colori sono andati quasi del tutto perduti. Ma è possibile immaginare come fossero ed è possibile ricostruirne l’essenza con la luce.
Una luce che regala un’emozione profonda quando all’Ara Pacis , la parete sud del monumento, la prima che si presenta agli occhi dei visitatori, si anima grazie alla ricostruzione virtuale di quella che era – o si suppone fosse – la colorazione di un tempo. Le luci si abbassano e « I colori di luce », in questo 23 settembre data particolarmente cara all’Ara Pacis in quanto giorno natale di Augusto, ci accompagnano in una sorta di viaggio nella memoria ancestrale.
Negli ultimi anni, l’allestimento del Museo ha riaperto il problema della policromia dell’ara, ipotizzata nel 1938 dall’archeologo Moretti in occasione della ricomposizione della teca costruita sul Lungotevere.
Un gruppo di esperti ha proposto un’ipotesi di colorazione che è stata tradotta in un modello digitale colorato virtualmente, in base a criteri comparativi: esame dei colori superstiti sull’architettura e la scultura della Grecia classica, confronti con la pittura pompeiana di età augustea, valutazione del colore di mosaici tardo antichi che denunciano la conoscenza dell’Ara Pacis. Per colorare le piante e i fiori dei rilievi, è stato utilizzato lo studio delle specie vegetali eseguito dalla Facoltà di Botanica dell’Università degli Studi di Roma Tre. Sono poi state affidate ulteriori indagini sui colori ai Laboratori Scientifici Vaticani, in grado di effettuare analisi con mezzi adeguati alla tecnologia attuale ed è stata sperimentata la possibilità di ricavare delle immagini colorate da proiettare sui rilievi dell’altare.
A conclusione delle ricerche, la Sovraintendenza Comunale presenterà i risultati ottenuti in due diversi momenti: una giornata di studio che si terrà presso la Sala Conferenze dell’Ara Pacis l’11 marzo 2009 e una mostra evento in programma per dicembre 2009 nel corso della quale verrà illuminato l’intero recinto dell’Ara Pacis.
Questi « attimi di luce », sono dunque il primo passo di un cammino di studio che potrebbe restituirci l’immagine di un passato, lontano, ma non perduto.
Ufficio Stampa Zètema Progetto Cultura
dal sito:
http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20000915_teresa_it.html
Viver d’Amore!…
« La sera dell’amore, senza parabole Gesù diceva: « Se uno vuole amarmi, la mia Parola nella sua vita accolga. Io e il Padre verremo a visitarlo e, dimora prendendo nel suo cuore, lo ameremo per sempre, da lui stando. Vogliamo che, colmo di pace, resti nel nostro Amore! ».
Viver d’Amore è custodire Te, Verbo Increato, Parola del mio Dio! Ah, tu sai che t’amo, Gesù divino! Lo Spirito d’Amor tutta m’infiamma. È amando Te che io attiro il Padre: il debole mio cuore lo trattiene. O Trinità, tu ormai sei prigioniera del mio Amore!
Viver d’Amore è di tua vita vivere, Re glorioso, delizia degli eletti. Tu nascosto nell’ostia per me vivi: e io voglio per te, Gesù, nascondermi! Pur occorre agli amanti solitudine, un cuore a cuore che duri notte e giorno Il tuo sguardo è per me beatitudine: vivo d’Amore!…
Viver d’Amore non è mai qui in terra un piantare la tenda in vetta al Tabor: è salire invece con Gesù il Calvario, è nella Croce scorgere un tesoro! A me gioire sarà dato in Cielo, ove per sempre esclusa è la prova; ma nell’esilio voglio col soffrire viver d’Amore.
Viver d’Amore è dare senza tregua, senza pretesa di compensi umani. Ah, senza misura io do, ben certa che non si calcola quando pur si ama! Al Cuor Divino, colmo di dolcezza, ho dato tutto ed or leggera corro ed io altro non ho che la mia ricchezza: viver d’Amore.
Viver d’Amore è delle antiche colpe bandire ogni timore, ogni ricordo. Dei miei peccati nessun segno vedo: in un lampo l’amor tutto ha bruciato! Fiamma Divina, Fornace dolcissima, nel tuo braciere io dimora prendo! Nelle tue fiamme libera io canto: « Vivo d’Amore ».
Viver d’Amore è navigare sempre, gioia e pace nei cuori seminando. Mossa da Carità, Pilota caro, ti vedo nell’anime mie sorelle.
La Carità è la mia sola stella: su giusta rotta vogo alla sua luce. Io sulla vela il mio motto ho scritto: « Viver d’Amore ».
Viver d’Amore è, mentre Gesù dorme, trovar riposo sui tempestosi flutti. Non temere, Signor, che io ti svegli! In pace attendo il celeste approdo. Presto la Fede squarcerà il suo velo; la Speranza per me è vederti un giorno: Carità è una vela gonfia che mi spinge: Vivo d’Amore!
Viver d’Amore, mio Divin Maestro, è supplicarti che il tuo fuoco invada del tuo Sacerdote l’anima sacra: più puro sia dei Serafini in Cielo! Glorifica la Chiesa tua immortale; non esser sordo, Gesù, ai sospiri miei; per lei io, Figlia sua, qui mi immolo: Vivo d’Amore!
Viver d’Amore è asciugarti il Volto e ottener perdono ai peccatori: la tua grazia li accolga, o Dio d’Amore; e il tuo Nome in eterno benedicano!
Mi rintrona nel cuore la bestemmia: per cancellarla voglio ricantare: « ll tuo Santo Nome io adoro e amo ». Vivo d’Amore!
Viver d’Amore è imitar Maria che di pianto e preziosi aromi bagna i tuoi piedi divini e, rapita, coi lunghi suoi capelli li rasciuga; poi ella, rotto il vaso, si rialza per profumare il tuo dolce Volto. Anch’io il tuo Volto posso profumare col mio Amore!
« Viver d’Amore, oh, che follia strana! », mi dice il mondo: « Cessate il vostro canto, e vita e profumi non sprecate più! Sappiate farne un uso intelligente! ».
Amarti, Gesù, che perdita feconda! Tutti i miei profumi son per te solo; senza rimpianti lascio il mondo e canto: « Muoio d’Amore! »
Morir d’Amore è assai dolce martirio, che vorrei appunto per te patire! Cherubini, accordatevi la lira: del mio esilio io sento già la fine. Fiamma d’Amor, continua a consumarmi! Vita fugace, pesa il tuo fardello! Gesù Divino, il mio sogno adempi: morir d’Amore.
Morir d’Amore, ecco la mia Speranza! Quando spezzate vedrò le mie catene, sarà Dio la mia grande Ricompensa: altri beni io non voglio possedere. Del suo Amore voglio infiammarmi tutta, voglio vederlo, a Lui per sempre unirmi. Ecco il mio Cielo, ecco il mio destino: viver d’Amore!!!…« Santa Teresa del Bambin Gesù, Dottore della Chiesa: Opere (Febbraio 1897)Preghiera:
O Dio, il Tuo Santo Spirito infiammò il cuore di Santa Teresa di un amore senza frontiere al Tuo Divino Figlio e la illuminò per comprendere e praticare la Legge Suprema dell’Amore. Supplichiamo umilmente a Te di concederci per sua intercessione, trovare Te in tutte le cose, avvenimenti e persone. Te lo chiediamo per mezzo di Gesù Cristo, Nostro Signore, amen.
A cura dell’Ateneo Pontificio « Regina Apostolorum »
dal sito:
http://www.zenit.org/article-15597?l=italian
Benedetto XVI sul « Concilio » di Gerusalemme e l’incidente di Antiochia
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 1 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della catechesi tenuta da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale del mercoledì svoltasi in piazza San Pietro, dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. Nel discorso in lingua italiana, riprendendo il ciclo di catechesi sulla figura di San Paolo, il Papa si è soffermato in particolare su il « Concilio » di Gerusalemme e l’incidente di Antiochia.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
il rispetto e la venerazione che Paolo ha sempre coltivato nei confronti dei Dodici non vengono meno quando egli con franchezza difende la verità del Vangelo, che non è altro se non Gesù Cristo, il Signore. Vogliamo oggi soffermarci su due episodi che dimostrano la venerazione e, nello stesso tempo, la libertà con cui l’Apostolo si rivolge a Cefa e agli altri Apostoli: il cosiddetto « Concilio » di Gerusalemme e l’incidente di Antiochia di Siria, riportati nella Lettera ai Galati (cfr 2,1-10; 2,11-14).
Ogni Concilio e Sinodo della Chiesa è « evento dello Spirito » e reca nel suo compiersi le istanze di tutto il popolo di Dio: lo hanno sperimentato in prima persona quanti hanno avuto il dono di partecipare al Concilio Vaticano II. Per questo san Luca, informandoci sul primo Concilio della Chiesa, svoltosi a Gerusalemme, così introduce la lettera che gli Apostoli inviarono in quella circostanza alle comunità cristiane della diaspora: « Abbiamo deciso lo Spirito Santo e noi… » (At 15,28). Lo Spirito, che opera in tutta la Chiesa, conduce per mano gli Apostoli nell’intraprendere strade nuove per realizzare i suoi progetti: è Lui l’artefice principale dell’edificazione della Chiesa. Eppure l’assemblea di Gerusalemme si svolse in un momento di non piccola tensione all’interno della Comunità delle origini. Si trattava di rispondere al quesito se occorresse richiedere ai pagani che stavano aderendo a Gesù Cristo, il Signore, la circoncisione o se fosse lecito lasciarli liberi dalla Legge mosaica, cioè dall’osservanza delle norme necessarie per essere uomini giusti, ottemperanti alla Legge, e soprattutto liberi dalle norme riguardanti le purificazioni cultuali, i cibi puri e impuri e il sabato. Dell’assemblea di Gerusalemme riferisce anche san Paolo in Gal 2,1-10: dopo quattordici anni dall’incontro con il Risorto a Damasco – siamo nella seconda metà degli anni 40 d.C. – Paolo parte con Barnaba da Antiochia di Siria e si fa accompagnare da Tito, il suo fedele collaboratore che, pur essendo di origine greca, non era stato costretto a farsi circoncidere per entrare nella Chiesa. In questa occasione Paolo espone ai Dodici, definiti come le persone più ragguardevoli, il suo vangelo della libertà dalla Legge (cfr Gal 2,6). Alla luce dell’incontro con Cristo risorto, egli aveva capito che nel momento del passaggio al Vangelo di Gesù Cristo, ai pagani non erano più necessarie la circoncisione, le regole sul cibo, sul sabato come contrassegni della giustizia: Cristo è la nostra giustizia e « giusto » è tutto ciò che è a Lui conforme. Non sono necessari altri contrassegni per essere giusti. Nella Lettera ai Galati riferisce, con poche battute, lo svolgimento dell’assemblea: con entusiasmo ricorda che il vangelo della libertà dalla Legge fu approvato da Giacomo, Cefa e Giovanni, « le colonne », che offrirono a lui e a Barnaba la destra della comunione eccelesiale in Cristo (cfr Gal 2,9). Se, come abbiamo notato, per Luca il Concilio di Gerusalemme esprime l’azione dello Spirito Santo, per Paolo rappresenta il decisivo riconoscimento della libertà condivisa fra tutti coloro che vi parteciparono: una libertà dalle obbligazioni provenienti dalla circoncisione e dalla Legge; quella libertà per la quale « Cristo ci ha liberati, perché restassimo liberi » e non ci lasciassimo più imporre il giogo della schiavitù (cfr Gal 5,1). Le due modalità con cui Paolo e Luca descrivono l’assemblea di Gerusalemme sono accomunate dall’azione liberante dello Spirito, poiché « dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà« , dirà nella seconda Lettera ai Corinzi (cfr 3,17).
Tuttavia, come appare con grande chiarezza nelle Lettere di san Paolo, la libertà cristiana non s’identifica mai con il libertinaggio o con l’arbitrio di fare ciò che si vuole; essa si attua nella conformità a Cristo e perciò nell’autentico servizio per i fratelli, soprattutto, per i più bisognosi. Per questo, il resoconto di Paolo sull’assemblea si chiude con il ricordo della raccomandazione che gli rivolsero gli Apostoli: « Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare » (Gal 2,10). Ogni Concilio nasce dalla Chiesa e alla Chiesa torna: in quell’occasione vi ritorna con l’attenzione per i poveri che, dalle diverse annotazioni di Paolo nelle sue Lettere, sono anzitutto quelli della Chiesa di Gerusalemme. Nella preoccupazione per i poveri, attestata, in particolare, nella seconda Lettera ai Corinzi (cfr 8-9) e nella parte conclusiva della Lettera ai Romani (cfr Rm 15), Paolo dimostra la sua fedeltà alle decisioni maturate durante l’assemblea.Forse non siamo più in grado di comprendere appieno il significato che Paolo e le sue comunità attribuirono alla colletta per i poveri di Gerusalemme. Si trattò di un’iniziativa del tutto nuova nel panorama delle attività religiose: non fu obbligatoria, ma libera e spontanea; vi presero parte tutte le Chiese fondate da Paolo verso l’Occidente. La colletta esprimeva il debito delle sue comunità per la Chiesa madre della Palestina, da cui avevano ricevuto il dono inenarrabile del Vangelo. Tanto grande è il valore che Paolo attribuisce a questo gesto di condivisione che raramente egli la chiama semplicemente « colletta »: per lui essa è piuttosto « servizio », « benedizione », « amore », « grazia », anzi « liturgia » (2 Cor 9). Sorprende, in modo particolare, quest’ultimo termine, che conferisce alla raccolta in denaro un valore anche cultuale: da una parte essa è gesto liturgico o « servizio », offerto da ogni comunità a Dio, dall’altra è azione di amore compiuta a favore del popolo. Amore per i poveri e liturgia divina vanno insieme, l’amore per i poveri è liturgia. I due orizzonti sono presenti in ogni liturgia celebrata e vissuta nella Chiesa, che per sua natura si oppone alla separazione tra il culto e la vita, tra la fede e le opere, tra la preghiera e la carità per i fratelli. Così il Concilio di Gerusalemme nasce per dirimere la questione sul come comportarsi con i pagani che giungevano alla fede, scegliendo per la libertà dalla circoncisione e dalle osservanze imposte dalla Legge, e si risolve nell’istanza ecclesiale e pastorale che pone al centro la fede in Cristo Gesù e l’amore per i poveri di Gerusalemme e di tutta la Chiesa.
Il secondo episodio è il noto incidente di Antiochia, in Siria, che attesta la libertà interiore di cui Paolo godeva: come comportarsi in occasione della comunione di mensa tra credenti di origine giudaica e quelli di matrice gentile? Emerge qui l’altro epicentro dell’osservanza mosaica: la distinzione tra cibi puri e impuri, che divideva profondamente gli ebrei osservanti dai pagani. Inizialmente Cefa, Pietro condivideva la mensa con gli uni e con gli altri; ma con l’arrivo di alcuni cristiani legati a Giacomo, « il fratello del Signore » (Gal 1,19), Pietro aveva cominciato a evitare i contatti a tavola con i pagani, per non scandalizzare coloro che continuavano ad osservare le leggi di purità alimentare; e la scelta era stata condivisa da Barnaba. Tale scelta divideva profondamente i cristiani venuti dalla circoncisione e i cristiani venuti dal paganesimo. Questo comportamento, che minacciava realmente l’unità e la libertà della Chiesa, suscitò le accese reazioni di Paolo, che giunse ad accusare Pietro e gli altri d’ipocrisia: « Se tu che sei giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei giudei? » (Gal 2,14). In realtà, erano diverse le preoccupazioni di Paolo, da una parte, e di Pietro e Barnaba, dall’altra: per questi ultimi la separazione dai pagani rappresentava una modalità per tutelare e per non scandalizzare i credenti provenienti dal giudaismo; per Paolo costituiva, invece, un pericolo di fraintendimento dell’universale salvezza in Cristo offerta sia ai pagani che ai giudei. Se la giustificazione si realizza soltanto in virtù della fede in Cristo, della conformità con Lui, senza alcuna opera della Legge, che senso ha osservare ancora le purità alimentari in occasione della condivisione della mensa? Molto probabilmente erano diverse le prospettive di Pietro e di Paolo: per il primo non perdere i giudei che avevano aderito al Vangelo, per il secondo non sminuire il valore salvifico della morte di Cristo per tutti i credenti.Strano a dirsi, ma scrivendo ai cristiani di Roma, alcuni anni dopo (intorno alla metà degli anni 50 d.C.), Paolo stesso si troverà di fronte ad una situazione analoga e chiederà ai forti di non mangiare cibo impuro per non perdere o per non scandalizzare i deboli: « Perciò è bene non mangiare carne, né bere vino, né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi » (Rm 14,21). L’incidente di Antiochia si rivelò così una lezione tanto per Pietro quanto per Paolo. Solo il dialogo sincero, aperto alla verità del Vangelo, poté orientare il cammino della Chiesa: « Il regno di Dio, infatti, non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo » (Rm 14,17). E’ una lezione che dobbiamo imparare anche noi: con i carismi diversi affidati a Pietro e a Paolo, lasciamoci tutti guidare dallo Spirito, cercando di vivere nella libertà che trova il suo orientamento nella fede in Cristo e si concretizza nel servizio ai fratelli. Essenziale è essere sempre più conformi a Cristo. E’ così che si diventa realmente liberi, così si esprime in noi il nucleo più profondo della Legge: l’amore per Dio e per il prossimo. Preghiamo il Signore che ci insegni a condividere i suoi sentimenti, per imparare da Lui la vera libertà e l’amore evangelico che abbraccia ogni essere umano.
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http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=10/01/2008#
San Leone Magno ( ?-circa 461), papa e dottore della Chiesa
Discorso 71, sulla risurrezione del Signore ; PL 54, 388
« Nessuno che si volge indietro è adatto per il regno di Dio »
Carissimi, Paolo, l’apostolo delle genti, non contraddice la nostra fede quando dice : « Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne ora non lo conosciamo più così » (2Cor 5,16). La risurrezione del Signore non ha messo fine alla sua carne, l’ha trasformata. La sovrabbondanza della sua potenza non ha distrutto la sua sostanza; la qualità è cambiata, la natura non è stata annientata. Avevano inchiodato il suo corpo sulla croce; è divenuto inaccessibile alla sofferenza. Lo avevano messo a morte: è divenuto eterno. Lo avevano deturpato: è divenuto incorruttibile. E si può proprio dire infatti che la carne di Cristo non è più quella carne che avevamo conosciuta, perché non c’è più in essa traccia di sofferenza o di debolezza. Rimane la stessa nella sua essenza, ma non è più la stessa riguardo alla gloria. Perché stupirsi d’altronde che San Paolo si esprima così a proposito del corpo di Gesù Cristo quando, parlando di tutti i cristiani che vivono secondo lo Spirito, egli dice: « Ormai non conosciamo più nessuno secondo la carne ».
In questo, vuole dire che la nostra risurrezione é cominciata in Gesù Cristo. Il lui, che è morto per tutti, tutta la nostra speranza ha preso corpo. Non c’è dubbio in noi, né reticenza, né attesa delusa: le promesse hanno cominciato a compiersi e vediamo già, con gli occhi della fede, le grazie di cui esse ci colmeranno domani. La nostra natura è stata elevata; allora, nella gioia, possediamo già l’oggetto della nostra fede…
Il popolo cristiano prenda coscienza dunque di essere « una creatura nuova in Cristo » (2 Cor 5,17). Capisca bene chi ha scelto e da chi è stato scelto. L’essere nuovo non torni nell’instabilità del suo stato di prima. Nessuno « che ha messo mano all’aratro » cessi di lavorare, ma vegli sul seme che ha seminato, e non si volga verso ciò che ha lasciato… Tale è la via della salvezza; tale è il modo di imitare la risurrezione cominciata in Cristo.